Jhiadismo – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 30 Apr 2024 22:14:56 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.25 Islam: riforma e identità https://www.carmillaonline.com/2019/12/27/islam-riforma-e-identita/ Fri, 27 Dec 2019 22:00:39 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=56902 di Giovanni Iozzoli

Alle volte, per cogliere qualche frammento di verità dentro grandi fenomeni globali di difficile lettura, possono essere utili libri “minori” – quelli scritti da autori eccentrici, privi di pedigree accademico e non facilmente inquadrabili. Se si parla del presente dell’Islam – uno dei nodi più complessi della modernità – vale la pena leggere due libri, non recentissimi: Viaggio al termine dell’Islam di Michael Muhammad Knight (Castelvecchi 2015) e Non c’è Dio all’infuori di Dio. Perché non capiamo l’Islam di Reza Aslam (Rizzoli 2015). Tra le infinite suggestioni che suscitano questi [...]]]> di Giovanni Iozzoli

Alle volte, per cogliere qualche frammento di verità dentro grandi fenomeni globali di difficile lettura, possono essere utili libri “minori” – quelli scritti da autori eccentrici, privi di pedigree accademico e non facilmente inquadrabili. Se si parla del presente dell’Islam – uno dei nodi più complessi della modernità – vale la pena leggere due libri, non recentissimi: Viaggio al termine dell’Islam di Michael Muhammad Knight (Castelvecchi 2015) e Non c’è Dio all’infuori di Dio. Perché non capiamo l’Islam di Reza Aslam (Rizzoli 2015). Tra le infinite suggestioni che suscitano questi due testi, si intrecciano questioni diverse e attualissime: come sta impetuosamente cambiando l’Islam, sotto la spinta potente della modernità; come muta in tempi brevi l’immagine che l’Occidente coltiva dell’Islam; come si intersecano i nodi delle identità – occidentale e “musulmana” – tra conversioni laceranti e silenziose apostasie.

Due autori controversi, dicevamo. Knight è un americano dalla fanciullezza complicata – per essere eufemistici. Si è convertito ad un Islam purista e conservatore alla tenera età di 17 anni. La relazione tra la sua identità di americano – pienamente figlio della sua epoca, dei suoi miti spettacolari, dei suoi linguaggi – e la sua identità di neo-musulmano, riproduce pirotecnici contorcimenti. Affrontati comunque con ironia: in copertina la sua collezione di pupazzini dei personaggi di Star Wars circonda un modellino della Ka’ba – non si capisce se minacciosamente o in adorazione. E’ visto malissimo, Knight, dalle comunità islamo-americane, per i suoi toni dissacranti al limite della bestemmia. Pare invece letto e apprezzato dai giovani musulmani Usa. La sua storia, così estrema e paradossale, racconta molto della produzione di soggettività – abbastanza schizoide – che la modernità sta liberando. Basti dire che Knghit si è interessato all’Islam leggendo gli scritti di Malcom X – a sua volta conosciuto attraverso i testi dei Public Enemy -; si è poi avvicinato ai gruppi neri, separatisti, legati alla Nation of Islam; ha studiato in una madrassa pakistana, aderendo – pare – anche alla resistenza cecena antirussa. Per poi, in età adulta, diventare cultore e narratore della scena Taqwacores (l’area musicale punk-rock diffusa tra i giovani americani di provenienza mediorientale), produrre romanzi e film provocatori – sempre sul filo di lama delle identità meticce e dissacranti – e sfidare a wrestling i suoi eruditi detrattori in barba bianca. Insomma, un americano a tutto tondo.

preferirei essere uno sciita a New York che al Cairo o un sunnita a New York che a Theran. Preferirei essere un ahmadi a New York che a Lahore, preferirei essere un sufi a New York che alla Mecca. E’ una cosa stronza da dire? […] Forse l’America era davvero la nazione più sinceramente Islam-friendly del mondo. (pag. 19)

Ed è un nodo interessante: le democrazie tardo liberali ti lasciano essere ciò che vuoi, praticare qualsiasi eresia, coltivare qualsiasi culto; purché questi trasformismi identitari non intacchino la vera unica fede che deve far da sfondo a ogni identità: il monoteismo del profitto – della merce, del denaro, della supremazia anglosassone. Per cui si può tollerare benissimo la moschea – o la pagoda o qualsiasi altro tempio – nel grande melting pot della metropoli americana: ma si bombarderà spietatamente la medesima moschea in Afghanistan o in Pachistan se si sospetta sede di attività antiamericane. Non è questione di islamofobia, solo business e policy. E’ pur sempre il paese che ha avuto per otto anni un presidente dal nome arabo (di esibita fede cristiana, puntualizza Knight, perché avrebbe avuto il medesimo problema di accettazione se si fosse dichiarato musulmano o ateo).

Knight rievoca in continuazione gli eroi profetici di una storia non sua: come quella del Nobile Drew Ali, il fondatore del Tempio della Scienza Moresca, un predicatore di inizio secolo che, grazie a un eclettismo vertiginoso – tra teosofia e riscrittura coranica – portò per la prima volta il termine Islam nei ghetti di Chicago e New York, invocando l’“orgoglio moresco” dei popoli “scuri” e sventolando orgogliosamente la bandiera del Marocco ad Harlem. Ugualmente carismatico fu il suo seguace Wallace Fard Muhammad, poi fondatore della Nation of Islam, autoproclamatosi addirittura incarnazione profetica. Fard scompare misteriosamente negli anni ‘30 e Knight, nel suo personale pellegrinaggio americano, crede di averne persino ritrovato le tracce, che arrivano fino agli infuocati anni ’70. La cosa paradossale è che uno come Knight, agli occhi di Fard, sarebbe stato etichettato solo come “un diavolo dagli occhi blu”, essendo la teologia della Nation fondata su un afroislamismo che rievoca suggestioni e leggende circa la supremazia della razza nera e il carattere demoniaco di quella bianca. In quel furioso convulso inizio del ’900 americano, con le prime generazioni di ex schiavi che si riversavano nelle città ridisegnandone linguaggi e culture, la scelta di usare l’Islam come veicolo di militanza e organizzazione non era astrusa. Per tutto il ’900, l’Islam – o meglio “l’dea di Islam” di volta in volta più funzionale allo scopo – è stato spesso sventolato come bandiera di emancipazione o di resistenza antimperialista, non solo nelle colonie ma anche nei ghetti metropolitani. Negli Usa diventò potente fattore di attivazione di un orgoglio black motivato teologicamente: creare la Nazione nera dei puri e dei santi, contro la razza depravata dei bianchi oppressori. Erano anche gli anni in cui Garwey elaborava il mito parallelo del ritorno all’Africa come nuova Sion. Insomma, un guazzabuglio nel quale Michael Muhammad Knight si muove testardamente, quasi rassegnato all’idea che la sua vita debba essere fondata sull’incoerenza. Tanto da continuare a preferire i discorsi di Fard contro i “diavoli bianchi”, al Malcom X ultimo periodo, che lascia la Nation e si converte all’universalismo dell’islamicamente corretto. Del resto la letteratura è contraddizione, scandalo, paradosso: e se tutto si incanala nel binario giusto, cosa resta da scrivere ad un povero narratore della post-modernità?

Nelle sue pagine meno narcisistiche e dissacranti, Knight lascia affiorare un afflato spirituale reale, malinconico, dolente, che non trova nelle forme attuali dell’Islam un suo appagamento. Come ogni scrittore americano in crisi di identità, Knight partorisce il suo romanzo on the road, un racconto di viaggio mistico e prosaico, sacro e dissacrante tra Pakistan, Siria, Etiopia e lo conclude in Arabia Saudita, intraprendendo infine l’Haji, il sacro pellegrinaggio alla Mecca. Ovunque Knight semina la sua confusione e le sue domande irrisolte: prega nei grandi mausolei dei santi pakistani, visita il Minareto Bianco di Damasco da cui Gesù discenderà per decapitare l’Anticristo; irride il rigore iconoclasta della polizia religiosa saudita che vigila affinché le modalità del culto siano in linea con le prescrizioni governative; infine in un eccesso parossistico, proprio in casa del nemico saudita – simbolo della ipocrisia e della burocratizzazione del potere religioso – si “converte” allo sciismo e piange sul destino di Husayn e di tutti i martiri.

Knight è solo uno scrittore dall’identità impazzita come una maionese? E’ solo il figlio di un tempo in cui per la prima volta le persone possono decidere cosa essere – anche quale maschera indossare – per assecondare bisogni, desideri e frustrazioni dell’ego? Ma allora perché rimanere testardamente attaccato proprio alla più complicata, scomoda e “pesante” tra le tante maschere disponibili – quella musulmana? Per lacerarsi masochisticamente nei dubbi? Perché ormai si è ritagliato una fetta di mercato come convertito dissacratore?

Negli ultimi 15 anni Maometto era diventato il mio linguaggio, il tramite delle mie domande e risposte. Se questo linguaggio aveva un cuore concreto in questo mondo, se da qualche parte si poteva trovare una traccia di Maometto, allora portatemi là. Portatemi da lui. (pag. 269)

C’è dell’altro, in questo ragazzone, al di là delle pose, qualcosa di altrettanto contemporaneo e pungente: una malattia dell’anima, la struggente mancanza che si avverte anche quando si chiude il libro appena scritto, l’inafferrabilità della verità dietro le ombre colorate della società dello spettacolo, il senso di crisi e di decadenza che si intravede dietro ogni ottimismo tecnologico. Da questo punto di vista è una lettura stimolante per tutti, non solo per i cultori della materia.

Reaza Aslam, non è meno interessante, in tema di nomadismi identitari; la famiglia, iraniana, scappa dalla rivoluzione Khomeinista e lui cresce in America – la terra dove ogni gnosi e ogni materialismo, anche i più estremi, convivono serenamente. Si converte giovanissimo al cristianesimo pentecostale e poi si “riconverte” allo sciismo, di cui rivendica tutt’ora l’appartenenza, sia pure nelle forme estremamente eterodosse tipiche dell’intellettuale inquieto che è. Tra le molte cose del suo curriculum, si è occupato (ovviamente) dei gruppi spirituali marginali – le frange, i bordi estremi dell’esperienza religiosa – perorando la causa del Bahismo perseguitato in Iran; o provocando l’indignazione degli induisti americani per aver mostrato in un documentario un asceta tantrico che mangia resti di cervello umano, stile Hannibal.

Insomma, il tipo giusto per affrontare una questione colossale e stringente:

Dopo quattordici secoli di furiosi dibattiti su cosa significhi essere musulmano, di accese discussioni sull’interpretazione del Corano e sull’applicazione della legge islamica, di tentativi di riconciliare una comunità divisa appellandosi all’Unità Divina, di lotte tribali, crociate e guerre mondiali, l’Islam è entrato nel suo quindicesimo secolo e ha iniziato a realizzare la sua lungamente attesa e tanto combattuta Riforma. Questa non verrà però risolta nei deserti della Penisola arabica, dove il messaggio dell’Islam ha fatto la sua comparsa sulla terra, ma nelle capitali dei paesi in via di sviluppo del mondo islamico (Theran, il Cairo, Damasco e Giacarta) e nelle capitali cosmopolite dell’Europa e degli Sati Uniti (Londra, Parigi, Berlino e New York), dove il messaggio islamico viene oggi rielaborato da schiere di immigrati musulmani di prima e seconda generazione, stanchi della predominanza del tradizionalismo e della militanza nella loro fede […] Come le riforme del passato, anche questo sarà un evento terrificante, un evento che ha già iniziato a travolgere il mondo. Ma dalle ceneri del cataclisma emergerà un nuovo capitolo della storia dell’Islam; e anche se resta ancora da vedere chi scriverà questo capitolo, è imminente una nuova rivelazione che si è risvegliata, dopo secoli di sonno, e sta avanzando verso Medina per rinascere. (pag. 330)

Raza è ben consapevole della problematicità dell’uso della categoria “Riforma”, applicato all’analisi di fenomeni assolutamente estranei a quella storia. Ma mantiene il termine, proprio per il senso di drammatico passaggio storico che essa evoca: così come la Riforma Luterana ha ridisegnato poteri e culture in Europa, così la Riforma Islamica di cui prevede (e auspica) l’avvento, stravolgerà l’attuale forma del mondo politico-religioso musulmano. L’evocazione delle guerre di religione europee è anche pertinente storicamente: sarà un processo travagliato, doloroso, almeno quanto lo furono i conflitti intestini che spaccarono e incendiarono il nostro continente, fino alla conclusione della Guerra dei Trent’anni.

Ma attraverso quali segni l’autore preconizza l’inizio di questa grande Riforma? Essenzialmente nella decadenza delle istituzioni e delle élite specialistiche, destinate alla trasmissione del sapere nel mondo islamico – vedi la caduta di prestigio dell’Università di Al Azahr, l’istituzione più prossima all’idea di un “centro” teologico-giurisprudenziale comune, costituitosi in seno al variegatissimo universo islamico.

In passato se un musulmano del Cairo voleva una fatwa, ossia un editto religioso su un argomento controverso, doveva sedere ai piedi dei venerabili studiosi dell’Università Al Azhar, le cui opinioni su questioni religiose e sociali erano legge. Oggi quel musulmano può starsene a casa , connettersi a IslamOnline e frugare nel vasto archivio di fatwe nuove o precedentemente pubblicate […] Poiché provengono da un’ampia varietà di fonti, l’utente può accedere a numerose fatwe, spesso contrastanti, sullo stesso argomento: non deve far altro che decidere quale gli piace di più. […] Se il responso del cyber-mufti si dimostra insoddisfacente, l’utente può rivolgersi ad uno dei concorrenti di IslamOnline, come FatwaOnline.com, IslamismScope.net […] Oppure un migliaio di altri siti gestiti da uno stuolo di leader religiosi e laici, attivisti e accademici, guide spirituali, intellettuali e dilettanti, ognuno dei quali può estendere la sua influenza al di fuori della comunità locale con un semplice indirizzo IP. (…) E’ difficile esagerare l’impatto che ha avuto Internet non soltanto sull’evoluzione dell’Islam, ma in maniera più significativa, sul modo in cui l’autorità religiosa si è dispersa e democratizzata. L’unico paragone legittimo è con l’invenzione della stampa, perché esattamente come quel progresso tecnologico spinse l’Europa cristiana verso la Riforma protestante […], così Internet è diventato il veicolo grazie al quale la Riforma islamica si sta realizzando. (pag. 342)

Pur senza condividere eccessivi cyber-entusiasmi (da cui noi occidentali dovremmo ormai essere vaccinati), è evidente che dentro il mondo islamico, anagraficamente giovane, dinamico e in espansione, molte cose stanno bollendo e molti cambiamenti sono irreversibili. La moderna Umma globale non si fida più delle sue guide, le mette in discussione e grazie all’iperconnessione globale inventa nuovi centri di elaborazione, nuovi canali di comunicazione, nuove prassi che silenziosamente possono diventare egemoni.

Certo, è uno scenario che si sta sviluppando in due direzioni contraddittorie: da una parte si potrebbero moltiplicare le spinte centrifughe verso lo Jhiadismo globale, definitivamente svincolato dalla necessità di farsi legittimare teologicamente da una qualche autorità; dall’altro potrebbero sorgere fenomeni di ibridazione culturale molto interessanti in senso democratico – pensiamo ad una nuova generazione di guide comunitarie giovani e di sesso femminile, già visibili nel contesto italiano. Sia chiaro però che lo scontro non è tra “Tradizione e innovazione”: l’uno e l’altro esito saranno entrambi espressioni dell’impatto dell’Islam con la modernità. Infatti, al di là di mitopoiesi e apparati coreografici, il salafismo e lo Jhiadismo, sono fenomeni contemporanei e recenti (in senso relativo lo è anche il wahabbismo) che, pur richiamandosi a purezze arcaiche, hanno fatto la loro irruzione sulla scena solo da qualche decennio, occupando l’immaginario collettivo a suon di bombe e califfati fasulli – sempre, tra l’altro, dentro un forte intreccio logistico, militare e finanziario, con gli Stati impegnati nella contesa geopolitica globale.

Siamo davvero davanti a un passaggio epocale. Bisogna prestare molta attenzione a questi scenari, analizzarli, condividere con le comunità islamiche occidentali livelli di dibattito sempre più profondi, contrastare ogni anacronistica islamofobia: come dice l’autore, le periferie di Londra e di Parigi saranno palcoscenici importanti, quanto quelli mediorientali, nella definizione degli equilibri futuri del mondo.

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Isis: il gran ballo in maschera della modernità globale https://www.carmillaonline.com/2017/07/11/isis-gran-ballo-maschera-della-modernita-globale/ Mon, 10 Jul 2017 22:01:32 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=39287 di Giovanni Iozzoli

Mentre sta tramontando, tra le rovine di Mosul e Raqqa, la dimensione geografica e “statuale” del Califfato, è bene continuare ad indagare il senso e la traiettoria storica di questa presenza – che perdurerà ancora lungo, in forme mobili e deterritorializzate, a cavallo di almeno due continenti.

Da alcuni anni è aperto il dibattito sul rapporto complesso e ambivalente tra il fenomeno Isis e la modernità. Ci si è chiesto spesso: la comparsa del Califfato è l’ultimo culminante episodio dell’impatto critico e autodistruttivo del mondo islamico con le categorie del [...]]]> di Giovanni Iozzoli

Mentre sta tramontando, tra le rovine di Mosul e Raqqa, la dimensione geografica e “statuale” del Califfato, è bene continuare ad indagare il senso e la traiettoria storica di questa presenza – che perdurerà ancora lungo, in forme mobili e deterritorializzate, a cavallo di almeno due continenti.

Da alcuni anni è aperto il dibattito sul rapporto complesso e ambivalente tra il fenomeno Isis e la modernità. Ci si è chiesto spesso: la comparsa del Califfato è l’ultimo culminante episodio dell’impatto critico e autodistruttivo del mondo islamico con le categorie del moderno, o piuttosto è il segnale di una insospettabile capacità di adattamento, alla modernità stessa? Certo bisognerebbe perimetrare due concetti inafferrabili e mutevoli: l’Islam (che come categoria astratta e meta-storica non esiste) e la Modernità (che è un cantiere concettuale sempre aperto e in perenne evoluzione). Ma l’argomento è affascinante e vale la pena entrarci, in una modalità che allarghi il discorso specialistico solitamente riservato agli storici, agli islamologi, agli antropologi.

Di solito, quando si parla dello Jhiadismo globale e del suo rapporto con la modernità, ci si sofferma sulla dimensione, morbosa ed efficacissima, della padronanza tecnologica dei media, che questa forza manifesta. Ci sorprende vedere tagliagole barbuti, fautori di arcaismi secolari, maneggiare la infosfera con tale efficacia hollywoodiana. I boia stringono in pugno il coltellaccio, ma in tasca hanno uno smartphone iperconnesso e rappresentano se stessi su riviste on line graficamente raffinate. Questo ci turba: perché associamo la tecnologia alla civiltà (o almeno a quel che supponiamo essa dovrebbe essere). Naturalmente basta volgere lo sguardo pochi decenni indietro, nel cuore della civilissima Europa infettata dal nazismo, per cogliere la medesima ambivalenza: un movimento propugnante valori parimenti arcaici, ma altrettanto disinvolto nel suo rapporto con la Tecnica, nell’epoca del pieno sviluppo della grande industria di massa e del capitalismo monopolistico di Stato. Anzi: in alcuni casi si può dire che più il campo valoriale è regressivo – e ostentatamente arcaico – più il rapporto con la tecnologia pare diventare ossessivo, quasi come se le due dimensioni si legittimassero a vicenda. Questo cortocircuito, rende confusi e circospetti: quello che ci viene raccontato come il nemico estremo, gioca nella nostra stessa metà campo, non è un alieno germinato nei deserti, condivide il nostro background e, quando può, il nostro stesso stile di vita sostanziale – essendo la comune dimensione bio-politica totalmente informata e forgiata da tempi e modi della tecnologia.

Ma il feeling di queste forme di radicalismo con la modernità è ancora più profondo ed evocativo, e va oltre le considerazioni circa l’uso dei media e del web.
L’Isis non è solo l’onda lunga di uno Jhiadismo globale che nasce 40 anni fa negli altipiani afghani con i dollari americani e i petroldollari sauditi. Rappresenta una evoluzione della specie, se così possiamo dire, di quel filone (da qui le rotture sanguinose con Al Qaeda e con i Talebani). L’approccio dell’Isis è inedito, più radicale e catartico, rispetto qualsiasi altra soggettività islamista mai apparsa nell’ultimo secolo: il progetto neo-califfale punta alla costruzione un “Homo Novus” islamico, provando a fare tabula rasa (non solo ideologicamente) di ogni passato, in una prassi di soppressione e cancellazione delle memorie pre-esistenti – comprese quelle islamiche locali. Dai complessi monumentali antichi – sopravvissuti per 1400 anni alle diverse autorità religiose succedutesi nel tempo -, fino alle tombe degli odiatissimi sufi, la furia distruttrice rivela qualcosa che va ben oltre l’iconoclastia. Si tratta di un’azione velleitaria e folle di “ricostruzione da zero” del Soggetto e della sua realtà: una qualche forma di titanica velleità prometeica, in cui un pugno di eletti, rifonda il corso storico e decreta, dal pulpito di una moschea, la nascita di un “musulmano nuovo” – che inevitabilmente richiama il mito dell’”uomo nuovo” che verrebbe partorito dalle macerie fumanti di ogni palingenesi, reale o presunta.

Questo schema, alle orecchie di noi occidentali, non suona propriamente inedito – è qualcosa che ha molto a che vedere con la Modernità (e con la Politica, sua figlia prediletta). Sono discorsi che evocano movenze e attriti che si sono già inverati, soprattutto nel corso del ventesimo secolo, e di cui siamo stati testimoni e protagonisti. L’idea della tabula rasa su cui ri-edificare, con la forza illuminata ( dalla Ragione o dalla Rivelazione, cambia poco) della volontà, un Mondo Nuovo e un Uomo Nuovo che lo abiti, è una suggestione profondamente radicata nella storia europea, nella NOSTRA storia, almeno dall’89 francese in poi. Il Mostro, l’estraneo, ha attinto largamente dal “nostro” armamentario ideologico, rovesciandone il segno e accelerandone, in una furia devastatrice, la fase del kathairo, dell’estirpazione, del fuoco purificatore.

La storia dell’Islam non conosceva questa ansia catartica.
Dopo il primo secolo di folgorante espansione, diventa a suo modo una storia di lentezza, di confini mobili e porosi, di perdite, riconquiste e sovrapposizioni di civiltà e culture che si succedono per secoli. Persino la predicazione profetica impiegò 26 anni a radicarsi. Le culture tradizionali (pre-moderne) avevano consapevolezza del tempo storico, dell’impossibilità di forzarlo.

Già nel corso del primo secolo, entrando in collisione con i residui degli imperi siriani e persiani, il baricentro del mondo islamico si sposta verso Damasco e Baghdad, assorbendone parte delle eredità millenarie. Si definisce il profilo storico di un islam “persiano” e metropolitano, lontano dai deserti e dalle rotte carovaniere della penisola arabica. E, proseguendo, nascerà un Islam mediterraneo, berbero-andaluso, poi afghano-indiano e quindi turco-caucasico.
Questi molti Islam plurali erano il prodotto di un meticciato profondo e di complesse stratificazioni. Il massiccio edificio coranico, apparentemente monolitico era in grado di fare i conti con la storia concreta dei popoli – dalla Spagna alla Cina – senza la pretesa di cancellarla e riscriverla in toto. Non c’erano modelli preconfezionati da importare o adottare: tutto – dalle forme di governo fino alla teologia – risultava essere il prodotto di infiniti processi di aggiustamento, conflitto e convivenza, che definivano assetti di volta in volta nuovi e diversi.

L’idea di un Islam immutato e immobile nei secoli è una scempiaggine moderna, che l’Occidente sbandiera come alibi e falsa coscienza: gli Islam sono sempre stati molti e diversi ed epoca dopo epoca, l’Occidente ha idealtipizzato uno di questi modelli, a seconda delle sue necessità politiche, di lotta, colonizzazione o cooptazione di settori di quel mondo.

La edificazione dello pseudo-Califfato dell’Isis, mostra una insospettabile consapevolezza, da parte dei gruppi dirigenti jhiadisti, delle tematiche della governance contemporanea. Non per niente, pezzi importanti del Bathismo (cioè dell’eredità pan-arabista, laica e modernista) vi hanno aderito con disinvoltura.
Lo stesso richiamo alla categoria di “Stato” che Daesh sbandiera nella sua denominazione, è una suggestione moderna e molto “occidentale”: l’Islam tradizionale, nel corso storico concreto, ha sempre prodotto la dimensione imperiale – che significa multietnicità, pluriconfessionalità, livelli diversi di potere che si equilibrano, tra Emirati, Città-Stato, comunità, confraternite. L’idea moderna di Stato, con un’architettura rigida, definita e non mediabile dei poteri, strumento di formidabile accelerazione dei processi storici, è un concetto estraneo alla tradizione islamica. L’Isis esalta il concetto di edificazione dello Stato proprio perché lo Stato è l’unico strumento possibile di governo della modernità – soprattutto nella sua razionale spietatezza. Tanto per capirci: il genocidio armeno è il biglietto da visita dei “giovani turchi” di Ataturk e uno degli atti di fondazione della moderna Turchia laica (il Sultanato, ostaggio impotente, sarebbe stato soppresso da lì a poco).
Il genocidio organizzato è il marchio di fabbrica dello Stato moderno e delle sue logiche di epurazione ed omogeneizzazione interna.

Questo è anche il filo conduttore della politica dell’autoproclamato Stato Islamico: ricostruire la Umma depurandola di tutti gli elementi spuri (quelli che disconoscono l’autorità califfale), dotare questo corpo finalmente omogeneo di confini ideologici e materiali insormontabili, costituirsi come fondazione di una storia nuova, dove tutto il tempo pregresso è jahillya, età dell’ignoranza da ripudiare.
È per legittimarsi modernamente come Stato, che l’Isis sbandiera le sue efferatezze (quelle che gli altri attori in campo di solito nascondono): il monopolio della violenza è l’unico elemento di “statualità” che possono giocarsi efficacemente davanti ai territori controllati e al mondo – mancando tutti gli altri, soprattutto quelli che possono avere un rapporto con una qualche idea di governo della polis. La legittimazione dell’Autorità politica e statuale, è direttamente proporzionale alla ferocia esibita. Il meccanismo di riconoscimento che vogliono stimolare nei popoli è in fondo semplice: se arrivano davvero a fare “questo” – decapitare, bruciare, squartare – ed hanno il coraggio di diffonderlo, vuol dire che incarnano davvero un Potere legittimo, perché solo un Potere legittimo può essere in grado di padroneggiare il Male e trasformarlo in virtù pubblica e Legge. Perché, altrimenti, i giacobini esibivano le teste mozzate davanti a tutta Europa – se non come fattore di auto-legittimazione, dentro il parto doloroso della modernità? E questo è stato il refrain di molte epopee rivoluzionarie: la nuova legalità ha bisogno della catarsi – ce lo chiede la storia…

La prassi e l’ideologia dell’Isis si mostrano quindi come prodotto ideologico di laboratorio (anche sofisticato) che, pur evocando le sacre radici della Tradizione, trova riscontro più che nella vicenda storica concreta dell’Islam, nelle convulsioni geopolitiche della tarda modernità, nelle sue accelerazioni, nella sue proteiche riconfigurazioni.

Oggi l’Isis viene raffigurato come l’emblema del Male e del Nemico Assoluto. Il nuovo feroce Saladino che legittima l’esistenza di formidabili apparati militari di contrasto, nonché la irreversibile militarizzazione della società e della metropoli.
Come paradossalmente spesso capita nella storia, però, cerchi il Nemico, cerchi l’Altro per eccellenza, il barbaro, il sub-umano, e trovi uno specchio che riflette una tua immagine distorta…

L’Isis propugna una rifondazione radicale dell’umano, esattamente come il capitalismo globalizzato e finanziarizzato. Il Mercato Globale considera le identità pregresse – di mestiere, di territorio, sociali, comunitarie, linguistiche – come zavorre da tagliare, sopravvivenze che ostacolano l’avvento del Consumatore Finale, un Uomo Nuovo senza radici, senza storia, prigioniero di una miserabile tecno-neo-lingua, senza territorio, fisiologicamente migrante – un flusso di desideri indotti fatalmente destinati all’insoddisfazione. Ma questo è precisamente il dispositivo di formattazione dell’Isis: il modello, per chi giungeva volontario nei territori governati dal Califfo, era quello di una radicale spoliazione di identità; non eri più un musulmano bosniaco o francese o indonesiano, con la tua ricca storia linguistica, familiare, etnografica. No, eri un credente “rinato” che come primo atto di fedeltà doveva indossare un abito mentale (e materiale) che ti rendesse indistinguibile e azzerasse la tua biografia.
Il Paradiso – che nella rozza e puerile versione salafita è un luogo di piaceri sensuali da consumare ad libitum – si presenta come un enorme carico di delizie, che ti aspetta dietro l’angolo dell’obbedienza e del martirio.
Allo stesso modo il Paradiso capitalistico: che è sempre un metro più in là, che esige sempre una performance in più, che evoca sempre aspettative di godimento favolose per le quali non sei mai pronto, se non in patetiche anticipazioni surrogate.
Sono due approcci entrambi molto “materialisti”, fondati sulla compravendita del Corpo e l’attesa del Godimento, mediati da una logica puramente mercantile. Dai tutto te stesso – al Califfo o al Mercato – e alla fine riceverai il premio della degnità, della adeguatezza al modello e della materialissima soddisfazione dei sensi. Persino un afflato sinceramente religioso, o un soffio di trascendenza, risultano fuori posto, in questi schemi di scambio.

L’adesione all’Isis – almeno in occidente – è anch’essa il risultato di una opzione individualista, fuori da meccanismi comunitari o da qualche dibattito collettivo. È l’approccio tipico del consumatore contemporaneo, un individuo solo nella sua vacuità, che davanti allo schermo del suo computer sceglie quale “prodotto” sia più adeguato a riempire il vuoto nichilista della propria esistenza. Il “lupo solitario” resta tale dall’inizio alla fine del percorso – quando si connette per la prima volta a una chat o ai siti jhaidisti, fino a quando sceglie di uccidere e uccidersi nelle strade di una metropoli europea.
La Umma virtuale dei desideri frustrati, delle identità fittizie, dell’altrettanto fittizio tentativo di ricostruzione di senso – attraverso la strage e il suicidio – usando solo una tastiera e la disperata pulsione autodistruttiva, oggi tanto in voga.

Materialismo mercantile, immersione acritica nella Tecnica, utopie di rifondazione catartica dell’umano: più che una sopravvivenza anacronistica, queste forze sembrano una variante pienamente legittima della contemporaneità.

Del resto, è la la storia recente di questo universo pseudo-jhiadista , a rivelare se stesso. La Salafya – cioè l’insieme di scuole e tendenze che vorrebbero rifarsi esclusivamente ai costumi delle prime tre generazioni di musulmani – è una invenzione moderna, che ostenta tradizionalismi inventati. Rifiuta ed è rifiutata dalle quattro scuole legittime. Nasce e alligna dentro lo scontro geo-politico della fine del ventesimo secolo e per diffondersi ha avuto bisogno di decenni di enormi investimenti economici: masse di ulema-commissari politici, migliaia di moschee edificate ai quattro angoli del pianeta, la collaborazione logistica di molti apparati statali, compreso quello israeliano. I Salafiti “ufficiali” in larga parte rifiutano lo stragismo terrorista, ma molti musulmani dicono di loro che “sono un prodotto occidentale, come la Coca Cola”.

E se la Salafya è il frutto di un grande investimento geo-politico-strategico, stessa cosa vale per il suo fratello maggiore, il wahabismo – la dottrina ufficiale dell’Arabia saudita – che è parimenti il prodotto, moderno, del…. ciclo degli idrocarburi. Senza il petrolio, nessuno oggi conoscerebbe lo sciagurato estremismo di Abd al-Wahab, pazzo predicatore sconfitto e scacciato dalla penisola arabica tra la fine e l’inizio dei secoli diciottesimo e diciannovesimo. È solo la forza del mare di petrolio, su cui i discendenti dei Saud si ritroveranno seduti un secolo dopo, che ha consentito al wahabismo di diventare dottrina di Stato in buona parte delle monarchie del Golfo. E di produrre una sciagurata egemonia in territori e settori di mondo arabo, fino a pochi anni fa alieni a quella cultura. Lo Spirito, la predicazione, l’ortodossia e l’osservanza, c’entrano poco: la materialissima e modernissima forza del dio petrol-dollaro, disegna nel vuoto suggestioni iper tradizionaliste, gestisce fondazioni miliardarie, demolisce le tombe e le antiche vestigia del passato profetico e costruisce super alberghi a 5 stelle che fanno ombra alla Ka’ba. Materialismo, finanza, investimenti, guerre e posizionamenti sullo scacchiere internazionale – altro che sharia.

Insomma, cerchi i barbari alle porte e trovi che siamo tutti immersi nel medesimo imbarbarimento. E che esso riflette pienamente il presente e il futuro verso cui marciamo.

In conclusione, una domanda ritorna costantemente, con buona ragione: ma questo ciclo jhiadista, c’entra o non c’entra con la religione? È tutto politica, è tutto strumentalità, è tutto costruzione artificiale eterodiretta? La fede, sta all’inizio o alla fine, di questa catena di disastri che si squaderna davanti ai nostri occhi?
È difficile dare risposte semplici a problematiche tanto complesse, ma traslare la domanda su un altro piano, a noi più consueto, forse ci aiuta: le Crociate c’entravano o no con la religione?
Certo che c’entravano, sarebbe puerile negarlo. La croce e il mito della difesa dei Luoghi Sacri erano il fattore ideologico di mobilitazione per le masse e l’elemento di nobilitazione dell’impresa, mica una banale sovrastruttura. Però: le Crociate spontanee, quelle sollecitate dal fanatismo (le cosiddette Crociate dei pezzenti) non riuscirono mai neanche ad arrivare a Gerusalemme, vagarono senza mezzi per le contrade europee fino ai territori bizantini, si “limitarono” a saccheggi e pogrom antiebraici e poi furono disperse.
Le vere Crociate le organizzarono Papi, Imperatori, Re e Principi. Gli Stati.
Non qualche fanatico imbecille.

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