Jesse James – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 31 Aug 2025 20:00:19 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Pantera, magia e rivoluzione nel vecchio west di Valerio Evangelisti /4 https://www.carmillaonline.com/2023/10/28/pantera-magia-e-rivoluzione-nel-vecchio-west-di-valerio-evangelisti-4/ Fri, 27 Oct 2023 22:30:50 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79560 di Fabio Ciabatti

Avevamo concluso la precedente puntata con Pantera che per la prima volta aveva assemblato un Nganga con parti di un corpo femminile, quelle di Molly. Come anticipato si tratta di una piccola svolta. E questo ci dà il destro per accennare al rapporto di Pantera con il mondo femminile, tema che emerge ripetutamente anche se sottotraccia (sicuramente in modo meno centrale rispetto a quello che accade per Eymerich). Evangelisti evoca il cliché dell’eroe che salva la fanciulla indifesa e poi convola a giuste copule. Ma si [...]]]> di Fabio Ciabatti

Avevamo concluso la precedente puntata con Pantera che per la prima volta aveva assemblato un Nganga con parti di un corpo femminile, quelle di Molly. Come anticipato si tratta di una piccola svolta. E questo ci dà il destro per accennare al rapporto di Pantera con il mondo femminile, tema che emerge ripetutamente anche se sottotraccia (sicuramente in modo meno centrale rispetto a quello che accade per Eymerich). Evangelisti evoca il cliché dell’eroe che salva la fanciulla indifesa e poi convola a giuste copule. Ma si guarda bene dal cascarci dentro. Pantera non ha mai una storia d’amore. Solo rapporti sessuali occasionali, sempre con prostitute nei confronti delle quali, comunque, nutre un sostanziale rispetto, sempre nei limiti consentiti dalla sua connaturata asocialità. Finisce per avere atteggiamenti protettivi, soprattutto nei confronti delle giovanissime Cindy e Kate, dopo aver sperimentato un profondo turbamento per le loro rispettive sorti. Più scostante il suo comportamento nei confronti di Molly alla quale, però, è profondamente legato. Le tre principali figure femminili, nonostante appaiono inizialmente fragili e indifese, dimostrano alla resa dei conti un’insospettabile forza. E i rapporti stretti con loro non passano senza lasciare tracce significative. Potremmo dire che la cruda visione del mondo di Pantera viene un po’ ingentilita o, per meglio dire, resa più empatica.
Questo è particolarmente evidente quando il
palero assembla il suo Nganga con i resti mortali di Molly. È la piccola svolta cui abbiamo accennato. L’universo spirituale di Pantera, che fino a questo momento ci è stato presentato come abitato da divinità potenti fino al limite della brutalità, si arricchisce di una nuova sensibilità. Il Santo, o meglio la Santa, comunica a Pantera nuove sensazioni: meno cattiva dei precedenti Nganga, è capace di sorridere con divertimento, di trasmettere affetto con qualche sfumatura dispettosa, di ispirare pensieri gentili, ma può anche arrabbiarsi al momento giusto sciorinando visioni di antiche cerimonie sacrificali.
Allo spirito di Molly Pantera finisce per attribuire disposizioni d’animo per lui inconsuete e di primo acchito assai fastidiose. Dopo aver assistito a un ultimo eccidio, per esempio, continua a provare un acuto senso di nausea sebbene nella sua vita abbia già assistito molte volte a scene di efferata violenza. Cercando una spiegazione razionale chiama in causa l’insopportabile ipocrisia degli americani che

Avevano una capacità diabolica nel ricondurre prepotenze e delitti da loro perpetrati a motivazioni di particolare nobiltà, anche quando il movente vero era l’istinto di sopraffazione o un interesse di infimo contenuto etico.1

Si tratta di una spiegazione plausibile? Pantera ne dubita:

forse – e questa era la spiegazione irrazionale: dunque, probabilmente, la sola autentica – Pantera era condizionato dal fatto di avere Molly nel Nganga, e dunque di subirne la sensibilità. Se ciò fosse risultato certo, se ne sarebbe sbarazzato in fretta. Per il momento, l’unico dato sicuro era la nausea persistente.2

Ma non è tutto. Pantera dà la colpa allo spirito di Molly di essere “capitato in mezzo a congreghe di utopisti”, un genere di persone che aveva sempre tollerato a stento. Insomma, dopo mille esitazioni, il messicano si affilia alla società operaia Le cinque stelle. Quando gli viene l’idea di chiedere l’adesione, Pantera la considera “così balzana che fu sul punto di attribuirla all’influenza del Nganga”.3

E’ interessante notare che l’atteggiamento nei confronti della società operaia non è differente da quello che Pantera aveva verso il mesmerismo di Rosenthal o la magia dell’indiano Vecchia Pipa: dubita della sua efficacia, ma alla fine la accetta perché apprezza le buone intenzioni dei suoi membri. 

Quelli delle Cinque Stelle (chiamarli col loro vero nome, Knights of Labor, era assolutamente proibito) gli piacevano. Avevano pochissimo in comune con i Molly Maguires. Non badavano alla nazionalità, né al sesso, né alla razza. Erano alieni al concetto di vendetta, o di esecuzione individuale. Molti tra essi (non tutti) sognavano una rivoluzione da attuarsi tramite uno sciopero a oltranza, che avrebbe costretto il padronato a consegnare ai lavoratori i mezzi di produzione. Agli occhi di Pantera si trattava di una fantasia, ma almeno un fine c’era, e non era idiota come una supposta liberazione degli irlandesi dal dominio inglese trasferita in contesto americano.4

Soprattutto, Pantera, da uomo d’azione, rimane indifferente alle discussioni dottrinali.

Lui credeva poco o niente all’ineluttabilità delle leggi storiche, al destino che consegnava alla classe operaia la fiaccola che era stata della borghesia, alla natura buona dell’uomo su cui, un giorno, si sarebbe modellata la società perfetta. La sua visione del mondo, se così si poteva chiamare, era fatta di caos e di scontri, intessuti di una barbarie resa ineluttabile dal far parte della realtà biologica dell’essere umano. Ciò che non rientrava in quella sua filosofia primaria lo interessava pochissimo.5

Tutto sommato, la sua concezione primordiale si mostrerà più adeguata della sedicente scienza della storia professata dai leader dei lavoratori, almeno nel momento in cui la guerra di classe si manifesterà in tutta la sua intrinseca violenza.

Siamo così arrivati alle battute finali di Antracite quando Pantera, dopo aver liberato Kate dal penitenziario di Saint Louis, si imbatte nell’esercito e nella guardia nazionale che stanno per assaltare gli ignari lavoratori della Comune di Saint Louis. Si precipita nella Schuler’s Hall, dove si riunisce il comitato esecutivo dei rivoltosi per avvertirlo dell’imminente e mortale minaccia. A questo punto Evangelisti ci sorprende con un piccolo colpo di scena stilistico. Non si limita a un abbassamento della tensione prima del climax finale, come sarebbe tutto sommato normale aspettarsi. Ci catapulta improvvisamente in un intermezzo dall’indubbio effetto comico dove troviamo i leader dei lavoratori riuniti dalla sera prima a discutere e scrivere proclami, come racconta a Pantera un operaio con uno sguardo a dir poco ironico. Di fronte al messicano che irrompe improvvisamente avvisandoli dell’urgenza di agire, non sanno fare altro che litigare tra di loro accusandosi di “economicismo” e di “posizioni lasalliane” (Evangelisti si è probabilmente divertito a prendere spunto dagli innumerevoli scazzi tra i gruppi della sinistra rivoluzionaria degli anni Settanta). Ridicolmente fiduciosi nella volontà di trattativa delle autorità cittadine, i leader operai negano recisamente l’opportunità di utilizzare le armi nell’attuale fase storica. 

Pantera ne aveva abbastanza. Estrasse la Smith & Wesson e ne sollevò il cane. Quindi disse: “Le fasi storiche le decide il tamburo del mio revolver.”6

Se fossimo al cinema a questo punto scatterebbero urla e applausi liberatori. Ma siamo qui a scrivere un saggio e, godendoci la scena silenziosamente, ci chiediamo il senso di questa irruzione del comico, un registro per nulla estraneo alla narrativa di Evangelisti, come ci ricorda Sebastiani.7 Solo che questa volta non serve a smutandare il re di turno, ma prende di mira un certo tipo di immaginario alternativo o che si vorrebbe tale. A questo proposito vale la pena fare un passo indietro, citando uno scambio di battute tra Bellegarrigue e Pantera in Black flag.  

Per sapere la verità non occorre scomodare magia, religione e altre concezioni superstiziose che fanno a pugni con il progresso. Il vero rivoluzionario non ha altra fede che la scienza. Dico bene messicano?
Pantera sogghignò – Cinque anni fa, quando ero ancora ragazzo ho partecipato a due rivoluzioni: la guerra del sale di Santa Fé e la rivolta di Juan Nepomuceno Cortina. Eppure penso che se la scienza diventa fede, non è più scienza. Ma forse sbaglio.8

La scienza che diventa fede si trasforma in una gabbia disciplinatoria se è uno strumento del potere (è il caso di Eymerich), in una gabbia di matti se professata dai rivoluzionari (almeno fino a quando a loro volta non salgono al potere). Una tragedia nel primo caso, una farsa nel secondo. Se qualche materialista oltremodo scientifico si adombrasse di fronte a queste affermazioni, vale la pena ricordare quanto scrive lo stesso Marx, a commento di un’altra più famosa Comune, quella parigina:

Sarebbe del resto assai comodo fare la storia universale, se si accettasse battaglia soltanto alla condizione di un esito infallibilmente favorevole. D’altra parte, questa storia sarebbe di una natura assai mistica se le “casualità” non vi avessero parte alcuna.9

Un atto rivoluzionario, o anche di semplice di resistenza, richiede una decisione sempre priva di sufficienti garanzie quanto alla sua adeguatezza e al suo esito. Può essere dettata da una sorta di rabbiosa speranza che può emergere anche nelle situazioni più sconfortanti, come nell’epilogo della storia cornice di Black flag.

– È inutile! Tanto hanno già vinto! Il mondo è loro! Il futuro è loro!
Sheryl rispose: – Può darsi. L’importante è che sappiano che c’è chi resiste.
Avanzò verso i carri sparando tutti e sei i colpi del tamburo, in successione. Sei pallottole argentee perforarono il metallo urlante.10

Quello di Sheryl è un atto che nasce certamente da una decisione personale ma che, occorre sottolineare, non si configura come mero gesto individuale. Evangelisti ce lo fa capire a modo suo: l’arma utilizzata da Sheryl per sparare contro le mostruose forze dell’esercito statunitense è una vecchissima colt a tamburo dalla canna brunita molto lunga, curiosamente caricata a palle argentate, raccolta un attimo prima dalle mani di un giovane panamense ferito a morte che indossava una maglietta insanguinata con la scritta Battallon de la dignidad. Evangelisti non ce lo dice esplicitamente, ma è la pistola di Pantera, passata di mano in mano per generazioni di resistenti! C’è dunque un filo rosso che unisce le lotte degli oppressi del passato e del presente. Un futuro possibile che è stato sconfitto nel passato può risorgere trasfigurato nel presente. La rabbia di Sheryl sta lì a ricordarcelo.

Ma ci può essere anche una differente tonalità emotiva in questi momenti decisivi e tragici, stando almeno alla scena finale di Antracite. Torniamo allora a raccontare la storia di Pantera, ricominciando da dove l’avevamo lasciata poco fa. Il messicano, di fronte all’atteggiamento imbelle dei leader operai, sostiene che l’unica possibilità di salvezza per i manifestanti è rappresentata da un’azione diversiva portata avanti da un “pazzo isolato”. A un membro del comitato che gli chiede “che cosa hai in mente compagno?” risponde solamente “Non so se sono un tuo compagno. E non sono tenuto a dirti nulla. Faccio quello che mi va di fare”.11 Fino alla fine Pantera combatte con la sua natura di lupo di branco, ma i suoi dubbi non gli impediscono di prendere una decisione e, addirittura, di sacrificarsi per il branco stesso. Il messicano, infatti, sale a cavallo. Sta per lanciarsi contro le file nemiche per ritardarne l’attacco e permettere ai rivoltosi di trovare riparo. Ma Kate monta in sella dietro di lui. Pantera cerca di convincerla a smontare perché, le dice, la battaglia è già perduta e lui sta per andare incontro alla morte. “Se la causa è giusta, le battaglie perdute sono le più belle”12 gli risponde la giovane irlandese. Kate sa che non c’è alcuna salvezza per lei nel tornare a casa, nel suo vecchio mondo che troverebbe ridotto in rovina. Per lei rimarrebbe soltanto la prigione o la miniera. Pantera, inizialmente esasperato dall’insistenza dell’adolescente, finisce per arrendersi alla situazione.  

Ciò che avvertiva era solo una pressione morbida contro il dorso. Certo i piccoli seni di Kate. La ragazzina li strusciava anche un poco. Pantera si trovò a sorridere.
Il cavallo accelerò l’andatura, tutto piegato in avanti. I soldati guardarono attoniti i folli che si gettavano contro di loro. Parevano non sapere che fare.
In quel momento Kate gridò, con la sua voce limpida: “Viva i Mollies! Viva l’Irlanda!”
Il sorriso di Pantera si allargò. Sollevò la pistola e sparò un colpo verso le mitragliatrici. Poi un altro. Poi vuotò l’intero caricatore.13

Di fronte alla sciagura che incombe, Evangelisti non ci abbandona a passioni tristi: a prevalere sono bagliori di una delicata sensualità, di una impercettibile gioia, di un limpido orgoglio. Nessuna esaltazione della bella morte, nessuna necrofila fascistoide. Al contrario, un inno alla vita che dischiude il possibile, sebbene si tratti di una possibile che per farsi reale dovrà passare per una sanguinosa lotta.
Anche senza ricorrere al genere fantastico, Evangelisti ci porta a fare l’esperienza dei limiti del nostro mondo, conducendoci insieme a Pantera fino al punto in cui gli oppressi si rivoltano collettivamente contro i loro oppressori. Certamente si tratta di una rivolta destinata alla sconfitta. L’esito tragico, però, non appare come la pietra tombale sui desideri di liberazione del nascente movimento operaio americano e, indirettamente, su quelli dei nostri tempi funestati dalle ripetute disfatte subite da oppressi e sfruttati. I vinti della storia possono avere un loro primo riscatto attraverso il ricordo delle loro gesta, trasfigurate narrativamente  nell’atto eroico e disperato di Pantera. Un gesto difficilmente concepibile senza la possibilità del nostro eroe di attingere all’energia che sgorga dalle profondità di un immaginario alternativo a quello del potere che sta forgiando la nuova America.

Pantera consegna il testimone di questo immaginario ancora incerto, una  miscela instabile di luce e tenebre, passato e futuro, unità e frammentazione, ai protagonisti del successivo romanzo della trilogia americana e, soprattutto, a noi lettori. Come nota Luca Cangianti “la narrazione delle avventure intraprese […] è capace di produrre una mitologia e un immaginario che possono risorgere nelle lotte future”.14 Questa speranza affiora timidamente tra le righe. Non è però affidata a un impossibile happy end che risulterebbe oltraggiosamente consolatorio per i vinti della storia. E neanche ad un esplicito incitamento a proseguire la lotta che apparirebbe vuotamente retorico. Una fragile speranza emerge solo dalla tonalità emotiva con cui è affrontata la sconfitta. Non c’è rassegnazione, ma la rabbia di Sheryl o il  sorriso di Pantera.  
Sembra assurdo, ma è la prima volta che vediamo affiorare un sentimento di gioia sul viso del messicano. Per arrivare a questo punto ha dovuto fare un lungo viaggio, percorrendo le strade di un’America che sta procedendo speditamente verso un futuro disumano in cui lo sterile metallo trionferà su ideali e sentimenti. Il tempo (del romanzo) storico, però, non lascia più spazio per immaginare una rivoluzione della magia, una rivoluzione fatta con l’aiuto di forze sovrannaturali, come quella di Black flag. Certamente anche in Antracite udiamo il ferro gridare: “Lo senti? E’ il metallo che urla. Celebra in anticipo il suo trionfo”15 dice Jesse James, il famoso bandito, a Pantera. Ma il grido disumano non è più quello del ferro e dell’oro che producono bestiali macchine da guerra o corpi semisintetici. Il racconto allegorico è diventato narrazione storica. Il metallo che urla è il fischio acuto di una sirena che viene da una agglomerato di fabbriche industriali lungo la sponda del fiume Schuylkill a Filadelfia.
In un contesto narrativo che si è congedato dal racconto fantastico, Pantera deve fare affidamento su tutta la sua razionalità per comprendere le condizioni oggettive degli avvenimenti in cui è immerso e per capire le forze politiche, economiche e sociali che sono in gioco. Ma il suo schierarsi e il suo agire non sono frutto soltanto di questa comprensione profana. Il suo viaggio non è un percorso a senso unico verso il disincanto. Altrimenti come spiegarsi il suo ultimo ed estremo atto di generosa follia? Il suo odio per l’ingiustizia rimane indissolubilmente legato al suo primordiale diritto alla vendetta, profondamente radicato in una visione del mondo popolata da spiriti portatori di caos e di scontri. Il realismo del romanzo storico conserva la forza narrativa e politica che prorompe dall’incanto del racconto fantastico.

La scena finale di Antracite è colorata da un delicato tocco poetico, nonostante l’oscurità che incombe. È pervasa da una debole forza magica, verrebbe da dire. È l’ultima emozionante tappa di un viaggio straordinario che ha condotto il nostro eroe, lo stregone Pantera, dalla rivoluzione della magia alla magia della rivoluzione.

Fine. Precedenti puntate qui, qui e qui


  1. V. Evangelisti, Antracite, Mondadori, Milano 2003, p. 320. 

  2. Ibidem. 

  3. Ivi, p. 323. 

  4. Ibidem. 

  5. Ivi, p. 328. 

  6. Ivi, p. 360. 

  7. Cfr. A. Sebastiani, Ride bene chi ride ultimo. Forme e retorica del comico in Valerio evangelisti, in Sandro Moiso e Alberto Sebastiani (a cura di), L’insurrezione immaginaria. Valerio Evangelisti autore, militante e teorico della paraletteratura, Mimesis, Milano 2023. 

  8. V. Evangelisti, Black flag, Einaudi, Torino 202, p.104. 

  9. K. Marx – F. Engels, Opere, Vol. XLIV, Editori Riuniti, Roma 1990, p. 202. 

  10. V. Evangelisti, Black flag, cit. p. 2017. 

  11. V. Evangelisti, Antracite, cit. p. 361. 

  12. Ivi, p. 363. 

  13. Ibidem. 

  14. Luca Cangianti, L’operaismo narrativo di Valerio Evangelisti, in Sandro Moiso e Alberto Sebastiani (a cura di), L’insurrezione immaginaria. Valerio Evangelisti autore, militante e teorico della paraletteratura, cit., p. 15. 

  15. V. Evangelisti, Antracite, cit., p. 245. 

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Bob Dylan e il mistero della condizione umana https://www.carmillaonline.com/2023/03/14/bob-dylan-e-il-mistero-della-condizione-umana/ Tue, 14 Mar 2023 21:00:09 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76159 di Diego Gabutti

Bob Dylan, Filosofia della canzone moderna, Feltrinelli, Milano 2022, pp. 352, 39,00 euro, eBook 16,99 euro

Premio Nobel per la letteratura nel 2016, Premio Pulitzer nel 2008, Bob Dylan è il campione di quel particolare genere letterario che, come le canzonette di cui esplora enigmi e meraviglie nella sua Filosofia della canzone moderna, «parla all’orecchio e non all’occhio».

È una letteratura moderna e post, che non va giudicata da quel che dice ma da come lo dice, da chi lo dice – e dove lo dice, e quando. Non è fissata una volta per sempre sulla carta [...]]]> di Diego Gabutti

Bob Dylan, Filosofia della canzone moderna, Feltrinelli, Milano 2022, pp. 352, 39,00 euro, eBook 16,99 euro

Premio Nobel per la letteratura nel 2016, Premio Pulitzer nel 2008, Bob Dylan è il campione di quel particolare genere letterario che, come le canzonette di cui esplora enigmi e meraviglie nella sua Filosofia della canzone moderna, «parla all’orecchio e non all’occhio».

È una letteratura moderna e post, che non va giudicata da quel che dice ma da come lo dice, da chi lo dice – e dove lo dice, e quando. Non è fissata una volta per sempre sulla carta né incisa una volta per tutte su una frittella di vinile o su un’impalpabile traccia mp3. Un autore, come fa lo stesso Dylan con i suoi vecchi hit, può decidere di rivisitare le sue composizioni più leggendarie, da “Maggie’s Farm” a “Like a Rolling Stone”, fino a renderle irriconoscibili. Versioni ritenute perfette di canzoni classiche possono essere riverniciate dalle cover, come ha fatto sempre Dylan con gli evergreen di Frank Sinatra (da Young at Heart a On a Little Street in Singapore, in uno dei suoi ultimi album, Fallen Angels, del 2016) e come hanno fatto con i suoi hit innumerevoli musicisti e band. E mica soltanto Ricky Nelson, i Byrds, Jimi Hendrix, Johnny Cash, Elvis Presley, Manfred Mann, The Band e Brian Ferry, ma anche De Gregori, i Nomadi, De Andrè, i Dik Dik, gli Articolo 31 e persino Adriano Pappalardo, Bobby Solo, Don Backy, Ricky Gianco. Dylan riconfigura, con le sue canzoni, l’intera scena musicale, da un punto cardinale all’altro, come poi dirà Robbie Robertson, il leader della Band, il gruppo con il quale Dylan incide nel 1967 i Basement Tapes, 100 incisioni senza eguali, l’equivalente rock’n’roll della Recherche proustiana.

Brada – senza mordacchia né fissa dimora, «no direction home» – la canzonetta è stata la colonna sonora del Novecento, da un capo all’altro. Prima, nella storia universale, non era mai successo niente di paragonabile. Salvo forse Omero, quando cantò la guerra dei dieci anni sotto le mura d’Ilio accompagnandosi con la lira e il tamburello, mai nessuno aveva messo la storia in musica, giorno per giorno, come nel secolo breve.

Oltre che uno di questi menestrelli, autore e interprete di canzoni immortali, Dylan è anche l’archivista di questo immane repertorio musicale, come dimostrano questo libro, il primo dopo Chronicles, del 2005, e la sua passione per le cover (che nel 1970, quando fece uscire Self Portrait, il suo primo album di canzonette per lo più altrui, destò scandalo tra i fan). Filosofia della canzone moderna è il catalogo ragionato degli Zip-A-Dee-Doo-Dah del Novecento. Ogni scheda è un’orecchia nelle pagine delle guerre mondiali, della guerra fredda, dei rari periodi di pace. Mancano le canzoni fuori gara, che non hanno bisogno d’essere richiamate alla memoria, o d’essere spiegate: le canzoni di Dylan, di Lennon-McCartney. Ma per il resto c’è dentro l’essenziale: il pop, il country, il folk, il rock’n’roll. Ogni scheda è un pezzo di bravura: una cover per l’occhio e non per l’orecchio.

C’è Volare di Domenico Modugno, per esempio, «una canzone che s’avvicina, sfreccia, continua per la sua strada procedendo a piena velocità, si schianta nel sole, rimbalza sulle stelle, esala in una nuvola di fumo come un sogno impossibile e va a esplodere dritta nel Paese delle meraviglie. È singolare e resta sospesa a mezz’aria». Modugno: «Già il suono del suo nome crea la sua propria canzone. […] È una seduzione in lingua italiana che comincia con una piccola, sognante introduzione pianistica seguita dalla voce di Domenico avvolta dall’organo prima che il ben noto inciso del titolo faccia irruzione». Cantare oh oh. / Volare oh oh oh. Se la canti, «passi rombando come una cometa, sei in fuga verso le stelle. Sarai magari pazzo ma non sei un imbecille».

C’è Blue Moon nella straordinaria versione di Dean Martin (ma al confronto, la versione di Dylan in Self Portrait non sfigura). Blue Moon: «Il suo fascino sta nel suo mistero. È una melodia che sembra uscita da Debussy. Dal nulla, una forma ti appare davanti. Ti volti, la luna ha cambiato colore, e adesso è d’oro. Quand’è stata l’ultima volta che hai visto una luna dorata? È una canzone che non ha senso, la bellezza sta nella melodia». Cantate da Dino, «le canzoni – anche Blue Moon – iniziano e dopo il ritornello vanno alla deriva, interrotte da barzellette e battute. “A Frank non piacciono quelli che parlano durante gli spettacoli. A me non importa se parlate durante il mio spettacolo. Per quello che mi riguarda potete anche giocare a bowling”. Dino è divertente, tenero, e sbronzo». «Frank», naturalmente, è Frank Sinatra. Di lui «è stato detto», scrive Dylan, «che era un teppista che quando cantava si trasformava in poeta».

Strangers in the Night: «Vagabondi e anticonformisti, oggetti di affetto reciproco, rapiti l’uno dall’altro e stretti in un’alleanza da loro stessi creata, ignari di tutte le età dell’uomo, l’età dell’oro, l’età elettronica, l’età dell’angoscia, l’età del jazz». E «Frank», che la cantò, era «qui per raccontare una storia diversa, il suo piumaggio diverso da quello degli altri uccelli». Un fatto incredibile: «La classifica delle prime cento canzoni, pubblicata il 2 luglio 1966 su “Billboard”, era dominata da quella piccola pop song. Pazzesco: nel bel mezzo dell’invasione britannica, Strangers in the Night dell’uomo venuto da Hoboken batteva Paperback Writer dei Beatles e Paint It Black degli Stones. Frank doveva far vedere a tutti chi era il padrone, anche se Strangers era una canzone che odiava e regolarmente liquidava come “un pezzo di merda”. Del resto, non dimentichiamo che Howlin’ Wolf una volta disse la stessa cosa della sua prima chitarra elettrica e che i fratelli Chess misero quelle parole a caratteri cubitali su una delle copertine dei loro album».

Ci sono le canzoni western, come El Paso e Jesse James, quest’ultima un classico pezzo folk americano inciso cent’anni fa da Harry McClintock (attore e poeta, nonché vicesceriffo a San Francisco e attivista sindacale nei ranghi degli IWW, gl’Industrial Workers of the World). Jesse James è stata rilanciata in tempi recenti da Bruce Springsteen: Jesse James era un ragazzo / che uccise molti uomini. / Rapinò il treno di Glendale./Rubava ai ricchi e dava ai poveri. «Ai tempi in cui Jesse s’aggirava per le campagne», scrive Dylan, «essere un fuorilegge era pericoloso. Voleva dire che qualunque cittadino poteva spararti legalmente, ucciderti a bruciapelo e riscuotere la taglia. Un fuorilegge doveva rendersi irriconoscibile, imparare a nascondersi in pieno giorno perché chiunque poteva sparargli, per strada. In effetti, è quello che accadde a Jesse James». Una storia, quella dei fuorilegge prodighi, che «si è estesa fino agli anni trenta con Pretty Boy Floyd, Bonnie e Clyde, la banda di Ma Barker. In quei giorni, se la tua faccia era esposta in un manifesto che diceva Wanted o in un ufficio postale, chiunque poteva spararti. Bisognava stare molto attenti». Fuorilegge e galeotti popolano anche le canzoni di Dylan: l’album John Wesley Harding, e poi (citandone solo alcune) Hurricane, Romance in Durango, George Jackson e la colonna sonora di Pat Garrett & Billy the Kid, il western di Sam Peckinpah, del 1973, dove Dylan figura anche come attore nella parte di Alias, uno dei bandidos di Fort Sumner.

C’è qualcosa del fuorilegge, qualcosa di borderline in ogni icona rock. Prendete Elvis Presley, che «quando ha inciso Blue Moon of Kentucky ha fatto quello che aveva già fatto con Mystery Train. L’ha truccata come un motore. Ha preso canzoni dal ritmo moderato come Blue Moon of Kentucky, Mystery Train e perfino Good Rockin’ Tonight e le ha ridotte all’osso per poi accelerarle. Che è la ragione per cui è stato chiamato “il cantante a propulsione nucleare”. L’energia nucleare stava venendo di moda ed Elvis navigava sulla cresta dell’onda». C’è qualcosa del fuorilegge, nei rockers e negli eroi americani. E qualcosa, anche, che c’entra con l’ingordigia, l’avidità, con la brama di ricchezze: «Vorrei avere cinque centesimi per ogni canzone che conosco e che parla di denaro, da Sarah Vaughan che canta di penny che cadono dal cielo a Buddy Guy che grida il suo blues per un biglietto da cento dollari. Se ti piace il verde delle banconote, Ray Charles ha una canzone e i New Lost City Ramblers ne hanno un’altra. Berry Gordy ha costruito la Motown sul denaro, i Louvin Brothers volevano contanti sull’unghia e Diddy sapeva che era tutta una questione di centoni. Charlie Rich cantava Easy Money, Eddy Money cantava Million Dollar Girl e Johnny Cash poteva cantare qualunque cosa».

C’è una speciale, impassibile filosofia pratica nelle canzonette, spiega Dylan quando canta e quando scrive o parla di musica pop: «Dischi di musica soul, come lo hillbilly, il blues, il calipso, Cajun, polka, salsa e altre forme di musica indigena, contengono spesso la stessa saggezza che le classi superiori ricevono all’università. La cosiddetta “scuola della strada” è una cosa che esiste davvero e non serve soltanto a imparare a stare alla larga da arraffoni e ciarlatani». Qualcosa s’impara sempre da quel che s’ascolta con lo smartphone o che si canticchia, pensierosi, sotto la doccia: «Mentre i laureati della Ivy League parlano d’amore in una sfilza di quartine soffuse di qualità astratte e attributi impalpabili, la gente – che abiti a Trinidad o ad Atlanta – canta dei vantaggi di avere per moglie una donna poco attraente e delle altre pure e semplici verità della vita».

Schede, appunti, note a margine, riletture (e rifischiettature) tra accademia e poesia, da Perry Como a Jerry Garcia, dai Clash a Ricky Nelson, dai Who ai Platters, da Bobby Darin a Vic Damone, da Bing Crosby a Roy Orbison… ma in Filosofia della canzone moderna (che è il libro d’un Nobel, e si vede) non c’è in ballo una sola Musa, quella della musica. C’è dentro tutto il pop: cinema, fumetti, serie tv, mode, droghe, beat generation, buoni e cattivi maestri. Dylan spazia da Mezzogiorno di fuoco a Mack The Knife dell’Opera da tre soldi, da Nick Mano Fredda a Leigh Brackett, sceneggiatrice del Grande sonno e di Rio Bravo, oltre che grande scrittrice di fantascienza (La danzatrice di Ganimede, La spada di Rhiannon). Tutto si tiene, tutto s’intreccia, e il mistero è che, da quest’amalgama riccamente illustrato di pulp, film e canzonette, non salta fuori una pagina chic della cultura ma una mappa fedele – zero bellurie, nessuna caramellosità – della condizione umana.

N. B.
Qui una recensione di opposto parere sul testo di Dylan, apparsa su Carmillaonline il 1°gennaio 2023, a cura di Walter Catalano,

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