Jefferson Airplane – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Nel 1899 naviga un piroscafo lisergico e mostruoso https://www.carmillaonline.com/2023/02/21/nel-1899-naviga-un-piroscafo-lisergico-e-mostruoso/ Tue, 21 Feb 2023 21:00:19 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76222 di Paolo Lago

Il 1899, come tutti gli estremi lembi dei secoli, può essere considerato, per certi aspetti, liminale, colmo di un notevole valore simbolico: fine del vecchio e inizio del nuovo. Nella fattispecie, l’Ottocento è stato il secolo della Rivoluzione industriale e il Novecento, nell’immaginario collettivo, si configurava come la nuova era della velocità e del progresso. Ma l’inquietudine e l’angoscia sono sempre pronte ad emergere; come l’Illuminismo secondo Horkheimer e Adorno, anche l’era del progresso tecnologico, della velocità e dell’imperialismo vittoriano, è attraversata da una profonda “dialettica”: sotto la luce e [...]]]> di Paolo Lago

Il 1899, come tutti gli estremi lembi dei secoli, può essere considerato, per certi aspetti, liminale, colmo di un notevole valore simbolico: fine del vecchio e inizio del nuovo. Nella fattispecie, l’Ottocento è stato il secolo della Rivoluzione industriale e il Novecento, nell’immaginario collettivo, si configurava come la nuova era della velocità e del progresso. Ma l’inquietudine e l’angoscia sono sempre pronte ad emergere; come l’Illuminismo secondo Horkheimer e Adorno, anche l’era del progresso tecnologico, della velocità e dell’imperialismo vittoriano, è attraversata da una profonda “dialettica”: sotto la luce e il progresso si celano il buio e l’orrore. Ecco che, proprio in quegli ultimi lembi di Ottocento, nel 1897 vede la luce “Dracula” di Bram Stoker, in cui il mostruoso vampiro proveniente dai desolati confini dell’“impero” si reca a Londra, nel cuore economico di quello stesso “impero”. Ecco che, spesso, dietro ai viaggi dall’Inghilterra verso Oriente narrati da Joseph Conrad come, ad esempio, in “Il negro del «Narciso»” – romanzo uscito sempre nel 1897 – si celano la malattia e l’orrore.

Questa dicotomia e questa dialettica sono assai presenti anche nella serie TV Netflix, 1899 (2022, otto episodi di un’unica stagione) di Baran Bo Odar e Jantje Friese. L’azione narrativa si svolge su un piroscafo in viaggio tra l’Europa e l’America sul quale i passeggeri, com’era uso all’epoca, sono rigorosamente divisi in classi. Ci sono i ricchi di prima classe e i poveri di terza, prevalentemente migranti. Il piroscafo, emblema del progresso e della velocità del nuovo secolo che sta per arrivare, fin dalle prime puntate, possiede una marcata connotazione mostruosa: oscuro, gigantesco, con enormi fumaioli dai quali esce perennemente fumo nero proveniente dal suo ventre infernale, la sala macchine, dove i fuochisti sono costretti a lavorare in condizioni ai limiti dell’umano. La nave porta un alone di mostruosità anche nel suo stesso nome, “Kerberos”, che rimanda al guardiano infernale presente nella mitologia antica e nell’Inferno dantesco, un mostruoso cane a tre teste. Se nelle prime puntate la narrazione sembra poggiare su un impianto – se così si può dire – ‘tradizionale’, successivamente subentrano degli spunti narrativi che la trasformano in qualcosa che mai ci saremmo aspettati. Senza spoilerare troppo, si potrebbe affermare che 1899 possiede due film in uno: il primo, prevalentemente di carattere storico, horror e thriller; il secondo di carattere fantascientifico. Gli spazi della nave si configurano come un labirinto dalle connotazioni quasi kafkiane: se all’inizio si potrebbe pensare di trovarci sulla nave di Amerika (postumo, 1927) di Franz Kafka, dove il giovane Karl Rossmann non riesce più a ritrovare la via giusta, successivamente quel labirinto kafkiano si trasforma in un universo virtuale in cui i ‘pixel’ iniziano a spostarsi e a decostruirsi distruggendo passaggi o creandone di nuovi.

Perché – e mi si perdonerà questo spoiler, ma è funzionale a quanto voglio dire – nella seconda parte della narrazione i personaggi, lentamente, capiranno di trovarsi in un mondo virtuale. Se, come scrive Franco Moretti, due ‘classici’ del terrore come Frankenstein di Mary Shelley e Dracula, “sono romanzi in cui la realtà funziona spesso secondo le leggi che governano i sogni”1 sembra che in molto cinema e in molti prodotti per la televisione contemporanei, al sogno, si sostituisca la realtà virtuale a partire, diciamo, da Matrix (The Matrix, 1999) di Lana e Lilly Wachowski. Un altro film incentrato sulle doppie realtà, una virtuale e una reale e sulla necessità di ‘svegliarsi’, da parte dei personaggi, per vedere il mondo reale, è anche l’oscuro e intrigante Il tredicesimo piano (The Thirteenth Floor, del 1999 come Matrix) di Josef Rusnak. E allora, in molto cinema contemporaneo – parafrasando Moretti – la realtà funziona secondo le leggi che governano i mondi virtuali creati da fantomatici ‘manovratori’, spesso in intricati giochi di scatole cinesi per cui non si capisce fino in fondo quale sia la ‘vera’ realtà. A monte dell’idea degli universi virtuali creati per mezzo di un computer c’è un archetipo classico come il mito della caverna di Platone che, nella serie TV, viene anche direttamente citato.

Ecco che la nave di 1899, da buona eterotopia (secondo Foucault, infatti, la nave è “l’eterotopia per eccellenza”, cioè lo spazio altro per eccellenza)2 può sovrapporre, in un unico luogo reale, spazi che sono anche molto diversi tra loro3. Attraverso misteriosi passaggi dimensionali, i personaggi si ritrovano in luoghi svariati e, comunque, estremamente diversi dallo spazio navigante circondato dall’Oceano: lande ghiacciate, paesaggi montani desolati oppure luoghi legati al loro doloroso passato. D’altra parte, nella serie, incontriamo una presenza iperbolica e francamente eccessiva di questi passaggi dimensionali i quali, talvolta, conducono anche a sviluppi non sempre comprensibili della trama. Non dobbiamo dimenticare, comunque, che gli autori di 1899 sono anche quelli di Dark (2017-2020, 3 stagioni per 26 episodi), una serie TV incentrata sui viaggi nel tempo che avvengono, appunto, mediante un apposito varco dimensionale localizzato nella misteriosa cittadina tedesca di Winden.

Fra i luoghi che incontriamo una volta imboccate le porte dimensionali, particolarmente interessante è la clinica psichiatrica del padre della protagonista, la dottoressa Maura Franklin, che è anche il proprietario della compagnia di navigazione alla quale appartiene il “Kerberos”. Dietro i muri della clinica, i personaggi scoprono le nere e tetre fiancate della nave: quest’ultima appare perciò strettamente associata all’universo della follia. Allora, non si può non pensare nuovamente a Foucault e alla sua Storia della follia nell’età classica, nel momento in cui lo studioso descrive l’usanza rinascimentale – che molta fortuna avrà nell’arte letteraria e figurativa – tedesca (come gli autori della serie TV) della “nave dei folli”: affidare i folli alla massa oscura dell’acqua4. Tra l’altro, sempre secondo Foucault, la follia appare strettamente connessa agli spazi acquorei, perché essa “è l’esterno liquido e grondante della rocciosa ragione”5. Chi altri sono quei personaggi intrappolati sul “Kerberos”, in mezzo all’Oceano, se non dei ‘folli’ alla deriva dal mondo roccioso della ragione? Tra l’altro, il racconto mette in gioco anche il tema del doppio: il “Kerberos”, infatti, si imbatterà in un suo inquietante doppio andato alla deriva, il “Prometheus” sul quale, in una lisergica esplosione musicale di White Rabbit dei Jefferson Airplane (e la colonna sonora è indubbiamente un punto a favore di 1899), verrà ritrovato un bambino misterioso in possesso di una piccola scatola a forma di piramide.

Inutile dire che, anche nel mondo virtuale del piroscafo “Kerberos”, domina la logica spietata del Capitale. I passeggeri di terza classe appaiono come i prigionieri dei più bassi interstizi della nave, solo un gradino più alto della manovalanza maledetta e condannata dei fuochisti. Intrappolati nei loro alloggiamenti separati dal resto della nave da un cancello chiuso a chiave, se solo osano avventurarsi negli eleganti saloni della prima classe, vengono ricacciati dentro il loro inferno in malo modo. Ognuno, sulla nave, sembra condannato a rivestire il suo ruolo in una specie di eterno presente, quello forgiato dalle logiche capitalistiche. D’altra parte, gli stessi ricchi di prima classe, colpiti da una misteriosa epidemia di trance, quasi come zombie si dirigeranno in fila indiana fino sul ponte della nave per poi gettarsi in mare e, come zombie, macchine asservite al Capitale, sono tratteggiati anche i già nominati fuochisti, costretti a gettare incessantemente il carbone nelle caldaie per far correre la nave mostruosa verso un progresso che assomiglia sempre di più ad una prigione. Perché vie d’uscita non ce ne saranno, né nuove sponde e neppure nuovi futuri (e non svelerò davvero l’esplosivo finale): il piroscafo, come un inquieto “Olandese volante” della Rivoluzione industriale, come il vascello dannato del Manoscritto trovato in una bottiglia di Edgar Allan Poe, è solo una truce macchina nomadica lanciata verso gli inferni del mondo irreale nel quale ci stiamo perdendo.


  1. F. Moretti, Dialettica della paura, in “Calibano”, 2, Il nuovo e il sempreuguale. Sulle forme letterarie di massa, febbraio 1978, p. 97. 

  2. cfr. M. Foucault, Spazi altri. I luoghi delle eterotopie, a cura di S. Vaccaro, Mimesis, Milano-Udine, 2001, p. 31. 

  3. cfr. ivi, p. 27 

  4. cfr. Id., Storia della follia nell’età classica, trad. it. Rizzoli, Milano, 1978, p. 26. 

  5. Id., L’acqua e la follia, trad. it. in Archivio Foucault. Interventi, colloqui, interviste, 1, Follia, Scrittura, Discorso, a cura di J. Revel, Feltrinelli, Milano, 1996, p. 74. 

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Mike Wilhelm, l’ultimo cowboy di San Francisco https://www.carmillaonline.com/2019/07/04/mike-wilhelm-lultimo-cowboy-di-san-francisco/ Wed, 03 Jul 2019 22:01:14 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=53236 di Sandro Moiso

Nel silenzio dei media e nell’indifferenza di un pubblico che non lo ricordava più, il 14 maggio di quest’anno se n’è andato l’ultimo cowboy della Bay Area. Ci si accorge di diventare vecchi quando ormai si va troppo spesso ai funerali oppure si celebrano, ancor più spesso, eroi che più nessuno ricorda. E negli ultimi mesi ho davvero iniziato a sentire il peso delle scomparsa di amici, che senza avermi mai conosciuto, hanno avuto lo stesso una grande importanza per me.

In quest’ultimo periodo, infatti, diversi protagonisti di una scena [...]]]> di Sandro Moiso

Nel silenzio dei media e nell’indifferenza di un pubblico che non lo ricordava più, il 14 maggio di quest’anno se n’è andato l’ultimo cowboy della Bay Area.
Ci si accorge di diventare vecchi quando ormai si va troppo spesso ai funerali oppure si celebrano, ancor più spesso, eroi che più nessuno ricorda. E negli ultimi mesi ho davvero iniziato a sentire il peso delle scomparsa di amici, che senza avermi mai conosciuto, hanno avuto lo stesso una grande importanza per me.

In quest’ultimo periodo, infatti, diversi protagonisti di una scena musicale troppo spesso archiviata o sconosciuta per i più giovani hanno lasciato definitivamente il palcoscenico terrestre, per avviarsi a continuare la loro carriera fatta di blues, rock’n’roll, country music, sangue, anima e talvolta voodoo dall’altra parte del sipario sottile che divide il mondo dei vivi da quello dei morti.

Rocky Erickson (di cui ho parlato recentemente qui), Malcom John “Mac” Rebennack meglio conosciuto come Doctor John (il principe bianco di New Orleans), o ancora come The Night Ripper oppure come Dr. John Creaux, e per finire Mike Wilhelm.
Tutti musicisti che hanno legato così strettamente la loro vita alla musica che amavano da diventare un tutt’uno con la stessa.

Mike Wilhelm sicuramente è rimasto il meno conosciuto del trio appena menzionato, anche se è stato uno dei musicisti più influenti della scena di San Francisco prima dell’esplodere della Summer of love nel 1967, prima ancora che l’acid rock fosse anche solo lontanamente definito così.
Cantante, chitarrista, folk-singer, l’autore col cappello da cowboy con cui è stato colto in tante immagini e fotografie, aveva fondato il gruppo dei Charlatans nel 1964, insieme a Richard Olsen, Dan Hicks, Byron Ferguson e George L.L. Hunter. Ma al giorno d’oggi anche su Allmusic, la bibbia dei discofili, in apertura della loro scheda si ricorda che tale gruppo non va confuso con l’omonimo gruppo inglese degli anni degli anni Novanta. Eppure, eppure…

Mike Wilhelm era, secondo Jerry Garcia, il più importante chitarrista della scena di Frisco, prima ancora che esplodessero sulla stessa gruppi come Grateful Dead, Jefferson Airplane e Quicksilver Messenger Service, tutti caratterizzati da un innovativo e originale uso delle chitarre elettriche, e il gruppo dei Charlatans può essere considerato autenticamente seminale (un aggettivo di cui oggi troppo facilmente si abusa) per tutto lo sviluppo dell’esperienza acido-psichedelica legata ad Haight Ashbury che ne conseguì.

Nati inizialmente come una jug-band, a metà strada tra old time music e blues, i cinque musicisti virarono quasi subito, grazie soprattutto alla voce e alla chitarra di Mike, verso una musica tinteggiata di blues acido e di folksongs elettriche che solo i Byrds avrebbero, in seguito, imparato a confezionare meglio.
Brani come “Alabama Bound” (un blues tradizionale) e “Codine” (della cantautrice canadese, di origine Cree, Buffy Saint-Marie ), marcarono da subito lo stile della band e del chitarrismo e della voce di Wilhelm.

I loro demo, incisi per Autumn Records (agosto 1965), Kama Sutra (primi mesi del 1966), Golden State (novembre 1966 – luglio 1967), Pacific High (inizio 1968) rimasero però chiusi nei cassetti dei vari studi discografici troppo a lungo. Vuoi a causa della mancanza di produttori abbastanza abili da riconoscerne la grandezza e originalità, vuoi forse anche per il caratteraccio di alcuni membri della band. Poco propensi a legare facilmente con il flower power o con l’impresario teatrale e musicale Bill Graham che, con il suo Fillmore West, era diventato uno dei patrocinatori del movimento musicale e culturale scaturito a Frisco.

Così il loro primo long playing fu pubblicato soltanto nel 1969, per l’etichetta Kama Sutra, non certo la più prestigiosa per la scena psichedelica, essendosi affermata con la bubble-gum music dei 1910 Fruitgum Co. (resi celebri nel 1968 da Simon Says alias Il ballo di Simone in Italia), quando questa era già dominata da altre band giunte dopo, ma ormai più celebri, e dopo svariati cambi di formazione che avevano in parte diminuito la carica creativa dei primi anni.

Si sciolsero in quello stesso anno i componenti della posse originale e Mike diede vita ad un’altra band dalla vita breve e sfortunata, formatasi all’inizio degli anni Settanta e fortemente influenzata dal rock blues dei Rolling Stones: i Loose Gravel.
Insieme a Mike Wilhel, ancora una volta alla chitarra e voce, militarono Kenny Streight al basso elettrico e Gene Rymer alle percussioni. Ancora una volta ci fu il tempo di incidere un solo 45 giri e un EP prima di tornare al silenzio, non prima però di aver visto ancora una volta Mike mostrare significativamente il dito medio al suo eterno “avversario” Bill Graham, proprio in occasione della realizzazione del film sul Fillmore West da cui a l’imprenditore aveva voluto ancora escludere Wilhelm e la sua band. Comunque sia, e tanto per rendere meglio l’idea, l’individuo barbuto, armato e a cavallo di una motocicletta che vedete sulla copertina riprodotta qui sopra è ancora una volta il nostro, tutt’altro che pacifico, eroe.

Poche registrazioni ci rimangono di tutte e due le esperienze: il disco originale dei Charlatans del 1969, una ricca antologia delle registrazioni precedenti pubblicata dalla Big Beat soltanto nel 1996 (The Amazing Charlatans), un bootleg straordinario di un concerto dal vivo sempre del primo gruppo (Charlatans , The Roaring Twenties) per la fantomatica etichetta Honky Tonk Records, ancora un album antologico degli stessi pubblicato dalla etichetta francese Eva negli anni Ottanta (Alabama Bound) e, infine, un cd antologico della Bucketfull of Brain, pubblicato nel 1992, che raccoglie le incisioni in studio (del 1975) e un concerto (del 1976) dei Loose Gravel. Un’eredità ridottissima ma densa di blues, rock, old time music, country, anima e sangue come poche altre.

Naturalmente il rocker, nato a Los Angeles nel 1942, non si arrese e continuò prima con la pubblicazione di due album a suo nome, uno maggiormente orientato al blues Frisco’s style e l’altro al country e al folk. Quello orientato al country esce nel 1976, si intitola semplicemente Wilhelm e contiene sia brani originali che tratti dalla tradizione americana (strepitose le versioni di Me and My Uncle e Junko Partner), mentre quello più orientato al blues esce nel 1985 e si intitola Mean Ol’ Frisco. In entrambi i lavori accompagnano il chitarrista sia vecchi membri dei Charlatans che dei Quicksilve Messenger Service (John Cipollina e Greg Elmore) che dei Flamin’ Groovies, altro gruppo di rock’n’roll di San Francisco caratterizzato dall’essere, oltre che travolgente nelle esecuzioni sia su disco che live, sempre in controtendenza rispetto alle mode delle epoche attraversate.

E proprio di questo gruppo Wilhelm entrò a far parte come voce e chitarra solista al termine degli anni Settanta, partecipando a due dischi di culto della band: Flamin ‘ Groovies Now (1978), con una versione da urlo di Feel a Whole Lot Better (dei Byrds), e Jumpin’ in the Night (1979), con una magnifica Werewolves of London (di Warren Zevon).

Lasciati ancora una volta gli altri uomini lupo del rock per tornare ad esserlo in solitaria, Wilhelm consegnerà ancora alle stampe un disco acustico interamente solista nel 1993, dal significativo titolo Wood & Wire (legno e corde); un Live in Tokio: At Grateful Dead Land (1997) e un ultimo Live at The Cactus del 2007.

Se vi sembra poco, non rimanete passivi, datevi da fare e cercate di procurarvi un po’ della sua musica (scaricatela piratescamente, oppure su Spotify, dove volete, anche tra i vinili se proprio volete sentirvi à la page) e solo allora scoprirete e, forse, vi verrà voglia di celebrare, con me, un gigante dimenticato.
See you later, Mike!

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Uno tsunami planetario https://www.carmillaonline.com/2017/08/10/uno-tsunami-planetario/ Wed, 09 Aug 2017 22:01:31 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=39701 di Sandro Moiso

Sergio Bologna, Tempesta perfetta sui mari. Il crack della finanza navale, DeriveApprodi 2017, pp. 206, € 18,00

Mentre molti turisti, sdraiati sotto gli ombrelloni dalle isole greche al Sud Est asiatico, nel corso dell’estate si sforzeranno di scrutare l’orizzonte marino oppure il bagnasciuga senza dare nell’occhio, nel timore di scorgere un’onda anomala o un qualsiasi altro sintomo dei più sotterranei, profondi e inevitabili moti della crosta terrestre e della tettonica a zolle, la maggior parte dell’opinione pubblica e delle classi “dirigenti” continuerà ad ignorare la spaventosa onda finanziaria che già ha contribuito a spazzare via numerose società [...]]]> di Sandro Moiso

Sergio Bologna, Tempesta perfetta sui mari. Il crack della finanza navale, DeriveApprodi 2017, pp. 206, € 18,00

Mentre molti turisti, sdraiati sotto gli ombrelloni dalle isole greche al Sud Est asiatico, nel corso dell’estate si sforzeranno di scrutare l’orizzonte marino oppure il bagnasciuga senza dare nell’occhio, nel timore di scorgere un’onda anomala o un qualsiasi altro sintomo dei più sotterranei, profondi e inevitabili moti della crosta terrestre e della tettonica a zolle, la maggior parte dell’opinione pubblica e delle classi “dirigenti” continuerà ad ignorare la spaventosa onda finanziaria che già ha contribuito a spazzare via numerose società di navigazione e banche e che si appresta a travolgere l’intera economia mondiale se non sarà adeguatamente affrontata.

Un’onda gigantesca che non si accontenterà, come ai tempi dell’esplosione del vulcano dell’isola di Santorini tra il 1627 e il 1600 a.c., di spazzare l’Arcipelago Egeo e il mare Mediterraneo, ma autentici colossi della finanza quali la Deutsche Bank, in confronto alla quale il colosso di Rodi non poteva costituire altro che un misero e impotente nano.
Contro questo pericolo, apparentemente invisibile e sicuramente sottovalutato, ci mette in guardia l’ultima raccolta di testi di Sergio Bologna, pubblicata da DeriveApprodi.

Saggista, consulente nel settore dei trasporti e della logistica, ricercatore ed insegnante universitario, attualmente Presidente dell’Agenzia Imprenditoriale Operatori Marittimi (A.I.O.M.) di Trieste, Sergio Bologna non rifiuta nemmeno di essere definito come un “vecchio estremista di sinistra”.
In cotante vesti, per una volta, egli non si occupa però direttamente di quel milione e mezzo di uomini che a bordo della flotta mercantile mondiale costituiscono la forza lavoro invisibile dalla quale noi tutti dipendiamo.1

E non vuole essere lui, in prima persona, a ripetere per una sorta di vizio congenito le malefatte del capitalismo. No, ce lo dice l’autore stesso, saranno “loro, uomini della City, manager d’impresa, noti guru del settore, funzionari con responsabilità istituzionale” a rivelare, attraverso la miriade di pubblicazioni, blog, newsletter specialistiche e dichiarazioni ufficiali di soggetti istituzionali consultati dall’autore, l’autentico baratro economico-finanziario creato dal gigantismo speculativo e tecnologico nel settore dello shipping e della logistica marittima e portuale.

In otto articoli, scritti in differenti occasioni e mai pubblicati prima in forma cartacea, e con un’Appendice che raccoglie estratti sia dal documento sui porti della Corte dei Conti Europea che dal Rapporto ufficiale sull’incidente occorso alla nave CSCL Indian Ocean in arrivo al porto di Amburgo, insieme a tre interviste a Gian Enzo Duci (sul mercato mondiale dei marittimi), Mario Sommariva (dell’Agenzia del Lavoro del porto di Trieste) e Roberto Prever (sulla progettazione delle navi traghetto) oltre a una ricostruzione della storia della logistica curata da Pier Paolo Poggio, Sergio Bologna dimostra come gli investimenti finanziari in progetti caratterizzati dal gigantismo, sia nelle previsioni economiche che dei mezzi destinati a sostenerle, abbia portato ad una situazione di crisi in cui, nonostante gli enormi fatturati, i profitti siano ormai nettamente inferiori alle perdite di esercizio per gli investitori.

La prima cosa che colpisce, tra i dati riportati dal testo, è che il sorgente ed eclatante capitalismo orientale non va meglio di quello occidentale. Parafrasando e rovesciando di significato una vecchia canzone dei Jefferson Airplane: Things aren’t better in the East. Anzi…
E’ proprio dal fallimento dell’importantissima compagnia marittima sudcoreana Hanjin che prende infatti il via la ricerca e l’analisi delle prospettive, drammatiche del commercio marittimo mondiale. In particolare di quello basato sui container e sulle navi porta-container.

Il fallimento di Hanjin e le vicissitudini di tante altre compagnie del Far East, da Cosco a Nippon Yusei Kaisha, da K Line a Hyundai Merchant Marine, quelle dei cantieri sudcoreani Daewoo e Stx, dei cantieri cinesi e giapponesi, squarciano il velo su un capitalismo asiatico di cui avevamo una visione mitologica, lo ritenevamo aggressivo ma sagace, invece si rivela di una fragilità preoccupante, tamponata solo dagli aiuti di Stato, e piena di personaggi senza scrupoli, capaci di mandare all’aria imperi industriali costruiti da uomini venuti su dal niente. Hanjin, come Korean Air, è stat fondata dal signor Cho Choong Hoong, che ha cominciato da solo, con un camion, portando roba per l’esercito americano nella Corea del dopoguerra. Ha costruito una conglomerata, un caebol, da 20 miliardi di dollari, lasciandola ai quattro figli. A Cho Yang Ho è toccata Korean Air, a Cho Soo Ho è toccata Hanjin. Quando questi muore di cancro nel 2006 gli subentra la moglie, la bella Choi Eun-young ed è lei che si presenta, piagnucolante e contrita, davanti alla commissione di inchiesta sul fallimento della compagnia: «Quando mi sono trovata in mano questa società, alla morte di mio marito, sapevo solo di fornelli e di cucina!»2

Ma, alle spalle della narrazione “famigliare”, va anche intravista l’azione dell’uomo in cui sono state messe le redini della società dopo la dichiarazione di fallimento: “Tae-Soo Seok, 61 anni ben portati, Master in Business Administration al Mit di Boston. Uno di quelli ai quali insegnano che il primo dovere di un manager è fare gli interessi dagli azionisti, non dell’azienda.
E tanto meno dei dipendenti, dei lavoratori e di tutti coloro che, grandi e piccini, possono dipendere dalla stessa e dai suoi servizi.

Da questo punto di vista le vicende della Hanjiin diventano paradigmatiche per le conseguenze che una crisi globale del trasporto marittimo potrebbe causare sull’intera economia mondiale: enormi navi porta-container disperse sugli oceani in attesa di conoscere la loro eventuale (ultima?) destinazione; migliaia di uomini imbarcati senza sapere quando per loro sarà possibile sbarcare o ricevere lo stipendio; merci (spesso deperibili) in attesa di essere sbarcate ed inviate a destinazione oppure imbarcate su navi che non arriveranno mai; altre navi ormeggiate al largo di porti già intasati senza conoscere se e quando potranno essere scaricate o caricate; porti bloccati da migliaia di container di cui non si sa più se saranno imbarcati e da chi; fornitori e clienti che vedono la loro merce immobilizzata in scali giganteschi, su moli resi inagibili da code infinite di camion ed autotrasportatori in attesa di ritirarle o consegnarle. Da Anversa agli scali mediterranei, dagli Stati Uniti ai porti asiatici.

Il disastro è servito, a dimostrazione che “il capitalismo asiatico ha recepito e ingrandito tutti i difetti e le tare del capitalismo occidentale. E ci fa sorridere l’idea che tanti attori importanti del nostro mondo economico e politico ripongano nei rapporti commerciali e finanziari con il Far East, ma soprattutto con la Cina, una fiducia incrollabile per le sorti magnifiche e progressive dell’Italia e dell’Europa. Per la leggendaria Via della Seta oggi non arrivano spezie e broccati preziosi ma calz e reggiseni, a due euro il pacco da dieci pezzi”.

Ora, senza continuare a citare e riassumere un testo di per sé interessantissimo e stimolante, ciò che colpisce ancora di più è la mania di gigantismo che sembra avere colpito un capitalismo, a questo punto potremmo dire mondiale, che cerca di sostituire la mancata accumulazione di profitti sul medio e lungo periodo con speculazioni destinate a impianti, opere e costruzioni faraoniche il cui fine ultimo sembra essere, spesso, a dare l’idea della crescita economica più che a realizzarla.

Vale per l’utilizzo dei container e delle autentiche città galleggianti destinate a trasportarli, vale per gli Expo e le Olimpiadi di vario genere (invernali e no) e, anche, per i progetti riguardanti l’Alta Velocità ferroviaria.3 Fallimenti assicurati e introiti giganteschi per pochi, frutto dell’autentico ladrocinio operato sulle risorse della società. Risorse destinate ad essere progressivamente prosciugate in nome del profitto immediato di pochissimi manager ed azionisti, le cui azioni sono destinate a ricadere negativamente non solo sulla generazione presente ma anche su quelle future.

Un impoverimento generalizzato, accelerato e progressivo che se non vedrà le grandi aziende e gli Stati, come suggeriscono Bologna ed altri esperti del settore, cambiare rotte e direzione non potrà far altro che precipitare sempre più milioni, o forse miliardi, di uomini e donne nella povertà o peggio ancora in una guerra di spartizione di ciò che rimane dell’economia mondiale.
Una riflessione, quest’ultima, non direttamente contenuta nel testo, ma verso la quale la visione olistica di Bologna, come viene definita nell’introduzione da Zeno D’Agostino (Presidente dell’Autorità di sistema portuale del Mare Adriatico Orientale), conduce inevitabilmente.


  1. Per chi volesse approfondire questo discorso, oltre ai blog indicati nel testo di Bologna, sarebbe utile consultare Devi Sacchetto, FABBRICHE GALLEGGIANTI. Solitudine e sfruttamento dei nuovi marinai, Jaca Book 2009  

  2. pp. 17-18  

  3. Su questo argomento e proprio sulla linea Torino –Lione e le scuse addotte per giustificarne la realizzazione Sergio Bologna aveva già espresso un duro e documentato giudizio critico in un’intervista rilasciata per il testo di Andrea De Benedetti e Luca Rastello, Lisbona – Kiev BINARIO MORTO. Alla scoperta del corridoio 5 dell’alta velocità che non c’è, Chiarelettere 2013  

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Huck, Ishmael e la guerra di classe https://www.carmillaonline.com/2016/04/25/huck-ishmael-la-guerra-classe/ Mon, 25 Apr 2016 19:01:58 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=29926 di Sandro Moiso

fugitive days Bill Ayers, Fugitive Days. Memorie dai Weather Underground, DeriveApprodi 2016, pp. 336, € 22,00

Bill Ayers racconta la vicende di un pugno di ragazzi e di ragazze che volevano fare la rivoluzione. Ci mette sotto gli occhi il diario del tentativo, messo in atto da un gruppo di giovani incoscienti e coraggiosi, di portare la guerra fin nel cuore dell’Impero, quando negli Stati Uniti d’America, tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta, alcuni militanti della sinistra radicale dichiararono ufficialmente guerra al mostro imperialista. Mentre, allo stesso tempo, ci narra la storia [...]]]> di Sandro Moiso

fugitive days Bill Ayers, Fugitive Days. Memorie dai Weather Underground, DeriveApprodi 2016, pp. 336, € 22,00

Bill Ayers racconta la vicende di un pugno di ragazzi e di ragazze che volevano fare la rivoluzione.
Ci mette sotto gli occhi il diario del tentativo, messo in atto da un gruppo di giovani incoscienti e coraggiosi, di portare la guerra fin nel cuore dell’Impero, quando negli Stati Uniti d’America, tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta, alcuni militanti della sinistra radicale dichiararono ufficialmente guerra al mostro imperialista. Mentre, allo stesso tempo, ci narra la storia della ricerca collettiva di un altro mondo, di un’altra vita e di altre esperienze, sulle orme di Huckleberry Finn e di Ishmael, l’io narrante di “Moby Dick”.

L’autore oggi settantunenne, militante e fondatore dell’organizzazione clandestina dei Weather Underground, ci regala una delle più belle autobiografie scritte da un rivoluzionario. Epica, commovente, a tratti divertente ed ironica, ma mai, assolutamente mai, segnata da qualsiasi forma di autocompiacimento o, al contrario, dalla resa incondizionata alle ragioni del nemico. Anzi, il testo brilla proprio per la capacità del narratore di sollevare più di una critica nei confronti della pratica, militare ed ideologica, dei Weathermen, senza per questo slittare nel rifiuto della militanza rivoluzionaria o dell’azione diretta.

Non potrei immaginare, oggi, di mettere una bomba in un edificio. Tutto questo mi sembra molto chiaramente appartenere al passato. Ma, allo stesso tempo, non posso immaginare di scartare del tutto l’eventualità. L’affermazione «Vogliamo giustizia» ha per me il senso assoluto che ha sempre avuto e, perciò, aggiungere «Però, certo, non con ogni mezzo» mi sembra che equivalga a mettere la testa sul ceppo” (pag.322)

I Weather Underground, nati da una frazione separatasi dall’ SDS (Students for a Democratic Society) a partire dagli scontri della Convenzione democratica di Chicago del 1968 e dalle successive Giornate della Rabbia dell’anno successivo, si posero molto presto il problema della violenza. Soprattutto di “quale violenza”. Una violenza che colpisse solo le cose o anche le persone?

diana e ted Al di là del dibattito puramente ideologico che, come sempre, servì soltanto a confondere le idee di molti e ad esaltare inutilmente l’ardore militante di alcuni, a risolvere il dilemma ci pensò, in maniera catastrofica e catartica, l’esplosione che, nel marzo del 1970, avvenne in un’elegante palazzina situata al numero 18 della West Eleventh Street nel Greenwich Village e che spazzò letteralmente via, oltre che i muri dell’edificio, anche le vite di tre militanti della prima ora che stavano preparando una bomba ad alto potenziale destinata a colpire le odiatissime forze dell’ordine.

La morte improvvisa di Diana Oughton, Ted Gold e Terry Robbins (di cui non fu ritrovato nemmeno il corpo) segnò irrimediabilmente il corso successivo dell’organizzazione che, pur continuando a colpire con le bombe le istituzioni militari, poliziesche, bancarie ed economiche dell’imperialismo americano, rifiutò di utilizzare la violenza come metodo per distruggere i corpi. Seppure degli avversari. Una scelta difficile che, contemporaneamente, rischiò di inimicare ai suoi membri sia l’ala pacifista del movimento di contestazione alla guerra nel Vietnam, sia quella più radicale e politicizzata.

Ma, prima di giungere a quelle drammatiche scelte, il cammino di Ayers e degli altri militanti era stato lungo, tortuoso e segnato da numerose esperienze di auto-organizzazione (le scuole per i bimbi poveri, quasi solamente afroamericani, di Chicago o Detroit), autodifesa (la rivolta di Cleveland nel 1966), difesa dei cittadini di colore e dei loro diritti (fin dai primi anni sessanta) e, soprattutto, dal rifiuto di una guerra ritenuta profondamente ingiusta e sbagliata: quella in Vietnam appunto.

weatherman-days-of-rage-chicago-october-9-1969 Il percorso di formazione, dall’infanzia in un ambiente borghese e perbenista fino alla scelta di una militanza integrale e svolta in clandestinità , è delineata dall’autore con un taglio spesso degno di Mark Twain, equamente diviso tra ironia, spacconeria, a tratti, ed amarezza. Il fiume della Storia, dall’azione antischiavista di John Brown prima della guerra civile o, ancor prima, dal Boston Tea Party che diede il via alla guerra di indipendenza o dalla ribellione di Shay che la seguì, fino all’azione degli IWW e alle parole del Che o a quelle di Ho Chi Min, diventa così una sorta di ideale e lunghissimo Mississippi lungo il quale Ayers discende sulle orme di Huckleberry Finn e dello stesso Twain.

Mentre, soprattutto nelle parti più prossime all’autocritica e al rimpianto per le perdita degli amici e della donna amata, il testo sembra rievocare quel “Call me Ishmael” con cui ha inizio il più bel romanzo della letteratura americana dell’Ottocento: Moby Dick. E questa similitudine è resa possibile non soltanto dal tentativo dichiarato, fin dalla Convention di Chicago del ’68, di arpionare il mostro capitalista e la sua democratica balena bianca, ma anche dal fatto che il fragile Pequod e la fragile organizzazione di cui l’autore ha fatto parte sono destinati a scomparire proprio nel momento in cui il loro obiettivo sarà raggiunto.

Inoltre di Ishmael non conosceremo mai il cognome o il vero nome, così come l’autore perderà per anni il suo vero nome fino quasi a dimenticarlo per vivere, in clandestinità, sotto altri nomi e le più svariate identità sociali e lavorative. L’Io qui si rivela così essere qualcosa, allo stesso tempo, di collettivo e di estremamente soggettivo. Collettiva la spinta, collettive le motivazioni e le aspirazioni, soggettiva la scelta e soggettive le riflessioni. Soggettivo, soprattutto il coraggio, sempre accompagnato da una certa umiltà.

Umiltà che sembra lasciare sullo sfondo l’importanza dell’azione diretta nella chiusura dell’intervento americano nella guerra in Indocina; umiltà che assegna solo all’organizzazione e al coraggio dei combattenti e delle popolazioni vietnamite e cambogiane il merito della vittoria militare. Eppure, eppure…

Avevamo rivendicato una mezza dozzina di attentati, ognuno enormemente ingigantito dalla valenza simbolica dell’obiettivo, dall’entità, volutamente cauta e prudente dello scoppio, e dai puntuali comunicati pubblici che suggerivano la terribile o esilarante notizia che in America si stava formando un movimento di guerriglia interno. Esplose un’onda positiva di violenza e disperazione, ma avevamo ormai poche illusioni sulle nostre reali capacità, e potevamo vedere quello che stava succedendo in tutto il mondo. L’escalation di attentati alle sedi del ROTC (Reserve Officers’ Training Corps – Corpo di Addestramento degli ufficiali di Riserva), agli uffici di leva e ai centri di reclutamento, durava da almeno due anni, e i bersagli della volenza politica adesso includevano grandi società chiaramente collegabili con l’aggressione e l’espansione degli Stati Uniti: Bank of America, United Fruit, Chase Manhattan Bank, IBM, Standard Oil, Anaconda, general Motors. Dall’inizio del 1969, fino alla primavera del 1970, negli USA ci furono più di 40 mila minacce o attentati e 5 mila esplosioni riuscite contro governativi o imprenditoriali, una media di sei attentati al giorno. Salvo due o tre casi, l’intera orgia di esplosioni era rivolta contro le proprietà, non le persone […] Cinquemila esplosioni, circa sei attentati al giorno, e i Weather Underground ne avevano rivendicate sei, in tutto. Sono cifre che fanno riflettere” (pag.262)

Si aggiunga a tutto ciò la rivolta in centinaia di campus universitari, l’azione auto-organizzata del Black Panther Party, l’uccisione dal parte delle forze del disordine di decine di studenti bianchi e di militanti neri, la rivolta, nemmeno troppo sotterranea, dei sodati al fronte e di quelli ritornati a casa e si capirà perché la guerra del Vietnam sia il secondo ed unico conflitto internazionale del ‘900 chiusosi, come il primo conflitto mondiale, non soltanto e solo per una sconfitta militare, ma anche, e soprattutto, per la paura delle classi dirigenti per l’apertura di un insanabile ed insuperabile conflitto interno destinato a sfociare, inevitabilmente, in una rivoluzione sociale.

Ayers non lo dice, non rivendica, anzi tende a smitizzare e a limitare il ruolo del suo movimento anche se il ruolo simbolico che assunse non fu certamente estraneo a ciò che avvenne. Grazie anche alla propaganda con cui il Federal Bureau (FBI), gli strumenti di repressione e disinformazione gonfiarono la pericolosità dei singoli militanti dell’organizzazione. Ricercati, inseguiti, dispersi, ma mai sconfitti. Come la resa degli ultimi militanti nel 1980 (tra cui lo stesso Ayers e la sua compagna Bernardine Dohrn) e il loro rapido rilascio, una volta rivelati gli sporchi trucchi ed inganni usati nei loro confronti dall’FBI, ben dimostrano.

billayersfbiLe accuse dei federali di cospirazione che ci avevano collocato sulla lista dei dieci più ricercati dall’FBI erano, ironia della sorte, decadute a causa della condotta del governo, estremamente cattiva. Si era scoperto, in seguito allo scandalo Watergate, che il Bureau aveva spudoratamente sorvegliato telefoni, violato abitazioni, e addirittura elaborato un piano per rapire il nipotino di Bernardine” (pag.329)

Ma non bastò solo quella prova a salvaguardare l’integrità fisica e la libertà dei più importanti rappresentanti dei Weathermen. L’altro, e principale fattore, fu rappresentato da una struttura “non partitica” e quindi non verticistica o piramidale dell’organizzazione e dalla sua strutturazione a cellule o “tribe” separate organizzativamente e soltanto unite dalla pratica e dagli obiettivi perseguiti.
Insieme, naturalmente, al fatto che tra gli arrestati ben pochi furono coloro disposti a parlare1 o a pentirsi.

Il libro racconta molto di più naturalmente: trasmette emozioni e suscita riflessioni che sono ancora tutte di estrema attualità. E’ un bellissimo libro non di memorie, ma sulla memoria. Sulla memoria dei vinti, dei vincitori, degli stati, dei rivoluzionari, dei controrivoluzionari e degli individui. Con tutti i loro difetti e le loro lacune.
Quando l’America ha perso la guerra – miseramente, alla fine – non è riuscita, com’era prevedibile, ad ammettere la sconfitta, a ricordare e a fare i conti con la realtà […] La verità è che gli Stati Uniti hanno perso la guerra in Vietnam. La verità è che hanno vinto quegli altri” (pag.324)

Non stiamo vivendo, possiamo esserne certi, sulle montagne, in tempi rivoluzionari, e questo è un dato di fatto. Viviamo a valle – tempi di incertezza e confusione, tempi di endemica irreparabilità e di sempre più profonda disperazione. Sono tempi in cui bisogna rimanere svegli e coscienti, raccogliere le forze, studiare e costruire i nostri progetti, apportare ogni modesto contributo possibile, per soffiare lievemente sui tizzoni della giustizia – e ricordare” (Pag.323)
Cosa che l’autore nel suo libro riesce a fare benissimo.

Nel caso in cui l’intervista autobiografica di Toni Negri vi avesse annoiato o irritato, gettatela via e, senza rimpianti, infilate le cuffie per ascoltare “Volunteers” dei Jefferson Airplane, “Kick Out The Jams, Motherfuckers!” degli MC5 oppure “Brown Shoes Don’t Make It” dei Mothers of Invention. Poi iniziate a leggere Ayers, non ve ne pentirete. Mai.


  1. Come dimostra anche il bellissimo documentario The Weather Underground di Sam Green e Bill Siegel  

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…e pace in terra agli uomini e alle donne di buona volontà https://www.carmillaonline.com/2014/04/30/pace-in-terra-agli-uomini-alle-donne-buona-volonta/ Tue, 29 Apr 2014 22:15:15 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=14381 di Sandro Moiso corteo-roma-12 aprile

Vittorie perdute

Mentre i generali degli eserciti imperiali e nazionali possono sprecare, senza preoccuparsene, vite e occasioni poiché ciò che importa nelle guerre moderne è soprattutto consumare, distruggere e ricostruire (sia che si tratti di armi, edifici, infrastrutture o vite umane), il movimento di classe, rivoluzionario ed antagonista, è stato costretto, da sempre, a valutare attentamente le condizioni dello scontro politico e, talvolta, militare con la classe avversa.

La violenza e la battaglia di strada non possono essere un fine in sé perché, a differenza della logica capitalistica ed imperialistica, ciò che conta per il movimento [...]]]> di Sandro Moiso corteo-roma-12 aprile

Vittorie perdute

Mentre i generali degli eserciti imperiali e nazionali possono sprecare, senza preoccuparsene, vite e occasioni poiché ciò che importa nelle guerre moderne è soprattutto consumare, distruggere e ricostruire (sia che si tratti di armi, edifici, infrastrutture o vite umane), il movimento di classe, rivoluzionario ed antagonista, è stato costretto, da sempre, a valutare attentamente le condizioni dello scontro politico e, talvolta, militare con la classe avversa.

La violenza e la battaglia di strada non possono essere un fine in sé perché, a differenza della logica capitalistica ed imperialistica, ciò che conta per il movimento reale sono sempre e solo i passi in avanti che lo stesso movimento riesce a fare, o meno, con le sue scelte.
Che proprio per questo motivo devono essere sempre oculate ed attente. Come già suggeriva, solo per citare un teorico piuttosto importante del movimento operaio, Federico Engels alla fine dell’Ottocento a proposito della reazione operaia alle leggi anti-socialiste di Bismarck.

Quel secolo era stato ricco di barricate in gran parte delle città europee e aveva visto sorgere e tramontare il primo esempio glorioso di conquista del potere da parte dei diseredati con la Comune di Parigi del 1871. Ma ciò non toglieva che Engels, esperto di tattica militare e di guerriglia urbana ante-litteram, invitasse i membri della classe operaia e della socialdemocrazia tedesca a valutare sempre con estrema attenzione le condizioni dello scontro politico e li esortasse ad evitare sempre il campo o le condizioni di battaglia imposti dalla borghesia e dai suoi rappresentanti e tutori.

Ciò non toglie che in alcuni casi ci siano stati episodi di lotta destinati alla sconfitta sin dal primo momento che, nonostante tutto, abbiano portato a vittorie successive, quasi sempre impreviste, di ordine politico. Ottenendo che chi aveva ritenuto di aver vinto sul campo si ritrovasse, poi, a gestire una vittoria di Pirro o, come recitava il titolo italiano di uno dei primi film critici della guerra americana in Vietnam, a ritrovarsi tra le mani delle autentiche “Vittorie perdute1.

L’offensiva del Tet (gennaio – marzo 1968) giap guerra del popolo

Uno di questi casi, che furono spesso legati alle lotte di liberazione nazionale più che ad uno scontro diretto tra proletariato e borghesia, fu quello dell’offensiva vietnamita del Capodanno del Tet.
Legata al nome del generale Vo Nguyen Giap, che già aveva duramente sconfitto l’esercito coloniale francese nella battaglia di Dien Bien Phu (1954) costringendolo successivamente a ritirarsi dall’Indocina, l’offensiva avrebbe segnato l’inizio della fine della dominazione imperialistica statunitense sul Vietnam del Sud.

Scatenata sul territorio del Vietnam del Sud durante gli ultimi giorni di febbraio del 1968 e a Saigon nella notte tra il 30 e il 31 gennaio, all’apice dei festeggiamenti per il capodanno vietnamita, l’operazione militare era stata elaborata fin dall’estate del 1967, quando i leader politici e militari del Vietnam del Nord e del FLN del Sud si erano ritrovati ad Hanoi per capire come fronteggiare le operazioni militari portate avanti dal generale Westmoreland fin dalla primavera dello stesso anno.

Fino ad allora la tattica vietnamita si era limitata a rintuzzare le azioni dell’esercito americano e del Vietnam del Sud con attacchi chirurgici ad obiettivi ben delimitati. Si trattava ora di lanciare, secondo l’opinione di Giap, un’offensiva più allargata, mirante a colpire le basi americane più avanzate, i centri urbani e la stessa area urbana della capitale sud-vietnamita Saigon.
Nella speranza che ciò portasse ad una insurrezione generale della popolazione dell’intero Vietnam del Sud.

La data non era stata scelta a caso perchè nel 1789 i patrioti vietnamiti avevano attaccato le forze cinesi che occupavano Hanoi proprio durante la festa del Tet. Usando in maniera retorica questo richiamo, il Partito Comunista si diede a svolgere una campagna straordinaria a favore di un’offensiva destinata a porre fine alla guerra . Una “Grande offensiva che poteva essere attuata solo una volta ogni mille anni”, si disse allora nell’impeto propagandistico.

Non tutti i dirigenti comunisti si dimostrarono ugualmente entusiasti dell’idea, soprattutto quelli del Sud e di Saigon in particolare. Consci della scarsa organizzazione ed efficacia dei nuclei operativi urbani del Sud. Ma per quasi tutti i comandanti e dirigenti il colpo, soprattutto a Saigon, avrebbe dovuto rappresentare, durante la campagna elettorale statunitense del 1968, l’impossibilità per gli americani di vincere quella guerra.

I vietcong, che costituivano di fatto l’armata “irregolare”, portarono armi oltre il confine con la Cambogia attraverso i tunnel sotterranei di Cu Chi e il cosiddetto Triangolo di Ferro.
I combattenti si riunivano anch’essi nei tunnel sotterranei e lì ricevevano ordini dettagliati e alla vigilia dell’azione si riunirono in abitazioni appositamente preparate allo scopo. Mentre i loro agenti, per lo più donne e bambini, trasportavano armi oltre i punti di controllo della città mediante una varietà eccezionale di sotterfugi.

La strategia di Giap si basava anche sulla speranza di riuscire a distribuire armi pesanti agli insorti dopo averle strappate alle basi di artiglieria e di mezzi corazzati dell’esercito sud-vietnamita presenti nell’area di Saigon. Fu così che, poco prima delle tre del mattino del 31 gennaio, 35 battaglioni si mossero contro i sei obiettivi principali dell’area di Saigon: il Quartier generale dello Stato maggiore sud-vietnamita, il Palazzo dell’indipendenza (che ospitava gli uffici dell’ambasciata americana), la base aerea di Tan Son Nhut, il Quartier generale della marina Sud-vietnamita e la stazione televisiva nazionale (da cui avrebbe dovuto essere trasmesso via radio un discorso preregistrtao di Ho Chi Minh).

Otto battaglioni e 4.000 uomini e donne locali si concentrarono nell’assalto al centro urbano, che conoscevano ottimamente poiché molti di loro erano cyclopousse o tassisti. Furono 250 uomini e donne del battaglione C-10 genieri di Saigon ad aprire la strada agli attacchi, con il compito di mantenere il controllo degli obiettivi fino all’arrivo dei rinforzi locali. Che spesso finirono con il non arrivare.

I sei obiettivi furono tutti raggiunti ed occupati, ma quasi sempre tenuti soltanto per poche ore.
Il messaggio di Ho Chi Minh non fu mai trasmesso perché un tenente colonnello dell’esercito del Sud Vietnam aveva previsto una simile eventualità e la corrente elettrica fu tolta alla stazione dopo i primi spari. Ma nonostante tutto ciò, all’alba i vietcong erano riusciti a penetrare in molti punti ad ovest e a sud di Saigon e a controllare intere zone alla periferia di Cholon.

In molti casi comunque, dentro e fuori Saigon, gli attaccanti ben coordinati e coraggiosi, che pur erano riusciti a cogliere di sorpresa i militari americani e l’esercito sud-vietnamita, dovettero soccombere di fronte alla mobilità e alla potenza di fuoco statunitensi.
Così, nonostante l’effetto sorpresa e il sostanziale successo della prima ondata di attacchi, le cose per gli insorti non andarono come previsto.

L’insurrezione generale non ebbe luogo e il sostegno da parte dei civili di Saigon fu scarso.
Respinti e cacciati dagli obiettivi principali, i vietcong si frammentarono in piccole unità e cercarono riparo nelle case di Saigon, in particolare nella zona circostante l’ippodromo di Phu Tho che si trovava in posizione centrale rispetto alle principali strade della città. Averne il controllo significava anche impedire agli elicotteri americani di utilizzare i suoi impianti per atterrare e scaricare truppe di rinforzo.

Gli scontri continuarono intorno a Phu Tho e quasi tutte le unità vietcong confluite su Saigon contribuirono con i loro militanti a questa battaglia.
Il 1° febbraio la direzione e l’alto comando del Fronte di Liberazione furono costretti ad ammettere che molti obiettivi del piano generale non erano stati raggiunti e a diramare l’ordine di sospendere gli attacchi alla postazioni militari avversarie. Anche se le forze armate americane e sud-vietnamite conclusero le operazioni militari nell’area di Saigon soltanto il 7 marzo, cinque settimane dopo il primo attacco.

Nel resto del Vietnam del Sud le operazioni si erano concentrate particolarmente intorno alle città di Hue, Da Nang e Quang Tri, con la base americana avanzata di Khe Sahn. In particolare la battaglia per Hue durò 26 giorni, mentre l’offensiva sugli altri obiettivi cessò il 21 febbraio.
In termini puramente militari, il Tet si era rivelato un insuccesso. I vietcong avevano riportato 40 o 50 mila vittime a fronte di 4.000 americani morti o feriti e 4.000 o 8.000 morti dell’Esercito Sud Vietnamita. Mentre la guerra sarebbe continuata per almeno altri cinque anni, fino al 1973.

La cosa più grave per gli insorti fu rappresentata dal fatto che dalle loro fila erano stati eliminati gli elementi più determinati e preparati. Avevano saputo concentrare i combattenti migliori che pur erano stati spazzati via dalla potenza di fuoco americana. Ma i successi americani sul campo di battaglia furono annullati dalle conseguenze politiche scaturite dall’offensiva del Tet.

Su come si perdono le vittorie e come le sconfitte si possono trasformare in vittorie tet 1

La prima impressione che gli spettatori americani ricevettero dalle trasmissioni televisive dell’epoca fu quella dell’inarrestabilità dell’offensiva insurrezionale vietnamita.
Infatti quindici minuti dopo il primo attacco un corrispondente dell’Associated Press aveva battuto a macchina una notizia che annunciava l’offensiva poiché gli uffici della Western Press si trovavano di fianco all’ambasciata americana.

Ciò avrebbe avuto conseguenze immense sulla percezione che gli organi di informazione avrebbero avuto e trasmesso da quel momento sulla guerra americana in Asia.
I giornalisti che poterono, di fatto, accedere immediatamente al luogo dello scontro finirono col percepire in maniera distorta il reale esito del combattimento. In fin dei conti lo scoop finì con l’essere rappresentato proprio dal fatto che i guerriglieri erano riusciti a penetrare “perfino” all’interno dell’ambasciata. Cosa impensabile fino al giorno prima.

Nella concitazione delle prime ore i titolisti delle più influenti testate ebbero così l’occasione di diffondere, probabilmente ingigantendolo, il messaggio secondo il quale la roccaforte del prestigio americano era caduta in mano al nemico. Qualche ora dopo, una volta che l’edificio era stato riconquistato, fu lo stesso Westmoreland ad improvvisare una conferenza stampa, in mezzo ad un’autentica carneficina di corpi di vietcong appartenenti al battaglione genieri.

In mezzo a quel disastro di sangue e di corpi maciullati, il generale dichiarò ufficialmente che il nemico non era riuscito a penetrare nel perimetro dell’edificio.
I giornalisti, come molti testimoniarono in seguito, non potevano credere alle loro orecchie, mentre Westmoreland in piedi tra le macerie stava cercando di convincere il mondo che tutto stava andando a gonfie vele. E gli americani percepirono, a casa, che il generale stava mentendo spudoratamente.

Da quel momento probabilmente si ruppe il rapporto di fiducia tra media americani e rappresentanti e portavoce dell’esercito. Come le cronache e gli editoriali di Walter Cronkite, celebre conduttore del telegiornale CBS Evening News, confermarono nei mesi successivi.
Dopo l’editoriale di Cronkite, dove affermava che non era possibile vincere quella guerra, il presidente Lyndon Johson affermò, “Se ho perso Walter Cronkite, ho perso l’America moderata“. E poco dopo lasciò la corsa alla presidenza statunitense del 1968.

Nonostante le immagini dei cadaveri dei vietcong impilati all’esterno delle basi americane, nessuno parlò o festeggiò la vittoria americana sul campo di battaglia. L’opinione pubblica aveva capito che il “nemico”era più forte di quanto dichiarassero i politici e i generali americani. L’alternativa poteva essere soltanto tra un’ulteriore escalation militare statunitense, cui già si opponevano molti giovani e reduci americani, o l’apertura di negoziati con l’avversario.

Fu lo stesso Cronkite a chiederlo nella trasmissione televisiva del 27 febbraio 1968; “ Siamo rimasti delusi anche troppo spesso dall’ottimismo dei leader americani… Dire che siamo vicini alla vittoria oggi equivale a credere agli ottimisti che già si erano sbagliati in passato, visto le ultime prove raccolte… Dire che siamo fermi ad uno stallo totale è l’unica conclusione realistica a cui possiamo giungere oggi…Sta diventando sempre più evidente che l’unica via di uscita razionale è il negoziato”.

Certo al negoziato non si giunse solo per merito della stampa o dei media. La mobilitazione contro la guerra aveva raggiunto negli USA dimensioni preoccupanti, mentre il tasso diserzione dall’esercito americano era passato dal 10,5 per mille del luglio 1967 (in piena summer of love) al 16,5 per mille del luglio 1968, con 13.506 uomini che disertarono in quel solo mese. Allo stesso tempo va qui segnalato che proprio nel corso del 1969 e del 1970 si giunse però agli scontri più feroci sul campo.

Così il 3 maggio del 1968 si giunse ad un accordo formale tra Stati Uniti e Vietnam del Nord per l’apertura di una trattativa e il 3 luglio dello stesso anno il generale Westmoreland lasciò l’incarico di comandante in capo.
L’offensiva del Tet aveva fatto registrare una simmetria che si rivelò fatale per la strategia americana in Asia: aveva distrutto le migliori forze vietcong (che fino al 1969 non poterono pienamente ricostituirsi), ma costrinse, anche, gli americani a tirarsi indietro. Il definitivo abbandono della base di Khe Sahn, nel giugno del 1968, fu il primo sintomo del disimpegno militare americano.

Un altro ed inaspettato fronte di lotta internazionale si apriva però in quei giorni.
A Parigi, città dove si sarebbero poi tenuti gli incontri tra la delegazione americana e quella vietnamita, proprio la notte del 3 maggio iniziarono gli scontri tra gli studenti e la polizia nel Quartiere Latino. E il 13 maggio, giorno dell’apertura dei colloqui presso il palazzo Kléber – La Pérouse al n. 19 dell’Avenue Klèber, si svolse lo sciopero generale proclamato dai sindacati francesi a fianco degli studenti in rivolta. Una nuova era aveva avuto inizio.

Caso, rabbia, tenacia, diffusione delle lotte a livello internazionale furono certamente alleati della lotta per l’indipendenza del Vietnam e trasformarono una drammatica sconfitta nel prologo di una vittoria futura.
Le lotte di oggi, di dimensioni molto più ridotte e in una dimensione temporale ben diversa, anche se altrettanto drammatica, difficilmente potrebbero usufruire di una simile coincidenza di fattori.

Gli stessi media embedded, dai fronti internazionali a quello interno, non potrebbero più svolgere la stessa funzione. Su questo occorre riflettere prima di offrirsi e offrire le manifestazioni, che stanno faticosamente cercando di ricostruire un’unità di classe e di intenti, come agnelli sull’altare sacrificale mediatico, giudiziario e poliziesco della repressione di Stato. Anche se l’unica autentica similitudine, tra i fatti narrati e quelli di oggi, potrebbe essere costituita dall’uso di gas CS che gli americani usarono in abbondanza a Saigon così come le forze del dis/ordine fanno ancora sulle piazze italiane.

Marx sottolineava che nella Storia ciò che si presenta, in un primo tempo, come dramma è spesso destinato a ripetersi poi sotto forma di farsa. Ecco: evitiamolo accuratamente!
Anche perché, al contrario della storia delle nazioni, l’umanità futura non dovrà più aver bisogno di martiri per giustificare la propria liberazione e il proprio posto nella Natura.

N.B.
L’accompagnamento musicale per l’eventuale rilettura di quanto fin qui detto potrebbe essere costituito, più che da qualche vetusta versione dell’Internazionale, dall’album dei Jefferson Airplane “Bless Its Pointed Little Head”, registrato tra l’ottobre e il novembre del 1968 al Fillmore West di San Francisco e il Fillmore East di New York, autentico prodotto della rabbia, della delusione e del rifiuto giovanile americano per la guerra in Vietnam.

(3 – continua)


  1. Go Tell The Spartans di Ted Post, USA 1978  

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Divine divane visioni (Urlando furioso 04/05) – 54 https://www.carmillaonline.com/2013/10/18/divine-divane-visioni-urlando-furioso-0405-54/ Thu, 17 Oct 2013 22:01:22 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=10051 di Dziga Cacace

Alla riscossa stupidi che i fiumi sono in piena, potete stare a galla  

ddv5401531 – Lo splendido Ferro 3 di Kim Ki-Duk, Corea del Sud 2004 Strani giorni, in attesa. Ansie da paternità, lavori nella nuova casa da seguire, dolori lombari inopportuni, appetito feroce. Le voglie dovrebbe averle Barbara e invece sono io a mangiare come una bestia: con la gravidanza (sua) ho preso già 3 chili e ieri ho sbafato un sushi per due. Oggi è sabato e ho dormito tanto e lavorato poco, cosa che non ha migliorato il mal di schiena ma [...]]]> di Dziga Cacace

Alla riscossa stupidi che i fiumi sono in piena, potete stare a galla  

ddv5401531 – Lo splendido Ferro 3 di Kim Ki-Duk, Corea del Sud 2004
Strani giorni, in attesa. Ansie da paternità, lavori nella nuova casa da seguire, dolori lombari inopportuni, appetito feroce. Le voglie dovrebbe averle Barbara e invece sono io a mangiare come una bestia: con la gravidanza (sua) ho preso già 3 chili e ieri ho sbafato un sushi per due. Oggi è sabato e ho dormito tanto e lavorato poco, cosa che non ha migliorato il mal di schiena ma mi ha predisposto per un menù coreano. Siccome non gradisco piatti a base di carne di cane e aglio, opto prudenzialmente per un film: Ferro 3 avrà sí e no tre pagine di dialoghi. È cinema puro, narrato per immagini. È splendido. Un giovane vive sfruttando le case vuote altrui. Entra, si prepara la cena, lava i suoi indumenti e – per ripagare l’ospitalità – ripara qualcosa (orologi, bilance, stereo), dorme, se ne va. In un’incursione incontra una donna disperata che vuole fuggire dal marito. Altre vicissitudini e una lieta fine, inaspettata quanto poetica. Film elegante e violento come un colpo di mazza da golf, lineare, ritmato, senza alcuna ridondanza e fotografato in maniera entusiasmante. Il cinema come vorrei che fosse sempre: inaspettato, originale e poco parlato. E stupido io che perdo tempo con tante cagate occidentali, ripetitive e preconfezionate, e ancora indugio di fronte all’immensa cinematografia orientale. Dopo il film, ovviamente, cena indocinese abbondantissima che procura incubi notturni a base di involtini primavera volanti tra nuvole di drago. Visto in sala con pubblico educato, proiezione corretta, intervallo eliso dalla pellicola e però luci accese sui titoli. Ma non mi lamento. E ho già fame. (Cinema Ariosto, Milano; 12/3/05)

ddv5402532 – Nostalgia canaglia con Franco Battiato – Dal cinghiale al cammello a cura di Luca Volpatti, Italia 2004
Pausa pasquale e finalmente tre giorni di pausa dal lavoro. Barbara è gonfia come una mongolfiera e sta sudando sulla tesi di dottorato, con l’esame sempre più vicino. Io scribacchio osservando attonito i telegiornali: siccome il dibattito politico interno è il più infimo del mondo non si ciancia altro che della Pasqua e del tempo. E poi stanno morendo il Papa, Terri Schiavo e il principe Ranieri di Monaco e se ne parla esattamente in quest’ordine. Sul Papa non mi pronuncio perché qualcuno potrebbe accusarmi di profanità. Terri Schiavo passerà alla storia come involontaria vittima di chi ha trovato il bel boccone da gettare alla platea televisiva, affamata di drammi in diretta. Su Tg1 e Tg2 è tutta una condanna della moderna barbarie dell’eutanasia, dimenticando che non si tratta di eutanasia, ma si avvicinano i referendum e allora, si sa, il voto cattolico e bla bla. Ranieri di Monaco, infine, non se lo incula nessuno, ma non si sa mai e allora ci tengono aggiornati col bollettino medico. Per testimoniare il mio disprezzo all’establishment medievale che ci tiranneggia mi guardo i video del compositore italiano più intransigente e puro, Francuzzo Battiato mio: l’ho amato fin dagli ingenui undici anni, quando non capivo niente di ciò che diceva e soffrivo perché Gianfranco Manfredi lo aveva iscritto alla “nuova destra” (un pezzo famoso sulla Stampa, con argomentazioni per nulla peregrine, peraltro). Eravamo un milione ad aver comprato La voce del padrone e lo ballavamo febbricitanti, festeggiando la vittoria ai campionati del mondo di calcio in Spagna. I dischi successivi li comprarono sempre meno persone, ma io rimasi fedele e recuperai subito le opere sperimentali e quelle progressive dei primissimi anni Settanta (prog sui generis, eh? Sfido a trovare roba simile), rimanendo spesso affascinato ma talvolta anche basito. Franco era anni luce avanti, altroché. Ecco cosa ho scritto per gli amici di Rodeo, con la consueta prosa deidratata ed ermetica per stare nell’esiguo numero di battute concesse: “Il cut up postmoderno di tutta la nostra eredità canzonettistica, l’avanguardia europea e la tradizione romantica ottocentesca; la Sicilia, nostra Arabia interiore; l’intolleranza verso la mediocrità culturale diffusa, i lampi rock dell’occasionale schitarrata, il piacere della danza e dei cori classici… Battiato è l’unico cantautore italiano completamente originale, che ha sempre guardato a Est mentre i colleghi aspettavano appecoronati un segnale da oltreoceano. E quando s’è trattato di realizzare videoclip per accompagnare i suoi dischi ha evitato il mainstream esterofilo o il mediocre didascalismo italico (pensate a Michelangelo Antonioni e all’atroce video di Fotoromanza della Nannini). Battendo le strade della videoarte e della sperimentazione ha sempre inventato qualcosa di diverso, ottenendo che musica e immagini funzionassero assieme e mai come in questo caso vale citarlo: «Il giorno della fine non ti servirà l’inglese»”. Posso aggiungere che alcuni video sono tagliati in 16/9 senza motivo e che sulla clip di Bandiera bianca (che ricordavo diversa, mah) spunta un birichino time code. Ma non importa. Grande. (Dvd; 27/3/05)

??????Tonno caldo, s’il vous plaît
Scrivere per Rolling Stone ti apre un sacco di porte: ne approfitto e vado a testimoniare lo stato di forma degli amati Hot Tuna, in double bill a Milano assieme ai Nine Below Zero. Avrebbero voluto chiamarsi, nel 1969, Hot Shit, ma al settore vendite della RCA l’idea di distribuire merda calda non era sembrata cosa (in compenso esisteva un gruppo di neri hendrixiani di Detroit chiamati Black Merda che – chissà perché! – qui in Italia non ebbero alcuna penetrazione commerciale o più prosaicamente – e appropriatamente – non vennero per nulla cagati). Comunque il Tonno caldo era la costola blues dei Jefferson Airplane nei primissimi anni Settanta, poi passati a un hard rock un po’ fracassone e infine ritornati in vecchiaia a un country gradevole: gli squarci chitarristici di Jorma Kaukonen e il basso tonante di Jack Casady si sono acquietati e gli assoli sono oggi affidati a un mandolino tintinnante. Se volete farvi un’idea di cosa facessero, il primo omonimo album, dal vivo, è un capolavoro, tra traditionals e jam acustiche siderali. Arrivo ben prima del concerto e conosco il rosicone Ezio Guaitamacchi, giornalista musicale di grande passione, passabile competenza e incerto italiano scritto. L’idea che ci sia un possibile concorrente a parlare con gli Hot Tuna lo rende affabile come un qaedista a una sagra della salamina da sugo nel ferrarese. Me ne sbatto e vado all’attacco del gigantesco Jorma. Il sessantacinquenne è un omone sorridente (con incisivo frontale in oro) che si vede che s’è goduto la stagione psichedelica. Mi stringe la mano con la sua destra, enorme, e parlottiamo del più e del meno. So che suoneranno il giorno dopo a Genova e mi faccio vanto dei miei modesti natali. Lui si illumina e mi dice: “Pesto!”, e poi si finisce a parlare di caruggi e di Beppe Gambetta, il chitarrista flatpicking genovese che qui da noi è pressoché sconosciuto ma in USA è un nome importante. Lo lascio perché la band deve mangiare. Sul palco, come dei profughi. Approccio la press agent che ha qualche ossessione burocratica: pur essendo uno davanti all’altra, vuole che gli faccia la mia richiesta d’intervista via fax a New York. Credo di non aver capito e le dico: but… I’m here! E lei, imperturbabile: I need your fax, please. Vabbeh. Mi accontenterò della stretta di mano di Jorma, sai? Il concerto dura un’ora e dieci, melodico e ben suonato, ma alla fine sono un po’ saturo e mollo il colpo: i grintosi Nine Below Zero li vedrò un’altra volta, dài. (C-Side, Milano, 30/3/05)

ddv5403533 – Il tracollo clamoroso di Sex and the City, Season 6 di Aa.Vv., USA 2004
Barbara concede la visione: a dottorato concluso, pancione in crescita, Papa sepolto e trasloco in alto mare, non resta altro da fare che godersi l’ultima e definitiva serie di Sex and the City e, cautela, vi dico come va a finire, ma vi assicuro anche che non vale la pena vederlo. Pier Paolo e Nuria mi avevano effettivamente messo in guardia. Prima della visione attribuisco il loro disappunto alla mancata fruizione in versione originale, poi, a serie ultimata, devo ammettere: il capitombolo è acrobatico. Non completo, nel senso che in questa serie si trovano anche diverse cose carucce, ma ciò che manca completamente è la protagonista. Le tre comprimarie di Carrie entrano nella vita reale: Miranda è di nuovo assieme Steve, se lo sposa e va a vivere a Brooklyn; Charlotte è talmente innamorata di Harry Goldenblatt che – da WASP che era – diventa ebrea e ottiene in adozione un bimbo (cinese); Samantha sconfigge il tumore al seno e ha una fedelissima love story con un cameriere che diventa il sex symbol nazionale. Certo, c’è l’esagerazione tipica della fiction, ma tutte le comprimarie imboccano un sentiero preciso, perlomeno plausibile. E sono belle nella loro maturità. Invece, fin dal primo episodio, Carrie è drammatica: pensa alle sue Manolo Blahnik e a poco altro. Prima ha un’insignificante storia con lo scrittore Berger (si prendono e si mollano senza un perché); poi c’è un approccio impalpabile con Big (malato) e infine il salto nella fiaba, ma dell’orrore: Carrie s’innamora pazzamente di un artista, Aleksandr Petrovsky, interpretato da Michail Baryshnikov. Nella città più viva del mondo, la protagonista sceglie il più noioso e meno eccitante uomo del 16° secolo. Un ampolloso vecchiaccio che può risultare appetibile solo a una lettrice rincoglionita di Barbara Cartland. Una follia. Aggiungiamoci poi che Sara Jessica Parker è invecchiata peggio di tutte, col naso e il mento che le cascano come alla Strega Nocciola, gli occhi piccini strozzati dalle rughe e pure la ricrescita. Ma chi l’ha truccata, Boris Karloff? Insomma, in questa sesta serie viene a mancare il motore centrale: mancano il mestiere di Carrie, non hanno senso le sue scelte, è francamente insopportabile il suo carattere. Poi uno vede i credits, ricorda che la Parker è uno dei produttori, e capisce e subisce tutto. Tutta la parte finale della serie è una fiera della banalità: Carrie, da vera burina del Midwest si stufa di Parigi in una settimana “perché ha già visto due volte tutti i musei”! Poi, all’improvviso, il frignone e sensibilissimo Petrovsky diventa un egoista uomo di merda (come se Carrie fosse una generosa altruista). Passa di lì Big, e voilà, les jeux son faits!: fuga a New York e si torna al vecchio amore che, svelato il mistero, si chiama John. Speravo meglio. (Dvd; 2, 3, 8, 9, 10, 11, 12/4/05

ddv5406534 – Banalmente perfetto, When Harry Met Sally… di Rob Reiner, USA 1989
Il miglior film che Woody Allen non ha fatto negli ultimi quindici anni lo vidi la prima volta a Champoluc, da solo, dubbioso dell’insistente consiglio di Pier Paolo. Poi altre innumerevoli volte, senza averne mai abbastanza. E oggi lo rivedo con infantile piacere, godendo della lingua originale: nel genere della commedia brillante, siamo vicini alla perfezione. Oddio, non è tutto esilarante e spesso si gioca col risaputo, ma si tratta della ricetta giusta per la commedia bourgeois che ti fa ridere, ti commuove un po’ e, anche se sai benissimo che non può finir male, ti fa trepidare fino in fondo. Il riferimento ad Allen è palpabile, al limite del plagio (il riferimento a Casablanca è una strizzata d’occhio a Provaci ancora Sam, ma tutto il film sembra Io e Annie e Manhattan assieme). Però qui si tratta solo di una storia d’amore, della romance perfetta, mentre nel Woody che conta ogni film è stato un ulteriore capitolo nella costruzione dell’autobiografia esistenziale dell’uomo complessato del XX secolo. Sceneggiatura e attori in stato di grazia. Regia funzionale e scelte musicali di gusto. Bravissima New York. Meg Ryan non ha fatto altro di memorabile e oggi si barcamena, tirata e rifatta. Billy Crystal ha invece azzeccato poche cose (Analyze This). Peccato. Il dvd offre un discreto making of: How Harry Met Sally in cui Rob Reiner e Nora Ephron si bullano assai, raccontando di come i personaggi siano costruiti su di loro e bla bla. Ma è talmente riuscito il film che il compiacimento si perdona volentieri. (Dvd; 3/4/05)

ddv5405For Those About to Rock: Gov’t Mule…
Ho come la vaga impressione che dopo che mia figlia sarà nata, andare a sentire musica rock diventerà un pelino più difficile. Ma è solo un sospettuccio, eh? Comunque faccio una settimana di indigestione, concedendomi tutto ciò che il ricco menù meneghino offre. Parto il 4 aprile con i Gov’t Mule all’Alcatraz. Il trio rock blues è diretto da Warren Haynes, chitarra dei sempreverdi Allman Brothers, e si dedica al recupero di certo hard rock settantino, condito da spezie sudiste. Li ascolto dall’esordio del 1994, collezionando i loro dischi col fervore ottuso del completista, sempre incerto nel capire se mi piacciano veramente o se senta solo un debito nostalgico verso quel suono e quell’attitudine libertaria (per dire: è incoraggiata la registrazione del concerto e lo scambio libero con altri fan). E in effetti mi fracasso un po’ le palle. Haynes suona da dio però mi emoziono solo all’inizio, quando viene intonato a cappella un gospel da paura (Grin in Your Face, credo). Poi la scaletta prevede roba vecchia e nuova, con il denominatore comune della noia, seppur di fronte ad assolazzi inventivi e scintillanti. Mi illumino con due cover: 30 Days In the Hole degli Humble Pie e Maybe I’m a Leo dei Deep Purple, ma se speravo in un’epifania live totale, questa non c’è stata. O forse pensavo ad altro, boh.
ddv5407…Queen…
Il giorno dopo sono ad Assago, nella tribunetta VIP, mica cazzi. L’eccitazione è palpabile perché stanno arrivando i Queen. O quelli che si chiamano così, oggi. Ecco: come ci eravamo lasciati? Con un mastodontico concerto celebrativo a Wembley, alla memoria di uno dei più eccessivi e spettacolari frontman della storia del rock, Freddie Mercury. Era il 1992: in uno stadio stipato all’inverosimile s’erano esibiti gli aspiranti eredi alla corona ed eravamo tutti rimasti stupiti dalla viscerale interpretazione di George Michael, preoccupati ma non troppo che i Queen ripartissero con lui. Nel tempo abbiamo elaborato il lutto con ulteriori spaventi, tipo il panzuto Robbie Williams che, per un deprecabile filmetto di cappa e spada, ha blaterato We Will Rock You affiancandosi agli ineffabili Brian May (chitarra, per chi non frequenta) e Roger Taylor (batteria e grandissima voce a sua volta). Ma la musica vera, quella live? Ed ecco la risposta, temuta ma anche segretamente aspettata per tutti questi anni: i Queen tornano, senza il bassista John Deacon ma con un nuovo cantante. Nuovo per modo di dire, giacché Paul Rodgers era già calvo all’isola di Wight, nel 1970, quando conquistò il mondo con l’inno dei Free, quella All Right Now che conoscono anche i bambini grazie a uno spot pubblicitario. Adesso Paul esibisce un parrucchino impeccabile e degno di Elton John (altro pretendente al trono). In attesa che cominci la festa il pubblico si trastulla con holas a profusione, espone curiosi striscioni (“Proud to be your subjects”…eh?!) ed esulta all’arrivo, a tre metri da me, di Zucchero. Sono tutti troppo giovani per ricordarsi quando ha fatto almeno un grande album (Rispetto) e troppo ignoranti per conoscerne gli attuali ripetuti plagi. Poco lontano c’è Luzzatto Fegiz che chissà se domani firmerà sul Corsera la consueta articolessa precotta zeppa di errori. Il caso vuole che la simpatica compagnia di vecchietti inglesi sia in tour in Italia nei giorni di lutto per la morte del Papa. Roma è invasa dai fedeli e l’emergenza fa perdere la testa a Bertolaso, il capo della protezione civile: chiede che i Queen – di cui si proclama fan! – annullino i concerti oppure suonino musica sacra (!). Ovviamente i nostri eroi non cedono al ricatto cesaropapista e, prima di far deflagrare gli amplificatori, concedono un minuto di silenzio. Il pubblico obbedisce rispettosamente e, giuro, c’è parecchia gente che prega. Poi, alla prima nota di Tie Your Mother Down comincia il karaoke collettivo. Non importa granché chi canti: il concerto è una celebrazione di Freddie e del suo Mito, immortale: è lui, l’assente, che riscuote i boati più clamorosi quando sul maxischermo appare il profilo da roditore o durante Bohemian Rhapsody, che canta su nastro preregistrato. Molti critici hanno storto il naso, ma Brian May ha chiarito papale papale: “Lo facciamo per i fan e per noi”. Uno sfrenato rito pagano di condivisione della memoria, all’insegna del divertimento, cosa che ai critici sembra sfuggire sempre. La band riscuote il tributo e il pubblico ammutolisce solo quando vengono sciorinati le hit della Bad Company (altro grande gruppo cafone di Rodgers). Dei Queen si perde l’impasto di vaudeville, opera e pop, ma ne guadagna il versante hard e blueseggiante che aveva caratterizzato i primi (splendidi) album. Manca anche l’impatto scenico di Mercury: se ricordate oltraggiosi tutini in lycra scollati fino al pube, qui dovete accontentarvi di una trasgressione da pensionante in Florida: la hawaiana fuori dai calzoni di Rodgers e la camicia settecentesca abbinata a scarpe da tennis bianche di May. E anche il contorno è decisamente compassato: nel 1978, Freddie e soci offrivano ai giornalisti ospiti delle loro feste ostriche, champagne e (ehm) intrattenimento orale privato. Ora c’è quasi uno spirito chiesastico, con sacro e profano intrecciati. Ma The Show Must Go On, come cantato in maniera autoassolutoria. Il Papa è morto e così la Regina, ma questo cadavere si conserva benissimo.
(Ma voi vi ricordate quando è scomparso Freddie? Erano anni senza Internet però si sapeva delle sue condizioni: io stavo preparando l’esame di Composizione 2 – un calvario grazie a un prof ottuso come un mattone – e lavoravo a un modellino in polistirolo e poliplat di 1 metro per due ascoltando a rullo la cassetta di Live Killers, una bomba sonora se mai ce n’è una. Il 24 novembre prendo una pausa: stoppo il nastro e inavvertitamente accendo la radio che non sento mai e apprendo le news. Sad sad day). (Una settimana dopo ho preso un insultante 25 e tempo dieci minuti fuori dalla facoltà ho brutalizzato assieme a Hilda il modellino dentro un cassonetto di piazza Sarzano. Così, per dire, ma il ricordo di Mercury e di quell’esame merdoso sono legati in maniera indistricabile).
ddv5408…e Judas Priest!
Finisco la mia grande abbuffata con un concerto che più metal non si può. Al Mazda Palace, il 10 aprile arrivano i Judas Priest, complessino mai amato troppo, ma curioso. È come una festa comandata e si raduna tutta la famiglia dell’heavy. Ci sono i reduci e le matricole; c’è il maturo rocker col capello ostinatamente lungo, anche quando la fronte alta arriva sino alla nuca, a fianco del sedicenne che esibisce i primi peli e al post yuppie sotto la cui giacca batte ancora un cuore metallico. Per una sera tornano tutti kids, soli contro il mondo dei grandi, col braccio alzato e l’ugola che si arrampica verso acuti da soprano, indossando le magliette storiche di quando si era un grissino, ora deformate da pance da bevitore di birra. Ma non importa, nessuno vuole cedere l’uniforme e i colori: ecco il jeans elasticizzato alto sulla caviglia, l’Adidas da basket, il chiodo nero e, sopra, il giubbotto in denim con le immancabili pecettone degli Iron e degli AC/DC. Qualche filologo si presenta addirittura col berretto sadomaso in pelle nera, come faceva lo storico frontman dei Judas tornato finalmente all’ovile, Rob Halford, quando doveva nascondere la pelata. L’atmosfera è elettrica e gli indigeni Domine aprono, trascinando il pubblico con dei coinvolgenti “tuttinziemeeeh!”. Poi arrivano i Nostri: Halford sfoggia con eleganza cappottini a metà tra Nosferatu e lo zio Fester, sino all’apoteosi dello spolverino metallico, che sembra un lampadario uscito dal carrozziere. E dopo l’outing sessuale (è felicemente gay), ha fatto anche quello tricotico e la testa lucida consente particolari giochi di luce riflettendo i fari sul pubblico. Muovendosi tra rampe, elevatori e forconi (simbolo della band), viene snocciolato un repertorio immenso e a fianco degli inni storici anche le nuove canzoni fanno la loro porca figura. Il pubblico è in delirio, stordito da volume terremotante e parecchie lattine da mezzo litro di birra: quando le chitarre tacciono è un percussivo florilegio di rutti, non scherzo. La tribuna stampa intanto è vuota: i critici militanti sono nella bolgia a cantare. A fine concerto, Rob fa l’entratona a bordo della Harley Davidson (spenta), ma anche se le sgasate sono in playback nessuno si lamenta perché stasera, quella che si prova è purezza, integrità e anche un po’ di consapevole cialtroneria. C’è una disponibilità genuina a sognare e a lasciare i mostri là fuori. Questo è un rumoroso e divertentissimo esorcismo per sentirsi gli ultimi difensori della fede, gli unici che non si sono ancora arresi al pensiero unico, musicale e politico. (4, 5 e 10/4/05)

ddv5409535 – Ancora una volta Ho fatto splash di Maurizio Nichetti, Italia 1980
Da quando la Provincia di Milano è stata occupata dai cosacchi comunisti del PD, andare a vedere un film all’Oberdan è un piacere radical chic: proiezione corretta, pubblico educato con la mazzetta dei quotidiani sotto il braccio, visione al buio dei titoli di coda. E un programma curatissimo. Purtroppo non mi capita spesso, anche solo per criticare, ma stasera l’occasione è ghiotta: Ho fatto splash con il regista e le tre protagoniste presenti in sala. La città è attraversata da wannabe scrocconi che affollano i mondani e insulsi cocktail del Salone del Mobile, tutti vestiti da gggiovani. Io non ho dubbi: mi metto il mio camicione da boscaiolo grunge e vado all’Oberdan a ubriacarmi di cinema, con uno dei film che più ha segnato la mia infanzia. In sala convenevoli di rito e poi un documentario di Mietta Albertini sul lavoro di Nichetti. Affabulato ma interessante e si apprezza il lavoro di editing al torrenziale autore. Poi viene il momento della memoria: Luisa Morandini parla di quella felice esperienza cinematografica, lontana 25 anni. Affettuose testimonianze anche di Carlina Torta e di Angela Finocchiaro. Poi parte il film. Io sono stravolto e con un mal di testa boia, ma resisto fino alla fine, facendomi cullare da una storia che ritrovo poetica, sognante, capace di farci andare al di là dello specchio ma anche di individuare i germi consumistici che stavano aggredendo l’Italia. C’è lo spaesamento giovanile del riflusso e il potere pervasivo, ipnotico e, nel caso del protagonista, sonnifero, della televisione. Gag a ripetizione e un ritmo narrativo diverso rispetto a oggi: c’è qualche momento un po’ moscio (però forse è colpa mia: alla quarta visione e stanco morto, non sono granché attendibile) ma sono tantissimi, invece, quelli che risultano ancora fantastici; su tutti il matrimonio di Carlina col ricevimento che va in vacca, così come la disastrosa Tempesta shakespeariana messa in scena da Strehler (che “è sempre Strehler!”). Tra le comparse Gero Cardarelli, l’uomo che verrà inghiottito dal Gabibbo, e anche Manuela Blanchard, volto pubblicitario degli anni Ottanta (altra intuizione del regista) e conduttrice storica di Bim Bum Bam. Son pinzillacchere da collezionisti, lo so. A fine proiezione un saluto veloce a Luisa che mi presenta la Finocchiaro (di cui, undicenne, ero innamorato… e mi dichiaro!) e poi la metropolitana fino a casa, dove la gravida dorme il sonno dei giusti. La bimba sta arrivando, yuk yuk, e questo è un film che rivedrò con lei. (Cinema Oberdan, Milano; 13/4/05)

Qui le altre puntate di Divine Divane Visioni

(Continua – 54)

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