Joel Coen – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 24 Aug 2025 20:00:00 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Divine Divane Visioni (Cinema porno 08/11) – 74 https://www.carmillaonline.com/2015/12/17/divine-divane-visioni-cinema-porno-0811-74/ Thu, 17 Dec 2015 21:03:45 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=27148 di Dziga Cacace

Nella voglia più totale nel discorso trasparente

ddv7401826 – Il labirintico e irritante Inception di Christopher Nolan, USA/Gran Bretagna 2010 Esce il film e tanta critica pavida e prezzolata ne esalta le qualità tecniche e il gioco di scatole cinesi. Amici fidati, però, son tutti bestemmie e stridore di denti e mi chiedono di fare giustizia di siffatta creazione cinematografica. Allora vado alla guerra, mi metto l’elmetto e scendo in trincea per una visione che quanto a trituramento di palle m’è sembrato seconda a poche. Attenzione: non una cagata tout court, ci [...]]]> di Dziga Cacace

Nella voglia più totale nel discorso trasparente

ddv7401826 – Il labirintico e irritante Inception di Christopher Nolan, USA/Gran Bretagna 2010
Esce il film e tanta critica pavida e prezzolata ne esalta le qualità tecniche e il gioco di scatole cinesi. Amici fidati, però, son tutti bestemmie e stridore di denti e mi chiedono di fare giustizia di siffatta creazione cinematografica. Allora vado alla guerra, mi metto l’elmetto e scendo in trincea per una visione che quanto a trituramento di palle m’è sembrato seconda a poche. Attenzione: non una cagata tout court, ci mancherebbe, ma questo Inception m’è parso un assembramento laocoontico di suggestioni senza un’anima, un calore, un’emozione. È un film freddo, dal coinvolgimento nullo, affascinante come una tavola logaritmica e divertente tale e quale. In due parole è un film rompicapo e rompicoglioni, dove sei trascinato nel sogno del sogno nel sogno del protagonista e siccome quello che vedi potrebbe essere qualunque cosa, compreso il subcosciente di DiCaprio stesso (intendo l’attore, tanto vale tutto), all’ennesima discesa nel regno di Morfeo ti scappa un rotondo e sveglissimo vaffanculo. Certo: grandi effetti speciali e al tecnologico Nolan verrebbe da dirgli anche “bravo”, sennonché alla terza invenzione realizzata col computer chi se ne strabatte il cazzo, eh. Avrai una bella RAM ma sto vedendo un film, mica un numero di bravura del tuo processore, eddài. Il thriller onirico (di cui mi rifiuto categoricamente di ricostruire la trama, arrangiatevi) è impreziosito dallo struggimento d’amore del protagonista, ma siccome han tutti facce da fessi il dramma non mi tocca manco per niente, zero empatia, anzi, quasi penso che gli stia bene a Leo sempre a frignare col suo faccione gonfio, tanto l’Oscar te lo scordi. E poi ‘sto crucipuzzle dura quasi 2 ore e mezza, una cosa che dovrebbe essere resa illegale. Carina Marion Cotillard, il resto non m’interessa. Ed è questa è la cosa grave: questo cinema che crea – giocoforza, visti gli incassi – immaginario, è sterile, ci abitua all’indifferenza se non al mero apprezzamento del dato tecnico, a quella soddisfazione un po’ ottusa che prelude al non-pensiero. Non avendone uno neanche io non so dire molto di più. Amen. (Dvd; 17/2/11)

DDV7402825 – Leccato e convincente: Valentino: The Last Emperor di Matt Tyrnauer, USA 2008
Valentino: un ometto dall’incarnato bronzeo e con una testa che pare l’abbiano pucciato in una pozza di pece. Tutto azzimato, la boccuccia a culo di gallina e l’espressione corrugata di chi è costretto a vivere in un mondo che non è mai all’altezza dei suoi ideali di eleganza. Ecco, questa è l’idea che ho di uno dei più stimati e famosi haute couturier di sempre. Idea che il film conferma in parte, regalandoci però diverse sorprese in un ritratto brioso e intelligente. Sì, c’è tutto quello che ti aspetti e che di solito passa per luogo comune: modelle stragnocche esilissime trattate come cerbiatte decerebrate, jet set con gentaglia perennemente abbronzata vestita da pagliaccio e accompagnata a fighe di plastiche, tutti fatti e rifatti, specchio di un’ineleganza morale che è il nulla infiocchettato e tirato a lucido. Ma il ritratto riesce comunque a essere affettuoso, intrigante, pure indiscreto, e qui risiede il suo vero valore documentario. La troupe è impicciona al limite del fastidioso e chi è spiato talvolta se ne rende conto e ce lo ricorda e sembra miracoloso che un ritratto così dall’interno del mondo della moda sia arrivato sullo schermo. Lode al regista (che conosce benissimo questo ambiente, è un inviato speciale di Vanity Fair) che non si è mai fermato e ha sguinzagliato i suoi operatori anche quando educazione e opportunità lo avrebbero sconsigliato. Valentino ha le prevedibili – e anche giustificate – scheccate isteriche, i collaboratori sembrano tutti dei gran cialtroni, impegnati a cinguettare i complimenti al capo, ma si distinguono lo staff di artigiane, autentiche operaie della sartoria, sempre a rammendare l’orlo di una crisi di nervi, e soprattutto il grandissimo Giancarlo Giammetti, già compagno di Valentino e – da quarant’anni – mente imprenditoriale del gruppo. Fasti, ville faraoniche, sci a Gstaad, cagnolini carlini insopportabili, un lusso incomprensibile che diventa contraddittoria opera d’arte proprio per la sua unicità folle, irraggiungibile dai comuni mortali. Gran bel film, divertente e curioso, se non avete preclusioni ideologiche. (Dvd; 12/2/11)

DDV7403827/828 – Cineforum Cacace: Il monello di Charlie Chaplin, USA 1921 e Le cronache di Narnia: il leone, la strega e l’armadio di Andrew Adamson, USA 2005
Il dilemma del sabato pomeriggio: Elena dorme – finalmente – e bisogna occupare Sofia che invece è carica come una sveglia. Però siccome dopo pranzo abbiamo tutti l’abbiocco e finché la belvetta non si risveglia è meglio recuperare energie… allora cineforum Cacace, alé! Scelgo io il primo film (son papà mica per niente, eh) e Il monello è sempre felicemente patetico, liberatorio e tenerissimo. Ha la sua bella età, ma mi piace senza condizioni e alla fine Sofia si è molto commossa, quasi come me. A margine le vicende reali di Jackie Coogan che ho ovviamente raccontato alla piccina per metterla in guardia: il bambino clamoroso diventerà miliardario, la mamma fedifraga gli fotterà tutto, andranno per vie legali e lui se la caverà con l’aiuto di Chaplin, tra gli altri, per trovare infine pace da adulto facendo lo zio Fester nella famiglia Addams. Sì, è proprio lui, quel simil-Galliani in black and white che schioccando le dita ha resistito nei palinsesti tivù fino DDV7404agli anni Novanta. E vabbeh. Poi il secondo film lo sceglie la primogenita e mi tocca Le cronache di Narnia, pellicola che mi ha straziato l’apparato genitale, con l’apice dell’apparizione della mia nemesi, Tilda Swinton, qui conciata da nefasta principessa del ghiaccio, diafana e bruttissima e sicuramente voce in attivo della produzione non necessitando imbellettamento alcuno per risultare così mostruosa (per la cronaca, con questo tranello si è vinto pure l’Oscar per il miglior trucco). Ad ogni modo siamo durante la Seconda Guerra Mondiale (si scriverà così, in maiuscolo? Cos’ha fatto per meritarselo?) e quattro fratelli scoprono un passaggio verso un mondo parallelo, la cui porta è dentro un armadio. Per cui fanno avanti e indietro tra qui e là e la cosa piace molto a Sofia. A me no – anche perché la visione di un armadio significa: “Metti in ordine il caos stocastico creato dalle tue figlie” – e infatti ho visto il film sonnecchiando un po’ e non so di chi sia la colpa, se della mia stanchezza o della fiacchezza di ‘ste Cronache pallose. (Dvd; 19/2/11)

DDV7405829 – La classe non è acqua: Il circo di Charlie Chaplin, USA 1928
Esattamente come sabato scorso, doppio film e stesso copione: non potendo portare Sofia al circo, porto Il circo a casa. Film meno conosciuto di Chaplin eppure splendido e di una sensibilità rara. Si ride (parecchio), si ammirano l’abilità mimica clamorosa, le gag oliate alla perfezione e il consueto patetismo di fondo che lascia un sentimento struggente. Il Vagabondo rinuncia all’amore, per amore e con amore, una generosità che è stato complicato spiegare a Sofia, comunque conquistata. Ricordavo affascinante e prepotentemente erotica Merna, l’acrobata di cui s’innamora Chaplin e sulla cui inquadratura si apre il film. Avevo ragione: lei oscilla verso la cinepresa, a gambe larghe infilate negli anelli del trapezio, e la sua bellezza anni Trenta, in camicia da uomo, con quel taglio di capelli e quello sguardo, continua a essere un mio feticcio erotico, spia precisa di certe turbe sessuali ampiamente psicanalizzabili. Ma non è questa la sede. (Dvd; 26/2/11)

DDV7406830 – Mah: Le cronache di Narnia: il principe Caspian di Andrew Adamson, USA/Gran Bretagna 2008
Nel primo pomeriggio pretendo il dovere, un Chaplin, e verso sera concedo il piacere di un blockbuster recente. Che trovo più divertente del primo episodio: c’è un’epica battaglia finale, un duello con Sergio Castellitto che si piglia a pattoni con il maggior dei quattro fratelli, e c’è pure Pierfrancesco Favino, nero e fosco, ma meno stronzo di Castellitto (peraltro bravissimo in un ruolo decisamente cartoonesco). Tanta animazione digitale – molto riconoscibile – scene grandiose ma non così grandiose… insomma, è come se mancasse il manico. Voglio dire: Peter Jackson è un geniaccio e nel Signore degli anelli è tutto al top della creatività e della realizzazione, qui manca sempre qualcosa. Poi passa, okay, e per Sofia funziona, ma mi sembra che le lasci poco, a livello d’immaginario. Fa due salti, insomma, ma finito il film, stop. A me – confesso se non si fosse ancora capito – ‘sta saga non piace. (Dvd; 26/2/11)

DDV7407831 – Il volgarmente allusivo Quattro bassotti per un danese di Norman Tokar, USA 1966
È un classico della mia infanzia che – durante l’infanzia, appunto – ho sempre saggiamente evitato. Ma nella vita arriva sempre il momento giusto e me lo vedo a 41 anni suonati. Commedia familiare con cane danese combinaguai perché cresciuto assieme a dei bassotti in realtà più pestiferi di lui: grandi baraonde, case sfasciate, catastrofismo consumistico esibito con compiacimento. Diverte per modo di dire, ma ovviamente le mie figlie apprezzano (ma neanche tantissimo: visto due volte e poi basta, per fortuna), pregustando di ripetere le imprese canine in casa mia. È un ritratto dell’american way of life anni Sessanta, con casa dal doppio garage, giardinetto per barbecue, letti separati, arredamento tra prairie style e Movimento Moderno. Il poliziotto mantiene la quiete, la città è pulita e l’unico problema lo danno, appunto, dei cani. Visione dolciastra e reazionarissima della società: ecco perché gli innocenti hippie facevano tanto paura a gente così. Messo da parte che il titolo è già un’allusione pesante a una scatenata gang bang cinofila, il grosso danese è ovviamente metafora di un pisello enorme e la coppia umana protagonista litiga e non tromba proprio per la fallofobia della moglie. Quando questa accetterà di farsi devastare la vulva-casa dai cinque quadrupedi come da titolo, la pace familiare sarà ricomposta e al posto di avere figli simulacro (come evidenziato dalla prima scena, dove regna l’equivoco che la donna sia incinta) ne faranno uno vero. Però questo me lo sto raccontando io perché il film rimane ‘na gran rottura de cazzo. (Dvd; 5/3/11)

ddv7408832 – Approvo L’armata delle tenebre di Sam Raimi, USA 1992 e combatto i Fascisti su Marte di Corrado Guzzanti, Italia 2006
Visto almeno 18 anni fa al cinema Odeon di Genova, assieme a Barbara in una sala pressoché deserta (ricordo solo un’altra coppia di disadattati come noi): c’eravamo divertiti molto e rivedendo stasera il film con la cugina Ale è facile capire il perché. L’armata delle tenebre è uno spasso sfrenato, infantile, una moltitudine di gag senza tregua. Grana grossa e grande ironia, talvolta un po’ di noia (la seconda parte, dopo l’inizio folgorante e prima del finale epico), ma tutto sommato rimane la piacevole sensazione di vedere un film che il regista si è divertito a fare, pensando ogni volta come stupire lo spettatore con una vaccata più esagerata di quella precedente. Non riesco a fare paragoni con La casa e La casa II che non vedo da troppo tempo, ma qui il gore è diventato commedia slapstick ed è tutto, ma tutto tutto proprio, buttato in caciara comica. Bruce Campbell ha una faccia straordinaria, squadrata e ottusa; la bellona di turno è insignificante; la messa in scena stupisce, con grandangoli estremi e montaggio sincopato, con accelerazioni e parti più classiche. Poi, posso dir tutto, ma Raimi rimane un magnifico discolo, senza aspirazioni “alte” un po’ segaiole alla Coen ma con una più sincera adesione al sense of wonder che il cinema un tempo sapeva dare, senza aver paura di usare trucchi magari riconoscibili ma più veri ddv7409di quelli in CGI. Poi ho visto anche venti minuti di Fascisti su Marte, prima di cedere, schiantato dal peso improponibile del film di Guzzanti. Che è un genio e lo ha dimostrato molte volte in tivù e a teatro, ma che qui toppa clamorosamente, perché uno sketch televisivo che durava (e valeva) a malapena tre minuti non può diventare un film da novanta. L’uso ricercato del linguaggio da Istituto Luce, l’ambientazione folle, i personaggi stralunati e tutto quello che vuoi… ma già al quinto del primo tempo ne hai le palle pienissime, come al terzo cucchiaino di caviale: ottimo, ma stucca e presto subentra la nausea. E poi, a Venezia nel 2003, la sera precedente la prima di Fame chimica c’era la ricca festa di presentazione di Fascisti su Marte, non ancora completato (sarebbe uscito tre anni dopo! Tre!). Ovviamente il bel mondo dello spettacolo italiano e della critica era lì a scofanarsi salatini e cocktail e il mattino dopo alla proiezione di Fame chimica non c’era un giornalista (o presunto tale) a pagarlo. E la faccenda mi ha lasciato un po’ d’amarezza, ecco. Però il problema di Fascisti su Marte è che non c’è un film, ma solo un’idea (e neanche di cinema). E allora se non c’è il film non c’è neanche lo spettatore, mi dispiace. (Dvd; 11/3/11)

ddv7410835 – L’epocale La pantera rosa sfida l’ispettore Clouseau di Blake Edwards, Gran Bretagna/USA 1976
Eeeh, questa è storia patria. Liceo e università son stati scanditi da questo film, spesso accompagnando la visione con dosi generose di erba simpatica. Con immutata stima e fiducia propongo il film a Sofietta che, vista l’età, non ha bisogno di coadiuvanti naturali o chimici al riso e si diverte molto a seguire l’impossibile rivincita dell’ex ispettore capo Dreyfus contro Clouseau, l’uomo che l’ha fatto uscire pazzo. Si parte col ritorno a casa dell’imbranato ispettore; segue un epico duello col domestico Cato in agguato e da lì è un dipanarsi di situazioni farsesche assolutamente spassose. Su tutte spiccano l’interrogatorio tenuto in una casa di campagna (con mazza ferrata in faccia a una possibile testimone) e l’epico confronto finale con Dreyfus, tutti in preda al gas esilarante. In mezzo un po’ di fuffa e qualche gag sorniona ma anche un passo diverso che forse bisognerebbe apprezzare di nuovo, dove il ritmo è dato anche dalle pause e dalle attese, accumulando sapiente tensione comica. Herbert Lom – che interpreta Dreyfus – è eccezionale, isterizzato dalla stolida ma caparbia capacità di Clouseau/Sellers di distruggere tutto, dovunque arrivi, esattamente come Hrundi Bakshi in Hollywood Party o tanto Jerry Lewis. Culto assoluto della mia gioventù, sorvolo su alcune stupidaggini per proclamarlo anche della mia vecchiaia. (Dvd; 26/3/11)

ddv7411840 – Altro che locura: A Single Man di Tom Ford, USA 2009
Una giornata nella vita di un prof di letteratura inglese, gay, che elabora il lutto dell’amante pensando al suicidio. Ma incontra un lolito che sembra Tom Cruise con un lampo d’intelligenza negli occhi e ci ripensa. E poi il resto ve lo scoprite da soli, vedendovi il film, che se no che ci sto a fare qui, io, il cantastorie? Realizzato da un noto stilista americano di cui il mio ricercato guardaroba non conosce testimonianza, A Single Man è ovviamente film raggelato di superba eleganza, composto ai limiti dell’affettazione ed evita la fiera della gaytudine ozpetekiana o di tanto cinema corrente, dove sembri obbligato a fare il pazzeriello se no non rispetti i luoghi comuni etero che vogliono tutti gli omosessuali sfrenatamente affetti da locura. Alla fin fine, è bello da vedere, A Single Man, un po’ meno seguire… ma è un problema mio che mi annoio coi drammoni. E per una bella messa in scena, i dialoghi mi sembrano invece artefatti, ma non giova la traduzione italica tutta impostata e declamata. Vecchio problema, sempre attuale, di solito risolto con l’inverificabile affermazione che “abbiamo i migliori doppiatori del mondo”, un po’ come i portieri per il calcio. Coppa Volpi a Venezia 2009 a Colin Firth, bell’ometto anzichenò. (Dvd; 17/4/11)

ddv7412841 – La mediocrità commerciale de La rapina perfetta di Roger Donaldson, Gran Bretagna 2008
Questa solenne cacata è il classico film che si proclama “basato su una storia vera” e che capisci subito che è inventato di sana pianta: la vicenda è ispirata a una rapina avvenuta nel 1971 (l’11 settembre, tanto per cambiare), di cui mai si son trovati i colpevoli della banda del buco né recuperata la refurtiva, per cui… Comunque furono coinvolti servizi segreti e Scotland Yard, tra verità inconfessabili di politici, rivoluzionari di contorno e della principessa Margret. Mah. Il fatto è che io sono a Genova per la santissima Pasqua, senza il consueto gineceo del Cacace di contorno, e papà ha deciso che si vuol vedere questo crime movie di cui ha ben letto. A torto. Tra l’altro, per non so quale vaccata feng shui il salotto dei miei ospita un’assurda trovata di mia madre: una sorta di fontanella in moto perpetuo che istiga la pisciata compulsiva. Con questa sgradita colonna sonora supplementare vedo mediamente annoiato il prodotto di un regista appassito eppure capace secoli fa di un grandissimo film, Senza via di scampo (erede e remake del bellissimo The Big Clock). Qui, Donaldson ci mette solo arida professionalità e la pellicola è anonima, sicuramente ritmata ma senza cuore né simpatia. Gli attori han facce da cazzo, la ricostruzione storica è di maniera e non ha una briciola del fascino che, per esempio, trovavi nel televisivo Life On Mars. Colonna sonora originale fuori luogo (pomposa e ritmicamente pompata, ‘nammerda) e qualche recupero ovviamente godibile (T.Rex, Kinks), ma mi pare tutto artificiale, “commerciale” nel senso deteriore del termine e le inquadrature inclinate insensatamente mi confermano la natura paracula del prodotto. Mettiamoci poi un doppiaggio dove tutti declamano manco si trattasse di Shakespeare e ho detto tutto. L’apice pestilenziale è dato dalla scena in cui il boss dei rapinatori (l’insipido Jason Statham) va dalla moglie a mollare il malloppo: questi sono braccati dal MI5, dai mafiosi, c’è già scappato il morto e lei gli fa la scenata di gelosia perché paventa il tradimento con una complice… Ma per piacere, vergognatevi: voi che l’avete scritto e tu, proprio tu che l’hai girato. (Diretta Sky HD; 23/4/11)

ddv7413842 – Pure il terzo episodio: Le cronache di Narnia – Il viaggio del veliero di Michael Apted, USA/Gran Bretagna 2010
Ennesimo episodio di queste Cronache, un po’ Signore degli anelli, un po’ stracciamento di coglioni. Al terzo episodio ci si concentra sui fratellini più piccoli, anche perché i maggiori hanno facce grottescamente cambiate (va detto che tutti e quattro i protagonisti son diventati vieppiù orrendi, crescendo). Grandi avventure, tradimenti, conversioni e lieto fine di prammatica. Se hai 6 anni, è azzeccato, e siccome io ormai non ne ho di più, mentalmente, lo vedo con Sofia senza patemi. È il migliore film del terzetto di Narnia: ritmato, colorato, combattuto, senza troppe divagazioni e doppi, tripli, quadrupli finali. Comunque il regista Michael Apted (Incident at Oglala, Gorilla nella nebbia… e un sacco di altre cose) è uno strano: un incrocio incredibile di umanità e arido professionismo, boh. (Dvd; 1/5/11)

ddv7414843 – Inaspettato Fantastic Mr.Fox di Wes Anderson, USA 2009
I Tenenbaum era una stronzata graziata da un innegabile fascino visivo, trucchetto sensoriale che ha guadagnato a Wes Anderson immeritati e superficiali fan. Stavolta il regista ha però una storia di Roald Dahl su cui lavorare, non delle suggestioni scoordinate, e vi applica il suo gusto per il bizzarro, con calligrafismo compiaciuto e – lo concedo – anche qualche svisa intelligente. Ne viene fuori un bel film, una novella per bambini (o quasi) estremamente felice anche per adulti. Musiche intelligenti di Alexandre Desplat, colori intensi, ottime ambientazioni e caratterizzazione dei personaggi riuscita; i dialoghi e alcune situazioni evitano la banalità dei film infantili e – non so se per merito del regista o dell’autore originale – il risultato c’è, nonostante una certa frenata nello sviluppo narrativo a metà film. Molto carino, rivisto più volte grazie all’entusiasmo di Sofia ed Elena. (Dvd; 6/5/11)

ddv7415845 – Io non capisco Guerre stellari – L’impero colpisce ancora di Irvin Kershner, USA 1980
Fiabona bellica, stavolta, che parte subito con una battaglia sulla neve, tipo resistenti finlandesi contro la prepotenza sovietica. Ma forse sono io un po’ fissato. Comunque, a neanche quattro anni dal primo episodio della saga (in realtà quarto: quando all’epoca lo dicevo, nessuno mi credeva), a Luke è cascata la faccia e sembra un vecchio bolso. Yoda (praticamente un pupazzo dei Muppet) lo addestra come Jedi facendogli fare ridicoli esercizi di equilibrismo. Intanto Han Solo ha continue schermaglie d’amore litigarello con la principessa Leila, diventata anche lei un cesso spaziale (e se ripenso poi all’autobiografia di Carrie Fisher intitolata Non c’è come non darla… boh, mi dico: il problema è chi se la prende). Film considerato a posteriori molto riuscito, ha avuto incassi stratosferici: a me pare un po’ una palla al cazzo e neanche un anno dopo arrivava Blade Runner e quella lì sì che era fantascienza adulta, mica questa pappa che potrebbe essere un bignamino di mitologia greca per gli yankee, tanto è ancorata a miti annacquati, a figure retoriche, a prove e ricompense. Mah. Sono evidentemente io sbagliato che non capisco la mistica di Guerre stellari. E giuro che mi farebbe piacere far parte del club, ma non c’è verso, non ci riesco. Comunque al momento del confronto edipico con Darth Fener, dopo la ferale rivelazione, Sofia subito si volta verso di me e mi dice convintissima che non crede che Luke sia suo figlio, che deve essere un tranello. Li educhi al dubbio e questo è il risultato. (Dvd, 19/5/11)

(Continua – 74)

@DzigaCacace usa Twitter male

Qui altre Divine Divane Visioni, pensate

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Inside Dave Van Ronk https://www.carmillaonline.com/2014/03/04/inside-dave-van-ronk/ Mon, 03 Mar 2014 23:10:11 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=13164 di Sandro Moiso

llewyn davis Ancora un film americano

L’ultima fatica cinematografica dei fratelli Coen, Inside Llewyn Davis1 , non appartiene certamente alle opere più importanti dei due autori americani, ma riesce comunque a trasmettere l’immagine e le contraddizioni di un’epoca e di un ambiente che hanno segnato in maniera significativa l’evoluzione della musica americana moderna. L’epoca è quella compresa tra i primi anni cinquanta e la seconda metà degli anni sessanta del secolo appena trascorso, mentre l’ambiente è quello dei musicisti del folk revival del Greenwich Village di New York.

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di Sandro Moiso

llewyn davis
Ancora un film americano

L’ultima fatica cinematografica dei fratelli Coen, Inside Llewyn Davis1 , non appartiene certamente alle opere più importanti dei due autori americani, ma riesce comunque a trasmettere l’immagine e le contraddizioni di un’epoca e di un ambiente che hanno segnato in maniera significativa l’evoluzione della musica americana moderna. L’epoca è quella compresa tra i primi anni cinquanta e la seconda metà degli anni sessanta del secolo appena trascorso, mentre l’ambiente è quello dei musicisti del folk revival del Greenwich Village di New York.

Al centro delle vicende, che si sviluppano nell’arco di pochi giorni, si staglia la figura di Llewyn Davis, musicista e cantante folk di origine irlandese, spiantato, costantemente indeciso tra il proseguire una poco significativa carriera artistica oppure riprendere il mare come membro dell’ equipaggio di qualche nave mercantile. Un proletario della cultura, insomma, costantemente a caccia di un impiego sia sotto forma di ingaggio in qualche locale oppure sotto quella di un nuovo e migliore contratto discografico oppure, ancora, a bordo di una nave destinata a solcare i mari del mondo.

Proletario nelle origini e nell’attitudine, comunista per scelta, come rivela in un momento del film, e disperato intrattenitore di pubblici distratti nei café newyorchesi oltre che sfigatissimo tombeur de femmes. Un personaggio spesso antipatico, scomodo come quasi sempre sono i protagonisti della cinematografia dei Coen, ma dotato di una sua intrinseca coerenza. Soprattutto nel rifiutare tutto ciò che potrebbe limitarne la libertà espressiva e di movimento.

Tra un viaggio a Chicago, in compagnia di un musicista jazz sarcastico e tossicomane (interpretato dal solito bravissimo John Goodman), e svariate incursioni, a caccia di qualche dollaro, in una casa discografica legata alla musica tradizionale (in cui è facile individuare la Folkways Records di Moses Asch) ed incapace di promuovere adeguatamente i giovani artisti, il personaggio interpretato da Oscar Isaac corre contro tempi ed eventi che sembrano costantemente sfuggirgli di mano.

Anzi, che sembrano proprio prendersi gioco di lui. Troppo in anticipo sul rinnovamento del folk, che avverrà poi con altri nomi ed altri musicisti, ma allo stesso tempo troppo in ritardo con il suo gusto per una musica prodotta quasi artigianalmente. In tempi di musica ed artisti prodotti, poi, industrialmente. E in cui una critica troppo sincera e tutt’altro che allusiva può essere ripagata con una gran scarica di pugni da parte di un marito adirato e violento.

Tempi in cui il suicidio poteva costituire la “soluzione del problema”, l’estrema risorsa contro la sconfitta e la delusione. Così la figura dell’amico suicida, presa a prestito dai tanti folksinger che decisero così di troncare la loro vita negli anni sessanta (Peter La Farge, Phil Ochs, Paul Clayton) accompagna le vicende del protagonista, che sembra, in più di un momento, pensare alla stessa soluzione per sfuggire ai suoi fantasmi, alla delusione artistica e alle difficoltà economiche.
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Ritagliato sulla figura di Dave Van Ronk, colui che fu descritto come il sindaco del Greenwich Village o, almeno, di quelle vie dedicate ai locali dove si suonava musica folk ( MacDougal Street e Bleecker Street) e dallo stesso Dylan come “il re e il signore indiscusso” di quella zona di Manhattan che gravitava intorno a Washington Square, il film ne ripercorre, sintetizzandoli, alcuni momenti topici della carriera. Avvicinandoli nel tempo e dando loro quel tocco di tristezza e di dramma che spesso fa sì che le commedie di Joel ed Ethan Coen lascino quasi sempre in bocca al pubblico il sapore amaro della sconfitta personale e dell’errore inevitabile.

E proprio questo sapore amaro accompagnato, però, da un’abbondante dose di ironia e di cinismo avvicina i fratelli Coen allo spirito dell’autentico Van Ronk e, forse, anche al sano materialismo privo di fronzoli e di orpelli inutili che ne hanno sempre caratterizzato sia le scelte musicali che di vita. Come ben dimostra la sua autobiografia recentemente pubblicata in Italia da Rizzoli2 .

Ancora un libro

Io sono un marxista e un materialista” (pag.367). Da questa netta affermazione, probabilmente inaspettata per la gran parte di coloro che si interessano alla musica americana, occorre iniziare per comprendere il senso della ricerca musicale di Dave Van Ronk, spentosi nel 2002 all’età di sessantasei anni, e del giudizio che egli dava della società e dell’ambiente musicale in cui e con cui si trovò a vivere e convivere.

manhattan folk La cifra politica, infatti, segna tutta la sua esperienza, fin dagli anni cinquanta. Ripercorrere attraverso la sua penna, e quella dell’amico Elijah Wald che ha dovuto completarne la biografia dopo la sua dipartita, gli anni che vanno dai tempi del senatore McCarthy a quelli della Nuova Sinistra degli anni sessanta e anche oltre, significa entrare in una sorta di caleidoscopio di sigle ed intenzioni che potranno sorprendere molti lettori.

Van Ronk ci guida attraverso le sue esperienze prima nel movimento anarchico, poi tra i rimasugli degli Industrial Workers of the World fino alla sua adesione al trotzkismo e al comunismo di sinistra, senza mai interrompere il suo più totale rifiuto di ogni forma di stalinismo. E dei prodotti culturali che ne derivavano. Il tutto, però, condotto con animo, allo stesso tempo, cinico e gentile; completamente privo di qualsiasi retorica partitocratica o intellettualistica.

Così come cantava, parlava questo perfetto esempio di newyorchese nato a Brooklyn nel 1936 e morto nella stessa città. Basti qui riportare un episodio, per capirne lo sguardo e l’esperienza che ebbe modo di farsi in un ambiente in cui la memoria delle rivoluzioni europee dei primi decenni del XX secolo erano ancora molto vivaci. “Un bavarese di nome Franz, che aveva fatto parte del movimento sindacale in Germania, mi raccontò di essere stato a Monaco al tempo dell’assalto al parlamento. Qualcuno gridava «Compagni! Dobbiamo mantenere l’ordine rivoluzionario. Non calpestate le aiuole». E tutti questi tizi, armati di fucile e quant’altro, si tolsero dall’erba e si misero in fila sui vialetti lastricati. Nel frattempo, all’altra estremità del vialetto, li attendevano le mitragliatrici. Franz si accorse di cosa stava accadendo, mollò il fucile e si incamminò nella direzione opposta. Andò fino ad Amburgo, salì su una nave e venne in America. Ma da quella esperienza, diceva, la classe operaia tedesca si era ritagliata un posto speciale nel suo cuore…” (pag. 75)

La prima vera scoperta della tradizione musicale folcloristica americana avvenne infatti negli anni che precedettero la seconda guerra mondiale, durante la Grande Depressione. Soprattutto nell’ambiente degli immigrati e del Partito Comunista Americano. “Il Partito comunista ebbe un ruolo chiave nella nascita di questo movimento musicale; (Woody) Guthrie per un po’ tenne persino una rubrica tutta sua sul «Daily Worker» (il quotidiano del partito). Ma dall’altro creava non pochi e trascurabili problemi. Tanto per cominciare c’erano i vari avvicendamenti negli incarichi politici, per cui i membri degli Almanac Singers si ritrovavano a cantare un pezzo antimilitarista come Plow Under o altri contro l’ingresso degli Stati Uniti nella Seconda guerra mondiale durante il patto Molotov-Ribbentrop per poi gettare tutto dalla finestra per intonare canti patriottici militaristici inneggianti alla guerra quando la Germania invase l’Unione Sovietica” (pag. 68).

Questa esperienza, soprattutto quella degli Almanac Singers, avrebbe fortemente segnato la generazione di folksinger precedente quella di Van Ronk e di Dylan. E fu questa la linea di demarcazione che divise per anni dal nuovo movimento folk un personaggio come Pete Seeger. Che era ritenuto da tutti quei giovani musicisti un autentico padre putativo, ma che tardò a riconoscerli come suoi legittimi eredi, anche quando negli anni sessanta gli stessi presero le sue difese per permettergli di rientrare nel mondo della radiodiffusione e della televisione americana, da cui era ancora escluso come ai tempi di Joseph McCarthy.

Ma quello che avvenne nei locali e nelle strade del Greenwich, intorno a quella Washington Square che divenne un po’ la palestra all’aria aperta per un’intera generazione di folksinger, nel periodo narrato da Van Ronk fu ancora qualcosa di diverso e di più radicale, dal punto di vista musicale.
La prima riscoperta della tradizione orale e musicale americana aveva privilegiato le tradizioni dei lavoratori e le canzoni di lotta. Spesso questo aveva mantenuto invariata la separazione tra musica bianca e nera. I neri come Leadbelly e Josh White erano ben accetti principalmente quando attraverso i canali culturali del partito comunista prestavano la loro voce alla tradizione musicale bianca e, possibilmente, impegnata.
dylan e van-ronk I giovani “bianchi” del Greenwich, però, scelsero un altro approccio. Magari con scarse attitudini musicali, ma con tanta voglia di cambiare decisero che tutto il patrimonio della musica popolare americana andava salvaguardato. Se da un lato era quindi possibile risalire alle origini inglesi ed irlandesi di quella musica, dall’altra il blues e il jazz ne facevano anche indiscutibilmente parte. Così, mentre Bob Dylan costruiva il suo primo, vero successo, “A Hard Rain’s A-Gonna Fall”, sull’aria della vecchia ballata inglese “Lord Randall”, altri iniziarono ad andare a cercare i grandi esecutori di blues ascoltati sui vecchi dischi a 78 giri per portarli a suonare nei locali dove si suonava musica folk.

E anche se i primi ad avere successo furono dei gruppi bianchissimi come il Kingston Trio, tutto ciò aprì la strada alla riscoperta del blues in tutte le sue forme da un lato e alla nuova canzone cantautoriale dall’altro. Così mentre vecchi bluesman come Mississippi John Hurt, Skip James, Gary Davis e Lightnin’ Hopkins, solo per citarne alcuni, iniziavano a calcare le scene del Gaslight, dall’altra nuovi personaggi come Joni Mitchell, Leonard Cohen , Phil Ochs iniziavano a diventare le star del circuito folk.

Dave attraversò tutto il periodo e ne attraversò tutte le tendenze: dalla riscoperta del jazz tradizionale al folk anglo-irlandese, passando per le jug band e le canzoni composte da Kurt Weil e Bertolt Brecht fino a Woody Guthrie e al blues, in cui fu particolarmente favorito dalla sua voce.
E quel brontolio profondo nella mia voce? Amico mio, sono asmatico. Più il tempo è brutto, più la mia voce è rauca e rasposa. E’ fantastico. Nasconde tutti i difetti” (pag. 231) ebbe modo di rispondere ad un giornalista che lo intervistava.

Anche se per Van Ronk “fu senza dubbio il successo di Bobby (Dylan) a mettere in moto il cambiamento. Fino ad allora il movimento folk era ancora molto legato alla tradizione, tanto che gli autori a volte spacciavano le proprie composizioni per pezzi tradizionali. Per certi versi, quindi, la cosa più importante fatta da Bobby non fu scrivere le canzoni, quanto dimostrare che era possibile scriverle” (pag. 341).

Innamorato delle belle canzoni, che spesso per lui non coincidevano con quelle impegnate o politiche, il nostro interprete dalla voce spesso cavernosa quanto quella di Tom Waits, non si preoccupò mai di avere un futuro come autore, ma si preoccupò sempre della qualità dell’esecuzione e del mantenere la propria personalità. Come quei bluesman neri cui riservò sempre la più grande ammirazione. “Il mondo che aveva generato quelle personalità non esiste più da parecchio tempo. Già all’epoca i musicisti più anziani sembravano spesso emissari di un’era mitica e ormai svanita […] (Ma) in fondo si trattava di uomini e donne adulti, e sapevano benissimo chi erano. E quella era una delle caratteristiche più importanti della loro musica, che la ragione stessa per la quale erano diventati famosi: suonavano e cantavano come persone che sapevano chi erano. Non era gente facile da impressionare. Non importa poi molto se sei un bracciante del Texas o un laureato di Harvard: se non sai chi sei, sei perso, a prescindere da dove finisci. Se invece lo sai, non ci sono problemi” (pp. 332 – 333).

Quando si trattava di musica politicamente impegnata, il mio sguardo si faceva altrettanto critico anche rispetto ciò che veniva scritto intorno a me. Avevo l’impressione che nessuno si fosse mai lasciato convincere di essere nel torto semplicemente ascoltando una canzone; in sostanza, quando scrivi una canzone di argomento politico, stai predicando a un coro di convertiti. Ovvio però che al coro servono canzoni e poi, quando un gruppo si ritrova a cantare insieme, i suoi membri diventano più solidali gli uni con gli altri […] ho sempre pensato che la politica è politica e la musica è musica. Brecht era stalinista, ma le sue migliori canzoni non sono staliniste.[…] E parlando di Paxton, Ochs o Dylan, le loro canzoni mi piacevano quando erano ben scritte, indipendentemente da ciò che dicevano, mentre quando non erano ben scritte non mi interessavano” (pag. 346)
dave_van_ronk In queste, e in molte altre osservazioni, sta la bellezza di una testimonianza quasi unica sulla musica folk americana e sull’ambiente politico e culturale che l’ha prodotta.

Alcune indicazioni di carattere discografico

Nonostante lo scarso successo commerciale, la discografia di Dave Van Ronk è piuttosto estesa e disseminata tra varie case discografiche (Folkways, Prestige, Verve Forecast, Polydor, Philo solo per citarne alcune), anche se di difficile reperibilità essendo ormai quasi tutta fuori catalogo. Per iniziare a farsi un’idea dello stile e del genere musicale vale forse la pena di ascoltare la colonna sonora del film dei Coen, prodotta e arrangiata dal solito, autorevole e bravissimo T-Bone Burnette, per poi passare a qualche antologia ancora reperibile come: Down in Washington Square, The Smithsonian Folkways Collection, Smithsonian Folkways 2013 oppure la classica raccolta Inside Dave Van Ronk, che dovrebbe ancora essere reperibile in edizione Prestige, o, ancora, i suoi ultimi dischi per la Philo come il bellissimo Sunday Street, ristampato nel 1999 dalla Rounder Records. Buon Ascolto… e buona lettura!


  1. in Italia A proposito di Davis  

  2. Dave Van Ronk e Elijah Wald, Manhattan Folk Story. Il racconto della mia vita, Rizzoli 2014, pp. 422, euro 18,00  

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