Jimmy Carter – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 31 Jul 2025 08:49:34 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Oscar Arnulfo Romero: un martire civile / seconda parte https://www.carmillaonline.com/2017/08/16/oscar-arnulfo-romero-un-martire-civile-seconda-parte/ Tue, 15 Aug 2017 22:01:47 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=39108 di Paolo Bruschi

Monsignor Romero, in quel disastro sociale e politico, aveva deciso di stare dalla parte del suo popolo. E di portare avanti la causa degli ultimi, come Cristo gli aveva insegnato. Non professava nessuna fede marxista, era anzi un sacerdote ortodosso, considerato mite e conservatore, tanto che prima di diventare primate di El Salvador, nel febbraio 1977, faceva fatica ad accettare i grandi cambiamenti e aperture del Concilio Vaticano II e vedeva con sospetto i primi virgulti della Teologia della liberazione in America Latina: tutte ottime credenziali per essere accolto [...]]]> di Paolo Bruschi

Monsignor Romero, in quel disastro sociale e politico, aveva deciso di stare dalla parte del suo popolo. E di portare avanti la causa degli ultimi, come Cristo gli aveva insegnato. Non professava nessuna fede marxista, era anzi un sacerdote ortodosso, considerato mite e conservatore, tanto che prima di diventare primate di El Salvador, nel febbraio 1977, faceva fatica ad accettare i grandi cambiamenti e aperture del Concilio Vaticano II e vedeva con sospetto i primi virgulti della Teologia della liberazione in America Latina: tutte ottime credenziali per essere accolto con molto favore dalla cricca che controllava il Paese. Ma poi, davanti alle atrocità quotidiane compiute ai danni dei più indifesi, iniziò a puntare il dito contro il governo e le milizie, muovendo accuse precise e circostanziate. Senza mai fomentare la violenza e anzi chiedendo esplicitamente ai suoi concittadini che la risposta non fosse l’odio o il desiderio di vendetta.

Naturalmente l’oligarchia cambiò in fretta opinione sul conto dell’arcivescovo. E le minacce di morte cominciarono a fioccare anche sulla sua testa. Ma pur con le spalle al muro, Romero non rinunciò a lottare, e anzi si mise a scomodare i massimi sistemi:
il 17 febbraio 1980 prese carta e penna e scrisse una lettera all’allora presidente degli Stati Uniti, Jimmy Carter, nella quale fra le altre cose chiedeva al Potus:1

Garantisca che il suo governo non interverrà direttamente o indirettamente con pressioni militari, economiche e diplomatiche nella determinazione del destino del popolo salvadoregno.

Ma già il 24 marzo, Carter non avrebbe avuto alcun interlocutore a cui rispondere.

Per due volte si recò anche da Giovanni Paolo II, ma in entrambe le circostanze non riuscì a convincere il papa polacco della sua condotta, e soprattutto a farsi difendere.
Durante le due udienze Wojtyla gli raccomandò genericamente di prodigarsi per migliorare le relazioni col proprio governo: il neo papa si rivelò deciso a glissare su come agivano quei politici, senza farsi carico in prima persona di quanto stava accadendo a una parte del (suo) clero, e in generale alla martoriata popolazione di El Salvador.

Così scrisse lo stesso Romero nel suo diario dopo la prima visita, nel maggio del 1979, alla quale si recò portando in dote voluminosi faldoni pieni di documenti e fotografie, alcuni dei quali facevano riferimento agli omicidi di sacerdoti:

Mi raccomandò molto equilibrio e prudenza, soprattutto nel fare denunce concrete, e che era meglio mantenersi ai principi generali.

Ma di fronte all’uccisione di prelati e di gente inerme, Romero trovò più cristiano elencare, durante le sue omelie, i nomi di vittime e carnefici, piuttosto che attenersi a “principi generali”.

Dopo la seconda udienza, avvenuta il 16 gennaio 1980, a poco meno di due mesi dal suo omicidio, Romero scrisse, sempre sul diario:

Mi disse che lo preoccupava il ruolo della Chiesa, che avremmo dovuto prendere in considerazione non solo la difesa della giustizia sociale e l’amore per i poveri, ma anche l’eventuale risultato di uno sforzo rivendicativo popolare di sinistra, che poteva arrecare danno alla Chiesa.

D’accordo difendere i poveri e la giustizia sociale, insomma, ma se questo poteva creare problemi alla Chiesa perché considerato di sinistra, allora era forse meglio lasciar stare.

La morte annunciata di Romero, purtroppo, non servì a nulla. I fatti anzi precipitarono, tanto che molti storici identificano l’inizio della guerra civile in Salvador proprio con quell’omicidio.
Con l’ingresso ufficiale della guerriglia nel panorama politico, le operazioni degli squadroni della morte si intensificarono insieme a quelle, nemmeno troppo nascoste, delle forze regolari salvadoregne: l’esercito e gli organismi di polizia presenti all’epoca (la Guardia Nacional, la Policia Nacional e la Policia de Hacienda).

Istituzioni appartenenti al governo, dunque, si macchiarono di delitti di stampo terroristico, alcuni dei quali talmente efferati da guadagnarsi il titolo di massacri. Il più ripugnante dei quali avvenne tra il 10 e il 12 dicembre 1981 nel villaggio di El Mozote (municipio di Arambala, dipartimento di Morazán) e nei suoi dintorni: i soldati del Battaglione Atlacatl, un’unità specializzata dell’esercito salvadoregno, entrarono nei villaggi contadini, considerati arbitrariamente fiancheggiatori della guerriglia. Divisero donne, uomini e bambini. Agli interrogatori e torture seguirono le esecuzioni sommarie. E infine lo scempio dei cadaveri, orrendamente mutilati o bruciati. Prima di andarsene, le bestie dell’Atlacatl lasciarono un cartello appeso a un muro del villaggio:

Qui è passato l’Atlacatl, il papà dei sovversivi, Seconda Compagnia. Ve la siete presa in culo, figli di puttana. Se vi mancano le palle, chiedetele per corrispondenza al battaglione Atlacatl. Noi angioletti dell’inferno torneremo perché vogliamo terminare il lavoro.

Ma in realtà c’era poco da terminare.
Nel volgere di due soli giorni, l’intera popolazione di tre villaggi era stata cancellata. Soltanto una donna miracolosamente si salvò: le uccisero il marito e quattro figli.
In totale la strage di El Mozote, il più grande massacro di civili perpetrato nel continente americano durante il ventesimo secolo, lasciò sulla nuda terra i corpi di circa 1.000 salvadoregni (molti corpi non furono mai identificati): cittadini inermi, tutti assassinati dall’esercito della propria nazione. Tra essi, furono ammazzati come cani almeno 400 bambini, alcuni ancora in fasce e strappati ai seni delle loro madri.
L’intero battaglione Atlacatl, circa 1.200 uomini, fu creato, addestrato ed equipaggiato dal governo degli Stati Uniti alla School of the Americas.

Quando i responsabili di tali stragi vennero alla luce, ormai era troppo tardi: D’Aubuisson nel 1981, in piena guerra civile, aveva fondato il partito di destra Arena, e per pochi voti perse le elezioni presidenziali del 1984 (morirà nel 1994 per un cancro alla gola). Ma Arena riuscirà, a partire dal 1989, a governare il Paese per i successivi 20 anni.
Una delle più controverse leggi fatta approvare quando salì al potere, appena il conflitto intestino ebbe termine, fu l’amnistia nazionale per i crimini di guerra, nel marzo del 1993.

Nessuno ha mai pagato per tutto questo.

Appendice.

Papa Woytila, in occasione del Giubileo del 2000, ebbe la faccia tosta di citare ancora Romero nel testo della “celebrazione dei Nuovi Martiri”, riprendendo quanto aveva scritto il giorno della sua morte alla Conferenza Episcopale salvadoregna: “Il servizio sacerdotale della Chiesa di Oscar Romero ha avuto il sigillo immolando la sua vita, mentre offriva la vittima eucaristica.

La causa di beatificazione dell’arcivescovo, rimasta ferma per anni, fu sbloccata dall’intervento di Benedetto XVI il 20 dicembre 2012, e in seguito proseguita da Papa Francesco che, con proprio decreto del 3 febbraio 2015, ha infine riconosciuto il martirio in odium fidei di monsignor Romero, che è stato elevato strumentalmente alla gloria degli altari, come beato, il 23 maggio 2015. Strappandolo, letteralmente, dal novero delle altre migliaia di vittime della repressione fascista e dell’oppressione imperialista cui avrebbe dovuto essere più autenticamente e significativamente accomunato.[S.M.]

(Fine)


  1. Acronimo che in inglese sta per President Of The United States  

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Non c’è crisi in Paradiso. Paradossi e identità di classe nell’America di Obama e di Trump – Prima parte https://www.carmillaonline.com/2016/10/01/non-ce-crisi-paradiso-paradossi-identita-classe-nellamerica-obama-trump/ Fri, 30 Sep 2016 22:01:43 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=33564 di Fabrizio Salmoni*

usa-1 Le cronache elettorali dagli Usa dipingono superficialmente la campagna per le presidenziali come se fosse un evento sportivo. Cosi facendo, il giornalismo italiano si conforma a quello internazionale contribuendo ad assuefare le menti all’idea che anche uno degli eventi politici più importanti per il mondo sia uno spettacolo in cui contano i singoli individui, i loro errori, i loro umori, le cartelle cliniche. Ai candidati si attribuiscono i favori o le preferenze di ampie categorie del corpo civile: le minoranze, le lobbies, le etnie, la comunità finanziaria, quelle religiose, i gruppi sociali peculiari dei vari Stati, ecc. [...]]]> di Fabrizio Salmoni*

usa-1 Le cronache elettorali dagli Usa dipingono superficialmente la campagna per le presidenziali come se fosse un evento sportivo. Cosi facendo, il giornalismo italiano si conforma a quello internazionale contribuendo ad assuefare le menti all’idea che anche uno degli eventi politici più importanti per il mondo sia uno spettacolo in cui contano i singoli individui, i loro errori, i loro umori, le cartelle cliniche. Ai candidati si attribuiscono i favori o le preferenze di ampie categorie del corpo civile: le minoranze, le lobbies, le etnie, la comunità finanziaria, quelle religiose, i gruppi sociali peculiari dei vari Stati, ecc. Un minestrone di ingredienti indistinti in cui le classi sociali vengono identificate essenzialmente con la dicotomia colletti blu e bianchi e “mondo delle imprese” (corporate world) mentre di middle class si parla per segnalarne la centralità “elettorale”, la perdita di potere d’acquisto, la sua discesa nella scala sociale.

Chi qui in Europa segue più attentamente le cronache della contesa americana con un occhio criticamente smaliziato non può evitare di notarne il paradosso più evidente: un elettorato fatto prevalentemente di bianchi poveri a forte componente operaia e contadina voterà in massa contro i propri interessi per un candidato miliardario portandolo probabilmente alla presidenza. Come può accadere? Cosa può aver rovesciato i tradizionali ruoli di rappresentanza politica tra i due maggiori partiti? Non sono forse i Democratici ad avere sempre rappresentato, dalla fine della Ricostruzione post Guerra Civile, lo stato sociale, i sindacati, le minoranze affamate di riconoscimento e diritti civili, la cultura inclusiva, insomma l’anima “progressista” della nazione mentre i Repubblicani si sono sempre connotati come i difensori del laissez faire economico, come rappresentanti delle corporation, del big business, e infine del capitalismo finanziario selvaggio e globale? Come è possibile che un proletario, indebitato fino al collo, privo di garanzie sindacali, di assistenza sanitaria, di garanzie pensionistiche, con la minaccia dell’ipoteca bancaria sulla casa, con i figli sempre più condannati dal lavoro precario e sottopagato a rimanere bloccati nella scala sociale malgrado le promesse del sogno americano, si schieri con la parte politica che per propria natura gli nega un’esistenza dignitosa?

La dura verità è che a partire dagli anni della presidenza di Ronald Reagan, della prescrizione-shock dei controllori di volo, del completamento della ridefinizione globale degli interessi capitalistici, del crollo dei salari, delle riduzioni fiscali, ha preso slancio un ribaltamento culturale senza precedenti che ha portato a fratture su linee trasversali del corpo sociale e a soluzioni politiche basate su argomenti che fino ad allora risultavano sovrastrutturali. Gli effetti di tale “rivoluzione culturale” (si, di questo si è trattato) sono stati la sostituzione in molti stati del Sud e del Midwest delle maggioranze Democratiche con amministrazioni Repubblicane e le presidenze Bush, padre e figlio, con l’emergenza di una solida classe dirigente neo-con. I due termini di Clinton non hanno invertito la tendenza, anzi con le sue ambiguità in politica sociale e il varo del trattato commerciale Nafta che ha interessato tutto il Nord America (Messico compreso) proprio il Democratico Clinton ha contribuito ad alimentare, il processo in atto, ancora prima che l’11 settembre aggravasse la situazione.

Protagonisti passivi di tale cruciale capovolgimento politico sono i ceti proletari nuovi e vecchi costituiti dai lavoratori salariati dell’industria e dei servizi, i piccoli agricoltori e allevatori impoveriti dal crollo dei prezzi e indebitati con le banche,1 i neo-urbanizzati dagli anni Settanta sradicati dalle comunità rurali di origine e immessi nei bassi ceti impiegatizi ora ricacciati indietro nella scala sociale dalla nuova crisi economica, i rednecks (operai, lavoratori artigiani e padroncini), i salariati dei ranch. Gente che vive le trasformazioni che la investono con un forte senso di perdita: di identità e ruolo sociali, di status economico, di radici culturali che la nuova collocazione non riesce a sanare. Anzi, peggiora man mano che i cambiamenti la travolgono. E a quel senso di perdita si aggiungono prima le ansie, poi la rabbia, poi necessariamente la ricerca di vie di fuga nel proprio piccolo, nell’alienazione, nella ricerca spirituale, nel volgersi con nostalgia al passato, ai “vecchi tempi” che erano sempre duri ma avevano delle soluzioni, delle vie d’uscita dignitose.

usa-2 Tutti questi attori sono collocati geograficamente per la gran parte nella cosiddetta Heartland, cioè il cuore d’America, il vasto territorio che include indicativamente il Sud storico, il Sud Ovest, il Midwest. Un’area storicamente determinante per le lotte contadine culminate tra il tardi 1880 e la prima metà dei 1890 con la rivolta Populista contro le banche, i poteri economici, le politiche monetarie, e con significative agitazioni operaie a cavallo dei due secoli. Un’area a grandi linee appartenente alla tradizione Democratica fino alla Presidenza Johnson e, con l’intervallo dell’esperienza Nixon, a quella di Jimmy Carter. Ai due lati della Heartland, le due coste con le loro ricche enclavi: il nord est e la California.

Cosa è successo da allora?

Non tutti gli analisti si sono resi conto di quanto stava accadendo: ancora nel 2006 un team di eminenti professori di statistica politica annotava una singolare polarizzazione nelle scelte dell’elettorato ma riteneva con tipico ottimismo che le “tendenze disturbanti” avrebbero trovato soluzione nella parte moderata della classe politica, giudicando transitorio il predominio Repubblicano e gli spostamenti elettorali. Tuttavia il loro studio riscontrava che il reddito o la ricchezza non incidevano sulle scelte politiche tanto quanto i temi locali mentre l’elettorato si divideva meno che mai dai tempi del New Deal su temi occupazionali o sull’apparteneza di classe. Allo stesso tempo, pur rilevando che la crescita della sensibilità religiosa non stava soppiantando le tematiche economiche ammettevano che “non si sentivano di escludere che ciò avrebbe potuto accadere“. 2

Le presidenziali del 2004 che diedero la seconda vittoria a George W. Bush avevano fatto registrare un’inquietante variante di peso decisivo: il 22% dei votanti aveva espresso ai sondaggisti di aver dato la prevalenza per la scelta nelle urne ai “valori morali” su ogni altra cosa. Poco prima, tredici Stati avevano votato contro la legalizzazione dei matrimoni tra contraenti dello stesso sesso: “Guns, God and gays” divennero la convenzionale spiegazione per la vittoria di Bush. Allo stesso tempo si manifestava un’altra anomalia: gli Stati più ricchi si configuravano come Democratici, quelli poveri come Repubblicani.

L’emergenza dei Tea Parties , organizzazioni informali su base popolare, che hanno cercato di condizionare le elezioni del 2008 addirittura esprimendo un candidato Repubblicano (Sarah Palin) alla vicepresidenza rivelavano il peso crescente di un vasto strato di elettorato posizionato a destra, a forte connotazione religiosa, favorevole all’isolazionismo in politica estera e alla riduzione della presenza federale nelle decisioni degli Stati. Un altro segnale, forse sottovalutato, dei cambiamenti in atto tra la gente.

Ma quali fattori hanno determinato il cambiamento politico epocale che sembra aver trasformato il corpo sociale d’America?

usa-7bis L’elemento primo è stata la pesante manipolazione culturale intrapresa dai settori militanti della destra, indirizzata a saldare i “valori morali”, cioè quell’insieme di sensibilità provenienti dal buon senso della “gente comune” (la casa, la famiglia, il lavoro duro, ecc. ) e dalle tradizioni popolari peculiarmente americane (l’aspirazione al miglioramento inevitabile delle proprie condizioni conseguito con le proprie forze, la libertà estesa, il senso religioso, l’orgoglio nazionalistico, la convinzione di poter riuscire a conservare solo quello per cui ci si è in qualche modo battuti), con la sistematica cancellazione del fattore economico dalla lista delle cause della propria condizione. Al punto che per gli ultraconservatori il tema dell’agire del settore imprenditoriale o finanziario è venuto di proposito a cadere come soggetto di discussione. Per essi il business (e il conseguente profitto) è normale, naturale, va oltre la politica; il libero mercato è qualcosa di immanente e necessario che determina le condizioni del successo individuale o professionale. E’ materia fuori discussione. Se si è poveri le cause vanno cercate nella dissoluzione del sogno americano a opera di chi lavora costantemente per demolirlo: i “liberals” con i loro privilegi, il controllo del governo, della burocrazia, di Wall Street, della cultura, dei media, i loro costumi degenerati, il rifiuto laico di Dio e dei Comandamenti, l’ipocrisia del politically correct, l’ambientalismo ideologico, le mode effimere, il caos della grande città.

Ecco, il capolavoro di tutto questo lungo lavorio è stato essere riusciti a dichiararsi “popolo”, ad identificarsi con quello, a identificare un nemico diverso da quello economicamente naturale, ad escludere qualsiasi critica al sistema economico ma allo stesso tempo perseguendo con i propri rappresentanti e candidati nazionali e locali politiche favorevoli al big business, alla deregulation, al taglio dei salari. La destra repubblicana ha fatto leva sull’associazione tra orgoglio individuale (Voi siete il sale della terra, il cuore battente d’America che tira la carretta…) e vittimismo narcisistico (…eppure siete trattati oltraggiosamente male), sull’indirizzo delle ansie quotidiane e dell’odio per tale condizione verso i liberals (leggi Democratici). Se poi le aziende chiudono, licenziano, se la terra coltivata viene espropriata o devastata dagli oleodotti o supersfruttata dalle coltivazioni intensive, se i prezzi salgono per garantire il massimo profitto della grande distribuzione che spreme fornitori e dettaglianti e li conduce al disastro, quella è la legge del mercato, della concorrenza, icone dello spirito americano e componenti del successo individuale. E’ la dura realtà con cui tocca confrontarsi e con cui si crea il benessere per tutti. Se poi i politici Repubblicani promuovono leggi e normative a favore di cartelli affaristici locali, agribusiness e corporation, l’argomento rientra nel campo della “politica”, tema di per sé complicato e odioso da discutere, o nella logica sacrosanta del libero mercato.

usa-3 I fantasmi da scacciare stanno nella retorica liberal che minaccia l’autenticità stessa della way of life americana, nella società malata di criminalità, immigrazione, aborto, biotecnologia, droga, pornografia, diritti civili per chi non li merita, privilegi per i ricchi, matrimoni omosessuali. Un quadro completo in cui convogliare i ceti più poveri e meno istruiti su parole d’ordine da usare in sede politica per guadagnare terreno ma anche per creare una gabbia culturale da cui non si riesce più a evadere. Mentre nella stanza vicina si fanno affari.

Significativo per paradossale contraddizione il caso del Freedom to Farm Act, una legge promossa nel 1996 dal senatore Repubblicano Pat Roberts del Kansas e da altri rappresentatnti locali dello stesso partito, nominalmente per aiutare i coltivatori a competere efficacemente sul mercato dei prodotti agricoli revocando le normative di origine New Deal per la protezione dei prezzi: grazie a quella legge gli agricoltori avrebbero avuto la libertà di coltivare qualsiasi cosa in qualsiasi quantità affidandosi al mercato per spremere i prezzi migliori: cosi finalmente si toglieva di mezzo il governo dalla libertà di operare secondo i propri mezzi. Il risultato fu di provocare una letale spirale di sovrapproduzione che in pochi anni mandò sul lastrico i piccoli produttori favorendo cosi i grandi dell’agribusiness ADM, Cargill, ConAgra. Non un disastro sociale, per i Repubblicani, ma un’esemplare “ristrutturazione dell’industria alimentare” per avere maggiore flessibilità ed efficienza della distribuzione, una vittoria della libertà sulla “ingombrante sussidiarietà governativa”. Un cambiamento in peggio per il suolo e gli agricoltori falliti che però hanno continuato da allora a votare il GOP, il Grand Old Party (Partito Repubblicano).3

*Master in Studi Americani all’Università del Texas

(Fine prima partecontinua martedì 4 ottobre)


  1. Nel recente ottimo film Hell or High Water di David McKenzie due fratelli si fanno rapinatori per pagare l’ipoteca della loro terra. Il Texas Ranger di origine Comanche che dà loro la caccia riflette con i colleghi bianchi:”…Il tempo rende giustizia. Le terre che avete preso ai Comanche ora le state perdendo con le banche…”  

  2. McCarty, Rosenthal, Poole, Polarized America. The Dance of Ideology and Unequal Riches, 2006, MIT Press  

  3. Thomas Frank. What’s the Matter with Kansas? How conservatives won the heart of America, 2005 Picador  

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Ufo: una nuova breccia nel cover up? https://www.carmillaonline.com/2016/04/29/ufo-nuova-breccia-nel-cover/ Thu, 28 Apr 2016 22:01:20 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=30042 di Maverick

Alien CongressTutte le agenzie internazionali e diversi quotidiani anche in Italia hanno dato nei giorni scorsi rilievo alle dichiarazioni della candidata presidenziale in materia di Ufo. La Clinton ha detto in Tv che se eletta si impegnerà a desecretare i files riguardanti gli Ufo e la presenza aliena. L’aveva già detto a Gennaio al “Conway Daily Sun” del New Hampshire e ora l’ha ribadito. Non è la prima a dire di volerlo fare e bisognerà verificarne la vera volontà: Hillary è una consumata politicante e la circostanza può essere letta come una astuta mossa elettorale, una strizzata d’occhio [...]]]> di Maverick

Alien CongressTutte le agenzie internazionali e diversi quotidiani anche in Italia hanno dato nei giorni scorsi rilievo alle dichiarazioni della candidata presidenziale in materia di Ufo. La Clinton ha detto in Tv che se eletta si impegnerà a desecretare i files riguardanti gli Ufo e la presenza aliena. L’aveva già detto a Gennaio al “Conway Daily Sun” del New Hampshire e ora l’ha ribadito. Non è la prima a dire di volerlo fare e bisognerà verificarne la vera volontà: Hillary è una consumata politicante e la circostanza può essere letta come una astuta mossa elettorale, una strizzata d’occhio a quel 57% di americani che è convinto che gli vengano nascoste molte informazioni sull’argomento. Anche ammesso che sia cosi è una mossa impegnativa e rischiosa, in molti sensi. I media hanno attribuito all’influenza dell’amico e finanziatore Laurance Rockefeller, fondatore della Rockefeller Initiative1 e convinto sostenitore dell’ipotesi extraterresre, l’interesse della lady per l’argomento, e alle pressioni simultanee di John Podesta, il suo Direttore della campagna elettorale (e di Bill, precedentemente), da tempo sulla breccia con una sua organizzazione, il Center for American Progress, per perorare la fine del cover up per ragioni di democrazia e trasparenza.2 Ad una tv di Las Vegas Podesta aveva fatto seguito alle prime dichiarazioni della Clinton dicendo di averla voluta convincere ad “andare a fondo della questione“.

Precedenti e Presidenti
Prima di lei fu J.F. Kennedy a procurarsi la diffidenza dei militari e del mondo della ricerca aerospaziale, Nasa compresa, con l’espressa volontà di voler condividere con i sovietici le risultanze della ricerca spaziale. C’è chi afferma che quell’intenzione contribuì a decidere la sua sorte poiché sembrò evidente la sua intenzione di scambiare informazioni anche sul fenomeno Ufo con i sovietici mettendo cosi a repentaglio l’esclusività o la prevalenza degli elementi di conoscenza in mano americana.

Poi ci fu Nixon che con la materia Ufo giocò sporco, come suo solito, per mania di grandezza. Al culmine del primo mandato, nel 1973, “Tricky Dick” pensò forse di voler passare alla storia non solo per i successi in politica internazionale (la fine della guerra in Vietnam, l’apertura alla Cina, il trattato per la limitazione delle armi nucleari con l’Urss) ma anche per aver rivelato la verità sugli Ufo. Lo volle fare in modo trasversale, ambiguo, sostenendo indirettamente il progetto del cineasta Robert Emenegger e del produttore Allan Sandler per la realizzazione di un documentario in cui fossero inserite immagini clamorose top secret fornite dall’Air Force. Due alti ufficiali si misero in contatto con i due, li accompagnarono presso le videoteche di alcune basi aeree, concordarono i filmati, sensazionali a detta di Sandler, da inserire; si fecero avanti finanziatori inaspettati come la John MacArthur Foundation che aveva stretti rapporti (come molte Fondazioni dei nostri giorni) con ambienti di intelligence; ci furono anticipazioni di un possibile rilascio di informazioni da parte di alcuni media e personaggi dell’establishment culturale che sembravano voler preparare il terreno per le rivelazioni. Poi venne il Watergate e tutto si fermò. Il documentario si fece (Ufos, past, present and future) e andò in onda su Nbc ma senza le clips promesse (tranne una di 12 secondi – sostennero gli autori) ed ebbe un certo successo ma non suscitò le reazioni previste in mancanza di footage inedito e sensazionale. Il ricercatore Grant Cameron fa due ipotesi: che l’iniziativa fosse voluta da Nixon o che fosse un tentativo fallito di “disclosure” da parte di ambienti governativi non identificabili ma certamente abbastanza potenti da smuovere militari, finanziamenti, media.3

Jimmy Carter anche si era sbilanciato in campagna elettorale dicendo di voler far luce sul fenomeno, prima di imbarcare nella sua amministrazione buona parte della neonata Trilateral (ben 26 nomine), non proprio gente interessata alla trasparenza sull’argomento. Carter confessò di avere avuto personalmente tre avvistamenti e affidò al suo Capo Ufficio Stampa Jody Powell l’incarico di occuparsene. Il quale volle farsi protagonista di una fuga in avanti dichiarando a US News and Worls Report che prima della fine dell’anno (1977) il Presidente avrebbe fatto “sconvolgenti dichiarazioni sul tema Ufo” e che su informazioni della Cia ci sarebbe stata “un’ inversione di marcia della politica ufficiale che fino ad allora aveva sottostimato gli eventi“. La ricerca di informazioni avviata da Carter si scontrò apertamente con l’apparato militare che gli oppose un rifiuto ad informarlo perchè non aveva il “need to know” (estremo livello di top secret). Dopo breve tempo Jody Powell fu smentito dalla Casa Bianca con l’affermazione che “era stato frainteso”.4

A fine Dicembre 1978 ci fu un’interrogazione al Congresso del Democratico Samuel S. Stratton, Presidente di Sottocommissione sulle Investigazioni Militari, riguardo intrusioni di Ufo nel sistema di difesa di tre anni prima. Stratton esprimeva preoccupazione “sulla presunta capacità di velivoli sconosciuti di penetrare lo spazio aereo e di rimanere fermi sopra basi militari, depositi di armi, siti missilistici e di controllo di lancio senza che l’Air Force riuscisse a intercettarli e a identificarli“. La risposta dell’Air Force fu che “i rapporti sugli Ufo erano di interesse transitorio e che non si disponeva di files permanenti in merito“.5 Oggi, grazie ai documenti declassificati sappiamo che non era vero.

Curiosamente, proprio durante la presidenza Carter si verificarono dei fatti internazionali che i complottisti hanno evidenziato: su pressioni di Eric Gairy, premier di Grenada, il 27 Novembre 1978 l’Onu aveva deciso di stabilire uno Special Political Committee che raccogliesse e analizzasse i dati in un programma di respiro internazionale con l’obiettivo di cercare e dare risposte sulla materia Ufo. Ci furono diverse riunioni concluse con la decisione di aprire un’agenzia Onu apposita (Determina 33/426 dell’8 Dicembre) con l’appoggio dell’amministrazione Carter. Dopo tre mesi, il 13 Marzo 1979 un golpe militare a Grenada esautorò Gairy e lo sostitui con Maurice Bishop. Tutto si arenò e non ci fu più seguito.6

E’ noto quanto Reagan fosse interessato al fenomeno (lui stesso disse di avere avuto due avvistamenti) e ne desse un’interpretazione minacciosa. Di lui si ricordano le frasi che più volte usò per manifestare di avere elementi di conoscenza. Come la sua risposta alla domanda su quale fosse la maggiore necessità nel campo delle relazioni internazionali: “Mi sono sempre chiesto se il mondo scoprisse di essere minacciato da una potenza dallo spazio, da un altro pianeta. Non scopriremmo subito che non ci sono differenze tra noi esseri umani, cittadini del mondo e non ci uniremmo per combattere quella particolare minaccia?“.7

George Bush sr., da ex Direttore Cia e candidato presidenziale, dichiarò che “ne sapeva parecchio“.8
Lo stesso Clinton interpellato in merito in un’intervista del 2005 a Hong Kong, disse che non aveva trovato niente ma alluse a verosimili difficoltà “interne“: “Ho cercato di scoprire se ci fossero documenti segreti e, nel caso, se mi fossero nascosti. Non sarei il primo Presidente a cui i sottoposti abbiano mentito o a cui dei burocrati abbiano trattenuto informazioni. Ma ci possono essere individui in carriera che nascondono questi oscuri segreti anche ai Presidenti. Se è cosi, be’ sono riusciti ad evitare di coinvolgermi e se è cosi mi sento quasi imbarazzato a dire che ho provato a sapere9 . Una risposta contorta che suggerisce che Clinton avesse capito che le difficoltà provenivano dall’interno dell’amministrazione, dall’apparato. Da cui anche il rafforzamento delle tesi più recenti secondo cui i Presidenti, come tutti i politici o i dirigenti di nomina politica, non sono al corrente della complessità del cover up che affonda nei programmi segreti (Special Access Programs) finanziati con fondi neri e sprofondati nel magma del complesso industrial-militare10 . La loro possibilità di penetrare i livelli di sicurezza del “need to know” è molto limitata, e quasi impossibile nel settore privato.
E’ tuttavia importante che un Presidente, o un candidato Presidente come la Clinton, voglia “forzare” in qualche modo la questione. Realisticamente, potrebbe rischiare la pelle, come Kennedy o più facilmente non andare da nessuna parte, come i suoi predecessori.

Le perplessità
Per tornare quindi alle recenti dichiarazioni, ci sono diverse contraddizioni nelle parole della candidata che rendono la questione poco chiara anche perchè certe cose già le dovrebbe sapere:

1: L’Area 51 può essere stata interessata in passato a esperimenti di retroingegneria sugli Ufo, ma non dovrebbe più essere il posto giusto. I ricercatori indicano con buone argomentazioni la base aerea Wright-Patterson in Ohio come la sede vera dove si custodiscono i veri segreti.11 Del resto, è proprio li che le testimonianze multiple indicano che i reperti (e i corpi?) di Roswell furono immediatamente trasportati in quel Luglio 1947. Sembra quindi un’ingenuità quella di pensare a una “task force” per investigare dove probabilmente non c’è più niente da tempo se non velivoli sperimentali e progetti aerospaziali che probabilmente impiegano propulsione e tecnologia derivate da un pregresso lavoro di retroingegneria.

2: I Rockefeller. Non è chiaro cosa spinga Laurance Rockfeller a occuparsi cosi appassionatamente di una materia che la sua famiglia dovrebbe conoscere meglio di tanti. O è una pecora nera, emarginata, o chi lo sa…

Clinton&Rockefeller 3: E’ interessante il fatto che la Clinton usi l’espressione UAP (Unidentified Aerial Phenomena), invece che UFO. Questo indica che è informata della distinzione prudentemente generica che si fa in ambienti “moderati” militari e scientifici, e che quindi si tiene “aggiornata”. Ma quanto veramente sa?

4: E’ improbabile che la sortita sia solo una mossa elettorale. Come suggeriscono i toni delle cronache giornalistiche, la Lady rischia di imbrigliarsi nel consueto ridicolo mediatico che quindi potrebbe nuocerle. E’ invece probabile che sia stata realmente persuasa da chi le è vicino e che la spinta alla “disclosure” si stia facendo sentire. Quanto sia personalmente convinta e sincera, visto il soggetto, è dubbio ma prima o poi lo sapremo.

5: E’ rilevante che un personaggio di cosi alto livello accenni apertamente a una “presenza” aliena tra di noi (“La Terra può essere stata visitata” – Daily News). E’ un ulteriore elemento di forzatura perchè si presta ad essere interpretato come allusione al fenomeno dei rapimenti. E’ in grado di procedere su quella ancora più difficile strada?

6: Le allusioni del 2005 di Bill Clinton (sottoposti…burocrati…individui in carriera…) dimostrano che l’ex Presidente aveva capito dove è l’infezione e dovrebbero averle dato la nozione che il cover up è gestito da una catena trasversale di operativi di medio livello gerarchico nell’amministrazione pubblica, negli ambienti militari e di intelligence, dai project managers dei programmi segreti nel settore privato. La cosa più efficace che potrebbe fare un Presidente sarebbe un provvedimento per sciogliere dai giuramenti di segretezza imposti per contratto a chi ha responsabilità importanti nella catena di gestione dentro gli enti governativi, e ai tanti testimoni vincolati da impegni analoghi o terrorizzati negli anni dalle pressioni a tacere. Da ciò che ha detto, o da come lo dice, Hillary non sembra consapevole della complessità del cammino da percorrere. Certo, potrebbe come minimo seguire le tracce del marito che con l’Ordine Esecutivo n. 12958 desecretò oltre ottocento milioni di pagine classificate, Ordine che fu poi stemperato dalla successiva presidenza con l’effetto di ridurre il numero.

L’iniziativa mediatica della candidata è comunque da considerare come un piccolo passo in avanti sulla strada della Verità, utile se non altro per far sapere che il fenomeno Ufo è trattato a livelli top, il che già di per sé dovrebbe pesare come segnale sia nei confronti dell’opinione pubblica sia per gli oscuri ambienti “che sanno”.


  1. La maggior parte dei fondi della Rockefeller Initiative provengono dall’ex immobiliarista di Las Vegas Robert Bigelow, oggi titolare della Bigelow Aerospace e gestore della Bigelow Aerospace Advanced Space Studies a cui la Federal Aviation Authority indirizza le persone che vogliono segnalare avvistamenti Ufo. Bigelow finanzia alcune organizzazioni di ricerca ufologica e riceve a sua volta finanziamenti governativi per progetti in collaborazione con la Nasa. Una specie di partita di giro, una delle tante che rende il terreno dell’investigazione ufologica estremamente intricata da decifrare  

  2. Fabrizio Salmoni, Ufo, sicurezza nazionale e progresso negato, https://mavericknews.wordpress.com/2016/03/09/ufo-sicurezza-nazionale-e-progresso-negato/#more-1128  

  3. Grant Cameron, www.presidentialufo.com. Larry Holcombe, Ufo Leaks  

  4. ibidem  

  5. Fawcett, Greenwood, Clear Intent  

  6. Grant Cameron, ibidem. Don Berliner, Ufo briefing Documents  

  7. Grant Cameron, ibidem  

  8. Richard Dolan, Ufos & the National Security State, vol.2  

  9. Huffington Post, 28.3.2016  

  10. Fabrizio Salmoni, ibidem  

  11. Thomas Carey, Donald Schmitt. Inside the real Area 51. The secret history of Wright-Patterson  

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Hard Rock Cafone #2 https://www.carmillaonline.com/2015/09/10/hard-rock-cafone-2/ Thu, 10 Sep 2015 20:36:14 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=24770 di Dziga Cacace

Prima e dopo la scatola non c’è niente 

hrc201Le Runaways  California, metà anni Settanta: sole, frisbee, i primi skateboard, il paese impazzito per Happy Days e un democratico dentone che vende noccioline alla Casa Bianca. È il 1976 quando un produttore scafato (e criminale) come Kim Fowley capisce che il suo sogno, una band formata da sole ragazze giovanissime, possibilmente svestite, è a portata di mano (quella libera). Ha infatti trovato cinque teenagers che sanno suonare e sono pure delle sventole: le Runaways, il sogno proibito di ogni adolescente in [...]]]> di Dziga Cacace

Prima e dopo la scatola non c’è niente 

hrc201Le Runaways 
California, metà anni Settanta: sole, frisbee, i primi skateboard, il paese impazzito per Happy Days e un democratico dentone che vende noccioline alla Casa Bianca. È il 1976 quando un produttore scafato (e criminale) come Kim Fowley capisce che il suo sogno, una band formata da sole ragazze giovanissime, possibilmente svestite, è a portata di mano (quella libera). Ha infatti trovato cinque teenagers che sanno suonare e sono pure delle sventole: le Runaways, il sogno proibito di ogni adolescente in tempesta ormonale. E non solo: etero e omo, rimangono tutti soggiogati dallo sguardo strafottente e dai corpi in fiore della band, in un’epoca in cui la maggiore età non era considerata un vincolo sessuale. Dopo gli assestamenti iniziali le Runaways presentano in formazione la superdotata (anche tecnicamente) Lita Ford, che secondo il dittatoriale producer è “Ritchie Blackmore e Sophia Loren fuse in un’unica persona”. Alla voce c’è Cherie Currie, una minorenne che sale sul palco vestita soltanto di sottoveste e calze con giarrettiera. All’altra chitarra Joan Jett che tutti conosciamo per l’inno universale che ha regalato qualche anno dopo: la cover di I Love Rock’n’Roll. Completano basso e batteria di Jackie Fox e Sandy West. L’impatto visivo e musicale è clamoroso e anche le polemiche e le virgulte rispondono alle accuse di bieco marketing sessista con un rock semplice e trascinante: vagamente punk e con la schitarrata hard quando serve. Vanno in tour coi grandi dell’epoca, fanno le cattive ragazze e finiscono in carcere in Gran Bretagna e diventano big in Japan dove registrano anche il loro album migliore, un live. Poi la rottura col maligno produttore guru, che sarà anche accusato a più riprese di abusi sessuali (con le ex Runaways reticenti o mute, anche se la violenza carnale sulla Fox, drogata, sembrerebbe inequivocabile) e il via alle defezioni, a partire dalla Currie. Che oggi fa la scultrice con la motosega (potete verificare su chainsawchick.com) ma è stata anche attrice e ha scritto un’autobiografia che non le ha però evitato di essere mandata a cagare dalle altre ex compagne. La band va in malora nel 1978 e Joan Jett prova la carta solista. Deve insistere un po’ ma poi ottiene successo con i suoi Blackhearts e ancor oggi – da autentica icona – è spesso in tour. Intanto la chitarrista Lita Ford, da ragazzina che era, diventa una bella donna con abnorme testata di capelli vaporosi e orecchini simili a lampadari, e si dedica al metal per scalare le classifiche col disco di platino Lita dove duetta con Ozzy Osbourne. Oggi omaggiate da biopic vezzose e assurte a status di superstar post-mortem, durarono poco, le Runaways, ma ruppero apparentemente il tabù machista del rock, anche se esattamente plagiate da quell’atteggiamento. La recente morte della batterista Sandy West sembra aver riavvicinato quelle che fecero da battistrada a tutto il rock femminile di là da venire, buono o cattivo, Bangles, Hole, L7 e Bikini Kill comprese, ma ci sono ancora troppi scheletri nell’armadio e non c’è da temere alcuna reunion nostalgica.
(Marzo 2007)

hrc202Milano imbevibile 
Milano la cosmopolita, Milano al centro dell’Europa, Milano ombelico del Mondo. Ha il traffico di Calcutta, l’inquinamento di Shangai, l’allegria di Bucarest e i servizi di Kinshasa. Senza offesa (per gli abitanti di Kinshasa, ovvio). È amministrata da decenni da gente che non ha mai preso un tram in vita sua e che pensa solo a riempire i vuoti urbanistici e gli ultimi residui di verde (avete capito di cosa canta Elio in Parco Sempione?) per fare felici palazzinari, archistar cialtroni e complici e pure i poveri muratori che, se non muoiono prima in cantiere, almeno hanno un po’ di lavoro. Avrà le sue ragioni Manuel Agnelli degli Afterhours a dirci che Milano è una città vitale, ma, sarà che non porto pantaloni attillati di pelle e non uso creme di bellezza, io l’unica vitalità che vedo è quella del sacco edilizio continuo di questa metropoli. A scapito di spazi, anche musicali. Nel mio isolato hanno appena riempito un vuoto tra due case e abbattuto una costruzione aerea ed elegantissima di fine anni Sessanta. Adesso ci sono un 5 piani terrazzato come se fossimo a Miami e un 6 piani monolitico che starebbe bene a Berlino. Gli stessi che grufolano contro le moschee, autorizzano poi questi scempi. L’ultimo assessore all’urbanistica, tal Milko Pennisi assurto a gloria nazionale, ha patteggiato due anni e dieci mesi per tangenti: ma chi patteggia i reati contro la logica e l’estetica? Ma il vero problema è che a un isolato dal mio hanno chiuso il vecchio Transilvania che, dopo un’agonia di neanche tre anni come MusicDrome, tornerà ad essere un’autorimessa. Nessuno mi ridarà la comodità di intervistare un artista e invitarlo a casa a prendersi un caffè, magari avendo nascosto prima i bootleg e i cd masterizzati. Non vedrò più aggirarsi nel mio quartiere gli ultimi dark con gli occhi cerchiati come opossum o i metallari tutti borchie e catene (ed educatissimi). Mi mancherà anche l’invasione degli springsteeniani di tutta Italia come la sera in cui suonò Southside Johnny con gli Asbury Jukes. E per la strada, davanti al cancello del locale, non incontrerò più J. Mascis o Ed Wynne, impegnati a bersi una birra e a parlare coi fan venuti a sentire il soundcheck. Oggi su quel cancello c’è solo un malinconico cartello: ultimi box in vendita. Riposa in pace, Transilvania, garage eri e garage tornerai a essere. Intanto è evaporato anche lo storico Rolling Stone, perché lì conviene tirarci su sei piani, altro che concerti. E prima o poi toccherà al Palasharp, perché anche là c’è la sua convenienza (e pure dell’amianto da smaltire). E in compenso allo stadio di San Siro non si può far casino se non per le partite di calcio, una ogni quattro giorni. Ma il rock no, perché fa rumore. Sporca. Non so cos’abbia in testa il sindaco Moratti – a parte la cofana catarifrangente simil-Mirigliani – ma nella metropoli dell’Expò gli spazi da concerto ormai si contano sulle dita di una mano e il Comune, figurarsi, non ne ha uno suo. Tutto questo mentre il promoter Claudio Trotta rischia una sanzione pesantissima, grazie a fantomatici comitati di quartieri guidati da invasati che lamentano insonnie e crisi di panico per i 22 minuti di rock extra, regalatici dal Boss una sera del 2008, alle 23 e 30, mica alle 4 del mattino. La Milano da bere, decennio dopo decennio, è solo un bel bicchiere di merda.
(Giugno 2010)

hrc203Frate Metallo: pace e bene 
Un anno fa, Frate Metallo non se l’è fatto mancare nessuno, la stampa italiana, quella straniera e perfino il perfido Lucignolo televisivo. Ma messi da parte sensazionalismo e bigottismo musicale, che fine ha fatto il fratacchione? Lo chiamo e scatta la segreteria telefonica, la meno ansiosa che abbia mai sentito: “Sono Frate Cesare, pace e bene!”. Qualche giorno dopo sono nel convento dei frati minori a Musocco, Milano. Gli occhi chiari, sinceri, le mani robuste, una certa somiglianza col Santa Claus della Coca Cola, Fra Cesare ha l’entusiasmo di un ragazzino e la saggezza di un uomo che è stato operaio, bersagliere, vagabondo scalzo e infine missionario e cappuccino francescano. Riavvolgiamo il nastro: come giovane assistente spirituale dei tranvieri milanesi capisce che dove non arriva una predica può arrivare la musica. Lui ha una bella voce e un certo orecchio e comincia a scrivere canzoni, alcune religiose, ma perlopiù laiche (nel senso che può intendere un religioso, eh?). Quando canta raccoglie un sacco di offerte ma in cambio dei soldi preferisce dare delle cassette prima e dei Cd poi. 10 anni fa Costanzo lo chiama al suo show e l’esperienza è salutare: da allora rifiuta qualunque apparizione televisiva, rifiutando il ruolo della scimmietta. Ha le idee chiare su tutto: sulla beneficenza (“Vado al concerto se mi piace, non per aiutare qualcuno”), sugli autori musicali cattolici (“Che cosa significa, scusa?”) e sul successo (“Non me ne frega niente: sai quante volte mi hanno offerto Sanremo?”). È sanguigno e pacifico e il rock lo fa scattare in piedi, roteando il cingolo che gli stringe il saio, in estasi metallica. Ma ha cantato anche altri generi, ammettendo il fallimento solo quando ha sperimentato anche il liscio (!). Il suo disco metal è un’opera curiosa dove non senti il Padre nostro o l’Ave Maria al contrario, bensì Cesare che incattivisce la voce su ritmiche hard. Quando ringhia il growl sembra una parodia fatta da Elio, però lode al tentativo, senza pretese e senza presunzione, per divertirsi. Mangiamo assieme (e in modo parco) al refettorio del convento. I confratelli di Cesare sono tutti sorprendentemente simpatici, più o meno coinvolti dalla sua attività canora e c’è chi lo sfotte amabilmente in nome di altri credo musicali. Da questo incontro esco con la convinzione che Frate Metallo non è un furbetto, tutt’altro. Quelli sono gli artisti indie nerovestiti, che poi a Sanremo ci vanno eccome facendo la faccia contrita, o i giornalisti che non potevano credere di avere per le mani un francescano metallaro, due freak in uno. Il top sarebbe stata anche una disgrazia fisica, ma per fortuna Cesare è perfettamente integro. In tutti i sensi. Pace e bene.
(Giugno 2009)

HRC204Aphrodite’s Child: tzatziki rock!
Caldo. Spiagge. Massì, vi racconto due o tre cose della Grecia diverse da quelle che rimbalzano dai giornali, ma prima faccio un brevissimo ma palloso preambolo: il rock progressivo è un’astrazione terminologica. Per alcuni – detrattori ma anche ammiratori – significa solo supergruppi con assoli lunghissimi e clamorose capacità strumentali; per altri critici più elastici è quella musica che progrediva, nel senso che bruciava tappe e superava i confini temporali dei 3 minuti e quelli stilistici del beat. All’origine di tutto ciò ci sono pionieri come Moody Blues, Colosseum o Procol Harum e quando la sbobba non s’è allungata o è diventata autocelebrativa, si sono avuti autentici colpi di genio dove il rock incontrava tempi dispari, nuovi strumenti e contaminazioni coraggiose. Tra i pionieri di questa musica, nel bene e nel male, prima con singoli smielati poi con un’opera epocale, ci sono gli Aphrodite’s Child, trio di figli d’Afrodite che nasce nella Grecia dei Colonnelli e subito si trasferisce a Londra. Vi consiglio di cercarne delle foto, perché per sottolinearne la provenienza ellenica un P.R. in acido fece conciare i tre corpulenti e irsutissimi musicisti come delle comparse di Troy, con tuniche, foglie d’acanto in testa e cetre in braccio. Il gruppo conquista la Francia in rivolta del Sessantotto con Rain and Tears, singolo con più di un’assonanza con A Whiter Shade of Pale. Anche questa è una rilettura di un’aria barocca (là Bach, qui Pachelbel; e – scoop! –gli stessi accordi di Albachiara!) e l’effetto in classifica è immediato. Dopo altri singoli pop di successo, si decide per l’opera definitiva, turgidamente rock: l’album 666, prima bloccato dalla casa discografica, infine uscito a gruppo sciolto nel 1972. Affascinante, eterogeneo e inventivo, spazia dai Beatles a momenti pesanti come un capitello dorico sulle palle: è un sinistro concept sull’Apocalisse che nel tempo otterrà un successo clamoroso, diventando uno dei capisaldi del prog, altro che il sirtaki. E ora la carrambata per i meno avveduti: degli Aphrodite’s Child erano leader il romantico Demis Roussos che ha poi venduto 50 milioni di dischi in Francia, e soprattutto Evangelios Papathanassiou, cioè Vangelis, l’uomo che ha scritto score immortali per Momenti di gloria e Blade Runner o jingle ipnotici per la Barilla. E forse era meglio l’Apocalisse. Ah: se volete altri greci rock settantini, consiglio i santaniani (!) Peloma Bokiou. Buone vacanze.
(Agosto 2010)

hrc205aL’hard de noantri
Nell’Italietta delle bombe fasciste c’è – tra le tante – anche un’esplosione gioiosa, il corrispondente musicale della meglio gioventù, il cosiddetto “pop” o “progressive” italico, quando, a fianco di formazioni come PFM, Banco e Orme, cresce una generazione di rocker, l’hard de noantri: uno spaghetti-rock casereccio ma energico e senza mandolino, se non pesantemente elettrificato. Qui non si rischia l’orchite ascoltando pensosi concept che parlano di un pinguino (esiste, eccome, e non è neanche male); qui si picchia duro: tra riffoni, schitarrate, power chords e cavalcate solistiche, in 35 minuti di LP trovate idee che oggi coprirebbero cinque anni di carriera. Del resto l’imperativo musicale e ideologico era l’originalità e niente era peggio dell’accusa di “venduto”. E mancando il “venduto”, qualche gruppo durava lo spazio di un album… Il primo vagito è del Balletto di bronzo che con Sirio 2222), disco ricco di chitarre e assoli mordaci, cerca un’ingenua ma personale via italiana all’ombra del dirigibile di piombo. Più o meno contemporaneamente, il virtuoso tastierista Joe Vescovi espande volume e improvvisazioni con i suoi Trip, influenzato dai Vanilla Fudge, gruppo seminale che introdusse il concetto della cover stravolta e dell’utilizzo di pieni e vuoti strumentali. Joe compone album bellissimi (partite da Caronte), tant’è che anni avanti verrà convocato a Los Angeles da sua maestà Blackmore per suonare nei Rainbow. “Ma ero troppo morbido!”, mi confessa telefonicamente.
hrc205bUn altro che il rock duro l’ha sempre costeggiato è Alberto Radius, sia con la Formula 3, sia a fianco di Battisti. Radius (1972), prodotto dal Lucio nazionale sotto lo pseudonimo Lo Abracek, è forse il più compiuto hard rock nostrano, registrato in tre giorni di furiose jam con i futuri Area, la sezione ritmica della PFM e altri amici assortiti: rock senza frontiere attraversato da lampi di psichedelia, jazz e boogie, con la chitarra che fa di tutto. Come avrebbe poi continuato a fare, contribuendo in maniera fondamentale al successo di Franco Battiato a inizio anni 80. A chi dubita dell’essenza rock di quei lavori, solo una dritta: la micidiale outro solistica di Strade dell’Est, ne L’era del cinghiale bianco. Oggi Radius è un giovane molto cool di 62 anni con più capelli di Tina Turner. Lo incontro nel suo studio e mi presenta Please My Guitar, il suo ultimo disco. Lo definisce “Un album stradale!”. Mi fa sentire alcune tracce: canzoni solide, senza troppi assoli; per l’improvvisazione c’è tempo dal vivo e del resto Alberto si fa oltre un centinaio di concerti ogni anno, con la Formula 3 o con la Notte delle Chitarre.
Ora dimenticate certe recenti oxate o alcuni coretti beegeeseggianti: i New Trolls sono stati il gruppo che, a tratti, ha saputo fare l’hard italiano più maturo. Hanno flirtato col sinfonico e col beat, ma a trent’anni di distanza la chitarra del “Piccolo Hendrix” Nico Di Palo e la furiosa carica del gruppo genovese bruciano ancora. L’apice improvvisativo è nel lato live del Concerto grosso (1971) quando i nostri eroi fan profumare di basilico il verbo dei Deep Purple. Diverse spinte (hard contro pop e, si dice, anche divergenze politiche) portarono il gruppo a una scissione durata due anni, nei quali Di Palo diede sfogo alla sua Les Paul nei massicci Ibis, prima della riconciliazione con Vittorio De Scalzi e nuove separazioni.
hrc205cAddirittura heavy erano i Rovescio della medaglia che ci han lasciato una Bibbia (1971) registrata in presa diretta e tostissima. Al virulento chitarrista Enzo Vita si attribuisce l’immortale affermazione: “Mo’ che è morto Hendrix, semo rimasti in tre: Page, Blackmore e io!”. Dimenticava per esempio i Campo di Marte (Lp antimilitarista e durello del 1973) o anche Mario Schilirò, uscito da una cantina romana con i ventenni Teoremi, quartetto di geometrica potenza. Il chitarrista – oggi anche produttore – ha poi suonato a lungo con Venditti e da anni presta servizio con Zucchero. L’album eponimo (1972) è una bella botta, per niente derivativo e con una chitarra potente. Un solo album (1973) anche per il Biglietto per l’inferno ed è probabilmente uno dei più bei dischi italiani di sempre, ripubblicato recentemente con Dvd, album inedito e testimonianza live. Il tastierista “Baffo” Banfi ricorda con ironia i suoi vent’anni, quando “In mancanza di una motocicletta, rimorchiavi solo se suonavi in una band”. La sua era formata da cinque amici, trascinati dall’eccezionale frontman Claudio Canali, oggi frate benedettino ma trent’anni fa, altro che Fra Cionfoli: una furia sul palco e in studio.
C’è poi chi al vinile non arrivò neppure, come gli zeppeliniani Crystals (album del 1974 stampato solo ora dalla Akarma) o i Moby Dick, anch’essi profondamente influenzati dal Martello degli dei. Incontro il loro batterista, Adriano Assanti a Chiasso (e dove, se no, per parlare di hard rock?) e davanti a una pizza Adriano ricorda: c’erano una volta quattro ragazzi di Napoli, del Vomero, stufi marci dei soliti tre accordi e abbastanza matti da lasciar perdere le remunerative serate nei night. Altro che Rose rosse con Ranieri, l’imperativo stilistico del gruppo era suonare così forte da incrinare la ceramica dei water (in lingua: spaccamm’ ‘o cess!). Mica facile però: nel 1968 non ci sono Internet né tutorial. Per imparare la “nuova” musica devi svegliarti alle tre di notte, captare Radio Luxembourg e il giorno dopo affidarti alla memoria. Ma suonare i Led Zep nell’Italia del 1970, è come provare a vendere oggi i libri della Fallaci in Iran. Allo storico festival di Caracalla, per dire, gli staccarono l’amplificazione al secondo pezzo. E un disco? I Moby Dick avevano idee molto chiare: o lo si registra a Londra, come si deve, oppure meglio lasciar stare. E accadde il miracolo: il quartetto volò in Inghilterra e in una settimana incise l’album della vita, potente, bellissimo. Solo che l’abitudine di arrangiarsi e farsi prestare gli strumenti, all’Olympic Studios non funzionava: il conto divenne salatissimo e il manager non riuscì a vendere subito i nastri. Passano giorni, mesi, anni e poi c’è la vita, che è dura, con i membri della band ormai sparsi per il mondo e con altri mestieri, pur senza mai abbassare le chitarre. Oggi l’album dei Moby Dick c’è (di nuovo Akarma) ed è un po’ l’epilogo classico di tutte queste vicende: da metà anni Settanta in poi il rock italiano entrò in crisi, tramortito dalle discoteche, falcidiato dal servizio militare o da micidiali furti di strumenti e amplificazioni (giuro). Ma fu solo una ritirata strategica, credetemi: i dischi son lì ad aspettarvi e i musicisti li trovate ogni sera sui palchi di tutt’Italia. A suonarvele.
(Dicembre 2004)

hrc206aIan Gillan, parla con me
Fuori dal camerino, l’avvertimento: “se vi offende la nudità, non entrate!”. Dentro c’è Ian, vestito attillato di nero, come un mimo, che sorseggia una minestra in bicchiere. 61 anni, la faccia stanca di chi sta facendo un tour di successo ma anche il piacere della rivincita.
Com’è che non ti vediamo mai, in tivù?
Sai, le nuove generazioni cresciute con la tivù, la conoscono bene, sanno usarla. E sono giovani e belli. L’idea di un sessantenne sudato che si agita ha senso in un club, non nel tuo soggiorno. Noi siamo un po’ come gli stand up comedian: se vai in tivù a dire una battuta, la bruci per sempre. In un club puoi dirla quante volte vuoi, c’è un’audience diversa ogni sera. Questo è il bello di un tour.
Starai in giro tanto?
Un anno e mezzo, senza mai tornare a casa. Con mia moglie organizziamo delle vacanze sparse qui e là per il mondo, durante le pause del tour. Mi raggiunge lei.
E ti piace visitare altri paesi?
Sí, è molto educativo! Sono cresciuto nei suburbi di Londra e ho amato l’Inghilterra del dopoguerra. Era un paese ospitale. Ora non sono più tanto sicuro di amarla. La successione dei governi ha portato a una separazione culturale, non c’è più un’unità. Come negli USA: entità diverse, gruppi etnici diversi, fratture sempre più profonde.
Parli mai di calcio con Steve Morse (il chitarrista americano dei Deep Purple)?
E come potrei? Non capisce niente! Del resto io non so nulla di football americano. Cos’è un down? Ma dai…
Tolto Pavarotti, conosci qualche altro rocker italiano?
C’è il tizio ubiquo… quello che ha fatto dei duetti…
Ramazzotti?
Ma no, quello che è sempre in giro con tutti e li invita negli album, dai…
Zucchero?
Zucchero! E beh, come fai a non conoscerlo?
Fai ancora una vita da rocker… che gente frequenti?
Io adoro la gente che incontri di notte. Quando ero giovane finivo di lavorare alle tre del mattino, con cinque show sulla schiena, stanco morto ma pieno di adrenalina. E frequentavo chi era ancora in piedi a quell’ora: camerieri, ballerine, strippers e prostitute… Son cresciuto con loro e sono le persone più eccezionali. Sincere, affidabili, meglio di quelle che incontri di giorno.
I Deep Purple non hanno fama di grande profondità, ma forse è perché nessuno s’è mai messo a leggere i loro testi. L’ultimo album (Rapture of the Deep, il più venduto dagli anni Ottanta) ha una qualità spirituale… sei religioso?
Io non sono religioso ma capisco chi lo è. Il senso di appartenenza, di congregazione. È una ricompensa per soddisfare certe curiosità spirituali. Non vorrei essere blasfemo, ma è come un orgasmo collettivo, la religione. Ricordo che da bambino tornavo a casa, dopo la comunione o la messa, e praticamente volavo sul terreno. Ma non era soddisfacente dal punto di visto intellettuale. All’epoca non me ne curavo perché non ci pensavo, ma ora sí. M’interessa molto la metafisica, adesso…
hrc206bMetafisica, una rockstar?
Sí, mi sono appassionato al lavoro dei poeti metafisici o a Tennyson… e trovo eccezionali anche gli scienziati di fine Ottocento, come Charles Darwin. Quello che ha scritto, ora lo leggiamo non solo come testo scientifico ma anche come commento sociale a una società razzista e classista. Darwin ha ritardato la pubblicazione de L’origine della specie per qualcosa come vent’anni, ma a un certo punto era abbastanza anziano da non aver paura delle reazioni della chiesa… E grazie a dio l’ha pubblicato! Sai, la mia vita è quasi finita (vedendolo così vispo, Gillan doppierà i cent’anni, probabilmente sul palco)… non sono religioso, no, ma esaltatissimo dal futuro!
Senti, ti posso chiedere cosa pensi della guerra in Iraq?
Credo che il nostro primo ministro (non si degna neanche di citarlo) dovrebbe essere processato. Ha preso per il culo il parlamento, i reali, l’opposizione e la gente comune, per trascinarci in una guerra di cui non ha minimamente valutato le conseguenze. Abbiamo imposto artificialmente dall’esterno il nostro credo politico, ideologico e religioso ad un paese… quanto è morta la democrazia, così?
Di solito rispondono “Però adesso abbiamo Saddam Hussein”…
E allora? Con le sanzioni, negli ultimi dieci anni Saddam non ha fatto niente! Lo stanno processando per cose più vecchie, come aver trucidato 170 persone in un villaggio… George W. Bush, quando era governatore del Texas, ha firmato senza neanche leggerle le condanne a morte per 273 persone. Okay, erano stati processati, ma in processi dove le prove erano rifiutate nel dibattimento e cose così…
Non hai grande fiducia nei leader occidentali…
I leader dell’ovest sono cresciuti giocando a Monopoli, quelli dell’est giocando a scacchi e sanno prevedere qualche mossa più in là. Questo oltre ad avere una consapevolezza della vita più profonda della nostra.
E tu l’hai capito il senso della vita?
(Gli si illuminano gli occhi) Certo, assolutamente! Devi avere presenti due cose per essere felice, una fisica e l’altra metafisica: il senso di appartenenza e uno scopo. Ricordarti da dove vieni e sapere dove stai andando. Senza, la vita non ha senso.
(2 marzo 2006)

(Continua – 2)

La prima puntata è qui.

@DzigaCacace mette i dischi su Twitter

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La bomba iraniana https://www.carmillaonline.com/2015/04/06/la-bomba-iraniana/ Mon, 06 Apr 2015 19:57:00 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=21799 di Sandro Moiso

iran 1 Rovesciando la locuzione latina “Si vis pacem, para bellum”, si potrebbe affermare che se si vuole la guerra occorre parlare di pace. Apparentemente un paradosso, come il primo tra l’altro, ma contenente, alla luce del recente accordo di Losanna con l’Iran, un cospicuo nucleo di verità. La bomba iraniana cui fa riferimento il titolo, infatti, non è quella atomica presunta, vera o anche solamente possibile legata alla realizzazione o meno del programma nucleare iraniano, quanto piuttosto quella rappresentata dal ritorno sulla scena politica, economica e militare internazionale dell’Iran e del formale riconoscimento della sua importanza da [...]]]> di Sandro Moiso

iran 1 Rovesciando la locuzione latina “Si vis pacem, para bellum”, si potrebbe affermare che se si vuole la guerra occorre parlare di pace. Apparentemente un paradosso, come il primo tra l’altro, ma contenente, alla luce del recente accordo di Losanna con l’Iran, un cospicuo nucleo di verità.
La bomba iraniana cui fa riferimento il titolo, infatti, non è quella atomica presunta, vera o anche solamente possibile legata alla realizzazione o meno del programma nucleare iraniano, quanto piuttosto quella rappresentata dal ritorno sulla scena politica, economica e militare internazionale dell’Iran e del formale riconoscimento della sua importanza da parte dei maggiori paesi occidentali.

Che questo fosse già inscritto negli avvenimenti degli ultimi anni e, in particolare, degli ultimi mesi, a seguito del riacquistato ruolo di interlocutore politico e militare dell’Iran e degli sciiti in Iraq e nello scontro con lo Stato Islamico di Abū Bakr al-Baġdādī, non poteva e non può lasciare spazio ad alcuna ombra di dubbio, ma l’accordo raggiunto nei primi giorni di aprile, e che andrà definitivamente confermato a giugno, apre la porta ad una serie di interrogativi di carattere geopolitico, economico e militare riguardanti gli sviluppi possibili dei rapporti tra mire imperialistiche, nazioni e classi nel quadro mediorientale.

E’ chiaro, intanto, che intorno al tavolo delle trattative non erano presenti soltanto i rappresentanti degli Stati Uniti e dei paesi dell’Europa Occidentale, ma anche i fantasmi del mai sopito antagonismo di Israele e dei Paesi del Golfo, e dell’Arabia Saudita in particolare, nei confronti della Repubblica islamica Iraniana.1 Tutti motivati da interessi parzialmente diversi e solo in superficie pienamente convergenti i primi, ma anche profondamente collegati tra di loro quelli dei secondi, almeno in questa fase. Ma proviamo a capire perché.

L’Iran è stato per secoli un fattore determinante per le politiche imperiali, statuali ed economiche di quell’area strategica che va dal Medio Oriente all’area transcaucasica fino all’Asia Centrale e dal Golfo Persico all’Oceano Indiano. Uno dei quadranti più importanti dal punto di vista geopolitico dello scacchiere mondiale. L’impero persiano aveva infatti costruito su quell’area, che arrivò per un certo periodo fino al Mediterraneo, la più grande realtà statuale dell’antichità prima dell’impero romano.

Ora se per l’italietta post-risorgimentale, mussoliniana e democristiana il Mare Nostrum ha sempre rappresentato un illusorio e pericoloso richiamo alla potenza del passato, proviamo ad immaginare quanto quell’antica funzione unificatrice di popoli possa essere rimasta impressa nel genoma della nazione persiana. Unita al fatto che alcuni di quei popoli che la fondarono nel mondo antico, in particolare i Parti, risultarono a lungo invincibili anche per grandi potenze successive come quella romana ad Occidente e quella dell’impero cinese ad Oriente.

Ruolo millenario, interrotto e ripreso più volte tra invasioni e guerre che sottomisero momentaneamente o percorsero il territorio iraniano, che lo Scià Mohammad Reza Pahlavi non dimenticò di sottolineare con le celebrazioni organizzate a ridosso di quella rivoluzione detta khomeynista che l’avrebbe rovesciato nell’inverno tra il 1978 e il 1979, dopo decenni di repressione sanguinosa di qualsiasi opposizione seguita al colpo di stato che nel 1953 aveva allontanato dal potere e condannato Mohammad Mossadeq, colpevole del primo tentativo di nazionalizzazione del petrolio iraniano e di democratizzazione della monarchia Pahlavi, istituita nel 1925 da Reza Khan padre di Mohammad Reza.

Monarchia che avrebbe costituito per decenni il vero architrave della strategia anglo-americana in quella parte del mondo: a cavallo tra il petrolio mediorientale e l’odiata Unione Sovietica. Architrave che la rivoluzione khomeynista fece saltare, contribuendo a spingere sempre di più Stati Uniti e Israele gli uni nelle braccia dell’altro e viceversa. E qui sta proprio uno dei motivi più profondi dell’attrito tra le due potenze locali: due architravi nello steso spazio non possono esserci. O l’uno, Israele, oppure l’altro, l’Iran.

Anche se occorre dire che nella strategia americana è intuibile il solito divide et impera su cui l’egemonia statunitense cerca ancora di basare il proprio potere, in diverse aree del globo, nell’epoca del suo tramonto. Controbilanciando le sempre più esose richieste di fedeltà alla causa sionista provenienti dal governo di Israele con la riapertura del dialogo con il “demonio” iraniano.
Così che le roboanti dichiarazioni anti-israeliane dei governanti di Teheran finiscono col rispecchiare le stesse ragioni profonde delle paure e dell’allarmistica propaganda anti-iraniana di Benjamin Netanyahu. Mentre non è nemmeno escluso che la partecipazione delle armi iraniane al conflitto con l’Is sia visto dalla diplomazia della Casa Bianca come una ripetizione del conflitto tra l’Iraq di Saddam e l’Iran dell’ayatollah Khomeyni che, negli anni ottanta, dissanguò l’allora appena nata Repubblica Islamica.

Difficilmente però i governanti iraniani e la borghesia “liberale”, che abbiamo visto festosamente manifestare in questi giorni nelle strade del paese, si lascerebbero coinvolgere in un conflitto ai propri confini senza esser sicuri di portare a casa un risultato. Magari non solo militare, ma anche diplomatico ed economico, come sembra essere l’attuale accordo raggiunto tra i 5 + 1 di Losanna. Anche se, tra il 1980 e il 1988, la fedeltà delle Forze Armate e il rinnovato spirito nazionale2 permisero all’Iran di tener testa all’aggressione di un Iraq armato e finanziato dagli Stati Uniti (dopo il disastroso tentativo di liberazione degli ostaggi americani dell’ambasciata di Teheran messo in atto dal presidente Jimmy Carter), dall’Egitto, dai Paesi del Golfo Persico, dall’Unione Sovietica e dai Paesi del Patto di Varsavia, dalla Francia, dal Regno Unito, dalla Germania, dal Brasile e dalla Repubblica Popolare Cinese (che vendeva però armi anche all’Iran).

Unica e autentica rivoluzione nazionale democratica avvenuta in tutta l’area,3 la rivoluzione khomeynista sembrò condividere, almeno in parte, il destino e l’involuzione della rivoluzione russa (anch’essa nazionale e democratica ancor prima che proletaria) del 1917. Vittoria rapida degli insorti, caduta del regime autoritario precedente, scatenamento di una guerra internazionale contro la neonata repubblica, morte del leader (Lenin nel 1924, nel caso della Russia, e Khomeyni nel 1989, nel caso dell’Iran), restrizione delle libertà democratiche per far fronte alle difficoltà economiche e all’inevitabile risistemazione politico-economica del paese.

Questo parallelo, per quanto possa apparire ad alcuni blasfemo, può servire a comprendere sia le chiusure di spazi democratici all’interno dell’Iran nel corso degli anni successivi, dettate spesso da motivi più politici che religiosi, sia l’uso estenuante di parole d’ordine come quella della “distruzione dello Stato di Israele” sbandierata ai fini del consenso interno, così come già Stalin negli anni trenta aveva costantemente sventolato la bandiera della lotta al capitalismo, sia, last but not least, l’orrore delle petrolmonarchie del Golfo nei confronti di una rivoluzione che per prima aveva aperto la strada alle libere elezioni e ad una maggiore età di 16 anni (solo recentemente portata a 18) in un paese che custodiva e continua a custodire nelle sue viscere le seconda riserva mondiale di petrolio e di gas.

Sì, perché l’altro implacabile avversario dell’Iran è costituito dall’Arabia Saudita e dall’insieme di regimi sunniti del Golfo, unici stati dell’area ad applicare interamente una presunta legge coranica ricca di fustigazioni in pubblico, taglio di teste in piazza e sottomissione totale della donna (al contrario dell’Iran dove negli anni accademici 2005-2006 e 2009- 2010, solo per fare un esempio, il numero di donne iscritte all’Università è stato più alto di quello degli uomini). Terrorizzati anche solo dall’ipotesi di un cambiamento democratico al loro interno e che fingono tuttora di sostenere le sempre presunte primavere arabe affinché gattopardescamente tutto cambi senza cambiare nulla.

Petrolio e rivoluzione nazionale, più che la tradizionale contrapposizione tra sunniti e sciiti, dividono Iran e Arabia Saudita in tutto il quadrante mediorientale: dalla Palestina, al Libano, alla Siria e fino a ciò che resta dell’Iraq. E per capirlo basta guardare ai differenti attori che le due forze contrapposte appoggiano sul campo: i movimenti nazionali di Hamas in Palestina (anche se, guarda caso, sunnita) e Hizbullah in Libano e Siria da parte dell’Iran e la fu al-Qaeda e l’esercito del califfato islamico da parte dei paesi del Golfo in tutti i settori dell’attuale scacchiere di guerre e guerriglie africane e mediorientali.

L’altra grande differenza è che con i suoi 29 milioni di abitanti (di cui alcuni milioni di proletari immigrati dall’estremo oriente) l’Arabia Saudita ha da vendere all’Occidente quasi soltanto il suo petrolio e la promessa dei suoi investimenti nelle economie europee e americane, mentre l’Iran con i suoi 78 milioni di abitanti (che supereranno i 100 nei prossimi decenni) oltre che per le materie prime può costituire un mercato interessante per le merci e i capitali occidentali, a caccia di paesi già industrializzati in cui investire.

E questo è l’altro, e non secondario aspetto, degli accordi di Losanna; quello per cui abbiamo visto sostanzialmente le folle festanti nelle strade di Teheran: la fine dell’embargo e la ripresa dei commerci e dei finanziamenti tra aziende iraniane ed aziende e banche occidentali. La parte dell’accordo, cioè, che forse interessa di più anche agli europei. Non ultima la nostra italietta che dai 7,2 miliardi di euro che aveva di interscambio con quel paese nel 2011 è passata a 1,6 miliardi nel 2014 grazie anche alla politica delle sanzioni.

Da sempre privilegiato, fin dai tempi di Enrico Mattei, nei rapporti commerciali con l’Iran, sia sul piano energetico che militare ed industriale, il nostro paese spera oggi di tornare ad un interscambio valutabile intorno agli 8 miliardi di euro annui. E questo spiega anche bene l’entusiasmo dimostrata dall’ Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Federica Mogherini, nei confronti del trattato firmato a Losanna.

Follow the money! E prima o poi troverete anche la guerra perché, se la prima e fin troppo essenziale sintesi finora qui esposta dovesse rivelarsi vera, è chiaro che tutto ciò non potrà far altro che aumentare, invece che contribuire a far diminuire, la conflittualità nell’area mediorientale e nord africana. Rafforzando da un lato i tentativi arabo-sauditi ed israeliani di limitare, se non distruggere, la rinnovata potenza iraniana e dall’altro fornendo ottimi motivi per il rinnovato orgoglio nazionale e per il programma di trasformazione socio-economica e politica dello stesso scacchiere necessario al rafforzamento della società, dell’economia e dell’industria iraniane.

iran 2 La rinnovata spinta iraniana potrebbe essere il motore di una modernizzazione dell’area che avrebbe nella Palestina rifondata, in Libano, nella vicina Siria e in Iraq una base per una diversa distribuzione di poteri e compiti economici. Soltanto per fare un esempio: l’Iran ha ancora oggi un 23% della popolazione impegnata nell’agricoltura, la quale soffre, come del resto gran parte della società iraniana, a causa della scarsità di risorse idriche; in un paese in cui il 65% del territorio è considerato arido, il 20% semi-arido e solamente il 25 % è considerato arabile, mentre per il resto è composto da zone desertiche o da aree montuose. Proviamo quindi ad immaginare cosa possono rappresentare per l’Iran le acque della Mesopotamia e delle alture del Golan. Ma qui si torna, obbligatoriamente, al conflitto con Israele e alla costante caccia a nuove risorse idriche messa in atto dallo stato sionista. Fin dai tempi della Nabka, ovvero della cacciata dei palestinesi dalle loro terre.

In tutta l’area le ferite dei trattati successivi alla fine del primo conflitto mondiale sono ancora aperte: territoriali, etniche, economiche e sociali. Le frasi fatte e i facili slogan non basteranno certo a dirimere tanti e tali problemi e contrasti, tanto meno le dichiarazioni di principio, le dichiarazioni di intenti oppure le fin troppo facili contrapposizioni religiose e culturali. Mentre i cannoni faranno sentire ancora a lungo e sempre di più la loro voce in tutta l’area. Come già anche nello Yemen sta avvenendo, vedendo contrapposti da un lato i ribelli houthi, filo-iraniani, e dall’altro Egitto ed Arabia Saudita, affiancati da Stati Uniti e formazioni qaediste, a sostegno del governo fantoccio in carica.

Senza poi contare che al quadro fin qui delineato andrebbe ancora aggiunto il ruolo ambiguo della Turchia di Erdogan: giovane potenza industriale che con un numero di abitanti simile a quello dell’Iran mira anch’essa a far rivivere l’antico sogno imperiale ottomano tra regioni caucasiche, Mar Nero, Mediterraneo e gran parte del Vicino Oriente. Potenziale avversario “storico” dell’Iran, il paese dei turcomanni vive però oggi una forte contraddizione politica tra una borghesia dinamica, nazionalista e laica e un governo che fonda la sua forza sugli strati sociali più arretrati della campagna, dei bazar e delle città, sventolando un integralismo che lo spinge poi a sbilanciarsi pericolosamente a favore dello Stato Islamico, senza dichiararlo ma cogliendo in esso un ottimo alleato per liquidare le frange più avanzate della resistenza curda.

Far finta di non vedere o ignorare tutto ciò oppure, peggio ancora, schierarsi con gli imperialismi coinvolti o con i loro rappresentanti costituirebbe un autentico suicidio, non soltanto politico. Per tutti.


  1. Per tranquillizzare i quali il Pentagono ha affermato di aver “potenziato e testato la più grande bomba “bunker buster” del proprio arsenale, capace di colpire barsagli sotterranei o pesantemente difesi, quindi di distruggere o disattivare anche i siti nucleari iraniani più protetti qualora l’accordo sul nucleare con Teheran non venisse rispettato e la Casa Bianca decidesse di intraprendere un’azione militare” (USA, pronta una superbomba se l’accordo con l’Iran fallisse, Repubblica.it, 4 aprile 2015)  

  2. Basato anche su una solida coesione tra le varie etnie, tra le quali la principale è proprio quella persiana con il 65% della popolazione e caratterizzata anche da una quasi totale assenza della divisione in clan e tribù che invece costituisce ancora oggi un aspetto importante di gran parte delle società arabe, se non di tutte  

  3. Occorre tener conto del fatto che i cambiamenti di regime istituzionale avvenuti in Egitto, Libia e Iraq erano stati tutti frutto di colpi di stato militari più che di vere e proprie rivolte di popolo, come invece fu in Iran dove milioni di iraniani lottarono scesero in piazza per anni fino alla definitiva caduta dello Scià nel gennaio del 1979. Paragonabile forse soltanto alla nascita della nazione algerina, ma caratterizzata, quest’ultima da una componente anti-coloniale assente quasi del tutto nel caso dell’Iran.  

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Free Bird https://www.carmillaonline.com/2013/08/04/free-bird-2/ Sat, 03 Aug 2013 22:01:44 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=7169 di Filippo Casaccia

Then I Saw Black, And My Face Splashed In The Sky (Neil Young, Powderfinger)

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La premessa è irrituale ma doverosa: vi invito, amabili lettori, – chi può – a procedere nella lettura di questo pezzo con una mano sulle palle, esattamente come sto facendo io che arranco sulla tastiera con la sola destra. Il fatto è che la storia dei Lynyrd Skynyrd, magnifico gruppo rock della metà degli anni 70, è costellata di sfighe inimmaginabili. Ed è la storia di una band che avrebbe potuto dominare [...]]]> di Filippo Casaccia

Then I Saw Black, And My Face Splashed In The Sky (Neil Young, Powderfinger)

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La premessa è irrituale ma doverosa: vi invito, amabili lettori, – chi può – a procedere nella lettura di questo pezzo con una mano sulle palle, esattamente come sto facendo io che arranco sulla tastiera con la sola destra. Il fatto è che la storia dei Lynyrd Skynyrd, magnifico gruppo rock della metà degli anni 70, è costellata di sfighe inimmaginabili.
Ed è la storia di una band che avrebbe potuto dominare le classifiche e gli stadi per molti anni a venire e che nel momento del salto verso lo stardom assoluto è stata decimata da una tragedia che nella storia del rock ha il solo precedente della morte di Buddy Holly: il 20 ottobre 1977 li ferma infatti un incidente aereo che mena gran strage tra le fila del gruppo, privandolo soprattutto del leader Ronnie Van Zant, i Lynyrd Skynyrd fatti persona.

Era appena uscito il disco della consacrazione, Street Survivors, uno dei loro migliori. Il futuro gli sorrideva, la band era ripulita da dipendenze varie e girava di nuovo a mille. Per arrivare a quel momento aveva lottato a lungo e più che una band era una gang, legata da affetto viscerale, rissosa ma unitissima, la classifica famigliola disfunzionale e orgogliosa del Sud degli States che crede nell’etica del lavoro e vuole farcela decidendo di testa propria. I Lynyrd Skynyrd nascono a inizio decennio con negli occhi il successo degli inarrivabili Allman Brothers (altri che hanno resistito a disgrazie a non finire e sono ancora in giro con onore) e nelle orecchie il sound della terza British Invasion, specialmente quello dei rocciosi Free: un incedere blues che sa di bootleg whiskey, ma con una sensibilità pop. Attorno a Van Zant si coagulano i loser della parte sbagliata di Jacksonville, Florida. Non li fermano i loro capelli lunghi, l’atteggiamento hippie e l’ostilità dei redneck che li vedono troppo in confidenza coi neri del luogo, quelli che gli insegnano il blues. L’apprendistato è lungo e faticoso (il nucleo era nato addirittura alla high school, nel 1965), in locali che avete visto satireggiati nei Blues Brothers ma che nella realtà sono anche peggio e dove gli oggetti tirati sul palco sono la norma. La leggenda vuole che il chitarrista Allen Collins, una volta colpito in testa da una bottigliata, sia sceso in mezzo al pubblico per calmare a ceffoni l’esuberante spettatore. Tornò sul palco con tempismo perfetto, esattamente dopo dodici battute, in tempo per pigliarsi il suo assolo. (Con una Gibson Firebird; Gary Rossington, invece, suonava una Les Paul; questo per riconoscerli nelle foto e per dare soddisfazione ai guitar addicted).

ls04Il gruppo si esercita nella comunitaria Hell House, il cui nome dice già tutto: una cabina in legno e lamiera confortevole come una fornace, poco fuori Jacksonville. Lì, diventano presto una formazione che beve benzina, mastica tabacco e caca fulmini, suonando da dio, unita, dinamica e travolgente. Li guida con pugno di ferro Ronnie Van Zant. Voleva essere pugile, poteva essere camionista (come il padre), era diventato un frontman eccezionale: pancetta da bevitore, berretto da cowboy e un’inquietante somiglianza con l’attuale Zucchero. Ronnie canta sul palco a piedi nudi, per chiamare gli assoli fischia come Trapattoni e sprona i suoi uomini puntandogli contro l’asta del microfono, come se fossero una mandria di puledri da domare. Si dice che diriga la band come Stalin l’Unione Sovietica: esige disciplina assoluta e il pianista Billy Powell lo capisce perfettamente dopo aver perso due incisivi.
Però per sfondare serve una botta di culo, che arriva personificata in un borghese ebreo di New York, già nel pantheon rock assieme a Bob Dylan (suona l’organo in Like A Rolling Stone su Highway 61 Revisited), Mike Bloomfield (Super Sessions), Stones (su Let It Bleed), Hendrix (su Electric Ladyland) e i suoi Blood, Sweat & Tears: si chiama Al Kooper.
La gavetta dei Lynyrd finisce quando Al li vede esibirsi in una bettola di Atlanta dal nome che sembra un insulto omofobico siculo, il Funocchio’s. Kooper capisce che ha davanti qualcosa di unico e provvede subito a contrattare la band che – prodotta da lui – esordisce nel 1973 con Pronounced Leh-nerd Skin-nerd, giusto per chiarire quel nome che è una presa per il culo dell’insegnante di ginnastica che tiranneggiava i ragazzi alla high school (e immagino che lo Skinner dei Simpson, preside della scuola di Springfield, sia un omaggio di Matt Groening).
LS02L’album è splendido e mescola blues, hard rock e un pizzico di country, e – assieme alle commoventi Simple Man e Tuesday’s Gone (ma se comincio con gli elenchi non la smetto più) – c’è un brano che spicca e nel tempo diverrà un inno universale, repertorio obbligatorio per qualunque cover band USA: Free Bird, ballatona strazzacore dedicata a Duane Allman e che parte dolente e melanconica e poi si trasforma in una maratona feroce della sei corde, con assoli a profusione in un crescendo inarrestabile e maestoso. Del resto, sul palco la formazione diventa presto a tre chitarre (con Ed King, Fender Stratocaster) e vi assicuro che c’è da goderne e molto. Se ne accorgono in diversi e i Lynyrd ottengono di aprire per gli Who in tour con Quadrophenia: il loro comportamento on the road fa sembrare Keith Moon & company dei boy scout (e parliamo di gente che ha devastato cittadine). Ma il consueto repertorio di stanze d’albergo sfasciate e di liti sul palco o nei camerini, porta anche la grande stampa americana a giocare con una immagine degli Skynyrd sempliciotta e aggressiva, di inurbati rurali un po’ tonti.

Ls03Le vendite non sono granché e ci si gioca il futuro col classico difficile secondo album. Che è l’ottimo Second Helping del 1974, con la consueta formula che mescola tutti gli umori del Sud. E dove c’è anche il pezzo che consegna gli Skynyrd alla storia: Sweet Home Alabama, dal riff inconfondibile e dagli assoli iconici che – parole sue – il chitarrista Ed King avrebbe appreso in sogno. Un pezzo che anche il più schifosamente giovane tra voi conosce, grazie al furbetto Kid Rock che l’ha ripresa qualche estate fa in All Summer Long.
Come tanti successi, la nascita del brano è un po’ casuale e il testo vuole essere una risposta a Neil Young che aveva attaccato lo stato dell’Alabama nell’omonima canzone e in Southern Man. I ragazzi non ci stanno: qui non siamo tutti razzisti. E allora gliela cantano e non mancano di far sentire il coro “Booo Booo Booo” al governatore segregazionista George Wallace. Però il verso, prima, dice: “A Birmingham tutti amano il governatore” e non tutti colgono l’ironia.
I Lynyrd suoneranno pure al concerto per la candidatura definitiva di “Nocciolina” Jimmy Carter (più democratici di così, eccheccazzo) ma è più facile far passare la canzone come un inno sciovinista, orgoglioso della propria burinaggine, tanto più che la casa discografica MCA li fa esibire con un bandierone confederato alle spalle. E così, anche qui da noi, per molti gli Skynyrd passano per dei razzisti bifolchi e a nulla varranno le spiegazioni negli anni a seguire o il fatto che spesso Ronnie si esibisca indossando magliette con foto di Neil Young e che il vecchio canadese scriva Powderfinger proprio per loro (che non la incideranno mai).
Il mercato preferisce il sudista che non si arrende e si definisce addirittura un genere di cui malvolentieri il gruppo di Jacksonville diventa la punta di diamante, quel Southern Rock di cui gli Allman sono i nobili progenitori. È il boom, dalla Florida fino al Texas, e da fenomeno regionale si passa al successo nazionale, con Marshall Tucker Band, Charlie Daniels Band, Outlaws, Wet Willie, Grinderswitch, Black Oak Arkansas, Molly Hatchet, ZZ Top, Blackfoot e tanti altri, in un ideale arco parlamentare che va dal country all’heavy, passando dal soul al jazz, tra cascami hippie e qualche avvisaglia reazionaria.

ls04bIl successo ha un sapore particolare. I cafoni assaporano il senso della rivincita su chiunque li avesse ostacolati e si esibisce la ricchezza ottenuta, si beve whiskey migliore e si accettano date a non finire. Ovviamente scoppiano scazzi feroci e cominciano le defezioni: Ed King scappa letteralmente una notte, a metà del cosiddetto Torture Tour (61 date in 90 giorni), mentre il batterista Bob Burns viene rimandato a casa dall’Inghilterra, dove, esauritissimo, ha gettato un gatto dalla finestra della sua camera d’albergo perché lo riteneva posseduto dal demonio (aveva appena visto L’esorcista… il cinema, alle volte).
Si arriva al terzo album incattiviti ed esausti e, al grido che il Sud ce la farà ancora, si procede, anche se le performance sono meno buone e talvolta ci si esibisce con la mani fasciate o gli occhiali da sole per nascondere gli occhi neri frutto di reciproci pestaggi in camerino. Nuthin’ Fancy (niente di divertente, emblematico) fa fatica e l’inno contro l’uso delle pistole, Saturday Night Special, viene trattato come se le esaltasse. Non ha miglior fortuna il quarto album, del 1976, il pur bello Gimme Back My Bullets. Anche qui polemiche: i “proiettili” che Ronnie vuole indietro sono quelli che scalano le classifiche, come Sweet Home Alabama o Free Bird. Finisce che invece ad ogni concerto il palco venga invaso da una gragnuolata di cartucce vuote o da esplodere. Sembra una commedia degli equivoci.
Tra i pezzi memorabili dell’album c’è Double Trouble che racconta degli undici arresti di Van Zant. Il disco non fa in tempo ad uscire che gli arresti diventano dodici. Ma si distingue anche il nuovo batterista Artimus Pyle che finisce sotto processo perché dopo un concerto viene spintonato da un poliziotto: ovviamente reagisce e lo fa nero. Accorrono rinforzi e lo fanno nero: arrestato.
Il momento di crisi viene superato assoldando una nuova terza chitarra. Dopo tanto cercare, una delle Honkettes (le coriste che accompagnano il gruppo) propone timidamente il fratello, Steve Gaines, che lascia tutti a bocca aperta e mette il pepe ar culo alla band. Il ritrovato smalto sul palco (a Knebworth rubano lo show agli headliner e Ronnie si esibisce con una maglietta che chiede: “Ma chi cazzo sono questi Rolling Stones, dopotutto?”) e il successo imprevedibile di Frampton Comes Alive convincono tutti della necessità di un doppio dal vivo. A fine 1976 ne esce uno di quelli monumentali, One More From The Road, dalla scaletta perfetta e dalle esecuzioni fulmicotoniche, che vende benissimo e rilancia la band.

ls05Il 1977 è l’anno cruciale e il nuovo album Street Survivors nasce sotto cattivi auspici: nello stesso giorno del settembre 1976 (Labor Day, il 6) i chitarristi Allen Collins e Gary Rossington, a causa di droghe e alcol, centrano degli alberi con le loro macchine, separatamente. Van Zant scrive allora la profetica That Smell, sente cioè puzza di morte e non sa quanto ha ragione. Ma l’album è vitale, gioioso, ricco dell’energia portata da Gaines. Il tour parte in contemporanea all’uscita del disco e dopo cinque date, nella serata del 20 ottobre 1977, c’è da viaggiare sul Convair 240 del gruppo, da Greenville, South Carolina, fino a Baton Rouge, Louisiana.
La benzina finisce troppo presto e i motori vanno in vacca uno dopo l’altro: si va in picchiata libera sulle paludi del Mississippi, infestate da serpenti e alligatori. L’impatto è devastante, l’aereo a pezzi. Muoiono sul colpo pilota e copilota, il road manager, Steve Gaines e la sorella corista Cassie.
Van Zant viene sbalzato fuori dalla carlinga e prende un albero con la testa. Per una volta ha la peggio lui.
I sopravvissuti brancolano nel buio in uno scenario da incubo. Artimus Pyle, con sterno rotto e tre costole che gli escono dal petto, cerca soccorso e incontra un bifolco stile Tranquillo week end di paura che lo accoglie – non scherzo – a fucilate ma poi gli dà retta e fa partire i soccorsi che scatenano anche fan (o presunti tali): in mezzo ai soccorritori e ai superstiti urlanti si mescolano avvoltoi che recuperano vestiti, strumenti, gioielli, soldi e qualunque memorabilia sia possibile raccattare dal pantano.
Una volta ricoverato, Artimus ce la farà. Come il bassista Leon Wilkeson che ha la mascella rotta, il torace a pezzi e varie emorragie interne, tanto che viene dichiarato morto ben tre volte. Powell se la cava semplicemente col naso staccato dal volto. Glielo riattaccano. Rossington ha braccia, gambe, polsi, anca e bacino fratturati. Collins due vertebre del collo rotte e il braccio destro ridotto da consigliarne l’amputazione. Che rifiuta.

ls06Cala il sipario e il terribile incidente pone significativamente fine al periodo migliore del Southern Rock. La band si riunisce dieci anni dopo per un tour di tributo e – visto l’enorme successo – non si ferma più: dischi non memorabili seppur dignitosi e una line up che perde i pezzi pian piano. Allen Collins rimane su una sedia a rotelle dopo un incidente d’auto in cui muore la fidanzata. La moglie ci aveva già lasciato nel 1981, incinta, per improvvisa emorragia interna. Lui muore nel 1991 per polmonite cronica. Billy Powell muore il gennaio 2009 per un probabile attacco cardiaco, mentre stava chiamando con intuito il medico. A Leon Wilkeson qualcuno taglia la gola nel sonno nel 1990, mentre è a bordo del tour bus del gruppo (!). Non schiatta ma mai s’è saputo chi fosse il colpevole (la fidanzata e il chitarrista Ed King – all’epoca di nuovo nella band – si accusano reciprocamente: bell’ambientino). Muore nel 2001, a 49 anni, per cause più o meno naturali: cirrosi ed enfisema cronici.
Dal 1987 il nuovo cantante è il fratellino Johnnie Van Zant (voce identica a Ronnie, carisma molto inferiore), che però salta solo alcune date nel 2006 per una banale appendicite, il pivello. Ed King rientra nella band dall’’87 al ’96 quando molla per ripetuti collassi cardiaci. È felicemente ritirato, e lo credo bene: è vivo. Gli subentra Hughie Thomasson, già chitarra rovente degli Outlaws. Che poi lascia per morire nel 2007 causa infarto. Bob Burns è ancora incredibilmente tra noi (e, infatti, non suona più).

I Lynyrd Skynyrd di oggi sono un’esemplare tribute band, diventata reazionaria, musicalmente e politicamente. Non c’è più alcuna contestazione dell’establishment, anzi si moltiplicano le iniziative per appoggiare “i nostri ragazzi” in Afghanistan e Iraq. Ogni tanto viene pubblicato qualche disco che – per forza di cose – non ha alcuna forza propulsiva o inventività. La band suona bene, come sempre, ed è perfetta per le convention dei bikers o per raduni di nostalgici in tutto il mondo. Il solo membro originale è il povero Gary Rossington, uno che convive con 5 bypass cardiaci e diverse placche metalliche disseminate sullo scheletro, cosa che farà la gioia sua e dei controllori ad ogni metal detector aeroportuale.
Insomma, dopo 40 anni, alla band è purtroppo subentrato il brand.
Detto questo: potete levare la mano.
Amen.

(Questo post è stato pubblicato diversi anni fa su Carmilla; lo ripubblichiamo nella speranza che nessuno caschi nell’equivoco su chi siano i Lynyrd Skynyrd oggi).

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