Jan Potocki – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Fri, 09 May 2025 22:01:03 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Su “Locus desperatus” di Michele Mari https://www.carmillaonline.com/2024/06/24/su-locus-desperatus-di-michele-mari/ Mon, 24 Jun 2024 20:00:34 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83144 di Carlo Lauro

Michele Mari, Locus desperatus, Einaudi, Torino 2024, pp.131, € 18.

Immaginare qualcuno cui inopinatamente venga ingiunto da strani figuri l’abbandono della propria casa con i libri e gli oggetti amatissimi di un’intera vita. Il malcapitato, stando a tale minaccia, dovrebbe a sua volta occupare la casa di un altro sfrattato (si delinea una tragica transitività) pur continuando a pensare a distanza alle proprie cose perché esse rimangano “tranquille ed uguali a se stesse”. La tenzone, soffertissima, affinché questo subentro non avvenga e il proprietario rimanga nel suo Nautilus è l’intreccio che rapisce il lettore di Locus Desperatus, ultimo [...]]]> di Carlo Lauro

Michele Mari, Locus desperatus, Einaudi, Torino 2024, pp.131, € 18.

Immaginare qualcuno cui inopinatamente venga ingiunto da strani figuri l’abbandono della propria casa con i libri e gli oggetti amatissimi di un’intera vita. Il malcapitato, stando a tale minaccia, dovrebbe a sua volta occupare la casa di un altro sfrattato (si delinea una tragica transitività) pur continuando a pensare a distanza alle proprie cose perché esse rimangano “tranquille ed uguali a se stesse”. La tenzone, soffertissima, affinché questo subentro non avvenga e il proprietario rimanga nel suo Nautilus è l’intreccio che rapisce il lettore di Locus Desperatus, ultimo lavoro di Michele Mari in cui finzione e ossessioni autobiografiche si fondono in un unico misterico crogiolo.

Gli oggetti di Mari li si era ammirati nelle immagini di Asterusher (2015) e molti li si ritrova adesso (ma come esseri senzienti e ansiosi) in Locus Desperatus (le targhette numeriche dei minatori, la radice di mandragola, l’omino Michelin, etc.). Sono oggetti che risalgono all’infanzia remota (soldatini, l’orsino di migliaia di notti) o reperiti negli anni con spirito collezionistico non meno incantato di quello di Walter Benjamin: cose avulse da un valore commerciale, che recuperano la loro bellezza dalla raggiunta defunzionalità e secretano un loro vissuto. Talvolta apotropaiche, scaramantiche, sempre tendenti a una loro speciale unicità. “Io avevo dato senso e vita alle cose, scegliendole, collezionandole, amandole (…) e loro mi avevano restituito tutto contribuendo alla mia identità e alla mia biografia” afferma l’anonimo protagonista in prima persona (che sarebbe lui, Mari, se si desse retta alle semplificazioni di Sainte-Beuve; ma, quanto ai libri, è anche una reincarnazione del Kien di Auto da fé). E così si rivolge alle cose ben più confidenzialmente di quanto non faccia con i propri simili, avvertendo tutti i loro disagi all’eventualità dello sfratto (la fuga delle targhette pari, le craquelures del vaso di Limoges, gli arretramenti di alcune brossure settecentesche). I libri sono, va da sé, la gran parte di questo tesoro, essendo stati e restando “come un ponte di zattere lungo tutta la vita” (citazione da Rondini sul filo) e, con essi i cosiddetti giornalini. E’ l’infanzia sempre rimpianta ad amalgamare i valori in sequenze quali “Tacito Proust Guicciardini Soldino Geppetto Eta Beta” (in Tu, sanguinosa infanzia).

Disperato è il luogo in cui si prospetta uno sparigliamento, anche provvisorio, di tanto patrimonio. Una delle prime autodifese del protagonista sarà quello di dividere parte dei propri feticci tra l’appartamento sottostante affittato all’uopo (reso comunicante da una botola) e la casa di campagna (già in Di bestia in bestia, primo libro di Mari, lo smembramento di una biblioteca veniva stigmatizzato come “la cosa più disumana e crudele che si ripeta sulla terra”).

Ma in Locus Desperatus la dispersione, ordita dagli equivoci pretendenti alla tana-museo (e quindi aspiranti all’anima stessa di colui che in essa ha trasfuso la propria personalità) conosce forme di sottile e perfida deterrenza: parole, frasi e poi intere pagine di decine e decine di classici vengono cancellate dal lavorìo paziente e spietato di ragnetti, tarli, scolopendre. L’infallibile memoria del protagonista accusa falle improvvise su testi letti, riletti, amati, divenuti consustanziali: le letture di un misterioso visitatore notturno gli hanno come “sottratto” dalla mente le trame di 84 testi dal Werther a Lo straniero, passando per Cuore di tenebra (ricorre il “demone tassonomico” di Mari: 84 romanzi, 158 targhette cm. 2.8 x 1.8, 590 carte da gioco…). Sin dalle prime pagine del romanzo, con il rinvenimento quotidiano di sinistre piccole croci segnate col gesso sulla porta di casa, si percepisce un malaise che diviene crescente man mano che il narratore, in cerca lumi, incontra una galleria di criptici e come sfuggenti personaggi: in primis l’ hoffmanesco Asfragisto (uno di “quelli” che pretende il subentro), poi Procopio (un ex-latinista sfrattato anch’egli e ora in miseria), indi un raffinato filologo in cui riaffiorano inspiegabili competenze di idraulica e una vecchia compagna di classe S*** ritrovata dopo anni “insufflata” come “il maiale dei Pink Floyd”. Da questi contatti, tra dettagli e reticenze, il Nostro evincerà che la realtà pullula di subentranti e subentrati, di ladri di identità, di simulacri. E’ l’epifania del glorioso topos letterario del “doppio”, il Doppelgänger (da sempre caro all’Autore) ma qui nella variante estensiva e più conturbante degli ultracorpi (Jack Finney e Don Siegel sono citati). Due diversi incontri con ex-compagni di liceo (nel primo nessuno dei quali a lui riconoscibile, nel secondo sì) apre addirittura il dubbio sulla propria univoca identità: che anche lui anche sia un subentrante di qualcun altro? Che gli stessi oggetti, malgrado tenaci ricordi, li avesse messi insieme un ignoto predecessore, poi vittima del subentro? E la memoria di due raccapriccianti episodi d’infanzia gli conferma di aver avuto, oltre alla propria, un’altra madre, una madre- ultracorpo. Ad aiutarlo in una di queste ricostruzioni è Sileno, deuteragonista del romanzo, prototipo di tante fedeltà gregarie (Sancho Panza, Venerdì, Secundra Dass), “polimero antropomorfo” disceso da resine purissime poi divenute morchia (sembra uscire dalla matita di un Magnus).

Sponda positiva e concreta in un mondo di umani evanescenti e inaffidabili, l’”uomo morchia”, colto e buon selvaggio insieme, sarà prezioso sia per la stretta di mano resinosa e divinatoria che legge passato e destini di uomini e cose, sia per le strategie difensive che porteranno alla fine, pur senza particolare felicità (impensabile in Mari), a una sorta di liberazione dall’incubo.

Ma quanto contano davvero le cose? Tutto, quasi. Quando, in un momento di grave distretta e quasi di “guerra civile” domestica, il volume dei Canti di Maldoror, a nome degli altri libri, proporrà al narratore come minor male il sacrificio delle cose, la reazione è un urlo (“Mai! Non mi libererò di nessun oggetto, nemmeno il più vile!”). Così come -è l’affezione che omnia vincit- l’”ultimo vecchio tascabile Gherardo Casini o Dell’Albero, Corbaccio, Sonzogno” non vale meno ai suoi occhi di ben più preziose prime edizioni. Da qui gli struggimenti e l’incredulità allorché dovrà constatare la non ricambiata fedeltà da parte di alcuni oggetti (le targhette pari, la calamita, la manina di ottone) che, avvertito il timore di sfratto, vorrebbero optare (sia viltà, voglia di cambiamento o seduzioni fallaci) per un apostatico abbandono della tana-museo.

Locus desperatus, nelle sue poco più di cento pagine, è un distillato, una mise en abyme dell’intera opera di Mari e dei suoi archetipi. E’ il libro che da’ il soffio vitale ai silenti oggetti di Asterusher e che rafforza se possibile il centripeto autoritratto di Leggenda privata (“la mia vera forza, la tristezza, inattingibile ai nesci ma anche ai più consci”; “una vita in difesa, sempre, lo era stata”). Riprende le atmosfere di sospensione e maleficio che pendevano sulle magioni dei primi romanzi (Di bestia in bestia, Io venìa pien d’angoscia a rimirarti ma anche sulla nave fantasmatica de La Stiva e l’abisso). La storia dell’antica compagna di studi S***, sorta di filo nero che attraversa il romanzo (dall’enfiagione all’urna urlante passando per lo “scheletro panneggiato di pelle”; la sua fine di pittrice, con quello scambio di vita e morte, ricorda il Ritratto ovale di Poe) starebbe bene in Fantasmagonia. E il proprio fortissimo imprinting cresciuto e radicatosi “nell’attaccamento all’antico, nel culto del prima, nel rimpianto perpetuo, nel rifiuto di ogni ammodernamento” non si profilava già in Euridice aveva un cane (tra i più perfetti racconti di Mari) con l’ossessivo confronto tra la casa familiare dell’immaginaria Scalna (ossia Nasca) nobilitata dai segni del tempo, dalla struttura alle suppellettili, e quella dei chiassosi vicini ammiccante alle giovanilistiche mode del neo-consumismo?

Delle ossessioni non ci si libera, lo straordinario è come in Mari si strutturino in intrecci sempre originali. Quest’ultimo romanzo non è soltanto l’atto d’amore per le proprie cose, è il libro, tra l’inquietante e il grottesco, della temuta perdita di centro, delle deduzioni che non si fanno mai certezze, della memoria periclitante, dei libri che si cancellano, delle foto che si sfocano, di abnormi escamotages medianici per diradare le nebbie (il colostro di S***, la mano resinosa di Sileno) o spacciare i nemici (alcune efficaci macumbe).

Un tale armamentario allucinatorio, onirico e fantastico ha sullo sfondo le ascendenze di maestri dannati come Hoffmann e Mathurin, Potocki e Poe, Meyrinck e Lovecraft; di quel Kubin, creatore di incubi specialmente grafici, si cita un passo tratto da L’altra parte (sulla divisione sacrificale delle cose: potrebbe fare da esergo alla storia).
Peraltro la sapienza ventriloqua di Mari ha sempre cullato al suo interno (da Leopardi a Dickens) ben altra pluralità di voci, più o meno evidenti (non ultimo quel dono metamorfico che dal proprio tragico sa secernere la comicità più immediata e profonda: Gadda, Proust). La sua prosa anche qui è mimetica, duttile ad ogni minuzia descrittiva, ad ogni indugio sulla materia sublime o repellente che sia. In essa si forgiano locuzioni e termini aulici dal potere straniante, i mumble mumble delle strisce e i puntini celiniani: tutti strumenti potentemente espressivi e tra loro come cementati, grazie ai quali pulsioni, viscere, fragilità fanno muro al mondo; la stessa acribìa nelle tassonomie, catalogazioni ed etimologie (si veda la dissezione del nome Obelix) conferma un lucido furor di ordine e il rifiuto di quanto somigli ad approssimazione e impermanenza.

Accanto ai tanti titoli letterari citati (da biblioteca borgesiana) si troveranno in Locus Desperatus riferimenti cinefili, sia capolavori che b-movie. E una qual certa metabolizzazione del cinema noir e d’azione caratterizza almeno due vivide “sequenze”, pur restando anch’esse iper-letterarie: quella con la visione simultanea del protagonista e del suo “secondo io” nei rispettivi appartamenti; e poi quel count down pieno di suspense, da gran finale, che è la difesa dell’appartamento-fortino, con gli oggetti più fedeli, scaramantici e acuminati, militarmente schierati a salvaguardia della tana-museo.

“Dunque era finita. O forse no” conclude l’Autore “Ma adesso le mie cose sapevano di avere in me un generale capace di guidarle, e io sapevo che mi avrebbero seguito per tutte le strade del mondo, fra le cose del mondo, fra gli umani e non umani del mondo, fra tutte le croci del mondo fino alla fine del nostro piccolissimo mondo”.
Ci si chiede da quale cielo delle Muse sia discesa, oggi, un’invenzione tanto inquietante e perfetta.

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Un gotico chiamato desiderio (Nightmare Abbey 16/I) https://www.carmillaonline.com/2020/08/01/un-gotico-chiamato-desiderio-nightmare-abbey-16-i/ Sat, 01 Aug 2020 21:05:00 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=61841 di Franco Pezzini

I Mille e un incubo

Nell’estate di un paio d’anni fa mi trovavo nell’Hampshire, nel sud dell’Inghilterra. Era il 2018: l’anno precedente in tutto il mondo si erano celebrati i bicentenari della morte di Jane Austen (18 luglio 1817) e della pubblicazione del romanzo Northanger Abbey, scritto sì molto tempo prima (1803, primo suo novel completo) ma edito solo postumo (dicembre 1817). Anzi il frontespizio recava direttamente la data 1818, e insomma l’occasione era ottima, a distanza di duecento anni, per visitare l’ultima delle case abitate dalla scrittrice, nel villaggio [...]]]> di Franco Pezzini

I Mille e un incubo

Nell’estate di un paio d’anni fa mi trovavo nell’Hampshire, nel sud dell’Inghilterra. Era il 2018: l’anno precedente in tutto il mondo si erano celebrati i bicentenari della morte di Jane Austen (18 luglio 1817) e della pubblicazione del romanzo Northanger Abbey, scritto sì molto tempo prima (1803, primo suo novel completo) ma edito solo postumo (dicembre 1817). Anzi il frontespizio recava direttamente la data 1818, e insomma l’occasione era ottima, a distanza di duecento anni, per visitare l’ultima delle case abitate dalla scrittrice, nel villaggio di Chawton: un cottage incantevole e sobrio, tranquillo – sembra impossibile che fino a quarto di secolo prima dell’arrivo di Jane l’edificio avesse ospitato una rumorosa locanda, teatro oltretutto di ben due omicidi – dove la scrittrice passa in pratica l’ultima parte della vita. In queste stanze forse lei rivede i primi romanzi in vista della pubblicazione – Sense and Sensibility, Pride and Prejudice, appunto Northanger Abbey – e qui scrive Mansfield Park, Emma e Persuasion. Però qui stende anche commoventi (senza eccessi, siamo inglesi) ma precisissimi resoconti clinici sulla salute che va precipitando: nonostante tutto continua a lavorare, dedicando la solita ironia anche a personaggi ipocondriaci, e solo in ultimo lascia la casa per cercare cure ormai – diremmo noi – palliative a Winchester, dove muore ed è sepolta. Nella bella giornata di sole di cui parlo, tra anziani turisti britannici, il cottage (adibito a Jane Austen’s House Museum, oggi a rischio chiusura per il taglio introiti legato alla crisi-covid), respirava un po’ questo clima insieme ironico, tenero e vagamente malinconico.

Ma in una vetrinetta spiccava una serie ben rilegata di volumi, sette per la precisione, meglio noti come i Northanger “horrid” novels: cioè quei gotici minori citati ironicamente in Northanger Abbey, a lungo considerati una libera invenzione, finché non erano saltati fuori a testimonianza di tutto un panorama coevo di orrori minori, storie dal fremito facile e dai personaggi ingenuotti. E con tutto ciò degne d’apprezzamento anche a letture odierne, per il fascino anticato di quei sobbalzi e per l’interesse delle relative strutture narrative (nonché per il paragone impietoso, se vogliamo, con taluni testi strombazzati oggi sui social e in fondo assai più indifendibili – ma questo è un altro discorso).

Ad attirare a Chawton quell’estate era in effetti anche un altro motivo: la splendida mostra ‘The art of freezing the blood’: Northanger Abbey, Frankenstein, & the Female Gothic allestita (tra marzo e dicembre 2018) a poca distanza dal cottage di Jane, in celebrazione del bicentenario del romanzo di Mary Shelley e del controcanto gotico-ironico austeniano. La sontuosa magione elisabettiana con ampio parco nota come Chawton House – vi abitava il fratello di lei, l’influente Edward Austen Knight che aveva piazzato liberalmente nel cottage madre e sorelle – esponeva in quell’occasione una splendida raccolta di volumi del primo gotico con un buon corredo di tabelloni esplicativi: a evidenziare la forte vocazione femminile di un linguaggio divenuto a un tratto improvvisamente di moda e destinato a figliare per li rami un po’ tutti i generi “a sensazione” della narrativa popolare. A parte i nomi menzionati, pensiamo soltanto alla grandissima Ann Radcliffe, e poi a Clara Reeve, Caroline Lamb, Regina Maria Roche, Eliza Parsons, Eleanor Sleath…

Ecco, mi piace ricordare questa mostra – allestita con passione, i responsabili erano deliziosi – sia quale cornice virtuale del discorso che segue, sia a ideale pendant alla mancanza di scrittrici sotto la lente di un breve, bel volume a tema gotico che andiamo a esaminare. Una mancanza non dovuta a scarsa sensibilità: a parte che due voci su tre dei coautori dello studio in esame sono femminili, l’obiettivo è puntato su tre scrittori molto particolari – eccentrici, potremmo dire, rispetto a un panorama che lo è già di suo. E proprio per le sue qualità, il volumetto merita attenzione anche a distanza di un po’ di tempo dall’uscita.

A firma di Alberto Castoldi, Franca Franchi e Francesca Pagani, Viaggi al termine del desiderio. Beckford, Potocki, Révéroni Saint-Cyr, Mimesis 2017, è articolato in cinque contributi: a partire da una Prefazione. Tre percorsi nel delirio: Beckford – Potocki – Révéroni Saint-Cyr di Franca Franchi che sintetizza un po’ il senso dell’operazione. A fronte dell’horror turn emerso nella metà del Settecento un po’ in tutta l’Europa, è chiaro che non si può ridurre il tutto al trauma della Rivoluzione francese, che pure avrà un peso di notevole rilievo nello sviluppo del genere gotico. Partiamo dunque dal successo di

 

un immaginario sempre più desideroso di nuovi stimoli all’insegna dell’inquietudine […] La fascinazione per l’orrore diventerà via via un luogo comune, più volte ripreso, nella consapevolezza di trovare nell’inquietudine in cui affonda le radici questo genere di narrazioni una profonda rispondenza con le esigenze dei lettori, che hanno come obiettivo quello di misurarsi con testi in grado di «exciter la terreur».

 

Da ciò la scelta del trittico di romanzi in esame, meritevoli sia per la qualità letteraria in un filone che presenta anche tanta paccottiglia, sia per la ricchezza di implicazioni, sia anche per il tipo di soluzioni narrative adottate. Romanzi oltretutto con la sorte peculiare di essere riscoperti nel Novecento attraverso voci eccellenti – Borges per il Vathek, Caillois per Il manoscritto trovato a Saragozza, Foucault per Pauliska o la perversità moderna (manca solo l’Artaud del Monaco di Lewis) –, ma giudicati particolari rispetto ai connotati più frequenti dello stesso genere gotico, di cui rinnovano il repertorio,

 

collegando la natura al mondo delle emozioni che proliferano a cascata creando una diversa sensibilità, in parte già preromantica. L’ambientazione lascia l’Europa per collocarsi in un mondo più vasto, in un Oriente per lo più immaginario, ma particolarmente congeniale allo spirito che anima queste produzioni, perché, come succedeva già nella Persia di Montesquieu, può ospitare l’espansione indefinita di tutte le pulsioni, di ogni trasgressione.

 

La magia nel primo romanzo, la magia razionalizzata nel secondo e una scienza dai connotati arcani nel terzo offrono così linguaggio adeguato a una comune esaltazione del desiderio, “determinandone le motivazioni profonde, il dispiegarsi pervasivo di un immaginario delirante, strettamente collegato con la volontà di dominio, con un’incessante sfida all’impossibile, con una ricerca dell’estremo della trasgressione”.

La prima opera viene trattata da Alberto Castoldi nel fascinoso capitolo Viaggio al termine del desiderio: Vathek, sul romanzo maledetto e bellissimo di William Beckford (1760-1844). Vero e proprio labirinto autoreferenziale giocato sul piacere dell’intelligenza – il contributo prende le mosse da quella sorta di problematica resa con cui chiude lo studio ormai classico di Giovanna Franci su Beckford quale enigma e puzzle (La messa in scena del terrore, Longo 1982) – Vathek

 

resta irriducibile ad ogni assimilazione. Troppo riduttiva appare l’aggregazione al romanzo gotico perché non si avvale, se non genericamente, dello sfondo e delle problematiche che gli sono specifiche, mentre l’ambientazione orientalistica non si discosta dalla configurazione del racconto orientale settecentesco, risolvendosi in dettagli marginali, non diversamente dai romanzi di Voltaire o dal Rasselas di Samuel Johnson.

 

Si può obiettare (non tanto a Castoldi, quanto al tradizionale giudizio critico) che ciò rimanda a una classificazione del gotico come ormai cristallizzato, che non fotografa la magmaticità originaria del genere. Lo stesso Castello d’Otranto utilizza l’etichetta “gotico” come richiamo soprattutto all’architettura, e soddisfa solo in parte quel che i lettori si abitueranno a considerare proprio del genere, per esempio sulla base di una seriosità alla Clara Reeve e della perdita di tutto un Hellzapoppin’ miracolistico cattolicheggiante: qualcosa che resta presente in tutto un bacino di storie devozionistiche (che da bambino mi facevano un sacco di paura: immagini sacre che sanguinano o parlano, eccetera) mentre latiterà nel romanzo gotico “classico”. D’altra parte già critici come i fratelli Anna Laetitia e John Aikin (Miscellaneous Pieces in Prose, 1773), annettono a una sensibilità in senso lato “gotica” gli spaventi della letteratura orientaleggiante, avvicinando a Walpole Le Mille e una notte, “che presentano parecchi esempi molto notevoli del Terribile congiunto al meraviglioso”: insomma, un certo orientalismo in sé non osterebbe, sia perché quando Vathek viene scritto le categorie sono ancora fluide e il genere non irrigidito, sia perché (in radice) non si vede la ragione di un distinguo. Del resto Beckford non si pone problemi di etichette, a differenza di quanto poi farà – anche comprensibilmente – la critica: ma sembra opportuno considerare, attorno a un gotico “stretto”, rigidamente delimitato a casi con topoi canonizzati, un’assai più ampia costellazione o nebulosa gotica che ne sviluppa le possibilità lungo coordinate diverse. In un’epoca come la nostra in cui i generi, ipercodificati a fini anche di marketing (“vuoi un poliziesco? o preferisci un fantasy?”), vengono poi di fatto continuamente ibridati costringendo all’invenzione di categorie sempre più barocche, una certa elasticità merita d’essere riconosciuta anche nell’analisi teorica all’UR-genere “a effetto”, nonno di una ramificatissima famiglia.

Castoldi riassume dunque il viluppo di nessi tra il giovane William e la sua opera, e soprattutto quel gioco dei desideri che lo lega alla cugina Louisa e a William “Kitty” Courtenay, il ragazzino scandalosamente amato. A partire dal palcoscenico ideale della grande festa di Natale 1781, che del Vathek rappresenta una virtuale anticamera, e un modello di estetizzazione persino del suo inferno (sul tema mi permetto di rinviare a quanto narrato, tra gioco e resoconto rigoroso, in questo precedente articolo); e poi di quella Fonthill Abbey dove il Califfo Beckford radunerà i suoi tesori. Se tutta la fiaba nera del Vathek è nel segno dell’eccesso – compreso quello che rende paradossale la continua crudeltà in scena nel segno del grottesco e dell’ironico – la “vera novità” del romanzo è l’estetizzazione del male che prefigura infiniti esiti nella letteratura moderna: Baudelaire, Artaud (il suo Eliogabalo è “per tanti versi simile a Vathek”, androgino come vari personaggi di Beckford, emblema della trasgressione…) e tanti altri. La riflessione di Castoldi è affascinante:

 

Vathek si muove nel sempre-identico, e questo fa sì che non vi possa essere progressione di eventi, se non il progredire stesso del califfo nel suo viaggio. A differenza dei romanzi gotici non v’è un sopruso da vendicare, non c’è una fanciulla perseguitata da salvare, non c’è un ordine da ristabilire. Si ha, apparentemente, un livre sur rien, il percorso iniziatico appare senza un vero obiettivo, poiché il non-divenire che caratterizza l’avventura del Califfo, lo sottrae di fatto al percorso iniziatico Vathek, esattamente come il giovane Beckford possiede già tutto, non c’è desiderio che non possa essere realizzato, e le promesse del Giaurro nulla aggiungono a questa condizione. La quête del Califfo tende dunque ad un “oltre” dall’esistente, come ben testimonia la sua aspirazione a conoscere anche le scienze che non esistono, affermazione che va accolta in tutta la sua drammaticità, come tensione verso l’assoluto. Non si tratta di una bulimia, di un’ingordigia simile a quella alimentare che consegna Vathek all’eccesso, ma di una hỳbris sconfinata dell’intelletto.

Come l’estremo del desiderio è desiderare di desiderare, la hỳbris di Vathek comporta una trasgressione infinita. Vathek vive nell’eterno presente della pulsione desiderante, al di fuori del tempo e della memoria, e l’accumulo delle esperienze risulta improduttivo. La «pulsione a vedere» che lo spinge sempre più avanti verso i tesori di Isthakar, la scopofilia, una delle «pulsioni costitutive» per Freud della sessualità umana (Tre saggi sulla teoria della sessualità, 1905) è intimamente associata alla «pulsione di vedere» (da Freud: «Wisstieb»).

 

Si può però ribattere che proprio il gusto di sberleffo dell’opera – da parte di un autore che vi gioca d’ironia nera a ogni passo, con un ghigno certo diverso ma forse non troppo dal sorrisetto metatestuale di Walpole – contribuisce a farlo riconoscere come beffardamente gotico. Il contesto che poi verrà considerato tipico del genere (a “differenza dei romanzi gotici non v’è un sopruso da vendicare, non c’è una fanciulla perseguitata da salvare, non c’è un ordine da ristabilire”) in realtà qui c’è ma invertito, perché i soprusi sono funzionali alla quest dell’inferno e la vendetta è resa impossibile a una corte di rammolliti, la fanciulla viene salvata al male e contribuisce alla dannazione di Vathek, e a dover essere ristabilito è il caos, non l’ordine. L’obiettivo del percorso c’è, ma è una controiniziazione – e se Vathek non è efficiente neppure in quella, riuscirà comunque a ottenere un posto nel primo inferno per elezione (come ricorda Borges, distinguendolo dagli inferni per condanna) della letteratura occidentale.

Il gotico è del resto un linguaggio che contempla spesso la propria parodia, o almeno un gioco ironico metatestuale su quel premere il pedale dell’eccesso (dal divertentissimo Nightmare Abbey di Thomas Love Peacock appunto a Northanger Abbey, da Metzengerstein di Poe – soprattutto nella prima versione – a certi film con Vincent Price o magari di David Lynch); e persino l’“aspirazione a conoscere anche le scienze che non esistono” è insieme, sì, tensione drammatica, ma anche eccesso grottesco, quasi a prefigurare di lontano la patafisica, scienza delle soluzioni immaginarie… Non dimentichiamo che la saldatura di grottesco/comico e diabolico connota persino certo immaginario streghesco shakespeariano (in un’epoca in cui delle streghe si aveva paura e si prendevano maledettamente sul serio) alle spalle del gotico; ed è in realtà abbinamento di antichissima origine (Petronio, Apuleio…), a considerare come frequente nel “nero” la compresenza straniante di due poli – il serio e il grottesco/ironico/beffardo – che la seriosità moderna tenderà a scindere. Torniamo alle proteste di Clara Reeve contro il sovrannaturale non sufficientemente serio di Walpole.

Del resto Vathek mostra un profilo a tratti non lontano dal bulimico, e non solo per le brutte sorprese che gli gioca il Giaurro: ciò che non nega la tensione verso l’assoluto di cui parla Castoldi, ma la inabissa nel goffo e nel carnale, nel grottesco e nell’allucinato. Vathek è inquietante perché è anche grottesco, e le pose, i vezzi, i tic e i sogni, le beffe, l’ironia e le impennate del suo autore vi si impastano in modo drammatico. Sarebbe assai meno inquietante se fosse solo “serio”.

Molto bello, per contro, è l’accostamento che Castoldi evoca tra la punizione entropica dei dannati descritti da Beckford e l’immagine dell’Uomo della folla di Poe. E quel vero e proprio romanzo autobiografico e familiare che è il Vathek – specchio non di una vita reale, ma di quella “sognata, immaginata, la vie fantasmée, che comporta rifiuti, negazioni, integrazioni, e di cui importano le tracce” – sarebbe per Castoldi rivelativo:

 

La pulsione che ha caratterizzato le giornate trascorse nel palazzo con Kitty Courtenay, costituisce il punto cieco verso cui muove la scrittura di Beckford, ma la pulsione non è dello stesso registro della rappresentazione; le vicende si ripetono perché la narrazione non può crescere, la pulsione non può essere saturata dalla rappresentazione, come il fantasma della gola di Irma nella celebre esposizione freudiana (Interpretazione dei sogni, 1900).

La scrittura, nell’impossibilità di dare forma al desiderio, elabora, dunque, una narrazione in grado di riattivare quell’esperienza nella sua dimensione pulsionale. Un universo infantile mette in scena la propria rivolta contro gli adulti, desacralizza la severità materna nell’incesto e nella pederastia, in un’atmosfera magica tutta improntata all’oriente, non-luogo dove tutto è possibile, al di fuori di ogni regola morale.

 

Con una rivolta soprattutto contro il feticcio dell’ingombrante padre, attraverso il teatro fisico della famosa festa di Natale e quello mentale di una scrittura/arte in cui a quel punto si identificherebbe il Male.

 

L’artista Vathek-Beckford dà voce con la scrittura alla propria pulsione desiderante, e sempre con la scrittura crea un inferno che esiste solo nella scrittura stessa, in cui egli è il colpevole ed il giudice al tempo stesso, come nella Colonia penale di Kafka. […] In questo quadro, il Male di Vathek non ha pertanto una connotazione metafisica, ma coincide con la pulsione desiderante, e con l’arte, che si oppongono a qualsiasi etica, nel senso che ne prescindono.

 

Il discorso avviato del bel pezzo di Castoldi viene proseguito idealmente da Franca Franchi nel contributo Scene di una fantasmagoria: il male nel Manuscrit trouvé à Saragosse su quella sorta di incredibile Decameron nero, allucinato e paradossalmente razionalista, composto lungo un arco di parecchi anni dal conte Jan Potocki (1761-1815), prima di limare un fruttino d’argento della propria teiera fino a renderlo tondo, farlo benedire e usarlo come proiettile per porre fine alla propria depressione. Come l’inglese Beckford, anche il polacco Potocki scrive il proprio romanzo gotico in francese; anche nel suo caso la vicenda filologica è complicatissima, anzi ha trovato anche recentemente nuovi tasselli; entrambi guardano alle Mille e una notte (pure il Vathek doveva essere composito), anche se Potocki occidentalizza e razionalizza. Come ricorda Franchi,

 

Nel singolare universo di Jan Potocki il mondo esiste soltanto come somma di narrazioni, siamo di fronte ad una sorta di bulimia del racconto, in cui ogni protagonista può essere tale solo in quanto depositario non di una vicenda, ma della sua narrazione. A ognuno è specificatamente richiesto di raccontare la propria storia, è una sorta di rito evocatorio cui nessuno può sottrarsi, proprio come avviene nell’Aldilà dantesco. Tuttavia se nelle Mille e una notte, il vero grande modello di Potocki, la narrazione è salvifica, non solo perché consente la sopravvivenza della narratrice, Sherazade, ma anche perché il ricordo di altre narrazioni consente ogni volta al protagonista di una disavventura, come nel caso di Sindibad, di trarsi d’impaccio, qui, invece, la narrazione non ha uno scopo se non quello di testimoniare dell’impossibilità di arginare l’errance. Non a caso uno dei principali protagonisti, fra i depositari di narrazioni, Avadoro, è uno zingaro.

 

Una narrazione insomma di straordinario fascino, che sperde il lettore in una febbricitante matrioska di racconti nei racconti, tra procaci cugine che potrebbero essere demoni succubi, banditi impiccati che forse non lo sono, figure di una Spagna da ossessione gotica (l’inquisitore, l’eremita, l’invasato, il cabalista…) – dove la storia in effetti si ambienta – e appunto affabulatori zingari, in un continuo, vertiginoso misurarsi dell’autore con generi narrativi diversi. Gli smottamenti nella ricostruzione di un testo tanto complesso, di cui l’autore regge prodigiosamente i fili (in seguito alle ultime scoperte ne esistono oggi due versioni differenti, alcune “giornate” hanno cambiato posto eccetera) rendono difficile un’interpretazione, benché la struttura sia in fondo, “paradossalmente, la componente di per sé meno rilevante del testo, quasi una sorta di esoscheletro fine a se stesso, se non come testimonianza dell’adesione ad una tradizione particolarmente significativa” di grandi compilazioni di storie – e il sovrannaturale apparente con cui si apre il cammino iniziatico del protagonista lascia posto a una spiegazione razionale, illuministica, fantapolitica. Infatti a rilevare è semmai proprio il nodo tematico dell’utopia politica, tra le lacerazioni dell’impero spagnolo (nella trama) e quelle della Polonia nei giorni travagliati dell’autore: ma la perdita nel finale della favolosa miniera d’oro che per secoli ha sostenuto la resistenza alla cristianizzazione forzata dell’Andalusia, e che farebbe passare l’eroe da una fedeltà patriarcale a una materna e ctonia, suggerisce (come nota Michel Delon, “La bizarrerie de la nature”, Europe, “Jan Potocki”, marzo 2001, n. 863) la fine di una certezza identitaria.

Però proprio l’immagine del grande disegno legato a una società segreta diventa “metafora dell’autore stesso e della sua scrittura, che di fronte all’éclatement del discorso fungono da elementi gravitazionali”: e si rinvia all’autrice per l’affascinante disamina di un meccanismo a incastro in cui la storia seconda si inserisce nella prima, e così via in termini virtualmente infiniti. Come scrive Todorov (Poétique de la prose, 1971) a proposito del Manoscritto:

 

Raccontando la storia di un altro racconto, il primo raggiunge il suo tema segreto e al contempo si riflette in quest’immagine di se stesso: il racconto incastonato è a sua volta l’immagine di quel grande racconto astratto di cui tutti gli altri non sono che della parti infime ed anche del racconto immediatamente precedente che lo incastona.

 

Osserva Franchi:

 

Il risultato è singolare perché se il percorso è sequenziale di fatto l’insieme è piuttosto una tessitura, in cui tutto si tiene. Ogni personaggio detiene una storia, il cui senso è però sequestrato dalla tessitura delle storie, la quale a sua volta non ha un’origine, e quindi un senso, e non può concedersi di giungere a termine, poiché senza gli «uomini-racconto», interviene la morte della narrazione e quindi il naufragio del logos: la pagina bianca, l’assenza di narrazione significa la morte. All’origine v’era dunque, veramente il logos, la parola senza la quale non c’è senso, ma è poi proprio questo tutto il senso: l’esserci. […] La vertiginosa sequenza delle narrazioni nel Manuscrit è il tentativo di dilazionare e però al tempo stesso prefigurare un senso, sottraendosi al vuoto.

 

Nei fatti, il pluriverso del Manoscritto, con le sue connotazioni e prospettive multiple, presenta una straordinaria modernità: qualcosa che richiama (anche in certe descrizioni macabre) all’illusionismo delle fantasmagorie coeve, recuperando di racconto in racconto spunti canonici del fantastico ma estremizzandoli:

 

i doppi proliferano, all’insegna della gemellarità, le donne sono fedeli amanti o streghe; le figure del desiderio si demoltiplicano all’infinito: omosessualità, incesto, travestitismo, sadismo. L’uso di droghe esaspera ulteriormente questi comportamenti come nella vicenda conclusiva del pellegrino maledetto, che si avvale dell’impiego di pillole contenute in una bomboniera per avere rapporti multipli con due fanciulle e la loro madre […] L’accumulo di elementi stravaganti è tale che il romanzo può essere letto anche come un congedo dal fantastico, dopo averne esibito tutte le componenti ed averle demistificate,

 

ed è una chiave possibile: anche se il finto orrore sovrannaturale e la “vera” spiegazione fantapolitica tramite un’improbabile società segreta finiscono con l’essere entrambi talmente fantastici – almeno in senso generico – che il lettore passa stupefatto e gioioso da un colpo di scena all’altro, beandosi di una propria sospensione dell’incredulità. Eppure in entrambi i testi il tema del desiderio è evocato – assieme agli altri: il potere, la ricerca, l’illusione… – in quella dimensione labirintica che appartiene, lo sappiamo, alla nostra esperienza autentica, concreta. Il gotico ci incalza così sia nelle nostre dimensioni interiori che in quelle esteriori (culturali, sociali, politiche) impastate di implausibili storytelling, di verità coperte spesso in modo grottesco, di oppressioni e inferni.

Una nota aggiuntiva merita ancora però il senso dei due contributi citati, di Castoldi e di Franchi, all’interno del volume in esame: sia il testo sul Vathek che quello sul Manoscritto figurano infatti qui proposti in anteprima (“per gentile concessione dell’Associazione Sigismondo Malatesta che ne detiene i diritti”) rispetto all’opera in due volumi Il Piacere del Male. Le rappresentazioni letterarie di un’antinomia morale (1500-2000) a cura di Paolo Amalfitano, per i tipi Pacini, Pisa 2018, che li contiene. Non così però il materiale successivo del volume a cura di Francesca Pagani, su cui ci soffermeremo in prosieguo, e in abbinamento al quale finiscono col costituire qualcosa di diverso: un mosaico – l’ennesimo – dalle interne tensioni, dalle correnti sotterranee all’insegna del desiderio, che rende autonomo questo volumetto rispetto alla più ampia compilazione Pacini.

Ma torniamo fuggevolmente a due anni fa: quando, proprio il giorno prima di passare a Chawton, percorrevamo le stradette del Wiltshire con una piantina approssimativissima scaricata da Google Map e glossata di segnacci a biro. Della fiabesca Fonthill Abbey di Beckford, avevo letto, non sopravvive solo un meraviglioso portale sulla strada, ma anche un piccolo corpo di edificio: speravo di poterlo avvistare almeno in distanza, chiuso com’è tra proprietà private. Con fatica individuiamo finalmente il non segnalato passaggio che conduce alla costruzione: salvo trovarci davanti la strada sbarrata (eviteremmo l’effrazione) e uno schermo di alberi. Che in origine non avrebbe potuto nascondere quell’incredibile palazzo da Mille e una notte, da Mille e un incubo. Ma che ora, velato dal tempo e dallo spazio e tuttavia , idealmente a pochi passi, pare una buona metafora del desiderio.

[1-continua]

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