John le Carré – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Fri, 09 May 2025 22:01:03 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il nuovo disordine mondiale/ 26 – La guerra post-umana https://www.carmillaonline.com/2024/09/22/il-nuovo-disordine-mondiale-26-la-guerra-post-umana/ Sun, 22 Sep 2024 20:00:05 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84603 di Sandro Moiso

Tra pace e guerra non esiste un sottile confine, ma una vasta zona grigia, dove gli stati danno vita a quella che viene definita competizione strategica, utilizzando in diverse combinazioni i quattro elementi che formano il potere di uno stato: diplomatico, militare, economico e informativo. Proprio quest’ultimo fattore, complice la pervasività delle tecnologie digitali, ha assunto una rilevanza senza precedenti. (Alessandro Curioni – Intelligenza artificiale, etica e conflitti, 21 settembre 2024 «il Sole 24 ore»)

Quando esploderà il mio cellulare? Molti di noi hanno cominciato a chiederselo perché in fondo quello che Israele, il Mossad, i [...]]]> di Sandro Moiso

Tra pace e guerra non esiste un sottile confine, ma una vasta zona grigia, dove gli stati danno vita a quella che viene definita competizione strategica, utilizzando in diverse combinazioni i quattro elementi che formano il potere di uno stato: diplomatico, militare, economico e informativo. Proprio quest’ultimo fattore, complice la pervasività delle tecnologie digitali, ha assunto una rilevanza senza precedenti. (Alessandro Curioni – Intelligenza artificiale, etica e conflitti, 21 settembre 2024 «il Sole 24 ore»)

Quando esploderà il mio cellulare? Molti di noi hanno cominciato a chiederselo perché in fondo quello che Israele, il Mossad, i suoi servizi segreti hanno fatto nei confronti di militanti di Hezbollah potrebbe essere usato contro di noi in una futura guerra. Altri nemici e altre potenze ostili potrebbero ripetere quel tipo di attacco attraverso gadget tecnologici disseminati nella nostra vita quotidiana e quindi: quando esploderà il mio cellulare? (Federico Rampini – Quando esploderà il mio cellulare?, Corriere TV 23 settembre 2024)

Valutare le cause, le conseguenze e il risultato ultimo dei recenti attacchi israeliani di carattere digitale ai militanti e ai capi di Hezbollah, è qualcosa che si potrà fare soltanto più avanti nel tempo. Anche se, a giudizio di molti esperti, al momento attuale gli assassinii mirati e il terrorismo impiegati dall’IDF e dai suoi ipocriti alleati americani non sembra essere in grado di piegare la resistenza e l’azione militare anti-sionista sia a Gaza che in Libano. Resta ancora aperta, poi, la possibile azione militare contro l’Iran che però, così come del resto in Libano una volta messi gli stivali per terra, richiederebbe il pieno e dichiarato appoggio militare statunitense ad una guerra sul fronte mediorientale.

Un’azione militare totale che, nella migliore tradizione statunitense e occidentale, ha però bisogno di una “giusta causa” ovvero di un attacco via terra e via aria diretto da parte del fronte sciita sul territorio israeliano. Cosa che al momento attuale gli interessati evitano per non cadere nella trappola organizzata da Washington e Tel Aviv e non soltanto perché indeboliti dai ripetuti attacchi mirati contro comandanti e membri delle loro forze armate. Che, comunque, nel 2006, nonostante le distruzioni portate in Libano dai bombardamenti dell’aviazione dello Stato ebraico, bloccarono e di fatto sconfissero le truppe israeliane costringendole al ritiro dopo un’avanzata di pochi chilometri sul suolo della terra dei cedri.

I guerrafondai, quelli che vogliono prendere il mondo a manate si dichiarano sempre innocenti. I disordini non li hanno inventati loro, diamine… Agiscono, reagiscono, si difendono. Non cominciano nulla, semmai sono gli altri…[…] Prendete Beniamino Netanyahu. Sguazza dasempre nella confusione.[…] La vendetta a Gaza è un rompicapo militare che, dopo un anno, appare senza uscita […] Allora che fare? Cambiare scenario, diversioni, nuovi campi di battaglia più arabili, un cocktail sciagurato a cui tutti coloro che sono a corto di idee purtroppo restano affezionati. Il turbolento fronte Nord è lì per questo. Netanyahu dunque ha bisogno che Hezbollah lo attacchi, i missili che cascano qua e là non bastano, sono ordinaria amministrazione. Non bastano a giustificare una rappresaglia colossale, una Gaza bis su cui si possa infierire in permanenza. […] Bene! Ma se gli sciiti della Bekaa non collaborano, non «scavalcano» la linea rossa? La necessità della vittoria stimola il desiderio e la capacità di darle una mano1.

Alle osservazioni del giornalista torinese occorre aggiungere soltanto che il tutto ha però bisogno anche di un peloso aiuto americano che, pur fingendo di cercare una soluzione altra al conflitto regionale, lo inciti all’azione. Magari per eliminare vecchi nemici come quell’ Aqil, responsabile di aver organizzato l’attentato contro la caserma dei marines a Beirut nel 1983. Come ha affermato il consigliere per la Sicurezza nazionale della Casa Bianca, Jake Sullivan: «E’ qualcuno che gli Stati Uniti avevano promesso di portare davanti alla giustizia molto tempo fa. Tante famiglie vivono ancora nel dolore provocato dalle sue azioni. E ogni volta che un terrorista che ha ucciso degli americani viene consegnato alla giustizia è un risultato positivo»2.

Inutile sottolineare come per il portavoce della Sicurezza nazionale “assicurare alla giustizia” e “assassinio mirato” siano di fatto sinonimi, atti soltanto a mascherare le azioni terroristiche portate avanti in tutto il mondo ormai da anni dalle forze armate statunitensi e israeliane, là dove occorre, per interposta persona. Ma queste riflessioni sulle motivazioni degli attentati in Libano e a Beirut, così come quelle sui maneggi delle borghesie arabe per liberarsi dell'”asse della resistenza” e indebolire l’Iran3, fanno ormai parte di una storia passata. La Storia di una terza (o quarta?) guerra mondiale già in atto e che soltanto il pieno dispiegarsi dello scontro tra Stati Uniti e Cina porterà al suo pieno compimento, anche per quanto riguarda il fronte ucraino.

Quello su cui occorre invece riflettere sono invece le nuove modalità di guerra imposte dall’evolversi dell’IA e del cosiddetto IoT (Internet of Things), Internet delle cose, alla guerra in atto. Guerra che se già ha prodotto l’uso su larga scala dei droni pilotati da remoto come micidiali strumenti di distruzione adottati su tutti i fronti delle guerre in corso e l’uso di missili di ogni tipo, genere ed età (dai razzi Katjuša di fabbricazione russa, risalenti ancora alla seconda guerra mondiale a quelli più recenti e ipersonici oppure alle cosiddette “bombe plananti” dotate di una certa intelligenza operativa nella scelta degli obiettivi da colpire una volta lanciate dai bombardieri), nel corso degli ultimi giorni ha visto un ulteriore salto di qualità, con l’uso di strumenti quali cercapersone, smartphone, computer o, come è stato segnalato ma senza certificazione ufficiale, pannelli solari, come armi.

Già da tempo si sapeva della possibilità di individuare soggetti e bersagli attraverso l’uso sprovveduto dei telefonini e degli smartphone, cosa per cui recentemente il leader di Hezbollah aveva consigliato ai militanti e responsabili operativi di utilizzare i cerca persone per tenersi in contatto, mentre Osama Bin Laden, Messina Denaro e Yahya Sinwar hanno sempre preferito comunicare per mezzo di “pizzini” consegnati a mano. Ma i recenti attacchi terroristici israeliani nei confronti di militanti, ma anche civili, libanesi hanno aperto una finestra sul possibile uso e le finalità intrinseche racchiuse nell’intelligenza digitale degli oggetti di uso quotidiano.

Certo, è possibile che l’operazione del Mossad e del gruppo 8200, l’Unità di guerra cibernetica capace d’intercettare tutto quanto viene detto o scritto sui canali di comunicazione nemici e alleati, attraverso cui è stato possibile colpire i vertici di militari di Hezbollah sia con i cercapersone che con i missili sganciati da due F 35 israeliani sul quartiere di Dahiya, alla periferia meridionale di Beirut, sia stata preparata con cura certosina nel corso di anni. Basterebbe infatti leggere un romanzo come La Tamburina di John Le Carré che, pur risalente agli anni Ottanta, è ancora estremamente utile per spiegare le sottigliezze, gli accorgimenti, la pazienza e le astuzie con cui i servizi israeliani operano in ogni angolo del mondo.

Ma tutto ciò non basta ancora: reti operative spionistiche e di intelligence e ditte fasulle prestanome costituiscono soltanto uno degli aspetti della questione. L’altro è costituito dalla diffusione delle tecnologie digitali che da strumento di possibile controllo si sono trasformate anche in strumenti da usare direttamente nel corso delle guerre. Sia tra gli Stati che civili, non solo più come indicatori della posizione di chi li usa, ma come autentiche armi.

D’altra parte, da tempo, si discute della sicurezza delle rete e degli oggetti ad essa collegati oppure della possibilità di incendio ed esplosione delle batterie al litio, sia che si tratti di smartphone oppure di auto elettriche.
La batteria dei cercapersone esplosi infatti dovrebbe essere una batteria al litio, esattamente come quella dei nostri smartphone. Per rispondere a questa domanda bisogna guardare a qualche caso di cronaca del passato Nel 2016 Samsung ha presentato il Galaxy Note 7, uno smartphone tra i più potenti usciti in quell’anno. Questo dispositivo è diventato noto alle cronache proprio per le esplosioni. Un difetto di fabbrica, presente soprattutto nei primi modelli commercializzati, provocava un surriscaldamento delle batterie. Da qui partiva un effetto a catena che portava prima le batteria a gonfiarsi e poi a prendere fuoco. Il problema era così evidente che alcune compagnie aeree hanno vietato ai passeggeri di portare il dispositivo sul mercato. Samsung alla fine ha ritirato il modello. Le batterie al litio che abbiamo nei nostri dispositivi elettronici non sono tutte uguali. In base alla tecnologia con cui sono costruite hanno reazioni diverse alle sollecitazioni esterne. […] Negli ultimi anni sono emersi diversi casi di incidenti che hanno coinvolto le Tesla. Parliamo di batterie diverse, sia per le dimensioni che per le composizione. Anche in questo caso però vediamo delle caratteristiche simili. In caso di incidente le batterie non sono direttamente esplose ma hanno preso fuoco4.

Tralasciando, però, i problemi collegabili all’uso delle batterie al litio, diventa necessario addentrarsi invece nel labirinto delle differenti applicazioni e intelligenze digitali usate quasi quotidianamente da tutti.

Mentre ci si interroga su quale sia il peso della guerra cyber nel conflitto tra Russia e Ucraina, basterebbe fare un piccolo sforzo di astrazione e proiettare in un futuro non molto lontano quello che vediamo a trarne una debita conclusione. Facciamo un passo alla volta e diamo uno sguardo a quale sarà il nostro radioso futuro grazie alle tecnologie dell’informazione. Con diverse velocità, tutti i Paesi del mondo sono proiettati verso la digital transformation, termine vago e utilizzato in maniera ondivaga. Forse sarebbe più comprensibile se si parlasse di grande convergenza, ovvero quel processo che progressivamente interconnetterà tutte le tecnologie digitali. In effetti esse sono più numerose di quanto si possa pensare e per anni sono state separate, alcune completamente altre meno. L’esempio più evidente riguarda il mondo IT, a cui appartengono software e hardware che la stragrande maggioranza delle persone utilizza per lavorare, e quello OT (Operational Technology), che comprende i sistemi industriali destinati a gestire milioni di macchinari e strutture compresi acquedotti, reti elettriche, impianti ferroviari. Un terzo ambito è l’Internet delle Cose, diciamo quelle più piccole: dalle prese elettriche ai termostati di casa per arrivare fino ai dispositivi di quella che si chiama telemedicina. Si tratta di una quantità enorme di oggetti (in Italia sono circa 95 milioni) accomunati tutti dall’aggettivo “smart”. L’obiettivo è l’integrazione di tutte queste tecnologie per raggiungere livelli di servizio e di efficienza impensabili. […] Ecco, alla fine, che giunge l’ultima e forse più potente delle tecnologie: l’intelligenza artificiale, sistemi specializzati e addestrati a gestire enormi basi dati per estrarre conoscenza e quindi suggerire la giusta decisione. Ecco la grande convergenza, e la sua apoteosi sarà rappresentata dalla Smart City5.

Che questi sistemi siano stati e siano tutt’ora facilmente attaccabili è cosa risaputa, anche se spesso il maggiore allarme proviene dai rischi connessi all’uso di dati personali e bancari oppure al sabotaggio hacker di reti di servizio. Pericoli segnalati con dovizia di particolare in riviste e articoli specializzati.

Ogni singolo sistema tecnologico che ho citato presenta dei punti deboli. I sistemi OT hanno cicli di vita molto lunghi, spesso pluridecennali: questo significa che i software che li supportano sono obsoleti e presentano delle vulnerabilità note che non saranno mai corrette. Una volta connessi a Internet saranno raggiungibili attraverso i sistemi IT, esponendo le loro debolezze potenzialmente a chiunque. Il mondo dell’Internet delle Cose è già popolato da svariati miliardi di oggetti, il più delle volte connessi in rete senza alcun tipo di autenticazione. Allo stato attuale la gestione dei dispositivi domestici è affidata nella maggior parte dei casi ai singoli cittadini che dovranno occuparsi anche degli aspetti di sicurezza. A tutto questo aggiungiamo l’intelligenza artificiale la cui fragilità è pari alla sua potenza. È stato dimostrato che modifiche nelle basi dati con cui vengono addestrate oppure nei dati di input le inducono a commettere errori molto grandi. […] L’accessibilità dei sistemi, la complessità gestita da molteplici intelligenze artificiali specializzate che dialogheranno tra loro e l’insieme delle diverse debolezze di ognuna delle tecnologie produrranno una moltiplicazione e dilatazione dei rischi proporzionale alle opportunità. Se c’è del vero nell’affermazione che le auto a guida autonoma potrebbero quasi azzerare gli incidenti stradali, altrettanta verità vi è nella considerazione per cui un malware inserito nei sistemi di aggiornamento delle autovetture smart potrebbe causarne in dieci secondi centinaia di migliaia. Ora possiamo trarre almeno quella conclusione di cui scrivevamo al principio ponendoci una domanda: per colpire una smart city saranno più efficaci ed efficienti i missili o i virus informatici6?

Secondo Federico Rampini, il presidente degli Stati Uniti Joe Biden avrebbe messo al bando il software cinese installato sulle automobili, decisione che oltre a confermare l’escalation del protezionismo, è anche figlia dell’ultimo exploit del Mossad, poiché col passare dei giorni lo «sterminio dei nemici attraverso gadget tecnologici» ha suscitato altre analisi, ivi compreso nella comunità della difesa Usa.

Dal punto di vista strettamente tecnologico, infiltrare e manipolare a distanza degli apparecchi di uso quotidiano, non è una novità. Gli esperti hanno riesumato dagli archivi molti precedenti, israeliani e non. Gli stessi americani avevano fatto qualcosa di simile, che il mondo intero scoprì all’epoca delle rivelazioni di Edward Snowden: l’intelligence Usa aveva manomesso i cellulari di leader amici, tra cui l’allora cancelliera Angela Merkel, per intercettarne le comunicazioni. Un altro precedente celebre fu l’operazione israelo-americana che entrò nei comandi informatici di una centrale nucleare iraniana guastandola. E tuttavia quelli furono casi di uso «passivo» dei gadget, per fare spionaggio o sabotaggio, non per ucciderne gli utenti. L’exploit libanese (non rivendicato) del Mossad, pur non essendo veramente nuovo, ha oltrepassato numerose linee rosse: in termini di spettacolarità, e per il bilancio di vittime. Perciò ci si chiede se non abbia legittimato una nuova forma di guerra. La cyber-guerra del futuro, quella in cui ogni confine tra militari e civili sarà cancellato, le convenzioni internazionali diventeranno sempre più irrilevanti (non che siano mai state molto rispettate). La banalità degli oggetti in questione — i cerca-persone pre-smartphone — diventa un’aggravante. Perché non immaginare che qualcuno stia studiando di utilizzare a fini bellici i semiconduttori che fanno funzionare i nostri computer e cellulari così come i nostri elettrodomestici, praticamente ogni oggetto animato da memorie e circuiti elettronici? E le nostre automobili, per l’appunto, che ormai sono delle centraline digitali7.

Glenn Gerstell, per anni consigliere generale della National Security Agency, ha recentemente osservato sul «New York Times», a seguito degli attacchi israeliani, che le esplosioni sincronizzate di dispositivi wireless attivate dall’intelligence israeliana contro le milizie islamiche libanesi, rappresenta una impressionante anticipazione dell’accelerazione digitale della guerra. “Questo potrebbe essere il primo e spaventoso scorcio di un mondo in cui, in definitiva, nessun dispositivo elettronico, dai nostri cellulari ai termostati, potrà mai essere considerato completamente affidabile”.

Mentre Alessandro Curioni, esperto in sicurezza informatica ed ex- direttore del Centro di Ricerca IBM di Rüschlikon, si è spinto più in là nella riflessione immaginando come in un conflitto caratterizzato da una cyber war come quello in corso su più fronti anche le caldaie controllate da remoto potrebbero trasformarsi in micidiali strumenti di distruzione di interi stabili oppure di singoli appartamenti8, così come avvenne già durante il bombardamento di Dresda nel 1945 quando migliaia di persone morirono letteralmente bollite vive nelle cantine usate come rifugi antiaerei in cui avevano trovato riparo a causa del surriscaldamento e successiva esplosione delle caldaie a causa dell’innalzarsi della temperatura esterna dovuta all’uso di bombe incendiarie al fosforo da parte dell’aviazione alleata9.

Tutto ciò deve spingerci a riflettere su come tecnologie apparentemente docili e sistemi apparentemente intelligenti costituiscano in realtà, non per complotto programmato ma per semplice costrutto definito dal tempo in cui si vive, un autentico inserimento delle attività belliche in ogni ambito della vita civile, dimostrando come la guerra non costituisca un “errore” nel contesto del modo di produzione capitalistico, ma una costante mentre soltanto la cosiddetta pace, per quanto momentanea, può essere ritenuta “impropria”.

Ma oltre a questo ancora un’altra riflessione si impone a proposito di Intelligenza Artificiale e del suo uso così come è stato immaginato. Talvolta anche a “sinistra” e soprattutto in ambito fantascientifico. Una IA che se lasciata fuori controllo potrebbe essere causa di attacchi nei confronti della specie umana, ma che se usata con piena coscienza potrebbe costituire un’occasione evolutiva per la specie stessa e contribuire al miglioramento delle sue condizioni di vita e dell’organizzazione sociale. Sostanzialmente una visione culturalista, riformista e progressista che annulla l’azione di classe e della specie per il necessario ribaltamento politico delle strutture di governo ed economico-proprietarie legate all’attuale modo di produzione.

Un dibattito che fu particolarmente vivace, fiducioso e ottimistico, al limite della naiveté, nell’ambito del primo Cyberpunk e dei manifesti cyber degli anni Ottanta e Novanta, soprattutto a proposito dell’integrazione tra mente umana, rete e AI oppure della democrazia rappresentata dall’uso delle rete, che allora si andava appena delineando, e che ancora oggi attraverso il post-umanesimo o il trans-umanesimo oppure ancora per mezzo della corrente letteraria del Solarpunk si illude di poter utilizzare gli stessi strumenti per superare l’esistente senza per forza ricorrere agli obbligatori strumenti politici della lotta di classe e della rivoluzione.

Un dibattito di fatto reso nullo dall’attuale attività di controllo dell’enorme quantità di dati, Big Data, che da semplice strumento di controllo dei gusti e delle tendenze degli utenti dei social e di Internet si è trasformato in strumento di violenza e distruzione omicida, sia individuale che collettiva. Uno strumento totalmente sfuggito alle mani degli idealisti della rete e dell’IA e che ormai soltanto i signori del traffico delle informazioni e della guerra possono usare a proprio vantaggio.

Come dimostra anche il recente spostamento verso posizioni trumpiane e ultra-conservatrici, ma fa lo stesso per quelli ancorati al progetto “democratico” della Harris, dei miliardari più rappresentativi di quella che nel periodo sopracitato fu vista come l’utopia “hippie-cibernetica” della Silicon Valley californiana10, «dove esiste una nota “filiera” di innovatori direttamente collegati ad alcuni settori delle forze armate israeliane. Nei dintorni di Stanford e Palo Alto, Cupertino e Mountain View, cioè negli stessi luoghi celebri per i quartieri generali di Google, Apple e Facebook, esistono decine di società di cyber-sicurezza fondate da membri della Unit 8200, una divisione dell’esercito israeliano. È il modello che fu creato dal Pentagono con la Darpa, la sua filiale per il venture capital»11 che Israele ha portato all’ennesima potenza.


  1. Domenico Quirico, Quelle linee rosse disegnate apposta per costringere il nemico alla guerra, 20 settembre 2024 «La Stampa»  

  2. Paolo Mastrolilli, Israele-Libano, raid e missili. Gli Usa: “Evitare l’escalation”, 22 settembre 2024 «la Repubblica»  

  3. F. Paci, Intervista a Gilles Kepel: “Netanyahu fa il lavoro sporco che nessuno vuole fare”, 23 settembre 2024 «La Stampa»  

  4. Valerio Berra, Perché non è possibile che i nostri smartphone esplodano per un attacco hacker, 18 settembre 2024.  

  5. A. Curioni, La convergenza fragile dei sistemi digitali e le opportunità del futuro, 7 aprile 2022 – «il Sole 24 ore».  

  6. Ivi.  

  7. F. Rampini, E l’America vieta il software cinese sulle auto, Corriere della sera 23 settembre 2024.  

  8. A. Curioni, La vera vulnerabilità è nell’Internet delle cose, 21 settembre 2024 «il Messaggero»  

  9. Su tale drammatico bombardamento, durato più giorni, si vedano: F. Taylor, Dresda. 13 febbraio 1945: tempesta di fuoco su una città tedesca, Arnoldo Mondadori editore, Milao 2005: J. Friedrich, La Germania bombardata, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2004: W.G. Sebald, Storia naturale della distruzione, Edizioni Adelphi, Milano 2004; K. Vonnegut jr., Mattatoio n.5 ovvero la crociata dei bambini, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1970.  

  10. Si veda G. Riotta, Silicon Valley. In fondo a destra, 22 settembre 2024 «la Repubblica»  

  11. F. Rampini, cit.  

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Sulla linea d’ombra dove Storia e storie si fondono e confondono https://www.carmillaonline.com/2023/07/09/sulla-linea-dombra-dove-storia-e-storie-si-fondono-e-confondono/ Sun, 09 Jul 2023 20:00:12 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77993 di Sandro Moiso

Diego Gabutti, Segretissimo. Una storia del Novecento da Kim a Le Carré, Gruppo Editoriale Magog, Roma 2023, pp. 316, euro 22,00

In un recente articolo sul “fallito golpe” russo del giugno di quest’anno, il giornalista Domenico Quirico ha scritto: «Non si sa mai quando la Storia cessa di essere un romanzo». Ed è proprio da una considerazione del genere che occorre partire nell’affrontare l’ultima fatica editoriale di Diego Gabutti, ispirata almeno nel titolo, ma non solo, alla più famosa collana italiana di “spy stories” da edicola.

Edita da Arnoldo [...]]]> di Sandro Moiso

Diego Gabutti, Segretissimo. Una storia del Novecento da Kim a Le Carré, Gruppo Editoriale Magog, Roma 2023, pp. 316, euro 22,00

In un recente articolo sul “fallito golpe” russo del giugno di quest’anno, il giornalista Domenico Quirico ha scritto: «Non si sa mai quando la Storia cessa di essere un romanzo».
Ed è proprio da una considerazione del genere che occorre partire nell’affrontare l’ultima fatica editoriale di Diego Gabutti, ispirata almeno nel titolo, ma non solo, alla più famosa collana italiana di “spy stories” da edicola.

Edita da Arnoldo Mondadori editore, «Segretissimo» vide il suo primo numero uscire nell’ottobre del 1960. Il numero 12, nel settembre del 1961, chiuse la prima serie della collana. Dal numero 13, il mese successivo, la collana cambiò veste grafica e scelta di autori. Mentre infatti i primi 12 romanzi erano tutti di Jean Bruce, la seconda serie vide l’arrivo di vari autori del genere. Anche se il primo, non a caso esaminato con attenzione nel quindicesimo capitolo dell’opera di Gabutti, è stato forse uno dei più conosciuti e prolifici autori del genere spionistico.

Al secolo Jean Brochet, classe 1921, membro attivo del «maquis» durante l’occupazione tedesca, per un po’ fu conosciuto (fonte lui stesso) come l’«agente 11173» dell’Oss (per esteso Office of Strategic Service, l’agenzia segreta che sarebbe poi diventata la Cia). Nel dopoguerra, come si legge su Wikipedia, fu «dipendente del municipio, agente d’una rete d’intelligence, ispettore della sicurezza, impresario, attore in una troupe itinerante, gioielliere e segretario d’un maharajah». Nel 1949, la metamorfosi: Jean Brochet si trasforma in Jean Bruce. È infatti con questo nom de plume che l’ex agente OSS 11173 firma il suo primo romanzo, un polar spionistico intitolato Tu parles d’une ingénue, la prima avventura di Hubert Bonisseur de la Bath, agente segreto americano con antenati francesi e domicilio aristocratico a Baton Rouge, Louisiana. In codice OSS 117, Hubert Bonisseur de la Bath non mena le mani né punta la pistola contro gli agenti nemici o seduce fanciulle a raffica per conto della Cia ma è al servizio d’un secondo Oss: l’Organizzazione Speciale per la Sicurezza – «un’associazione pacifista», scrive Giuseppe Lippi nella prefazione a un’antologia di storie di OSS 117, «formata dalle più potenti madri di famiglia del mondo che si preoccupano per l’escalation dei conflitti nei cinque continenti». Ciò all’inizio, per lo meno. Poi passa alla Cia vera e propria (è diretta da «Mister Smith», una specie di Grande Incognito). O forse è la Cia che, per venirgli incontro, passa al pacifismo. Fermare le guerre, impedire che siano anche solo minacciate, è un lavoro da professionisti e da supereroi1.

Al primo romanzo ne seguiranno altri ottantotto, tutti quanti contenenti nel titolo il nome di qualche località geografica che, in tempi in cui i voli low cost per qualsiasi angolo del mondo ancora non esistevano, era in grado di far sognare i lettori. Novello Salgari delle storie di spionaggio a buon mercato, Jean Bruce, indefessamente fa compiere ai suoi lettori voli di fantasia tra complotti, armi spianate e spesso usate, belle ragazze (spesso poco vestite) e località celebrate nei depliant turistici.

OSS 117 a Tokio, a Manila, a Karachi, in Birmania, in Libano, in Iran, a Mosca, al Pireo e sull’Acropoli, nel Kashmir, a Singapore, a Las Vegas, in Patagonia, a Caracas, a Calcutta, a Formosa, a New York e al Bosforo, a Bangkok, a Vienna e in Messico, alle Bahamas, Finlandia, le Bermudas. Quando, per trascuratezza o altro, il nome della località esotica non compare in copertina, allora lo trovate immancabilmente nel risvolto: Roma, il Cairo, Odessa, l’Avana, Londra, Damasco, Buenos Aires, Washington, Calcutta, Nicosia, New Orleans, l’Angola, Cape Canaveral, Dakar, Rio, Montreal, Ibiza, il Perù, la vecchia Jugoslavia, Rangoon.
[…] Non sembra vero, ma c’è anche un’avventura extraplanetaria di Hubert Bonisseur de la Bath (da noi OSS 117 Missione dischi volanti, in originale Arizone zone A, 1959). Brutta gente, gli alieni. Niente smancerie tipo E.T. o Incontri ravvicinati. Gli alieni di Jean Bruce sono pacifisti, che orrore le armi, ma di scuola machiavellica.

Intendiamo installarci su questo pianeta. La natura stessa degli uomini che abitano questo pianeta e la loro intolleranza ci autorizzano a pensare che non accetteranno di buon grado la nostra sistemazione e che, come minoranza, subiremo tutte le angherie e vessazioni riservate sulla Terra alle minoranze… Poiché i nostri principi ci proibiscono l’uso della forza, dobbiamo usare l’astuzia, ossia servirci della nostra intelligenza per spingere gli abitanti di questo pianeta a distruggersi da soli. Il nostro piano, come sapete, è convincere il governo degli Stati Uniti che i russi hanno deciso di attaccare. Se ci riusciamo, gli americani lanceranno i loro missili un quarto d’ora prima dell’ora H e devasteranno la Russia. Attaccati, i russi reagiranno, e gli americani, convinti da noi di non aver nulla da temere, non ricorreranno alle necessarie misure di protezione. Noi non avremo che da contare i colpi e aspettare che sia tutto finito.

OSS 117 riesce a raggiungere la loro base segreta (altro viaggio guidato, stavolta in una riserva navajo dell’Arizona) dove il nostro finisce subito a letto con una bella aliena («drappeggiata in una stupenda vestaglia trasparente che sembrava uscita fresca fresca da Rue de la Paix, la bellissima Allalila» si dice «molto curiosa», sfilandosi la vestaglia, di conoscere meglio «le usanze terrestri»). Nonostante questa manifestazione di simpatia reciproca tra aliens e umani, tutti gli extraterrestri del romanzo – che sono detti gl’Intrusi, e che al pari di OSS 117 apprezzano l’inguacchio extraspecie e pertanto rapiscono allo scopo donne umane – vengono eliminati dal primo all’ultimo senza esitare. «È stato un atto abominevole, lo so benissimo…» dice il capo della Cia (pacifista machiavellico anche lui) senza dare alcun segno del «profondo disgusto» che dovrebbe provare secondo le regole della casa. «Ma è stata legittima difesa, vecchio pirata, ed è stato comunque meglio di Hiroshima e Nagasaki»2.

Frutto di tempi in cui la guerra fredda lasciava lentamente il campo alla coesistenza pacifica, ma in cui i cattivi (di vario colore, anche politico) continuavano a minacciare il genere umano anche dall’outer space, le opere di Jean Bruce-Brochet oggi farebbero sorridere i lettori più smaliziati, ma ciò non toglie che anche se l’autore morì in un incidente stradale dopo l’ottantottesimo romanzo, il 26 marzo 1963, la sua opera (stesso personaggio, stesso taglio turistico-spionistico) fosse continuata, prima dalla

vedova, Josépha Pyrzbil, polacca, che per una ventina d’anni, dal 1966 alla metà degli anni ottanta firma come «Josette Bruce» oltre un centinaio di nuove avventure dell’agente segreto. Che torna così, dopo un breve intervallo, a rimbalzare come una pallina nel flipper da un capo all’altro del mondo, pistola sotto l’ascella, tutte le donne (d’ora in poi soltanto terrestri) ai suoi piedi: Los Angeles, il Congo, Bucarest, Tangeri, Madrid, Amburgo e Francoforte, Malta, Costa d’Avorio, Tirana, Libia, Brasile, Santo Domingo, Portorico, Pechino, Portogallo e Malesia, Mykonos, il Gabon, Bombay, Pretoria, Bahrein, Nepal e Thailandia, Hanoi, Mauritius, l’Isola di Pasqua e l’isola di Wight, il Camerun, l’Alaska, Venezia, Osaka, la Danimarca, il Sahara, San Diego, Varsavia, Dublino, il Siam (c’era ancora il Siam) e Ceylon, Miami, il Senegal, Teheran, Reunion, Giava, il Marocco, l’Armenia, il Venezuela e via così, un’etichetta d’hotel dopo l’altra. Josette Bruce muore nel 1996. OSS 117 sopravvive anche a lei: il testimone delle sue storie passa alla figlia e al nipote, Martine e François Broche, nom de plume «François e Martine Bruce», che a partire dal 1985, e fino al 1992, firmano un’ulteriore trentina di nuove avventure dell’agente Cia di Baton Rouge, Louisiana3.

E’ valsa la pena di dedicare spazio ad un autore “minore” come Jean Bruce proprio perché con il suo primo romanzo aveva battuto tutti sul tempo: Ian Fleming, John Le Carré e tutti gli autori che si sono occupati di spy stories (a diversi livelli di complessità e di credibilità) nella seconda metà del ‘900, secolo delle spie e dei complotti (veri, ma quasi sempre presunti) per antonomasia. Padre di tutti gli agenti seriali da 007 a George Smiley, Jean Bruce con OSS 117 anticipa l’avventura moderna e, nonostante tutto, costituisce ancora una lettura divertente.

Certo il testo di Gabutti parte da ben più lontano con un romanzo come Kim di Rudyard Kipling, che è il primo a trasportare sulle pagine gli avvenimenti, gli intrighi, le guerre legate al Grande Gioco ovvero alla competizione tra Russia e Regno Unito per il controllo dell’Asia Centrale e del sub-continente indiano. Poi verranno altri autori e altri protagonisti, ma nelle vicende narrate poi da Conrad e infiniti altri non verrà mai a mancare l’ombra minacciosa della Russia, prima zarista, poi bolscevica, leniniana o staliniana sul destino del mondo occidentale.

Anche se il 1989, che ha lasciato apparentemente orfani del villain principale gli scrittori di storie e avventure di spionaggio occidentali, non ha fatto altro che aprire le porte di quelle vicende ad altri “avversari” più subdoli e folli (principalmente per il motivo di essere difficili da inquadrare in un canone riconosciuto, come ad esempio poteva essere quello del comunismo russo d’antan), di cui, forse, soltanto Alan D. Altieri, compianto autore e curatore della collana “Segretissimo”, ha saputo talvolta anticipare o immaginare le mosse, insieme a quelle delle corporation, ormai senza volto e senza nazionalità, e delle zaibatsu dell’immaginario cyberpunk che hanno iniziato a giocare la loro partita a Risiko sia nel mondo reale che in quello virtuale della rete.

Gli autori di spy stories, che avevano così bene illustrato e interpretato il mondo nei giorni del Grande Gioco, dell’equilibrio nucleare, delle guerre tra superpotenze combattute per procura nel terzo e quarto mondo, non sanno affatto che cosa sta succedendo adesso e qui. Fingono di saperlo, si danno un tono navigato da competenti saccheggiando Wikipedia, ma i risultati sono per lo più imbarazzanti. Sono passati trent’anni dal fallimento in diretta tv del golpe moscovita, quando le truppe corazzate del Kgb tentarono di sbalzare Él’cin dal trono. A New York sono crollate le Torri Gemelle; la jihad islamista ha soffiato il posto alle satrapie nazionalsocialiste arabe e mediorientali; da un pezzo non si parla più d’«imperialismo americano» ma di «Grande Satana»; già colonia inglese, Hong Kong è passata ai «musi gialli» (come direbbe Nayland Smith, l’arcinemico di Fu Manchu) e Vladimir Putin ha invaso l’Ucraina. Ma loro, gli autori di spy stories, niente, il vuoto. Sono passati trent’anni e ancora non si è letta una sola spy story memorabile.
Spaesate, perplesse, le firme per lo più ignote che appaiono sulla copertina delle ultime spy stories, si guardano intorno cercando paesaggi e figure noti. Invano. Non c’è più niente di riconoscibile. Tutto è un enigma. Per quanto si sforzino, inventando trame sempre più elaborate e smargiasse, non c’è una delle loro storie che dica qualcosa di utile, di sensato o di verificabile sullo stato di cose presente. Vale per i romanzi come per il cinema d’azione, dove i buoni sono improbabili quanto i cattivi, le circostanze ridicole e le sceneggiature, peggio che zoppicare, inciampano su se stesse, come gli ubriachi nelle comiche finali. Chi c’è dietro? Cui prodest? Mafia russa? Al Qaeda? QAnon? Fratellanze ariane? Muslim? Multinazionali? Tycoon della Silicon Valley? Vai a capire che roba è, che storie sono, cosa c’è in ballo. Gli autori di spy stories e i registi di serie tivù non ne sanno niente, zero […]
Ian Fleming aveva raccontato le fantasie voodoo di Mr. Big, la bramosia per l’oro di Auric Goldfinger, il debole per i calamari giganti del Dottor No, la smania di distruggere Londra con un missile (per di più finanziato dalla Corona) di Hugo Drax in Moonraker. Già questi erano bei fenomeni da baraccone. Renderli credibili e allegorici era roba da grandi narratori. Ma come raccontare Donald Trump, per metà palazzinaro, per metà ringhioso intrattenitore televisivo, che prima conquista la Casa Bianca, poi tenta d’espugnare il Campidoglio con i forconi e che infine, mai pago, imbosca scartoffie top secret in cassaforte? Ian Fleming non si sarebbe mai spinto così lontano con la caratterizzazione. Impossibile, avrebbe pensato, rendere credibile e allegorico un villain così iperbolico. […] Da «Donnie» Trump – dal suo parrucchino, dai suoi pretoriani e sciamani e survivalisti che tirano su una forca all’ingresso del Congresso per impiccarci i deputati democratici, dal loro amour fou per le armi d’assalto, dalle loro fantasie ufologiche sull’Area 51 e sulla presenza di microchip per il controllo mentale nei vaccini – non c’è da spremere nulla. Peggio: c’è da spremerci troppo. Difficile, anche per un romanziere à sensation, ricavarne qualcosa di buono, o anche solo di ragionevole.
Qui – tocca ammetterlo – la fine della storia evocata da Francis Fukuyama un po’ vacilla: l’aristocrazia delle metafore spionistiche è definitivamente uscita di scena insieme alla lotta di classe, diventata un fenomeno sociologicamente vintage. Al suo posto, «piccola e brutta» come la teologia secondo Walter Benjamin, una parata di seguaci di qualche piccolo Hitler slavo e di tifosi della cancel culture, di fanatici del gender, d’antiabortisti, di leader carismatici senza un filo di carisma. Tutti costoro occupano lo stesso spazio. Sono abitanti d’una Terra ucronica capitati qui attraverso qualche falla dimensionale da videogame. Di questi Visitors gli autori moderni di spy stories non hanno ancora carpito i segreti. Forse perché non ci sono segreti da carpire, e senz’altro perché, a differenza delle vecchie obbedienze, queste nuove sette apocalittiche non hanno nemmeno l’ombra d’una plausibile dimensione metafisica da cui ricavare un normale repertorio romanzesco di tradimenti, vocazioni e fedeltà. Sta di fatto che gli autori di spy stories stentano a cucire una qualunque trama intorno alle guerre palesi e segrete del nuovo millennio. Stanno lì, come pugili suonati, trasformati da romanzieri e registi – eredi di Kipling, di Eric Ambler, di Alfred Hitchcock, di Le Carré e di Len Deighton, di Fritz Lang e di Don Siegel, di Peter O’Donnell e di Jean Bruce – in gazzettieri e moralisti abbacchiati e perplessi. Oggi il Gioco, riflesso d’un mondo pericoloso e comatoso insieme, non è più una Grande Avventura, come all’origine, ma un Lungo Impasse: il Novecento dietro le spalle, il Deserto dei Tartari davanti a sé4.

Il sipario cala dunque sullo scenario del ‘900, sul liberalismo come sul comunismo. Il grande romanzo della Storia e delle sue storie vacilla, con tutte le categorie che ne giustificavano le scientifiche ancorché rigide certezze narrative. Rileggere nelle pagine di Gabutti le vicende vere o immaginarie che hanno nutrito fantasie, complotti e scrittori di serie A, B e Z, potrebbe però stimolare l’immaginazione a ritrovare un filo che, per quanto mai realmente esistito, potrebbe tornare a srotolarsi nelle fantasie dei lettori e degli scrittori (o presunti tali) di oggi e domani. Buona lettura.

N. B.
Il libro, pubblicato nella collana Dissipatio, non è reperibile presso le librerie, ma può essere acquistato online o presso il sito dello stesso editore.


  1. D. Gabutti, Segretissimo, Gruppo Editoriale Magog, Roma 2023, pp. 224-225  

  2. D. Gabutti, op. cit., pp. 226-227  

  3. ivi, p. 228  

  4. ivi, pp. 310-313  

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Traditori di tutti, traditi del tutto https://www.carmillaonline.com/2022/11/15/traditori-di-tutti-traditi-da-tutto/ Tue, 15 Nov 2022 21:00:47 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=74689 di Sandro Moiso

Jorge Semprún, La seconda morte di Ramón Mercader, Edizioni Settecolori, Milano 2022, pp. 462, 28,00 euro

Le storie non iniziano mai dove sembrano essere iniziate. Hanno origini oscure e un giorno ti ritrovi buttato nel bel mezzo di una storia. (Jorge Semprún)

I romanzi di John le Carré, già sulla scia di Graham Greene, ci hanno da tempo insegnato che il lavoro delle spie non consiste affatto negli esercizi circensi resi celebri dallo 007 di ian Fleming ma, piuttosto, nella pratica costante del tradimento, dell’inganno e dell’architettare tranelli, [...]]]> di Sandro Moiso

Jorge Semprún, La seconda morte di Ramón Mercader, Edizioni Settecolori, Milano 2022, pp. 462, 28,00 euro

Le storie non iniziano mai dove sembrano essere iniziate. Hanno origini oscure e un giorno ti ritrovi buttato nel bel mezzo di una storia. (Jorge Semprún)

I romanzi di John le Carré, già sulla scia di Graham Greene, ci hanno da tempo insegnato che il lavoro delle spie non consiste affatto negli esercizi circensi resi celebri dallo 007 di ian Fleming ma, piuttosto, nella pratica costante del tradimento, dell’inganno e dell’architettare tranelli, troppo spesso, fine a se stessi (o quasi.) Basta leggere, infatti, le pagine di romanzi quali La talpa, La spia venuta dal freddo, Tutti gli uomini di Smiley o La tamburina per entrare in un mondo di servizi segreti occidentali (MI6, CIA o Mossad) in cui a dominare sono l’astuzia, la spietatezza, il calcolo (spesso personale) e la disillusione,

Il romanzo di Jorge Semprún (1923- 2011), appena pubblicato in Italia da Settecolori, nonostante la sua edizione originale risalga al 1969, ci introduce nello stesso mondo, però visto dal “fronte orientale”, speculare avversario dei protagonisti dei romanzi di le Carré. Qui gli agenti operano per il KGB (siamo ancora in piena guerra fredda, e gli avversari (?) sono quelli della CIA. Il tutto complicato da un elemento che per i difensori dell’ordine liberale non esisteva: il sentirsi, o meno, rappresentanti di una Rivoluzione che avrebbe dovuto rovesciare il mondo, ma che invece non lo ha fatto.

Oltre a ciò, nel romanzo si affaccia in continuazione la storia collettiva e personale della Guerra Civile spagnola. Anch’essa caratterizzata da tradimenti, violenze, soprusi che non hanno lasciato certo immacolata la sua immagine. Anche sul fronte repubblicano.
E vi è molto di autobiografico nel romanzo, visto che l’autore, spagnolo di origine e francese per vocazione letteraria, aveva dovuto abbandonare la Spagna appena tredicenne, al seguito della famiglia di un diplomatico della Repubblica, riparata in Francia agli inizi della guerra nel 1936.

Non solo, l’autore, pur appartenente ad una famiglia borghese di rango, democratica e cattolica, aveva in seguito aderito al Partito comunista spagnolo di Santiago Carrillo ed era diventato agente dei servizi segreti dello stesso e dei paesi dell’Est. Un percorso non dissimile, anche se con motivazioni estremamente diverse, a quello di le Carré che, prima di diventare scrittore, era stato agente dei servizi inglesi del MI6.

Ancor prima, però, il futuro scrittore spagnolo era entrato nella resistenza francese contro i tedeschi ed era finito prigioniero a Buchenwald. Così, come racconta nella bella postfazione al testo Romain Cortés:

Nell’aprile del 1945, tre ufficiali con la divisa britannica, ma in forza all’esercito del generale americano Patton, fissarono con uno sguardo spaventato il ventenne che li osservava all’ingresso del campo di concentramento di Buchenwald, da poco liberato. Capelli rasati a zero, una magrezza estrema, il ragazzo indossava degli stivali di cuoio dell’esercito russo, aveva a tracolla una mitraglietta tedesca sotto cui, a strati, l’uniforme del carcerato si mischiava con ritocchi civili e militari. Jorge Semprún era il nome di quell’apparizione. […] A Buchenwald Semprún era arrivato un anno prima, dopo che la Gestapo lo aveva arrestato in un rastrellamento di provincia, sorpreso nel sonno in uno dei tanti rifugi clandestini della Resistenza. Il risultato di quell’anno, in quello che non era un campo di sterminio, ma i cui forni crematori tramutavano in fumo i corpi di chi vi moriva per fame, stenti, fatica, spandendo nell’aria l’odore dolciastro della carne umana bruciata, era ciò che si stagliava davanti agli occhi come pietrificati dei tre ufficiali. Un fantasma, più che un sopravvissuto, si sorprese a pensare il diretto interessato. «I fantasmi fanno sempre paura. Io non ero veramente sopravvissuto alla morte, non l’avevo evitata. Non le ero sfuggito. Piuttosto, l’avevo percorsa da un capo all’altro. Ne avevo percorso i sentieri, mi ero perduto e ritrovato, immenso territorio dove scorre l’assenza. Un fantasma, appunto». Dietro questa constatazione, Semprún sentiva però premere qualcos’altro, sempre più forte nei diciotto giorni che passarono dalla liberazione di Buchenwald al suo ritorno a Parigi, in un convoglio di rimpatriati organizzato da una associazione religiosa. «Ero convinto di essere immortale. Fuori pericolo, in ogni caso. Mi era successo tutto, niente poteva più accadermi. Nient’altro che la vita, da mordere con denti voraci. È con questa sicurezza che ho attraversato, più tardi, dieci anni di clandestinità in Spagna» 1.

Clandestinità e azione politica durante le quali si rese progressivamente conto di quante menzogne occorresse sostenere oppure contribuire a diffondere, anche nei confronti di amici e compagni “innocenti”, purché la grande macchina partitica ed organizzativa, oltre che propagandistica, di una rivoluzione da tempo spentasi potesse continuare a rappresentarsi come l’erede delle tradizione rivoluzionaria e proletaria.

Sono le stesse domande che sembra porsi il protagonista del romanzo. Un agente trentatreenne che, durante una missione ad Amsterdam, nel 1966, si rende conto di essere stato tradito e venduto agli agenti della CIA.

Qual era l’uomo incaricato di seguirlo? Uno qualunque. Quelli della CIA, aveva pensato, stanno diventando irriconoscibili, ultimamente: assomigliano a degli universitari, a dei ricercatori della Rand Corporation, oppure a dei seduttori con le tempie brizzolate. A chiunque. Alcuni non sembrano nemmeno americani, hanno una faccia umana. È lo stile Kennedy, forse2.

Ma il vero problema si nasconde tra le file del KGB, forse ai livelli più alti. Forse proprio tra quei vecchi agenti e compagni che per il Partito avevano già sopportato tutto. Anche il Gulag, prima di essere riabilitati ed inseriti nuovamente nelle fila e ai vertici dei servizi operativi.

«Che cosa siamo noi, esattamente? Può dirmelo, Georgij Nikolaevič?». […]
A Zurigo, due anni prima, in Froschaugasse, aveva fatto una domanda a Georgij Nikolaevič Užakov, e questi aveva riso, con gli occhi celesti che gli brillavano.
«La storia si ripete come una farsa, vero?» aveva detto Užakov. «Siamo la ripetizione farsesca e beffarda di una storia del passato».
«Quale storia?».
«Ma quella della rivoluzione, ovviamente» diceva Georgij Nikolaevič.
«Una storia mancata» diceva lui.
«Ma via! Se non fosse mancata, non si ripeterebbe come una farsa. Anzi, non si ripeterebbe in alcun modo».
Lui, però, insisteva. «E il nostro ruolo qual è, in questa farsa?».
Užakov lo stava fissando. Non sembrava vederlo. Lo stava fissando, senza vederlo. Stava fissando altrove, nel proprio passato.
«Un ruolo tragico» diceva alla fine. «Tragico e beffardo. Siamo solo la caricatura dei funzionari della rivoluzione. Non ci sono più professionisti della rivoluzione mondiale, ci sono solo agenti infiltrati, funzionari dei servizi speciali»3.

Ecco, il rivoluzionario o preteso tale. si era trasformato, o era stato trasformato, in un funzionario, in un burocrate, un grigio esecutore di ordini. Magari dell’assassinio e del tradimento. Come in ogni dittatura che si rispetti, come per un altro fronte aveva già spiegato già Hannah Arendt nel suo La banalità del male (1963).
Non a caso il protagonista porta lo stesso, pesantissimo nome di un personaggio simbolicamente importante del tortuoso percorso della rivoluzione dall’Ottobre allo stalinismo e al Gulag: Ramón Mercader, l’assassino di Leone Trotzkij in Messico, nel 1940.

Figura tragica e dannata, degna forse di figurare nel romanzo Il demone meschino di Fëdor Sologub, scritto tra il 1892 e il 1902 e apparso a puntate nel 1905. Condannato a vent’anni di carcere in Messico come esecutore dell’assassinio, Mercader scontò tutto il periodo della condanna, senza mai parlare o confessare, in attesa di tornare in Russia a ritirare la medaglia d’oro che Stalin gli aveva assegnato per il compito svolto e gli onori che avrebbero dovuto essergli tributati. Ma Stalin era morto nel 1953 e quando Mercader era ritornato in URSS erano già passati quattro anni da quel congresso, voluto da Nikita Kruscev (segretario generale del Partito dal 1954 al 1964), che ne aveva rivelato i crimini. E per questo motivo, ignorato ed evitato da tutti, aveva dovuto accontentarsi di una dacia e di una pensione assegnategli dallo Stato, come unica ricompensa dei suoi “servizi”. Dopo aver vissuto nelle vicinanze di Mosca per un decennio si sarebbe trasferito a Cuba nel 1970, dove morì nel 1978 a 65 anni. Ecco il destino dell’”eroe” socialista.

Walter Wetter alzava il suo boccale di birra, quasi vuoto.
«Sai?» diceva. «Adesso brindiamo alla salute di Ramón Mercader».
Wettlich lo guardava. «Perché? È in pericolo?».
Walter Wetter sorrideva malignamente. «Ma no, non quello. Alla salute dell’altro, il vero Ramón Mercader».
Herbert Wettlich, visibilmente, non apprezzava lo scherzo. «E perché, se posso?» chiedeva, con una voce che voleva essere di biasimo.
«Ma perché è un militante esemplare, via!».
E Walter Wetter rideva sinceramente, una grande risata cupa, e a Herbert Wettlich quello scherzo piaceva sempre meno, ed ecco il nostro eroe positivo, pensava Walter Wetter, con una risata sempre più violenta, c’è da chiedersi perché i critici e i teorici della letteratura socialista si siano scervellati così a lungo, eccolo l’eroe positivo, Ramón Mercader del Río, ammesso che sia il suo vero nome, il militante che ha sacrificato tutto alla Causa, e quando dico tutto è tutto, non è una metafora, tutto, sé stesso, e la Causa stessa, tutto sacrificato nel silenzio e nel pubblico ludibrio, e non vale la pena di cercare altrove, signore e signori, eccolo l’eroe positivo, non vale la pena tentare di spingere in primo piano sulla scena letteraria – fedele riflesso socialista di una realtà radiosa – spingere avanti tutti quei trattoristi, quelle esemplari mungitrici di mucche da latte, quei tecnici che nella gioia del pensiero corretto inventano il metodo migliore per fondere i pezzi di una nuova macchina, non vale davvero la pena, parlateci piuttosto di Ramón Mercader del Río, il nostro eroe positivo4.

Per i suoi dubbi e le sue critiche Semprún era stato espulso dal partito spagnolo nel 1965 e, pur continuando a dichiararsi comunista per anni, aveva deciso di non più tacere e trasformare in letteratura ciò che apparentemente avrebbe dovuto appartenere soltanto alla Storia con la s maiuscola. Ricevendo, inevitabilmente, l’ostracismo dall’«Humanité», il quotidiano del Partito comunista francese, al momento dell’uscita di La seconda morte di Ramón Mercader in Francia.

Nel 1979, su insistenza di Leonardo Sciascia, altra splendida figura di intellettuale eretico, sarebbe stata pubblicata in Italia, da Sellerio, l’opera autobiografica che ripercorreva il cammino dell’autore tra le rovine e le menzogne del socialismo reale (e di Santiago Carrillo, storico segretario rigidamente allineato all’URSS del Partito comunista spagnolo): Autobiografia di Federico Sánchez, uscita l’anno prima per le Editions du Seuil, in Francia.

E proprio nelle pagine della Postfazione, Romain Cortés ci aiuta a disvelare il “segreto” della mancata pubblicazione fino ad ora del romanzo di cui si è fin qui parlato, anche se di Semprún in Italia erano già state pubblicate, da Einaudi, altre opere.

In Francia, l’unica critica astiosa al libro venne dal quotidiano «L’Humanité», organo del PCF, il Partito comunista francese […] Si tratta di una posizione minoritaria, come del resto è sempre più calante, come appeal e come voti, il peso culturale e politico di quel partito, sorpreso dal «maggio francese» come dall’invasione della Cecoslovacchia, ancora egemone nella classe operaia, ma non più in quella borghese e intellettuale, costretto di lì a non molto a ritrovarsi come competitor quel François Mitterrand che di fatto rifonda il Partito socialista e lo mette alla guida della sinistra…
Ma in Italia? In Italia il ruolo e il peso del Pci sono ben diversi e la situazione sociale, economica e politica molto più turbolenta di quella francese, dove la contestazione dura appena un mese e per un de Gaulle che se ne va c’è un Pompidou che arriva… Dopo aver espulso, proprio in quel 1969, per «frazionismo» il gruppo del Manifesto, nel 1973 Berlinguer proporrà il «compromesso storico», l’anno prima è saltato per aria l’editore Feltrinelli, c’è già stata piazza Fontana, hanno già fatto la loro comparsa le Brigate rosse, fra «strategia della tensione» e «autunno caldo», hanno insomma preso il via gli «anni di piombo». Il decennio dei Settanta è dunque il meno ideale per un libro che al fondo sostiene che tutto il comunismo non è stato altro che un gigantesco, sanguinoso inganno, che il Partito, con la p maiuscola, è la Burocrazia, non la Rivoluzione, che l’abitudine al bis-pensiero e alla neolingua di orwelliana memoria (anche di questo, criticamente, si parla nel romanzo), è una camicia di Nesso destinata bruciare chi la indossa… E che a dirlo sia uno che continua a definirsi comunista non migliora le cose, ma le peggiora5.

Agli estimatori della buona letteratura, lontana dal mainstream modaiolo e poco interessata alle verità preconfezionate, non resta allora che ringraziare l’editore milanese che, seppur ideologicamente distante dalle posizioni espresse da chi scrive e da Carmilla più in generale, sta però conducendo un ottimo lavoro di riscoperta, traduzione e pubblicazione di testi fino ad ora sconosciuti, o quasi, ai lettori italiani.


  1. R. Cortés, La scrittura e la vita, postfazione a J. Semprún, La seconda morte di Ramón Mercader, Settecolori, Milano 2022, pp. 454-455  

  2. J. Semprún, op. cit., p. 31  

  3. pp. 273-275  

  4. pp. 271-272  

  5. R. Cortés, op. cit., pp.450-451  

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Il nuovo disordine mondiale/ ieri e oggi: la jihad imperialista https://www.carmillaonline.com/2022/07/06/il-nuovo-disordine-mondiale-ieri-una-jihad-imperialista/ Wed, 06 Jul 2022 20:00:50 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72546 di Sandro Moiso

Peter Hopkirk, Servizi segreti a oriente di Costantinopoli, Edizioni Settecolori, Milano 2022, pp. 566, 32 euro

Arriva in libreria l’unica opera fino ad ora non ancora tradotta in italiano dello storico e giornalista inglese Peter Hopkirk (1930-2014) e dedicata, come tutte le sue precedentemente pubblicate da Adelphi, Mimesis e la stessa Settecolori, al Grande gioco, ovvero al confronto tra grandi potenze e imperi per il controllo dei territori ad oriente della Turchia fino all’Asia Centrale e all’India, vero cuore pulsante dell’impero inglese fino alla seconda guerra mondiale.

Hopkirk, che [...]]]> di Sandro Moiso

Peter Hopkirk, Servizi segreti a oriente di Costantinopoli, Edizioni Settecolori, Milano 2022, pp. 566, 32 euro

Arriva in libreria l’unica opera fino ad ora non ancora tradotta in italiano dello storico e giornalista inglese Peter Hopkirk (1930-2014) e dedicata, come tutte le sue precedentemente pubblicate da Adelphi, Mimesis e la stessa Settecolori, al Grande gioco, ovvero al confronto tra grandi potenze e imperi per il controllo dei territori ad oriente della Turchia fino all’Asia Centrale e all’India, vero cuore pulsante dell’impero inglese fino alla seconda guerra mondiale.

Hopkirk, che ha sempre affermato di aver iniziato a scrivere sul Grande gioco a partire dalla lettura di Kim, il capolavoro letterario-avventuroso di Rudyard Kipling, ancora una volta non smentisce la sua abilità nel trattare la materia in esame sia dal punto di vista documentario che da quello letterario, dando vita ad una narrazione in cui storia politico-militare e avventura si fondono in pagine che sicuramente non permettono al lettore di separarsi facilmente dalle stesse.

In questo caso si tratta di analizzare e raccontare lo sforzo che la Germania guglielmina, sul fare e nel corso della Prima Guerra Mondiale, mise in atto per poter scalzare, con l’aiuto dell’allora ancor parzialmente vivo impero ottomano e il richiamo all’islamismo più intransigente, la presenza britannica dai territori del Vicino Oriente, andando però ben oltre i confini e i territori compresi nello stesso.

Organizzata da Berlino, ma scatenata da Costantinopoli, la Guerra Santa era una nuova e più sinistra versione del vecchio Grande Gioco. Combattuta tra i servizi segreti di Re, Kaiser, Sultano e Zar, doveva avere un camppo di battaglia che si estendeva da Costantinopoli a est fino a Kabul e Kashgar, fino alla Persia, al Caucaso e all’Asia centrale russa. Doveva poi allargarsi a tutta l’India britannica e alla Birmania, dove Berlino sperava, con l’aiuto di armi e fondi di contrabbando, di fomentare violente rivolte rivoluzionarie tra le popolazioni locali ribelli, fossero esse musulmane, sikh o indù. Ma i sinuosi tentacoli della cospirazione si protendevano ben oltre le frontiere dell’Asia. Il grande progetto di Berlino comprendeva trafficanti d’armi negli Stati Uniti, un’isola remota al largo della costa sull’Oceano Pacifico del Messico e un poligono di tiro nell’affollata Tottenham Court di Londra, da dove venivano pianificati (e provati) assassini politici. Avrebbe coinvolto golette cariche di una quantità di armi sufficiente a far scoppiare di nuovo la Rivolta Indiana1 e casse di letteratura rivoluzionaria contrabbandate in India con innocue false copertine di classici inglesi2.

Naturalmente gli agenti tedeschi destinati portare a termine un’operazione così ampia, ambiziosa e “rivoluzionaria” dovettero scontrarsi sul campo sia con la determinazione inglese a mantenere il proprio vantaggio, se non di ampliarlo ai danni dell’impero ottomano attraverso l’azione di agenti altrettanto determinati e ambiziosi, quali ad esempio il notissimo colonnello Lawrence meglio noto come Lawrence d’Arabia3, sia con un evento inaspettato come quello rappresentato dalla Rivoluzione russa e dalle sue conseguenze anche su quella parte del continente asiatico4 oltre che con la diffidenza del mondo musulmano per questa ennesima intrusione del mondo cristiano nelle aree in cui il primo era prevalente.

Quel desiderio imperiale dovette poi ancora fare i conti con l’opposizione armena ai desideri di espansione che i tedeschi alimentavano nell’impero ottomano e nei suoi rappresentanti come Enver Pascià, già a capo dei Giovani Turchi e in gran parte responsabile del genocidio armeno (perpetrato tra il 1915 e il 1916) oltre che di quello dei Greci del Ponto (tra il 1914 e il 1923), che suscitò tra la popolazione armena superstite e ancora ben presente in città come Baku la tendenza ad allearsi con i bolscevichi in funzione di difesa nazionale ancor prima che di sollevazione rivoluzionaria. Oppure facendo sì che desiderio di rivalsa e simpatia per il bolscevismo si fondessero in un’unica causa (come nel caso del bagno di sangue a Baku nel 1918, in cui fu distrutta la Divisione Selvaggia turca insieme agli alleati Tartari, ben descritto nel libro di Hopkirk). Motivo per cui lo stesso Ismail Enver, conosciuto anche come Enver Bey, finì i suoi giorni cadendo in combattimento contro il battaglione armeno dell’Armata Rossa bolscevica comandato da Hagop Melkumian il 4 agosto 1922 presso Baldžuan, nella Repubblica Sovietica Popolare di Bukhara (odierno Uzbekistan), durante la rivolta dei Basmachi.

E’ una storia dalle tinte forti, a tratti fosche, quella che ci narra ancora una volta Hopkirk attraverso le pagine di questo libro e, allo stesso tempo, di avventure e di uomini che sembrano usciti dalle pagine di movimentatissimi romanzi di spionaggio. Come lo stesso autore ci suggerisce citando un autore di genere come John Buchan che nel 1916, proprio intorno a quegli eventi, aveva intrecciato quello che è da considerarsi come un thriller immortale: Greenmantle, il secondo di cinque romanzi di John Buchan con protagonista Richard Hannay.

Richard Hannay è uno dei primi eroi seriali dello spionaggio, ben prima dell’esuberante 007 di Ian Fleming o del grigio George Smiley di John le Carré, e di solito si accompagna ad un collega di nome Ludovic “Sandy” Gustavus Arbuthnot che, ci rivela Hopkirk, sembra ritagliato sulla figura del Capitano Edward Noel, uno dei veri protagonisti dell’azione dei servizi segreti inglesi nella regione caucasica e transcaucasica. Che nel libro di Hopkirk è proprio al centro delle vicende che si svolgono a Baku, prima, durante e dopo il cosiddetto “bagno di sangue” cui si è accennato prima.

Così, nel libro di Buchan, Hannay è chiamato a indagare sulle voci di una rivolta nel mondo musulmano e intraprende un pericoloso viaggio attraverso il territorio nemico per incontrare il suo amico Sandy a Costantinopoli. Una volta lì, lui e i suoi amici devono contrastare i piani dei tedeschi di usare la religione per vincere la guerra. Sforzi che raggiungeranno il culmine nel corso dell’offensiva di Erzurum. Durante tale offensiva, portata avanti tra il 10 gennaio 1916 e il 16 febbraio dello stesso anno dall’esercito imperiale russo, le forze dell’Impero ottomano, sorprese nei quartieri invernali, subirono una serie di sconfitte che portarono ad una decisiva vittoria russa.

Il libro di Hopkirk è, ancora una volta, densissimo di fatti, riferimenti, personaggi e documenti; tali da impedire al recensore una narrazione completa degli eventi narrati senza togliere al lettore il piacere della lettura e della progressiva scoperta delle conseguenze di azioni portate avanti da individui che, da soli o in gruppo, attraversano deserti e lande desolate e selvagge a piedi, a cavallo, su sgangherati mezzi di trasporto a motore o a trazione animale o in treno. Oppure che agiscono tra palazzi, ambasciate, uffici dei servizi segreti o vie di città europee o orientali in cui il tradimento e il doppio gioco sono sempre all’ordine del giorno. Ma ciò che appare al recensore attuale particolarmente importante sono alcune riflessioni, direttamente o indirettamente, stimolate dalla lettura dello stesso.

La prima è data dal rapporto tra avventura e imperialismo e colonialismo. Giunti infatti al termine della serie di libri di Hopkirk dedicati al Grande Gioco in tutte le sue sfaccettature, che l’autore stesso dichiara di aver sviluppato a partire dalla lettura di Kim, diventa impossibile non rilevare come proprio il genere avventuroso, in letteratura prima e nel cinema o nelle serie televisive poi, oltre che nei fumetti, affondi le sue radici nell’avventura delle imprese coloniali e imperiali che l’uomo bianco, con la sua cultura, i suoi “nobili ideali” e gli enormi e insaziabili appetiti economici, portò a termine tra il XVIII e il XX secolo ai danni di altri uomini, diversamente colorati, di diversa religione, cultura e interessi economici o organizzazione sociale opposta. I quali, insieme alle loro etnie e società, quando queste non furono del tutto distrutte, ai loro governi, alle loro famiglie, tribù o clan vissero, e ricordano ancora oggi, gli stessi eventi senza l’aura dell’impresa eroica ma soltanto attraverso l’esperienza e il ricordo del sangue e della tragedia. Cosa di cui, oggi, l’occidente sta iniziando a pagare il conto sotto forma di guerre incontrollabili, rivolte sempre più ampie, migrazioni epocali e crisi del proprio sistema economico e politico su scala globale.

Rimanendo ancora per un attimo sul piano della letteratura è allora impossibile non ritornare con la mente a quanto già scrisse profeticamente Ugo Foscolo nel suo romanzo epistolare Ultime lettere di Jacopo Ortis, ancora all’alba del XIX secolo:

Oh quanto fumo di umani roghi ingombrò il Cielo della America, oh quanto sangue di innumerabili popoli che né timore né invidia recavano agli Europei, fu dall’Oceano portato a contaminare d’infamia le nostre spiagge! Ma quel sangue sarà un dì vendicato e si rovescierà su i figli degli Europei! Tutte le nazioni hanno la loro età. Oggi son tiranne, per maturare la propria schiavitù di domani: e quei che pagavano dianzi vilente il tributo, lo imporranno un giorno col ferro e col fuoco5.

Eppure, eppure…
A distanza di un secolo, oppure anche di secoli, nulla è cambiato.
Come cieche ruote dell’oriuolo gli ingranaggi dei servizi di intelligence (come si usa denominare oggi lo sporco lavoro degli agenti segreti) continuano a macinare intrighi, a programmare assassinii, a giocare sulle divisioni etniche, culturali e religiose per far guadagnare alle diverse potenze in campo qualche fonte di materie prime in più, qualche spostamento di baricentro del potere in Europa o negli altri continenti, a preparare rivolgimenti che, esattamente come un tempo, potrebbero avvenire con risultati ben diversi da quelli sperati.

Mentre i teorici del complotto e del super-imperialismo continuano a discettare della capacità statunitense di dirigere a proprio vantaggio gli affari economici e militari del pianeta, la Storia continua a dimostrare che dirigerla è impossibile, magari prevederla sì, utilizzando i giusti strumenti di analisi e riferimenti di classe, ma non determinarne il corso. E a far le spese di questo gioco incontrollabile sono proprio i presunti artefici dello stesso, in particolare i vari governi susseguitisi negli Stati Uniti dalla caduta del Muro in poi, ma anche prima.

In fragile equilibrio tra potenze emergenti sempre più aggressive e determinate, alcune delle quali ancora esattamente dislocate sui territori già in palio nel Grande Gioco, talvolta imprevedibili nelle scelte e scaltre nel destreggiarsi tra i differenti ruoli che sembrano essere stati assegnati loro da un croupier piuttosto distratto e disordinato (si pensi solo alla Turchia di Erdogan e ai paesi arabi, sempre apparentemente in bilico tra Occidente e Oriente ma sempre più determinati a seguire una propria politica di potenza), gli Stati Uniti sembrano condannati a ripetere non solo gli errori di un passato che ancora li preoccupa (ad esempio la guerra in Vietnam), ma anche quelli altrui.

Come, ad esempio, proprio con la scelta di scatenare una jihad islamica contro i russi, in Afghanistan, che poi si rivolse contro di loro (a partire dalle Torri Gemelle) e contro l’intero Occidente, fino alla catastrofica uscita e disordinata dalla ventennale guerra nello stesso paese, in cui, nel periodo “migliore” riuscirono a mettere al governo un individuo come Hamid Karzai, meglio noto, al di là delle ruberie e della corruzione che lo hanno contraddistinto, come “sindaco di Kabul” più che come presidente di uno stato riformato in chiave moderna. In una storia in cui a farla da padrone è stato l’avventurismo, più che l’avventura.

Ciechi ingranaggi che girano e girano, spesso a vuoto, ma altre volte macinando vite, sangue e risorse, determinati da elementi che vanno ben al di là della volontà dei singoli governi o dei singolo, per quanto spregiudicati, individui. Come anche Lawrence d’Arabia, insieme a molti personaggi di differente nazionalità riproposti da Hopkirk nelle sue ricerche, ebbe modo di scoprire.

Il suicidio dell’Occidente (imperiale e coloniale) passa da lì e la lettura di Hopkirk, anche se indirettamente, ci aiuta a comprenderlo meglio. A patto di saper leggere e studiare invece di vaneggiare di volontà individuale, libertà di scelta, complotti, difesa della patria e svariate altre amenità diversamente proposte dai media mainstream e dalla propaganda politico-ideologica di ogni, nefasto, colore. Soprattutto oggi, in occasione della guerra in Ucraina.


  1. Rivolta antibritannica scoppiata in India nel 1857 che vide protagonisti i cosiddetti sepoy della Bengal Army, ovvero i soldati di origine indiana arruolati nell’esercito inglese – Nota nel Testo. Si veda anche: William Dalrymple, L’assedio di Delhi, Rizzoli, Milano 2007  

  2. Peter Hopkirk, Servizi segreti a oriente di Costantinopoli, Edizioni Settecolori, Milano 2022, p. 17  

  3. Cui le edizioni Settecolori hanno già dedicato un libro (recensito qui)  

  4. Si veda ancora qui  

  5. Ugo Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis (edizione definitiva del 1817), (a cura di Mario Puppo), Mursia 1965, decima ristampa 1994, pp. 110-111  

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