John Carlos – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Sport e dintorni – Autobiografia di John Carlos, inossidabile “eroe dello sport” https://www.carmillaonline.com/2024/04/16/sport-e-dintorni-autobiografia-di-john-carlos-inossidabile-eroe-dello-sport/ Tue, 16 Apr 2024 20:00:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81595 di Alberto Molinari e Gioacchino Toni

John Carlos, Autobiografia di una leggenda. I pugni olimpici che hanno cambiato il mondo, a cura di Dave Zirin, tr. it. di Gigi Roggero, DeriveApprodi, Bologna, 2024, pp. 192, € 18,00

John Carlos rientra a pieno diritto in quella ristretta cerchia di sportivi che possono fregiarsi del “titolo” di “eroe dello sport”. Appartiene a tale categoria chi, a differenza del “campione”, oltre ad essere celebrato per le prestazioni in gara, assume una rilevanza che esula dal semplice successo sportivo, faccia breccia nella memoria collettiva, ispirando ideali e rispecchiando valori. Alla costruzione dell’“eroe dello sport” è [...]]]> di Alberto Molinari e Gioacchino Toni

John Carlos, Autobiografia di una leggenda. I pugni olimpici che hanno cambiato il mondo, a cura di Dave Zirin, tr. it. di Gigi Roggero, DeriveApprodi, Bologna, 2024, pp. 192, € 18,00

John Carlos rientra a pieno diritto in quella ristretta cerchia di sportivi che possono fregiarsi del “titolo” di “eroe dello sport”. Appartiene a tale categoria chi, a differenza del “campione”, oltre ad essere celebrato per le prestazioni in gara, assume una rilevanza che esula dal semplice successo sportivo, faccia breccia nella memoria collettiva, ispirando ideali e rispecchiando valori. Alla costruzione dell’“eroe dello sport” è necessario un pubblico che si appassioni alle prodezze dell’atleta instaurando con esso una relazione stabile e fiduciaria, identificandosi con le sue vicende sportive ed extrasportive.

Oltre a ciò, il processo di eroicizzazione necessita di una narrazione adeguata e se agli albori del Novecento la figura dell’eroe sportivo risulta strettamente legata alla fatica fisica, al coraggio e alla caparbietà con cui l’atleta si impone di raggiungere l’obiettivo attingendo senza lesinare a tutte le forze di cui è in possesso, al mito delle origini difficili, allo sport come forma di riscatto e come strumento di mobilità sociale – una figura spesso sfruttata dalla propaganda dei sistemi totalitari –, esiste un numero ancora più ristretto di casi in cui, invece, l’eroe diventa il simbolo del riscatto di un’intera comunità, quando non addirittura di un intero continente: un eroe che, affrontate con successo le prove che si presentano lungo il suo viaggio, riesce a condividere la vittoria con la sua gente e, al contempo, farsi portavoce di quest’ultima.

Tale variante di “eroe dello sport”, che si sottrae alle dinamiche della propaganda di regime (tanto nelle sue forme dittatoriali che democratiche), non a caso si sviluppa all’interno di quell’immaginario collettivo conflittuale proprio della “stagione dei movimenti”, tra la fine degli anni Sessanta del Novecento e la fine del decennio successivo, quando lo spazio dello sport, grazie anche alla sua inedita esposizione mediatica, viene travolto da una serie di eventi che ne riconfigurano gli spazi – sino a quel tempo “chiusi” alle dinamiche del mondo esterno – come spazi aperti, fluidi e contesi.

L’adesione nel 1964 del pugile afroamericano Cassius Clay ai Black Muslims, con tanto di cambio del nome in Muhammad Ali, e il suo rifiuto, espresso nel 1967, di prestare il servizio militare, dunque di prendere parte all’intervento armato statunitense in Indocina, intreccia due dei principali nervi scoperti che attraversano gli Stati Uniti dell’epoca: la guerra nel Vietnam e le lotte della comunità afroamericana. A fare di Ali un “eroe dello sport” è la sua capacità di usare contemporaneamente le armi del corpo e quelle della parola, abilità che gli consente di identificarsi con la sua comunità e le sue cause mentre questa, a sua volta, si riconosce nelle sue gesta e nelle sue parole.

Qualcosa di analogo avviene alle Olimpiadi del Messico del 1968, quando Tommie Smith e John Carlos entrano a far parte degli “eroi dello sport” nel momento in cui alla grande prestazione sportiva affiancano i pugni chiusi levati al cielo durante le premiazioni e pronunciano parole al vetriolo nel corso della conferenza stampa. È il momento culminante della battaglia antirazzista intrapresa dagli atleti afroamericani aderenti all’Olympic Project for Human Rights apertasi con la minaccia di boicottaggio dei giochi in segno di protesta contro il razzismo imperversante negli Stati Uniti e una serie di richieste che andavano dalla restituzione del titolo di campione dei pesi massimi a Muhammad Ali, la rimozione del razzista Avery Brundage da capo del Comitato olimpico internazionale, il divieto di partecipazione ai giochi olimpici alla Rodesia e al Sudafrica dell’apartheid.

Quanto è successo alle Olimpiadi messicane è entrato nella storia. Il 16 ottobre 1968, alla finale dei 200 metri piani, Smith vince la gara ottenendo il nuovo record mondiale della specialità mentre Carlos si piazza al terzo posto. Alle premiazioni i due atleti afroamericani decidono di salire sul podio scalzi, indossare un guanto nero e assistere all’inno statunitense a capo chino alzando al cielo il pugno chiuso. La successiva conferenza stampa, tra l’imbarazzo degli organizzatori e dei rappresentanti della delegazione statunitense, offre ai due l’occasione di spiegare il significato delle loro gesta sul podio: dare voce alla rabbia e alla volontà di lotta degli afroamericani contro la discriminazione razziale. Se a renderli campioni sono state le loro prestazioni atletiche, a farne degli “eroi dello sport” è stata la loro presa di coscienza di incarnare un’intera comunità e di agire e parlare in suo nome, contribuendo così a infiammare e dare forza agli oppressi, anche oltre la comunità afroamericana di appartenenza.

Autobiografia di una leggenda. I pugni olimpici che hanno cambiato il mondo di John Carlos (DeriveApprodi, 2024) risulta interessante non tanto per la curiosità di conoscere la vita di un “campione dello sport”, quanto piuttosto alla luce del fatto che Carlos continua a rappresentare – in compagnia di Tommie Smith e Muhammad Ali – una delle figure di “eroe dello sport” più inossidabili del pantheon dei “dannati della terra” afroamericani e non.

Come scrive Gigi Roggero nella Prefazione all’edizione italiana, dopo le Olimpiadi del Messico, Smith e Carlos erano visti come «appestati, colpevoli di non essersi limitati a correre per vincere medaglie, ma di aver voluto alzare la testa spostando l’attenzione sui diritti negati e una certa America, probabilmente la maggioranza, non glielo aveva perdonato». Ed è così. La “colpa” di Carlos, come del compagno Smith, è stata appunto quella di non essersi “accontentato” di essere un “campione” olimpico statunitense, ma di aver voluto “caricare” la sua impresa di gesti e parole in favore di una comunità sfruttata e mantenuta ai margini della società nordamericana. La “colpa”, come per Ali, è la presa di parola a nome di una collettività che si è prontamente riconosciuta in lui. L’autobiografia di Carlos assume dunque uno specifico valore proprio in questo, nel significare le vicende personali di una vita alla luce del ruolo che questa ha saputo incarnare nell’immaginario dei “dannati della terra”.

«Sento il fuoco per come i miei eroi Malcolm X e Paul Robeson sono diventati francobolli. Sento il fuoco per come Muhammad Ali è diventato un francobollo ambulante, un uomo senza voce. Sento il fuoco perché Martin Luther King è una tazza commemorativa da McDonald’s. Sono arrabbiato perché tutti i nostri denti politici sono stati sottoposti alla devitalizzazione della cultura pop». Così scrive Carlos guardando a come il potere ha tentato di riassorbire – riuscendovi solo in parte – la portata rivoluzionaria di gesta e parole come le sue in quei lontani giochi olimpici messicani. «“La rivolta dell’atleta nero”. Ora potete portarla al macero. È un modo per tenerci in campo, sicuri, dolci e vendibili. Non la vedo affatto come la rivolta dell’atleta nero. È stata la rivolta dell’uomo nero. L’atletica era il mio lavoro. Non ho fatto quello che ho fatto come atleta. Ho alzato la voce per protestare come uomo».

La storia della famiglia di Carlos è una delle tante storie di migrazione. Un padre calzolaio proveniente dalla Carolina del Sud chiamato a giocarsi la vita nella prima guerra mondiale trattato dagli ufficiali bianchi «come una merda» e una madre assistente infermiera, di origini giamaicane ma cresciuta a Cuba prima di trasferirsi negli Stati Uniti. Una quotidianità fatta di lotte ed espedienti per sbarcare il lunario, di speranze più o meno frustrate di poter migliorare le condizioni di vita, di angherie a volte mandate giù a fatica altre combattute per garantire alle nuove generazioni tempi migliori.

Nato e cresciuto ad Harlem, a pochi passi dal Cotton Club, in un quartiere in cui bianchi e neri hanno convissuto senza farsi troppi problemi di pelle fino a quando la televisione ha mostrato marce per l’integrazione e lo spauracchio del “nero che si ribella” ha iniziato a togliere il sonno agli abitanti dalla pelle chiara che, in un battito di ciglia, hanno fatto i bagagli e abbandonato un quartiere “destinato” a vedere la droga diffondersi affiancandosi all’alcol e smembrando la comunità.

«Ero ad Harlem e la maggior parte delle persone che entravano nel nostro paradiso uptown erano bianchi provenienti dal centro». «Crescendo ad Harlem, non sapevo di essere “nero”. Ero un essere umano». «Ma andando al Savoy ho visto chi serviva e chi veniva servito. Vedevo chi mangiava bene e chi si occupava dell’intrattenimento». Il desiderio infantile di Carlos di andare alle Olimpiadi come nuotatore si infrange quando il padre trova le parole per spiegargli che il vero problema per avere accesso alla piscina per gli allenamenti non era dovuto alla retta di iscrizione al club ma al colore della pelle.

Carlos racconta di quando da ragazzino con la sua banda si appropriava come Robin Hood di cibo e vestiti depositati sui treni per distribuirli nel quartiere rincorso – invano, nel suo caso – dalla polizia. I ricordi vanno poi all’incontro con Malcom X nella sua Harlem. «Malcolm mi ha dato la giustificazione verbale e la fiducia politica per fare ciò che ho sempre sentito nel mio intimo: agire».

Ben presto in diversi si sono accorti della velocità con cui il ragazzino correva, dunque l’improvvisa opportunità di allenarsi al New York Pioneer Club, uno dei migliori club di atletica leggera newyorchesi nella difficoltà di procurarsi un paio di scarpette decenti. Il matrimonio con Kim in giovane età ed il trasferimento nel Bronx, ove sarebbe nata la figlia Kimme, dunque il periodo trascorso nell’East Texas. «Ho poi imparato qualcosa che ho portato con me fino a oggi: l’assoluto rifiuto di essere sfruttato. Ecco cosa e rimasto impresso nella mia mente dall’esperienza nell’East Texas. Ho visto come il mio dominio in pista generasse contratti per gli allenatori, fondi per il dipartimento di atletica e facesse aprire i cordoni della borsa agli investitori. Ho visto da vicino come ci fossero soldi per tutti, tranne che per le persone che ci mettevano il sangue, il sudore e le lacrime. Ecco perché ancora oggi, ogni volta che parlo, chiedo che gli atleti universitari ricevano una piccola parte della torta».

Dunque il ritorno a New York. «Era l’inizio del 1968 ed era ora di tornare a casa. Non sapevo quale sarebbe stata la mia prossima mossa. A quel punto non sapevo se avrei provato a partecipare alle Olimpiadi o se le avrei boicottate, stavo solo cercando di far uscire la mia famiglia da una situazione molto brutta. Ecco dove avevo la testa. Era ora che il “cavallo” tornasse ad Harlem». È questo il momento in cui la vita di Carlos si intreccia con quella dei leader dell’Olympic Project for Human Rights, con Lee Evans e Tommie Smith. Le infinite discussioni circa il “che fare” in vista delle olimpiadi messicane: «Il punto più basso e stato quando abbiamo dovuto discutere con altri giovani atleti la necessità del boicottaggio. Ci guardavano come se capissero e fossero d’accordo con noi, ma non avessero altra scelta che voltarsi dall’altra parte».

Poi, nell’aprile del 1968, l’assassinio di Martin Luther King a Memphis. E di nuovo tante discussioni circa la necessità di boicottare Messico 1968, tesi ormai sostenuta soltanto da Harry Edwards, Tommie Smith, Lee Evans e Carlos: «i ragazzi che si opponevano al boicottaggio e che mettevano il successo individuale al di sopra di tutto, avevano tragicamente capito in che direzione stesse andando il mondo. Farsi i fatti propri, mandare al diavolo gli altri, dimenticarsi delle proprie sorelle e dei propri fratelli: ecco cosa ha definito l’epoca moderna». La retromarcia del Cio sul Sudafrica ha contributo a spegnere l’idea del boicottaggio; non restava che trovare il modo per manifestare all’interno dei giochi olimpici la rabbia in corpo che non era venuta meno.

Anch’io volevo restare a casa, ma dopo aver riflettuto a lungo ho deciso che non potevo. Sentivo che se fossi rimasto a casa qualcuno avrebbe vinto una medaglia e sarebbe salito sul podio, e sarebbe stato al posto in cui dovevo esserci io. Non avrebbe rappresentato ciò che volevo e dovevo rappresentare in quel momento. Entrare in quella squadra era un imperativo. Era un imperativo vincere una medaglia, perché se non fossi rimasto a casa, volevo essere a Città del Messico per esprimere ciò che sentivo. Non sapevo cosa avrei fatto, ma qualcosa andava fatto e l’avrei fatto.

Il resto lo sappiamo. Quanto avvenne alle Olimpiadi di Città del Messico nel 1968 è l’inizio della storia di Carlos e al contempo ciò che risignifica la sua intera esistenza di “eroe dello sport”. Per fregiarsi di questo “titolo”, come detto, non basta essere “campioni”, occorre far parte di una “comunità di dannati in lotta”.


Sport e dintorni

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L’eroe sportivo diviso tra lo spettacolo e il suo popolo https://www.carmillaonline.com/2019/01/18/leroe-sportivo-diviso-tra-lo-spettacolo-e-il-suo-popolo/ Thu, 17 Jan 2019 23:01:07 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=50633 di Fabio Ciabatti e Mazzino Montinari

La società moderna appare a tutta prima assai prosaica, eppure non può fare a meno delle sue nicchie dove poter coltivare figure eroiche. Ad esempio, le gesta dei campioni dello sport possono essere interpretate come una moderna epopea borghese, in forma atletica. Secondo Joseph Campbell la parabola convenzionale dell’avventura dell’eroe ha una struttura ricorrente che si consuma in tre atti: “L’eroe abbandona il mondo normale per avventurarsi in un regno meraviglioso e soprannaturale; qui incontra forze favolose e riporta una decisiva vittoria; l’eroe [...]]]> di Fabio Ciabatti e Mazzino Montinari

La società moderna appare a tutta prima assai prosaica, eppure non può fare a meno delle sue nicchie dove poter coltivare figure eroiche. Ad esempio, le gesta dei campioni dello sport possono essere interpretate come una moderna epopea borghese, in forma atletica. Secondo Joseph Campbell la parabola convenzionale dell’avventura dell’eroe ha una struttura ricorrente che si consuma in tre atti: “L’eroe abbandona il mondo normale per avventurarsi in un regno meraviglioso e soprannaturale; qui incontra forze favolose e riporta una decisiva vittoria; l’eroe fa ritorno dalla sua misteriosa avventura dotato del potere di diffondere la felicità fra gli uomini”. Allo stesso modo, il campione sportivo è un individuo che dopo aver scoperto di possedere capacità fuori dal normale, si avventura nel mondo straordinario costituito dal campo di gioco dove vigono regole a sé stanti che non sono alla portata di tutti, compie azioni straordinarie sconfiggendo nemici temibili e spesso infingardi, e infine condivide la propria felicità con il popolo dei suoi tifosi e degli sportivi tutti. Inoltre, a rimarcare il tono epico dell’impresa, l’evento sportivo è spesso descritto come una battaglia e le metafore belliche abbondano nel vocabolario dei cronisti.

“Eroici!” titolava a tutta pagina il «Corriere dello sport» il giorno dopo la conquista italiana del Mundial del 1982 in Spagna. E come Luke Skywalker, anche i protagonisti del Mundial non erano consapevoli della propria forza, se non dopo la vittoria con l’Argentina. Solo in quel momento iniziarono a comprendere di poter intraprendere un viaggio assolutamente diverso da quello previsto. E improvvisamente il mondo circostante che li detestava, li considerò “esseri superiori” intorno ai quali identificarsi. Invertendo l’ordine dei fattori, gli eroi avevano creato un popolo che apparve nelle piazze avvolto da bandiere.
Un atleta può essere d’esempio nella capacità di scoprire il proprio talento, nell’impegno costante a migliorare, nel condividere la propria ambizione con i compagni, nell’accettare la sconfitta e nel rendere merito all’avversario. Tutto ciò ha a che fare con il gesto, con le regole, con lo specifico di una disciplina. Esiste poi un altro tipo di identificazione, che prescinde dallo svolgimento della gara e che crea un senso di appartenenza.
Lo status di eroe, per motivi diversi e talvolta imponderabili, rende possibile il cameratismo dei tifosi. L’eroe sportivo incarna i sogni e i desideri di una comunità, spesso fittizia ma non sempre: gli afroamericani o gli abitanti di Kinshasa stretti intorno a Muhammad Ali forse erano animati da sentimenti più autentici degli italiani abbracciati per i trionfi calcistici.
Ad ogni modo, la distinzione tra l’eroe sportivo e il suo popolo funziona in certe narrazioni se si mantiene una distinzione netta tra il mondo straordinario della competizione e quello ordinario in cui i tifosi vivono tutti i giorni. Affinché lo stadio possa rappresentare il tempio in cui si riproducono ritualmente eventi meravigliosi, il mondo circostante deve rimanere profano, banale, borghese. Il fatto è che le cose non sempre vanno come previsto. Il mondo straordinario e quello ordinario sconfinano l’uno nell’altro, addirittura s’invertono, rompendo o comunque dando al giocattolo una forma diversa e inattesa.

L’ideale eroico dello sportivo rimanda ambiguamente alla concezione aristocratica promossa da De Coubertin: per l’atleta, rigorosamente dilettante e originariamente dell’upper class, la partecipazione e la disciplina sono da porsi sopra la vittoria. Se invece guardiamo allo sportivo contemporaneo, assistiamo a uno sdoppiamento: da una parte l’eroe senza macchia e senza paura, non più accostabile alla concezione decoubertiana, ma ancora legato a una visione disinteressata dell’attività sportiva, si potrebbe quasi dire “ideale”; dall’altra l’atleta che nella sua immagine spettacolarizzata riflette un’attività sempre più professionalizzata e, dunque, tutt’altro che priva di scopi. Per questa seconda figura, l’unica cosa che conta è vincere. L’eroe immacolato, perciò, è a rischio di trasformarsi nel fellone privo di ogni scrupolo alla ricerca di una gloria mediaticamente e chimicamente dopata.
Lo sport spettacolo e lo sport business procedono di pari passo, con tutte le contraddizioni che ne conseguono, se è vero che il primo può provare insofferenza per il secondo (non sempre le vittorie tanto amate da chi mette i soldi producono piacere e divertimento) e, al tempo stesso, può apprezzarne (fino a una dipendenza totale) la capacità di estendere qualsiasi evento a fenomeno planetario. Uno scontro/incontro che inizia significativamente dagli anni Settanta del secolo scorso. E quanto più avanza questa contaminazione, tanto più lo spettacolo sportivo invade la vita quotidiana. L’evento non è delimitato dall’inizio e dalla fine della gara, ma si espande indefinitamente attraverso i media, la gadgettistica, le chiacchere da bar e i più contemporanei forum, peraltro terreno di caccia prediletto dai cosiddetti hater.
Esiste poi un contro-movimento. Quanto più il fenomeno sportivo diventa invasivo rispetto alla vita quotidiana, tanto più gli spettatori tendono a invadere il campo di gioco, per esempio in Europa o in Sud America (l’ultima finale di Coppa Libertadores, giusto per citare il caso più recente), attraverso le iniziative anche estreme del tifo organizzato. Fenomeni complessi che in parte non sarebbero concepibili senza la centralità mediatica assunta dagli eventi e dalla loro caratteristica di business spettacolare.
La stigmatizzazione del tifo organizzato in parte deriva dal fatto che questo fenomeno è in contraddizione con la tendenza a identificare il tifoso con il mero spettatore/consumatore. Va ricordato che in Italia il fenomeno calcistico degli ultras nasce negli anni Settanta del secolo scorso e la sua denominazione deriva dal gergo politico: ultras, con chiaro intento denigratorio, erano definiti i gruppi di estrema sinistra. In effetti, all’epoca esisteva una sovrapposizione tra i gruppi della sinistra rivoluzionaria e quelli dei tifosi. È cosa nota che oggi il segno politico di queste aggregazioni si è spesso invertito. Rimane però visibile, sebbene solo in controluce, un legame ancora esistente tra il tifo organizzato e lo sport come festa popolare che contrasta con l’atomizzazione consustanziale allo spettare/consumatore.
In Inghilterra il fenomeno degli hooligan fu combattuto nell’epoca thatcheriana, non solo con le misure poliziesche, ma soprattutto con gli alti prezzi degli stadi. Impianti divenuti gradualmente di proprietà delle società calcistiche, trasformati in centri commerciali a tema che, per massimizzare i guadagni, attirano spettatori con potere d’acquisto (negli Stati Uniti dove i principali raduni sportivi durano almeno tre ore, il consumo di vivande e bevande diventa uno degli aspetti principali). È la fine del calcio come festa popolare cui il fenomeno del tifo organizzato ancora rimanda, sebbene debolmente. Un legame che però è suscettibile, nelle opportune condizioni, di rivitalizzarsi. Si può citare soltanto un esempio: le tifoserie delle due squadre del Cairo, dopo essersi scontrate per tanti anni, si riuniscono nella difesa di piazza Tahrir sostenendo, data la loro preparazione “bellica”, in modo efficace gli scontri con polizia e mazzieri del regime. Abbiamo qui un’inversione. Non c’è più bisogno di un eroe da ammirare per creare un legame: tutti diventano eroi e, al tempo stesso, nessuno lo è. Al contrario del Mundial 1982, il popolo prova a riprendersi il diritto di creare i propri eroi.

In generale, quando il mondo ordinario entra in fermento tende a rompere la quiete olimpica degli eventi sportivi. Molti i casi entrati nella storia. Il più famoso è probabilmente quello delle Olimpiadi di Città del Messico del 1968. La manifestazione è preceduta dalla strage degli studenti nella piazza delle Tre culture e dalla conseguente richiesta di bloccare i Giochi. Lo spettacolo però non si ferma. La contestazione prosegue assumendo forme impreviste. Quella più celebre riguarda i due corridori afroamericani Tommie Smith e John Carlos che durante la cerimonia di premiazione dei 200 metri, scalzi, alzano il pugno avvolto in un guanto nero e ascoltano l’inno con lo sguardo basso a rimarcare l’estraneità e il dissenso verso il simbolo di un potere che li opprime. Non vogliono più essere i cavalli da corsa dell’uomo bianco. Un nero se vince è accolto come un americano, se perde torna a essere un negro. Con questo gesto svelano al mondo intero, dentro lo spettacolo ordito dal potere, l’ipocrisia dell’ideologia dominante: quella che rappresenta lo sport come un’istituzione neutrale, superiore a tutti gli interessi perché fondata sulla uguaglianza delle possibilità e dei criteri di valutazione di ogni rendimento. Tutti possono diventare eroi. Per questo lo sport unisce. Per questo l’unico modo in cui la politica può essere riconosciuta all’interno dello sport è quello della glorificazione della nazione, con il suono ridondante degli inni, e della sua unità, con il continuo appello a tutti, atleti e tifosi, a intonare tenendosi per mano le note di quella musica.
Il gesto degli atleti afroamericani è dirompente. Introduce nel mondo dorato dello sport le spaccature reali della società, anche se poi lo spettacolo continua e nel corso del tempo il gesto dei dissidenti diventerà iconografico e oggetto del merchandising. Tuttavia, nel presente storico, gli eroi saranno cacciati dall’Olimpo sportivo, puniti come Prometeo dagli dei. I due atleti evidenziano un legame vero con i loro sostenitori, innervato nella comune condizione sociale, economica e culturale. L’eroe sportivo si scopre prima di tutto un essere umano. Ciò che lo rende simile ai suoi fratelli e alle sue sorelle non è la gloria, ma la comune condizione di miseria, di discriminazione.
In questo senso, forse, si può individuare una figura differente di eroe sportivo che non suscita ammirazione solo per le sue capacità straordinarie (pur avendone bisogno), ma anche per le sue debolezze, per la sua umanità claudicante che lo accomuna ai suoi ammiratori spezzando il mondo fatato della competizione atletica e facendoci entrare nel mondo reale. Si pensi, nel campo del calcio, a una figura come Cristiano Ronaldo, micidiale macchina da goal che nella sua perfezione non può suscitare forme di identificazione che non siano di tipo proiettivo e la si paragoni a una vera a propria icona come Diego Armando Maradona, capace con il suo genio e la sua sregolatezza, con le sue cadute rovinose e le sue resurrezioni, di rappresentare alla perfezione, anche a molti anni di distanza dal suo ritiro, il desiderio di riscatto dei quartieri popolari argentini e napoletani.

Di certo ogni qual volta si assiste a una “invasione di campo” della realtà circostante nel perimetro di gioco, la classe dirigente sportiva, politica e mediatica si chiude a riccio sostenendo che lo sport è un fenomeno compreso in se stesso, pacificato, neutro, puro, limpido, onesto. Insomma, è un’oasi felice, immune dall’ideologia, strumento di formazione dei giovani ai valori della ragione e della misura, sana valvola di sfogo. In estrema sintesi, lo sport deve unire, non dividere.
Ciò nonostante, gli spazi dello sport non sono immuni dalla realtà e dai suoi conflitti perché essi possono essere riconfigurati, simbolicamente o materialmente, come spazi aperti, fluidi e contesi. O almeno così è accaduto in passato, come documenta il libro di Gioacchino Toni e Alberto Molinari Storie di sport e di politica (Mimesis 2018), con riferimento al decennio 1968-1978. Può accadere nuovamente o il mondo dello sport si è definitivamente immunizzato dal contagio della realtà a lui esterna? Non c’è da essere ottimisti se si pensa alla scarsa risonanza che ha avuto il tentativo di contestare il Giro d’Italia del 2018 e le tre tappe iniziali in Israele, soprattutto se confrontiamo questo episodio con analoghe contestazioni del passato, per esempio quelle veementi alla finale di Coppa Davis del 1976 nel Cile di Pinochet o al Mondiale del 1978 nell’Argentina di Videla, anche se fallimentari, perché ancora oggi nella bacheca risalta l’ambito trofeo tennistico e nella nostra memoria sono ancora vivide le immagini dei giovani Rossi e Cabrini.

I semi della speranza possono ancora germogliare se, invece, guardiamo al movimento dello sport popolare: un fenomeno che in Italia, sebbene sotterraneamente, continua a consolidarsi sviluppando, sulle orme dei fenomeni nati negli anni Settanta, una concezione dell’attività atletica che ne vuole superare gli aspetti competitivi e mercificanti a favore di una dimensione dello sport come festa popolare, inclusiva, ricreativa, associativa, legata alle rivendicazioni sociali.
Se c’è un comune denominatore delle vicende sportive, si potrebbe individuare nella ricerca spasmodica della vittoria e nella retorica che ne deriva. Senza di essa non parleremmo del gesto di sfida di Smith e Carlos e non avremmo ceduto al desiderio di andare in Cile a prenderci la Coppa Davis, due esempi storici che citiamo non a caso, proprio per la loro esemplare differenza e per le complessità che scatenano. Oltre ogni discorso immediatamente socio-politico, il vero ostacolo da superare sembra essere costituito dal delirio della vittoria, sia nella vita sia nella sua versione eroicizzata rappresentata dallo sport. Se si vince si ha tutto e, a posteriori, ogni spiegazione e riflessione acquisisce legittimità. Certamente vincere è meglio che perdere e tutti sperano che prima dei titoli di coda vi sia un lieto fine. Ciò nonostante, senza inciampare in una retorica aristocratica alla De Coubertin, possiamo considerare il “viaggio dell’eroe” esemplare per il movimento che un individuo dotato di talento mette in atto, lasciando in secondo piano l’esito che ne consegue?

[Nell’ambito del ciclo di incontri sul “Viaggio rivoluzionario dell’eroe”, il Gruppo di Studio Antongiulio Penequo discuterà della figura dell’eroe sportivo con Gioacchino Toni il 28 gennaio alle ore 19.00 (Libreria Caffè Giufà, via degli Aurunci 38, Roma). Altri interventi sul tema dell’eroe e del suo viaggio sono disponibili qui]

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Eroi dello sport https://www.carmillaonline.com/2016/06/13/30867/ Mon, 13 Jun 2016 21:30:52 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=30867 di Alberto Molinari

Marchesini_sport_coverDaniele Marchesini, Eroi dello sport. Storie di atleti, vittorie, sconfitte, Il Mulino, Bologna, 2016, 248 pagine, € 16,00

Guardati con diffidenza dagli ambienti accademici, in Italia gli studi storici sullo sport sono iniziati timidamente negli anni Settanta, in ritardo rispetto ad altri paesi, e si sono diffusi nei decenni successivi grazie ai contributi di «Lancillotto e Nausica» – rivista di storia e critica dello sport che analizza il fenomeno intrecciando diverse metodologie: storico-sociali, psicologiche, filosofiche, pedagogiche, mediche ecc. – e alle ricerche di studiosi come Felice Fabrizio, Stefano Pivato, Gaetano [...]]]> di Alberto Molinari

Marchesini_sport_coverDaniele Marchesini, Eroi dello sport. Storie di atleti, vittorie, sconfitte, Il Mulino, Bologna, 2016, 248 pagine, € 16,00

Guardati con diffidenza dagli ambienti accademici, in Italia gli studi storici sullo sport sono iniziati timidamente negli anni Settanta, in ritardo rispetto ad altri paesi, e si sono diffusi nei decenni successivi grazie ai contributi di «Lancillotto e Nausica» – rivista di storia e critica dello sport che analizza il fenomeno intrecciando diverse metodologie: storico-sociali, psicologiche, filosofiche, pedagogiche, mediche ecc. – e alle ricerche di studiosi come Felice Fabrizio, Stefano Pivato, Gaetano Bonetta, Sergio Giuntini, Daniele Marchesini.

Marchesini ha insegnato Storia contemporanea all’Università di Parma e da molti anni si dedica all’analisi dello sport come fenomeno sociale e culturale, indagando svariati temi (Coppi e Bartali, le Mille Miglia, il Giro d’Italia, il ruolo dello sport nella formazione di un’identità nazionale, la relazione tra sport e totalitarismi). Il saggio più recente di Marchesini è uscito in una collana del Mulino, diretta da Carlo Galli, dedicata al tema dell’eroe in diversi ambiti e discipline.

Nelle prime pagine del volume Eroi dello sport Marchesini definisce l’oggetto della sua ricerca distinguendo tra il campione e l’eroe. Entrambi si caratterizzano per l’assoluta eccellenza delle loro prestazioni che suscitano ammirazione, ma questo non basta per fare di un campione un eroe. Oltre alle numerose promesse mancate, anche grandi protagonisti dello sport – come Indurain nel ciclismo o Phelps nel nuoto – pur accumulando vittorie e medaglie si sono fermati prima della soglia che si apre sullo spazio dell’eroismo sportivo. A differenza dei campioni, gli eroi sportivi assumono una rilevanza che esula dall’originario ambito di appartenenza, entrano nella memoria collettiva, ispirano ideali, rispecchiano valori e attese, costituiscono riferimenti culturali.
D’altronde, si può diventare eroi senza essere vincitori, come nel caso di Dorando Pietri. Il maratoneta carpigiano nel 1908 taglia per primo il traguardo nella gara dei giochi olimpici di Londra ma “perde la vittoria” (sono parole dello stesso Pietri, squalificato a causa dell’aiuto di medici, giudici e assistenti che lo sostengono in prossimità dell’arrivo). Tuttavia mentre Hayes, il vincitore della maratona, cade nell’anonimato, lo sconfitto Pietri “vince” sul piano dell’immaginario collettivo grazie alla trasfigurazione mitica dell’evento. La dimensione dell’eroe è infatti quella del mito, cioè di un sistema di comunicazione «definito non tanto dal suo oggetto, quanto dal modo in cui lo si costruisce e lo si trasmette» (p. 230).

pietriDeterminante nella costruzione dell’eroe sportivo è anzitutto la presenza di un pubblico che segue con grande passione le prodezze del campione e instaura una relazione stabile e fiduciaria con lui, identificandosi con le vicende che, nel bene e nel male, in campo sportivo e extrasportivo, punteggiano la sua carriera e la sua vita. L’eroicizzazione implica inoltre la presenza di un “cantore” capace di narrare le imprese del campione. Nel caso di Pietri è Arthur Conan Doyle – appassionato di sport e presente all’evento come cronista del “Daily Mail” – a celebrare la vicenda in un articolo che rappresenta il corrispettivo scritto della celebre immagine del maratoneta barcollante e distrutto dalla fatica: «Avvenne allora una cosa meravigliosa. Col viso d’un morto, Dorando si rialza, barcolla, le gambe riprendono lo strano incedere automatico: ricadrà? No. Oscilla, tentenna un istante, ed eccolo tagliare il traguardo, raccolto da venti braccia amiche! E’ arrivato all’estremo limite delle forze umane! Mai alcun romano dei primi giorni gloriosi si comportò meglio di Dorando alle Olimpiadi del 1908» (p. 233). Con il suo articolo, il creatore di Scherlock Holmes perfeziona e universalizza l’eroicizzazione di Pietri, trasformandolo in una celebrità mondiale ingaggiata, e profumatamente pagata, per le sue esibizioni in Europa e in America. I maggiori giornali scrivono di lui, il personaggio è acclamato ovunque e il pubblico accorre per vederlo in azione.

Passando in rassegna numerose esperienze sportive, Marchesini analizza gli aspetti culturali, i registri espressivi e i codici comunicativi che alimentano le retoriche della mitografia sportiva, in relazione ai contesti politici e sociali, alle dinamiche specifiche degli sport, al loro carattere individuale o collettivo, alle modalità della loro narrazione.
Un capitolo del saggio è dedicato al mondo classico, nel quale lo sport assume già una dimensione strutturata e caratteri tipici dei fenomeni sportivi moderni (professionismo, tifo, ideologia atletica, celebrazione dei vincitori ecc.). L’attenzione è rivolta però prevalentemente alla contemporaneità in quanto è la società di massa a favorire il radicamento, la diffusione e la spettacolarizzazione del fenomeno sportivo, in un processo di «familiarizzazione» (p. 8) che lo rende sempre più pervasivo e che si intreccia con la vita quotidiana, con la dimensione politica, le dinamiche sociali, la sfera economica.

Nel primo scorcio del Novecento, i temi che fondano la rappresentazione eroica di figure come Pietri, impegnate in corse di fondo che comportano grande sofferenza, e dell’epopea degli albori del ciclismo, lo sport allora più popolare, sono legati alla fatica e al coraggio, alla volontà di portare a compimento un impegno attingendo fino all’estremo della forze, al mito delle origini oscure, difficili, povere, allo sport come forma di riscatto e come strumento di mobilità sociale. Al pubblico che segue il Giro d’Italia o la Grande Boucle, su strade sterrate in tappe impervie e interminabili, il ciclismo «appare come una variante della lotta per la vita che coinvolge la maggioranza dei lavoratori che, in quegli anni, faticano “da sole a sole” nelle campagne (cioè dall’alba al tramonto), 12-14 ore nelle fabbriche, sette giorni su sette la settimana, in attesa di un avvio di legislazione sociale che interviene solo al principio del Novecento a disciplinare i casi più clamorosi di sfruttamento selvaggio» (pp. 78-79).

coppi-bartaliNel secondo dopoguerra, sono Gino Bartali e Fausto Coppi ad incarnare nuovamente lo sport della fatica come metafora della ricostruzione dopo le tragedie del conflitto mondiale. La rivalità che si instaura tra i due ne accresce la popolarità e definisce i meccanismi di identificazione degli italiani in personaggi dalle caratteristiche opposte, tanto tecnicamente e caratterialmente quanto, almeno nella rappresentazione popolare alimentata dai mezzi di comunicazione, ideologicamente (il “pio” Bartali e il laico e “razionalista” Coppi).
In un contesto profondamente mutato – quello di un’Europa che sembra «appagata dai risultati di un benessere in continua espansione, che rende la bicicletta un oggetto antiquato» (p. 126) – occorrono altri ingredienti per costruire il mito. Se la grandezza di Coppi veniva esaltata con toni epici e favolistici dai radiocronisti e giornalisti dell’epoca (nel linguaggio sportivo prevaleva il campo metaforico del “volo” o della “regalità”, con espressioni come “dominare”, “librarsi”, “aquila”), le immagini utilizzate per descrivere Eddy Merckx – il ciclista in assoluto più vincente nella storia del suo sport: 445 vittorie tra il 1966 e il 1978 – esaltano invece la potenza atletica pura, con iperboli quali “mostro”, “robot”, “marziano”, «tendenti a suscitare ammirazione e sorpresa nell’ordine dei valori “tecnico-avveniristici”» (p. 126).
Anni dopo, sarà Marco Pantani a riproporre l’immagine del ciclista come eroe della fatica, refrattario alle tattiche, imprevedibile, capace di illuminare improvvisamente una gara con i suoi scatti improvvisi sulle montagne del Giro o del Tour.

Oltre al ciclismo, lo sport più popolare nella prima metà del Novecento è il pugilato. Progressivamente addomesticata nella sua originaria carica di violenza e caratterizzata da contenuti di grande raffinatezza tecnica, nell’immaginario collettivo la boxe rimane comunque prevalentemente legata alla «messinscena del corpo forte» (p. 95). Se nel ciclismo il corpo si espone senza nascondimenti sul “cavallo di ferro”, nella boxe il corpo dell’atleta viene portato in prima scena, in uno scontro da solo a solo. Definito da Albert Camus come «lo sport assolutamente manicheo», un rito che semplifica tutto, il bene e il male, il vincente e il perdente, il pugilato mantiene un seguito popolare sino agli anni Sessanta-Settanta, segnati in Italia dalle figure di Sandro Mazzinghi e Nino Benvenuti. Come ricorda Marchesini, il 17 aprile 1967 la sfida mondiale tra Benvenuti e Griffith al Madison Square Garden, titolo dei pesi medi in palio, fu trasmessa dalla RAI in diretta solo radiofonica «per non compromettere, a causa dei fusi orari, il sonno degli italiani e le loro capacità lavorative dell’indomani. Il miracolo economico da un po’ di tempo scricchiola e bisogna evitare di incentivare l’assenteismo in fabbrica e negli uffici. Nonostante le preoccupazioni educative e moralizzatrici della RAI monopolista, in più di 15 milioni quella notte puntano la sveglia e si alzano per ascoltare la radiocronaca del trionfo dell’italiano condotta da Paolo Valenti» (p. 98).
L’autore dedica ampio spazio anche alla figura di Cassius Clay, dai primi successi, all’adesione alla fede islamica, al rifiuto di arruolarsi nell’esercito e di partire per la guerra in Vietnam, sino all’incontro con Foreman per il titolo mondiale dei massimi: il 30 ottobre 1974 il pubblico che segue il match (60 mila persone) è tutto con lui «così come i neri di tutto il mondo, in una diretta televisiva che per l’epoca riuniva una platea infinita: 700 milioni di persone». All’ottavo round Muhammad Ali atterra Foreman e si conferma l’eroe non solo di uno sport che quel giorno «tocca vertici mai prima e mai più in seguito raggiunti di partecipazione emotiva, ma anche di ideali di libertà e giustizia» (pp. 219-220).

Quarant’anni prima, era stato il fascismo a utilizzare politicamente le potenzialità del pugilato, sfruttando l’immagine eroica di un altro peso massimo, il friulano Primo Carnera, «capace di sedurre affascinare eccitare il pubblico come una star del sistema divistico» (p. 159). Un capitolo del saggio di Marchesini è dedicato al rapporto tra lo sport e i regimi totalitari, i primi a cogliere le opportunità di controllo delle masse offerte dalla loro passione per lo sport. Il fascismo dà forma all’ideologia dell’“atletismo politico”: il coraggio, la lotta, la forza, l’agonismo sono valori che vengono piegati alla logica del regime e riassunti in una rappresentazione del corpo che mira alla definizione dell’“uomo nuovo” fascista. Oltre a Carnera, che esemplifica in modo evidente l’uso dello sport a fini propagandistici e di ricerca del consenso, altre figure che corrispondono alle aspettative del regime acquisiscono profili eroici: ciclisti come Bottecchia e Binda; Beccali, che trionfa nei 1.500 metri alle Olimpiadi di Los Angeles nel 1932; piloti come Nuvolari e Varzi; i calciatori guidati da Pozzo che conquistano il titolo mondiale nel 1934 e nel 1938.

jesse_owens_berlino_1936Anche la Germania nazista imbocca la strada della mistica sportiva. Ma all’esaltazione dello sport come arena nella quale dimostrare la potenza del regime e la superiorità della razza ariana, culminata nelle Olimpiadi di Berlino del 1936, tocca una micidiale eterogenesi dei fini: come è noto, a Berlino Jesse Owens – con le sue quattro medaglie d’oro – si afferma come “contro mito”, il “lampo d’ebano” che contraddice col suo stesso corpo, il colore della pelle e una straordinaria forza atletica i principi dell’ideologia hitleriana. Qualche anno dopo, al tempo dell’occupazione della Francia, il nazismo andrà incontro ad un altro inatteso fallimento nel tentativo di umiliare i francesi, oltre che sul piano militare, su quello della simbologia sportiva. Marchesini dedica pagine dense e appassionate alla vicenda del pugile Marcel Cerdan, un francese figlio di pieds-noir. Il 20 settembre 1942 i nazisti organizzano un incontro tra Cerdan e lo spagnolo Josè Ferrer, campione in carica dei welter: «Ferrer sale sul ring avvolto in una bandiera nazista e i suoi secondi indossano l’uniforme della gioventù franchista», «mentre i 16 mila spettatori, quasi in un mormorio, intonano la marsigliese nonostante la presenza di molti alti ufficiali nazisti a bordo ring»; Cerdan domina l’incontro e viene «acclamato come un liberatore dalla folla in delirio» (p. 102).

Nel campo opposto, l’Unione Sovietica non esprime in quegli anni una significativa mitologia sportiva, anche per la diffidenza diffusa nel movimento socialista, sin dalle origini, verso lo sport, considerato un fenomeno borghese, destinato a “distrarre” le masse e a ostacolare la loro presa di coscienza politica. Negli anni dello stalinismo è il lavoro che assurge a mito nella esemplificazione estrema di Stachanov e Marchesini coglie giustamente il nesso tra lo stachanovismo e l’interesse per lo sport manifestato nel dopoguerra dall’Urss e dai paesi satelliti. Attraverso Stachanov «si fa strada nell’immaginario collettivo sovietico l’idea che il primato in quanto tale è possibile e accettabile, se inserito nel progetto di educazione e formazione dello spirito pubblico nazionale, e se obbedisce al ruolo di dimostrazione dei risultati che il socialismo reale rende concreti a vantaggio della comunità». Dopo Stachanov e attraverso la guerra, «nel pantheon d’oltrecortina» il testimone passa dal campione del lavoro al campione dello sport: «tramonta lo stachanovismo ma si afferma il culto dell’individualità straordinaria» (p. 164). Un culto tanto più importante nel momento in cui l’Urss viene ammessa alle Olimpiadi (per la prima volta a Helsinki nel 1952) e deve quindi dimostrare, anche sul piano sportivo, di saper competere con il capitalismo. Gli eroi sportivi sovietici o di altri paesi dell’Est (come Zatopek, Brumel, Bubka, Borzov e molti altri delle discipline olimpiche, nominati da Marchesini, ai quali si dovrebbero aggiungere alcuni calciatori come Jascin) vincendo e stabilendo primati difendono la causa del proprio paese, secondo quanto teorizzato dai dirigenti del movimento sovietico.

Tommie Smith John CarlosMolti altri esempi di “eroismo sportivo”, descritti in modo puntuale da Marchesini, mostrano le diverse sfaccettature del fenomeno e dei personaggi che lo hanno incarnato.
Le olimpiadi sono il palcoscenico di imprese che danno vita a nuovi eroi. A Roma nel 1960 Livio Berruti è un ragazzo “normale” che nulla ha dell’eroe, ma si trova vincere in una contingenza particolare (l’Italia del miracolo economico) che consente la trasfigurazione mitica; Abebe Bikila, primo africano a vincere un oro olimpico, diventa simbolo del «riscatto da condizioni di povertà e di emarginazione» di un continente «più di ogni altro brutalmente saccheggiato» dal colonialismo (p. 91). Nel 1968 a Città del Messico, in un contesto infiammato dai movimenti di contestazione, sul podio dei 200 metri Tommie Smith e John Carlos levano il braccio col pugno guantato del Black Power, un gesto che denuncia le intollerabili condizioni in cui vivono gli afroamericani. Tuttavia, secondo Marchesini, sono “eroi perdenti”: sanzionati pesantemente dai vertici olimpici, subiscono l’oblio istituzionale e l’emarginazione in una «società disposta a garantire rispetto solo in cambio di successi sportivi e sottomissione all’ideologia dominante» (p. 217).

In alcuni casi, la dimensione eroica non è connessa alla forza ma all’estro e alla fragilità. In Brasile, il paese che ha fatto del calcio una religione laica, al mito di Pelè (il calciatore «”apollineo”, cioè perfetto, esemplare, da manuale») si contrappone quello di Garrincha, soprannominato «torto» o «zoppo» a causa del «bacino visibilmente deviato» e della «deformità delle ginocchia»: il suo calcio è «”dionisiaco”, sovrabbondante, tutto genio e sregolatezza», basato sul dribbling con il quale irride l’avversario grazie a una finta che sembra quasi favorita dal suo difetto fisico. Dopo una lunga decadenza «fatta di depressione, alcol, ostinazione a giocare ancora in squadre sempre meno titolate», la sua morte «è annunciata come la scomparsa della “gioia del popolo” (a alegria do povo), secondo il titolo del film girato nel 1962 su di lui […] da Jaquin Pedro de Andrade, uno dei capofila del cinema novo» (pp. 187-188).

Oltre alle individualità, nel saggio di Marchesini spicca la dimensione eroica collettiva legata in particolare ad alcuni sport, come il rugby (è il caso ad esempio degli All Blacks neozelandesi, capaci di suscitare una forma di riconoscimento collettivo che supera le barriere razziali) e il calcio, dal “Grande Torino” che, all’apice delle vittorie, va incontro alla tragedia a Superga nella notte del 4 maggio 1949 (per la tifoseria granata Superga rimane il tempio di una sorta di culto civile) alla squadra del Manchester United che precipita in aereo il 6 febbraio 1958 (non a caso Bobby Charlton, miracolosamente sopravvissuto all’incidente, diventerà l’eroe non solo dell’Old Trafford, lo stadio della squadra, ma dell’intero paese, guidando la nazionale inglese alla vittoria nei mondiali del 1966).

oldtrafford113In diverse pagine del saggio l’autore ritorna sul tema della morte precoce che contribuisce ad eternizzare la grandezza dell’eroe, evidente negli sport motoristici, in cui il rischio è più presente (si pensi a Ayrton Senna, idolo nazionale in Brasile e pilota più amato dagli appassionati di automobilismo), o nelle vicende di campioni del ciclismo come Coppi e Pantani e del calcio come George Best (l’anno dopo la sua morte, avvenuta nel 2005 in seguito a una cirrosi epatica per alcolismo, gli è intitolato l’aeroporto di Belfast e la sua immagine viene stampata su una serie limitata di banconote emessa dalla Ulster Bank). A non dimenticare i campioni morti servono stele, colonne votive, lapidi, busti che punteggiano le strade percorse o campeggiano nei luoghi che hanno conosciuto le loro vittorie. A questa “statuolatria”, come la definisce Marchesini, si accompagna la “stadiolatria” ovvero la rilevanza assunta nei contesti urbani del “monumentale sportivo”: stadi, piscine, palasport, villaggi degli atleti «sono i templi indispensabili all’eroicizzazione dell’atleta vincente, i luoghi sacri in cui celebrare i rituali del culto che ogni quattro anni trova nelle olimpiadi la sua massima espressione» (p. 8).

Attraverso queste ed altre storie si snoda il racconto di Marchesini che si apprezza per la qualità della scrittura, per i puntali ritratti di personaggi noti e di figure inconsuete (almeno per il lettore italiano, si veda tra l’altro il capitolo dedicato al cricket), per la ricchezza di riferimenti storici. Il taglio della ricerca, attenta agli intrecci tra la dimensione sportiva e quella sociale, tende a privilegiare figure assunte come modelli di identificazione collettiva con una funzione unificante di carattere nazionale. Si tratta di fenomeni di indubbia rilevanza, che lasciano però in ombra altri processi di “eroicizzazione” sportiva, costruiti e vissuti come modelli alternativi rispetto alle narrazioni condivise, o figure di “antieroi” riconducibili ad una dialettica con la dimensione epica dello sport, meritevoli di ulteriori approfondimenti. Anche sul ruolo delle donne, che secondo Marchesini in ambito sportivo raramente innescano dinamiche di identificazione e mitografie (tema discusso nel capitolo dedicato all’“eroismo al femminile”) rimangono aperti percorsi di ricerca in una prospettiva di genere.

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