James Cameron – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Fri, 22 Aug 2025 20:00:54 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 La saga di Alien tra orrore cosmico e capitalismo dello spazio profondo https://www.carmillaonline.com/2024/09/25/alien-tra-orrore-cosmico-e-capitalismo-dello-spazio-profondo/ Wed, 25 Sep 2024 20:00:00 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84441 di Sandro Moiso

Paolo Riberi, Giancarlo Genta, I segreti di Alien. Gnosi, orrore cosmico, scienza e IA nella saga degli Xenomorfi, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2024, pp. 246, 20,00 euro

Quando nel 1979 un ancor giovane Ridley Scott, alla sua seconda regia di un lungometraggio, portò sugli schermi Alien probabilmente nessuno, e tanto meno il regista inglese, avrebbe potuto anche solo lontanamente pensare che tale film stesse per dare inizio ad una delle saghe fantascientifiche cinematografiche più durature, complesse e articolate. Una saga ampliatasi ben al di là degli schermi cinematografici per espandersi nei comics, videogiochi, serie televisive e, più in [...]]]> di Sandro Moiso

Paolo Riberi, Giancarlo Genta, I segreti di Alien. Gnosi, orrore cosmico, scienza e IA nella saga degli Xenomorfi, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2024, pp. 246, 20,00 euro

Quando nel 1979 un ancor giovane Ridley Scott, alla sua seconda regia di un lungometraggio, portò sugli schermi Alien probabilmente nessuno, e tanto meno il regista inglese, avrebbe potuto anche solo lontanamente pensare che tale film stesse per dare inizio ad una delle saghe fantascientifiche cinematografiche più durature, complesse e articolate. Una saga ampliatasi ben al di là degli schermi cinematografici per espandersi nei comics, videogiochi, serie televisive e, più in generale, nell’immaginario collettivo e nelle paure inconsce di milioni di spettatori di tutte le età.

Anche se l’ultimo prodotto cinematografico ispirato alle vicende degli Xenomorfi e del loro atroce coinvolgimento nelle disavventure di equipaggi spaziali umani del tutto incapaci di far fronte alla loro minaccia, Alien Romulus di Fede Álvarez, nonostante un ottimo inizio e il successo al botteghino si sia rivelato come il più debole di quelli realizzati fino ad ora, vale la pena di ripercorrere le vicende della ideazione e della realizzazione delle storie contenute nella saga e, soprattutto, le riflessioni e invenzioni scientifiche, letterarie, filosofiche, religiose e tecnico-economiche che in esse si annidano.

A guidare il lettore nell’autentico e interessante, oltre che caotico, labirinto formato dall’insieme degli infiniti rivoli di orrore e paura sgorgati da quella fonte iniziale ci pensano Paolo Riberi e Giancarlo Genta con il volume appena uscito per le edizioni Mimesis. Il primo, laureato in Filologia e letterature dell’antichità e in Economia presso l’Università deli Studi di Torino, è giornalista, studioso di storia antica e letteratura delle origini cristiane oltre che membro della Società Italiana di Storia delle Religioni e autore di vari saggi dedicati al mondo dei vangeli apocrifi e alla simbologia del cinema contemporaneo.

Il secondo è professore emerito di Costruzione di macchine presso il Politecnico di Torino, membro dell’Accademia delle Scienze della stessa città e dell’Accademia Internazionale di Astronautica. E’ autore di numerosi testi di formazione, di articoli e di volumi sull’esplorazione spaziale e il programma Search for Extra-Terrestrial Intelligence, oltre che di sei romanzi di fantascienza e di un altro saggio in coppia con Riberi, anch’esso edito da Mimesis, sul ciclo di Dune di Frank Herbert (qui).

Diviso in tre parti riguardanti, nell’ordine, la saga stessa e la sua ideazione e realizzazione, i rapporti della stessa con il mito e la filosofia e, per ultima, quelli con la scienza e l’economia, il testo si rivela come un’autentica bibbia per tutti gli appassionati non soltanto del ciclo degli Xenomorfi, ma della fantascienza in generale. Qui il recensore, però, non potrà che riprenderne e sottolinearne alcuni aspetti, lasciando ai lettori la scoperta dei numerosi altri.

Nella prima parte, comprensiva di una ricostruzione in ordine cronologico degli eventi narrati nei primi sei film, sicuramente la parte del leone la fa la ricostruzione dei conflitti, delle rivalità tra sceneggiatori e successivi registi e dei dubbi della casa di produzione cinematografica, la 20th Century Fox, che portarono alla realizzazione del cult movie nel 1979. Una ricostruzione che vede tra i protagonisti Dan O’Bannon, John Carpenter, Walter Hill, Ridley Scott, James Cameron, Sigourney Weaver (destinata a dare volto e corpo ad una delle figure femminili più iconiche della cinematografia degli ultimi quarant’anni), Alejandro Jodorowsky (con il suo fallimentare progetto di un film, basato sul ciclo di Dune di Frank Herbert, della durata prevista di dieci ore) e Ron Shusett al quale, in definitiva, si deve l’idea di coniugare «le sfumature dei racconti di Howard P. Lovecraft con i tabù sessuali più oscuri della storia dell’Occidente», con la creazione «di un mostro alieno che, dopo essere salito a bordo di un’astronave umana, “violenta uno dell’equipaggio, gli salta sulla faccia, gli infila un tubo nel corpo, introduce il suo seme e poi fuoriesce dal suo stomaco”»1.

A costoro vanno aggiunti almeno tre importanti artisti e illustratori: lo statunitense Ron Cobb, destinato a dare forma alle astronavi del ciclo; il francese Jean Giraud alias Moebius, ideatore delle tute spaziali e, soprattutto, lo svizzero Hans Ruedi Giger dai cui disegni e illustrazioni da incubo sarà tratta la forma definitiva, allo stesso tempo oscena e spaventosa, del primo Xenomorfo. Immagine tratta, come tra l’altro molte di quelle che animavano i racconti di H. P. Lovecraft, direttamente dagli incubi dell’autore.

Ma non sono soltanto gli incubi notturni di Giger a far sì che sia possibile un rinvio dell’intera saga all’immaginario lovecraftiano, poiché i principali protagonisti della sua ideazione e realizzazione, da O’Bannon a Shusett fino allo stesso Ridley Scott (che nel complesso sarà responsabile della realizzazione di tre film dei primi sei di quelli appartenenti alla saga ed esclusi quelli della serie “parallela” Alien Vs. Predator), solo per citarne alcuni, saranno tutti “discepoli” e amanti dell’opera del solitario di Providence.

Il cui concetto di “orrore cosmico”, come ben si dimostra nell’apposito capitolo contenuto nella seconda parte del testo è sostanzialmente alla base dell’intero ciclo. Come affermano gli autori, la sua influenza su Alien è innegabile, così come quella del suo Necronomicon, libro maledetto scaturito totalmente dalla fantasia e dagli incubi dello scrittore americano, ma ripreso in seguito come fonte di ispirazione non soltanto per i suoi romanzi e racconti ma anche per un numero infinito di altri appartenenti ad altri autori. Oltre che per i disegni di Giger, da cui sarebbe stata ripresa quasi integralmente la morfologia della creatura figlia dello spazio profondo.

A ben vedere, la stessa immagine del mostro che fuoriesce all’improvviso dal petto della vittima dopo averla dilaniata dall’interno è già presente nei racconti lovecraftiani: in La casa delle streghe, il mostruoso famiglio dai denti aguzzi Brown Jen­kin, con il viso e le mani umanoidi, e il corpo di topo, si comporta esattamente come il chestbuster di Alien, uccidendo il povero protagonista Walter Gilm […] Analogamente – osserva il critico cinematografico Davide Co­motti – “l’abominio che fuoriesce dalle uova (il facehugger) è un essere tentacolare che ricorda da vicino lo Cthulhu lovecraftia­no”, mentre lo Xenomorfo, “che viene definito dal robot [Ash] come un superstite, richiama i Grandi Antichi, mostruosità innominabili anch’esse ricorrenti negli scritti di Lovecraft”2.

Ma più che nelle immagini orrorifiche e nelle creature mostruose oppure nelle trame, la vicinanza maggiore tra la saga e Lovecraft sta proprio nella filosofia di fondo che li sostiene, poiché:

L’alieno non è mai soltanto un “predatore dello spazio”, un parassita o un animale feroce, bensì un’entità molto più oscura e incomprensibile, al pari di Cthulhu e del folle Yog-Sothoth. Come direbbe Charles Darwin – parlando dei suoi “Xenomorfi in miniatura” – si tratta di un’entità così assurda da indurci a negare l’esistenza stessa di Dio…3

Così come sembrano confermare le recenti osservazioni del fisico Carlo Rovelli e del teologo Giuseppe Tanzella-Nitti:

Se le costanti della fisica fondamentale fossero diverse, come sarebbe il mondo? Non lo sappiamo. Ma sappiamo che noi non ci saremmo, perché il mondo che ci ha generato è quello di queste costanti, non di altre. Questo per noi ha un enorme valore. Quindi ci sembra, rispetto a ciò a cui noi diamo valore, che le costanti siano fissate «stranamente» proprio per generare ciò a cui noi diamo valore, cioè noi stessi. L’errore che stiamo commettendo è di non vedere che noi abbiamo ovviamente valore, siamo ovviamente «speciali», ma lo siamo rispetto a noi stessi. Se l’universo fosse diverso, sarebbe quello che sarebbe […]. Nulla, della stretta dipendenza di ciò che esiste dalle costanti, può legittimamente essere interpretato come prodotto da un disegno intelligente. Se la struttura e l’evoluzione dell’universo rispondono all’intenzione di un Dio Creatore, ciò non può essere dedotto dalle osservazioni e dalle misure proprie del metodo scientifico4.

In un universo in cui «la vita stessa è una temporanea anomalia frutto del caso, che dal Nulla nasce, e al Nulla ritorna. Non c’è più spazio per alcuna legge, sia essa di natura morale, giuridica o fisico-scientifica»5. Dove predominano la morte, il caos e la distruzione, esattamente come in quello dell’ateo e visionario Lovecraft al cui centro balla Yog-Sothoth, dio nudo e idiota, in una cacofonia di flauti e tamburi. Di cui lo pseudo-biblium Necronomicon, traducibile come Libro delle leggi dei morti, costituisce l’anti-Bibbia per eccellenza. Un universo casuale in cui il mondo non è stato affatto creato per l’uomo e in cui il cosmo caotico che lo circonda lo tollera a malapena, poiché i Grandi Antichi oppure i loro corrispondenti Ingegneri, compresi nella saga, hanno probabilmente creato la vita e l’uomo stesso per errore oppure come semplice e atroce esperimento oppure, ancora, per dare ospitalità nei loro corpi al seme degli Xenomorfi affinché questi ultimi possano riprodursi su scala più ampia e diffusa. Attraverso la filosofia e l’opera dell’autore statunitense avviene così

lo svelamento di una verità profonda e incontrovertibile (“la più terribile concezione del cervello umano”), ovvero la consapevolezza di essere del tutto soli di fronte alla sconfinata vastità dell’universo. Alla base di queste teorie c’è il radicale ateismo dell’autore: vivendo pur sempre nei primi anni del Novecento, ossia un tempo fortemente influenzato dal pensiero di Arthur Schopenhauer e di Friedrich Nietzsche, Lovecraft rifiuta alla radice l’ottimistica visione del mondo giudaico-cristiana, sostenendo di “non essere mai riuscito a placarsi con le dolci illusioni della religione”. Il suo categorico rifiuto lo induce a ripudiare non soltanto l’idea di un benevolo Dio Padre, ma – coerentemente – anche la concezione umanista che deriva dalla Bibbia, e che nel corso degli ultimi due millenni ha plasmato la storia dell’Occidente: per Lovecraft, il cosmo è un abisso oscuro e misterioso, che non ha al proprio centro né la Terra, né tantomeno l’uomo, e che non risponde a quelle “immutabili leggi della natura” a cui l’homo sapiens, con i suoi studi scientifici, ha preteso di attribuire una valenza universale e assoluta6.

Tanto per Lovecraft quanto per Alien l’approdo finale non può che consistere nel cosiddetto nichilismo: se Dio non esiste – e non esiste neppure un ordine razionale dell’universo – allora nulla ha davvero senso, e l’unica certezza diventa il Nulla supremo, oppure come avrebbe affermato il colonnello Walter Kurtz in un altro celebre film, null’altro che «l’orrore, l’orrore!»7.

L’unico appunto che si potrebbe fare a questa parte del testo, certamente una delle più interessanti, è dovuto al fatto che gli autori si sono un po’ troppo basati sulle considerazioni derivate dalle opere sulla vita e l’opera di Lovecraft del controverso Sebastiano Fusco, più che su quella monumentale e più autorevole di S. T. Joshi8.

Il riferimento precedente al film di Coppola ispirato a Cuore di tenebra di Joseph Conrad non è casuale, poiché fin dal primo film di Ridley Scott altri elementi conradiani sono comparsi nella saga di Alien. Ad esempio il nome dell’astronave su cui iniziano le avventure di Ellen Ripley è Nostromo, mentre quello della scialuppa di salvataggio sulla quale si salverà la stessa figura femminile interpretata da Sigourney Weaver è Narcissus, nomi presi entrambi a prestito da romanzi brevi dell’anglo-polacco Conrad.

Ed è proprio a partire dalla Nostromo che inizia nella saga quella riflessione sull’espansione capitalistica nello spazio che occupa un capitolo nella terza e ultima parte del libro di Riberi e Genta. Una riflessione che fin dalle prime immagini porta il conflitto salariale e di classe nello spazio profondo e che vedrà nella Weyland-Yutani Corporation la massima espressione dell’avidità e indifferenza del capitale nei confronti dei suoi dipendenti e dell’intera specie umana.

Ecco allora che tutto quanto si è detto e citato prima a riguardo dell’inesistenza di un “piano regolatore” delle vicende umane e del cosmo trova la sua perfetta adesione alle finalità anonime e distruttive riconducibili agli interessi dell’accumulazione capitalistica. Costi quel che costi, anche in termini di devastazione delle esistenze dei singoli oppure di interi pianeti. Un’ipotesi che sembra essere non del tutto approfondita dai due autori che preferiscono lasciare, forse, un filo di speranza a chi legge ma che già oggi, nelle “imprese” spaziali private di Elon Musk e nelle su promesse di conquista di Marte, iniziano a dare i primi segni del bisogno di espansione infinita del capitale e del suo sogno di eternità. Ben rappresentato dagli obiettivi iniziali del fondatore della stessa corporation Weyland -Yutani.

Una disponibilità a divorare vite, ricchezze accumulate socialmente e digerite privatamente, pianeti interi che ben si accompagna all’immagine degli Xenomorfi e degli incoscienti Ingegneri o Space Jokey che perseguono piani non del tutto chiari nemmeno a loro. In cui la creazione si accompagna alla distruzione, lasciando spesso soltanto un mondo di rovine e di guerre senza fine e senza scopo. Una visione apocalittica, e qui ancora il riferimento all’Apocalisse di Coppola, per cui l’intera saga costituisce una delle critiche più radicali del modo di produzione capitalistico, la cui massima espressione sembra essere, oggi sulla Terra e domani nello spazio profondo, la guerra.

Tema indagato soprattutto nell’espansione della saga nei comics e per questo motivo non troppo sottolineato all’interno della ricerca pubblicata da Mimesis. Rimane comunque ancora il profumo di un altro autore di fantascienza, il vecchio Jules Verne, che già nel sul Dalla Terra alla Luna, nel 1865, illustrava il grande interesse finanziario contenuto nel battage pubblicitario destinato a raccogliere i fondi per il lancio del proiettile/navicella verso la Luna.

Sbagliò di poco i conti lo scrittore di allora rispetto al tempo impiegato nel 1969 dalla Apollo 11 per portare gli astronauti Neil Armstrong e Buzz Aldrin sulla superficie lunare e centrò invece perfettamente l’obbiettivo dell’operazione. Cosa che gli sforzi di Musk oggi confermano, in attesa che una Weyland-Yutani di domani riporti sul pianeta qualche strano essere più adatto a fare la guerra e a dominare il cosmo di quanto lo sia la specie umana. Forse ancora “troppo umana” e dunque sostanzialmente inutile per le finalità ultime del capitale.


  1. P. Riberi, G. Genta, I segreti di Alien. Gnosi, orrore cosmico, scienza e IA nella saga degli Xenomorfi, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2024, p.16.  

  2. P. Riberi, G. Genta, op. cit., pp. 90-91.  

  3. Ibidem, p. 97.  

  4. Carlo Rovelli, Giuseppe Tanzella-Nitti, Universo, un disegno poco intelligente: la scienza non può dimostrare l’esistenza di Dio, Corriere della sera qui  

  5. P. Riberi, G. Genta, op.cit., p.105.  

  6. Ibid., pp. 104-105.  

  7. Interpretato da Marlon Brando nel film, di Francis Ford Coppola, Apocalypse Now nel 1979.  

  8. S. T. Joshi, Io sono Providence: la vita e i tempi di H.P. Lovecraft, 3 voll, Providence press  

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Processi di ibridazione. L’orrore (è) nella carne https://www.carmillaonline.com/2022/05/17/processi-di-ibridazione-lorrore-e-nella-carne/ Tue, 17 May 2022 20:01:38 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=71920 di Gioacchino Toni

«Come la fiaba, ma senza la sua volontà educativa e la sua disciplina narratologica, l’horror è la prosecuzione della vita con altri mezzi, all’incrocio tra due tendenze contrapposte, che qui tendono a coincidere, quella che usa la finzione per accrescere l’illusione e quella che la vive per aumentare la percezione del reale. Una contradditorietà che spaventa molto più dei contenuti dell’horror stesso: chi non li guarda non teme infatti di essere spaventato dai mostri, ma di cominciare a vederli nella vita reale. O, che è davvero lo stesso, a riconoscerli. [...]]]> di Gioacchino Toni

«Come la fiaba, ma senza la sua volontà educativa e la sua disciplina narratologica, l’horror è la prosecuzione della vita con altri mezzi, all’incrocio tra due tendenze contrapposte, che qui tendono a coincidere, quella che usa la finzione per accrescere l’illusione e quella che la vive per aumentare la percezione del reale. Una contradditorietà che spaventa molto più dei contenuti dell’horror stesso: chi non li guarda non teme infatti di essere spaventato dai mostri, ma di cominciare a vederli nella vita reale. O, che è davvero lo stesso, a riconoscerli. Anche nella realtà che si è. Perché il vero orrore è sempre la realtà. Soprattutto la realtà che si è e che, non diversamente dal contesto reale che ci circonda, sfugge alla nostra comprensione, al nostro controllo, alla nostra direzione, imponendosi dispoticamente, violentemente, atrocemente».

Così scrivono Selena Pastorino e Davide Navarria, Il male quotidiano. Considerazioni filosofiche sull’horror (Rogas 2022), introducendo il volume in cui, attraverso «incursioni sull’horror, nelle sue molteplici forme, a partire da un reale che gli è affine in un modo che è la stessa narrazione orrorifica a palesare» (p. 18), intendono evidenziare la capacità del genere «di istituire un legame esperienziale con lo spettatore partecipante, traendolo nella notte che già da sempre lo abita» (p. 19).

Il provare orrore ha a che fare non tanto con l’essere spaventati di fronte a una minaccia incombente, quanto piuttosto, sostengono gli autori, soprattutto con l’essere disgustati, nauseati e raccapricciati al manifestarsi del corporeo, non necessariamente umano, di qualcosa che rimandi alla

concretezza materiale di un che di vivente, pulsante, carnale. […] È la comparsa della corporeità nella sua visceralità organica, nella sua tridimensionalità carnale, a fare orrore, come il ritorno di un rimosso. Perché, anche qualora si sia potuto accettare di avere un’esistenza materiale, si tende comunque a ridurre la corporeità a una mera superficie: ciò che fa il nostro corpo è il suo aspetto esteriore, la pelle che lo confina, i tratti che ci identificano. Oltrepassare questo confine per comprendere qualcosa della nostra realtà è un gesto autorizzato in un’unica direzione, quella che pone una frattura tra la fisicità che siamo e ciò che davvero siamo: che la si chiami mente, anima, pensiero, spirito, quella componente meta-fisica della nostra identità è l’unica parte di noi che ci sentiamo legittimati a definire come nostra interiorità. Ci è invece precluso quel movimento che, nell’oltrepassare la pelle che ci contiene, vi apra una breccia, svelando come al nostro interno non si trovi una specie di spirito impalpabile a capo di un automa inorganico, bensì carne sanguinolenta, vasi, nervi, legamenti, tendini, organi, scarti, solo in ultimo ossa, altrettanto vive che tutto il resto. Un resto che trattiamo sempre come tale e che pure ci costituisce al punto da essere l’unico punto in cui siamo, in cui non possiamo fare a meno di essere (pp. 166-167).

“Entrare” in contatto con la cruda realtà del corpo provoca disgusto; “scoprirsi” organici significa in qualche modo fare i conti con la mortalità. L’epidermide si propone come limite inviolabile, come confine che, se oltrepassato, conduce alla perdita dell’integrità palesando la vulnerabilità e la caducità: l’essere mortali.

Da tempo e da più prospettive si riflette sul perché produca attrazione un genere come l’horror incentrato su quanto solitamente si è portati a rimuovere, ci si interroga sul da e verso cosa muova il desiderio che spinge a sottoporsi all’orrore, a un’esperienza emotiva e fisica insieme.

Del ruolo simbolico ed antropologico della pelle si è occupato Francesco Paolo Campione, Discorsi sulla superficie. Estetica, arte, linguaggio della pelle (Mucchi, 2015) [su Il Pickwick] e lo ha fatto passando in rassegna una serie di narrazioni che vanno dal mito di Marsia, al martirio di San Bartolomeo sino alla pratica del tatuaggio. In Marsia scuoiato è possibile vedere tanto un essere anatomico privo di vita e identità quanto una pelle viva che viene ad assumere un carattere perturbante, segno di un’identità mantenuta oltre l’annientamento del corpo. E se Marsia muore per aver sfidato un dio vendicativo, per certi versi, suggerisce Campione, rinasce sotto la pelle del San Bartolomeo cristiano. Resto mortale e firma figurata al contempo, il San Bartolomeo/Michelangelo ripropone il Socrate/Marsia del Simposio; la bellezza risiede entro il deforme dell’epidermide attraverso un gesto di apertura al contempo artistico e di fede.

Artisticamente parlando, la figura di Marsia, si estende ben oltre le estetiche rinascimentali e barocche tanto da ricomparire, per certi versi, nella messa in scena davidiana dell’assassinio a tradimento di Marat intento a lenire in una vasca la malattia della pelle, opera che trasforma il rivoluzionario, oltre che in una sorta di Cristo laico, appunto in un novello Marsia, come del resto aveva già notato Baudelaire1.

Insomma, la pelle rappresenta la veste del vivente e si può dire che su di essa si è sviluppata, nel corso dei secoli, un’estetica che ha saputo dar conto di diversi aspetti relativi al presentarsi al mondo dell’essere umano. Se in numerose narrazioni la privazione dell’epidermide rappresenta la perdita dell’identità, la pelle può anche vivere un’esistenza autonoma rispetto al corpo che ricopriva o, in alcuni casi, può persino tornare a ricoprirlo conferendogli un nuovo aspetto. Spogliarsi della pelle può anche preannunciare simbolicamente una risurrezione che conduce ad una nuova vita.

Tornando al volume di Pastorino e Navarria, in particolare sulla sezione dedicata al rapporto tra orrore e corpi, in esso gli autori, riprendendo alcune riflessioni di Linda Williams2, evidenziano come l’horror abbia per certi versi in comune con il porno e il melodramma la peculiarità di agire in modo diretto sul corpo del fruitore: il melodramma deve commuove, il porno deve eccitare e l’horror deve spaventare. Se ciò non avviene allora si tratta di produzioni che non hanno mantenuto fede alle promesse dei rispettivi generi. Occorre che il fruitore senta, provi sensazioni direttamente sul suo corpo.

In Videodrome (1983) David Cronenberg, pur sperimentando diverse declinazioni dell’inorganico che si anima come carne, si concentra soprattutto sullo schermo televisivo che, più che farsi permeabile alla realtà, diviene realtà o, meglio, come suggerisce il personaggio Brian O’Blivion, qualcosa più di essa, tanto che il protagonista, Max, viene da esso sedotto al punto di indurlo a cercare una fusione con l’immagine di Nicky Brand, ossia con colei che «nella vita fuori dallo schermo lo provoca a considerare lo stretto legame tra dolore ed eccitazione, torture e sesso» (p. 169).

Il collassare della funzione schermante della televisione comporta con sé la distruzione di ogni paradigma di riferimento: la compenetrazione tra TV e corpo funziona come realizzazione di un più ampio progetto di controllo e sottomissione della mente, un vero e proprio piano di purificazione dell’umanità che si serve della fascinazione di una trasmissione snuff per intercettare gli individui da condurre all’autodistruzione. Videodrome è il nome di un disegno malato di selezione della specie, a partire dalla presunta indegnità a vivere di chi manifesta eccitazione nei confronti di ciò che devia dalla sessualità socialmente accettabile. L’implementazione di questo dominio passa per un controllo mentale che è insieme controllo carnale (pp. 169-170).

Il film mostra pertanto come anche l’inorganico tecnologico sia «animato dalle stesse forze pulsanti che ci fanno essere, anche se non lo vogliamo (sapere)» (p. 170).

In altre opere la fragile vulnerabilità carnale degli esseri umani emerge nel confronto con corpi non-umani. In Alien (1978) di Ridley Scott, così come in Aliens (1986) di James Cameron, l’alterità aliena manifesta caratteristiche carnali e viscerali capaci di prendere possesso del corpo umano devastandolo. «L’alieno di queste due pellicole è xenomorfo, come comunemente lo si chiama, solo nella misura in cui abbiamo deciso di chiudere fuori dalle mura della nostra identità civile, sociale, culturale, politica e personale ciò che ha la forma (morphé) del corpo, dichiarandolo così straniero (xéno), negandogli un diritto di cittadinanza che già da sempre ha, anzi che già da sempre ci concede» (p. 171)

In diverse opere horror la corporeità animale viene utilizzata per definire, per differenza, la corporeità umana, tanto che in molte narrazioni, per garantirsi la sopravvivenza, gli esseri umani si trovano costretti a individuare ed allontanare dalla loro comunità l’alterità non-umana.

«Nello specifico di queste narrazioni si potrebbe pensare che il rapporto tra l’umano e l’animale susciti disgusto e terrore rivelando la natura ferina, bestiale, che l’uomo avrebbe rimosso dalla propria definizione e che tuttavia lo caratterizzerebbe al punto da riemergere sempre, in maniera inesorabile» (p. 171). A suscitare orrore in tali opere non è però, secondo Pastorino e Navarria, l’emergere della bestialità umana rimossa, quanto piuttosto la

vulnerabilità intrinseca all’esser vivo dell’uomo, che l’animale, con il suo comportamento, rivela come da sempre definitoria dell’umano e come da sempre misconosciuta. […] La realtà della nostra corporeità è quella di una fragile vitalità, di una mortalità certa, di un dolore possibile e probabile. Ciò che ci tocca in modo orrendo è il timore che al nostro corpo possa accadere qualcosa di tanto disgustoso, come di essere lacerato, dilaniato, divorato, puntellato, sbrandellato. Come se più non fosse corpo umano, come se più non fosse corpo nostro. Anche perché a quel punto di noi, che ne sarebbe? Che cosa saremmo cioè noi, senza il nostro corpo? (p. 175)

Oltre che dal timore per la possibile profanazione del proprio corpo, l’orrore può derivare tal terrore per una sua trasformazione ed in entrambi i casi si può arrivare a desiderare la morte per porre fine al supplizio iniziato o imminente. Si pensi, ad esempio a quando Rick Grimes, il protagonista della serie The Walking Dead (dal 2010), trovatosi bloccato sotto a un carro armato circondato da zombi che intendono cibarsi di lui, vistosi senza scampo, per un attimo, prima di individuare una via di fuga, si punta la pistola alla tempia per suicidarsi, o, ancora, al finale del film La Mosca (The Fly, 1986) di David Cronenberg, quando lo scienziato Seth Brundle, ibridatosi con un insetto, ormai teriomorfo, in una residuale capacità di autodeterminazione, chiede alla ex compagna di porre fine alla sua esistenza.

Metamorfosi, mutazioni e modificazioni del corpo umano al centro dell’opera cronenberghiana sono elementi ricorrenti nelle narrazioni del cosiddetto body horror, sottogenere in cui la

realtà della corporeità viene così esposta, rivelata senza infingimenti, inverata in modo paradossale dal suo non essere più se stessa: non più integra, non più sana, non più vitale, in altre parole non più appropriata da quel meccanismo culturale ed esistenziale che lavora a minimizzare il corpo fino a farne un niente, un accessorio, un possesso. Disappropriata dall’individuo che crede di abitarla quando in realtà ne è parte, la carne si mostra nella sua potenza e nella sua vulnerabilità, nella sua magnificenza e nella sua repellenza, nella sua forza e nella sua disgregabilità. Proprio per aver portato la narrazione dentro il corpo, nel luogo del reale, i confini si intrecciano tra loro, scolorano, lasciandoci in balia del disorientamento che ci coglie ogni qual volta non possiamo rimandare oltre il confronto con la realtà: crollano i confini delle contrapposizioni che siamo soliti usare per muoverci nella quotidianità, ma vengono meno anche quelli delle categorie identitarie e quelli fisici che permettono un certo intuitivo livello di distinguibilità tra gli enti. Insomma, la mutevolezza è all’opera e non si può più fingere di non vederla (pp. 182-183).

D’altra parte, nonostante la tendenza a considerare il corpo come «stabile ancoraggio identitario» (p. 183), l’esistenza non può sottrarsi alla mutazione e la visione di opere orrorifiche come queste, in fin dei conti, mette di fronte alla propria vulnerabilità. Ci parlano di ciò, sostengono Pastorino e Navarria, narrazioni incentrate sulla «metamorfosi dell’umano in ciò che umano non è, soprattutto quando questo processo non è irreversibile […] ma si intervalla a momenti di recupero […] di quei lacerti residuali di ciò che si era ora che si è stati qualcosa che non si è» (p. 183). Si tratta di opere che evidenziano «quanto la dimensione identitaria sia carnale, corporea, fisica» (p. 183).

Alla luce del fatto che, come detto, la metamorfosi del corpo è un processo inevitabile, diviene difficile individuare un confine certo tra ciò che si era e ciò che non si è più, soprattutto, «se questa frontiera risulta valicabile più volte, in entrambe le direzioni» (p. 185), come nell’esempio di licantropia di Un lupo mannaro americano a Londra (An American Werewolf in London, 1981) di John Landis. «Perdere a tal punto il proprio controllo su di sé da essere condizionati in modo vincolante, perfino necessitante, da ciò che il proprio corpo è diventato, da ciò che noi stessi paradossalmente siamo diventati, è l’abisso del terrore da cui trae linfa questa narrazione. Da cui origina l’orrore stesso, non tanto quello delle vittime o dei superstiti, bensì quello di chi realizza di essere incarnato: fare i conti con l’incontrollabilità proteiforme e metamorfica del nostro corpo significa fare conti con la sua indisponibilità, con la sua irriducibile realtà che resiste a ogni nostro tentativo di disciplinarla, di evaporarla, di annichilirla» (p. 186)

Oltre che nelle trasformazioni fisiologiche che la vita corporea comporta, l’esperienza della «corporeità come dimensione che può determinarci senza poter essere determinata» (p. 186) può essere vissuta anche nella condizione della malattia. Secondo Pastorino e Navarria, pur mostrando esplicitamente la degenerazione carnale, l’horror

finisce col riproporre una cesura netta tra la malattia e l’esistenza fisiologica, un confine che sì può essere attraversato con lentezza estenuante e consapevolezza acuta, ma che presto o tardi conduce a luoghi da cui non si ritorna, in cui più si è umani. Se in certa misura si può comprendere come le dinamiche narrative che riguardano tutto ciò che appare come minaccioso, perturbante, disgustoso, spaventoso, funzionino anche riguardo al corpo malato, sembra qui essere in opera nella stessa messa in opera un meccanismo culturale che fonda ogni possibilità creativa e la orienta, in gran parte determinandola, vincolandola. Ecco allora che la maggior parte delle narrazioni trattano il contagio di un morbo come se producesse sempre effetti analoghi a quelli di un’invasione zombi, quando non viene direttamente ricollegato a questa. L’umanità sana rifugge, talvolta mostrando tratti di devianza psichico-morale che la delegittimano di fronte all’innocente, perché inevitabile, aggressività cannibalica degli infetti, spesso riproponendo anche in questo frangente lo schema di una lotta contro il mostro, nella forma della malattia che si è impossessata dei corpi, spossessandoli delle loro identità vitali. Della loro stessa vita. È forse in questa curvatura che il punto cieco dello sguardo horror sul morbo tange uno spazio di veridicità: la malattia per il (presunto) sano ha sempre qualcosa ha che fare con la mortalità, perché la richiama, la esibisce, e così converte la rinnegabilità in cui vogliamo relegarla, rivelandola come segreto manifesto della vita carnale stessa. Che vive perché sta morendo, che smetterà di morire solo quando smetterà di vivere (pp. 186-187).

La malattia spaventa in quanto restituisce alla carne il suo potere sull’individuo a cui non resta che che provare a fuggire il contagio nascondendo i sintomi agli altri e forse persino a se stesso, magari minimizzando o addirittura ignorando la propria corporeità per annichilirne il destino di morte.

Nelle messe in opera horror, sottolineano gli autori, per poter vantare un ruolo da protagonista nella narrazione, le malattie devono apparire «irriconoscibili rispetto alle loro forme consuete, più incontrollabili […], più devastanti, più letali. A imporre loro un controllo è la stessa trama narrativa che le relega a macroscopica trasformazione del corpo facente sì parte del regno del possibile e del verosimile, ma anche di ciò da cui si deve e dunque […] si può sfuggire» (p. 188).

Quando invece la vulnerabilità corporea viene messa in scena sotto forma di «desiderio di disporre della carne come di un regno dei balocchi da parte di qualche sadico torturatore» (p. 188), ecco che il body horror diventa «nella contemporaneità soprattutto un genere di esorcismo del corpo, che funziona con la tecnica dell’esposizione prolungata a ciò che scatena orrore, come terrore e disgusto, nel fruitore. Ma contemporaneamente lo attrae, la affascina, in modo morboso, tale che non possa distogliere lo sguardo qualunque cosa accada, e in modo perverso, tale cioè che si allontani da ciò che costituisce la norma nella sua realtà quotidiana (si spera)» (p. 188). Un esempio di ciò è ravvisabile nel torture porn in cui

ciò che conta è assistere voyeuristicamente a ciò che è a mala pena tollerabile, quando non insopportabile, sia per chi si trova sullo schermo, sia per chi prova con questo a schermarsi, difendendosi da un’immedesimazione con le vittime che fa contorcere gli arti e le budella, nel totale comfort del proprio divano o della poltrona cinematografica […] Nei torture porn lo schermo mantiene la sua funzione di separatore, quasi un buco della serratura da cui osservare qualcosa che lo spettatore sembra ricercare non per vivere un’esperienza, […] ma per osservare (e quindi in certa misura tenere le distanze da) un’esperienza altrui. È una differenza sottile ma sostanziale, che permette forse di riarticolare, almeno a partire dalla presente prospettiva di analisi, una ridefinizione del genere cui queste narrazioni appartengono, che con l’horror flirta senza riuscire a incarnarne, letteralmente, le dinamiche (pp. 189-190).


Processi di ibridazione


  1. Baudelaire, commentando tale opera, da lui definita “poema inconsueto”, nel 1846 scriveva: «Marat può ormai sfidare Apollo, la Morte lo ha ora baciato con labbra amorose, e lui riposa nella quiete della sua metamorfosi». 

  2. Cfr. Linda Williams, Film Bodies: Gender, Genre, and Excess, in “Film Quarterly”, Vol. 44, No. 4, Summer, 1991. 

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Il blues cyber punk di Terminator https://www.carmillaonline.com/2019/12/09/il-blues-cyber-punk-di-terminator/ Mon, 09 Dec 2019 22:13:43 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=56547 di Mauro Baldrati

Esiste un genere/fusion di generi, che potremmo definire fantascienza/thriller/action (di seguito fta). La fantascienza rappresenta il luogo, il tempo, la proiezione; il thriller è la trama, l’intreccio, il divenire; l’action è la velocità, il dinamismo, il colpo di scena.

Questo genere triplo vale per i romanzi, e per il cinema. Forse soprattutto per il cinema, che ha prodotto alcune opere che possiamo definire pietre miliari: il primo Matrix, il primo Predator, La cosa, il primo Alien, Blade Runner. E il primo Terminator, che nell’arco di 28 anni ha [...]]]> di Mauro Baldrati

Esiste un genere/fusion di generi, che potremmo definire fantascienza/thriller/action (di seguito fta). La fantascienza rappresenta il luogo, il tempo, la proiezione; il thriller è la trama, l’intreccio, il divenire; l’action è la velocità, il dinamismo, il colpo di scena.

Questo genere triplo vale per i romanzi, e per il cinema. Forse soprattutto per il cinema, che ha prodotto alcune opere che possiamo definire pietre miliari: il primo Matrix, il primo Predator, La cosa, il primo Alien, Blade Runner. E il primo Terminator, che nell’arco di 28 anni ha generato una saga di sei capitoli. Ora, dopo l’ottimo n. 2, sempre diretto da James Cameron, un buon n.3, il discreto n.4 (Salvation), e il meno che mediocre n.5 (Genisys), è arrivato il n.6 (Destino oscuro). Cameron è tornato, anche se non come regista (è direto da Tim Miller), ma come sceneggiatore e produttore (ovvero nothingall). E si vede. Infatti anche se non può arrivare alle vette del n.1, perché i capolavori sono quasi sempre unici, si tratta di un fta di ottima fattura, con effetti speciali di ultimissima generazione che non scivolano mai nel videogioco, una storia avvincente, e un ritmo serrato.

Il effetti il “plot” sembra lo stesso: l’arrivo dal futuro di un terminator spaventosamente indistruttibile, un Rev-9, una ulteriore versione del metallo liquido, il T-1000 che abbiamo già visto nei n. 2 e 3. La creatura da incubo deve eliminare qualcuno, che tuttavia non è John Connor, perché morirà infettato da un nano-terminator in un altro segmento di futuro. E’ una ragazza, Dani, che proprio come Sarah Connor non sa di essere l’unica speranza di salvezza dell’umanità. E non ci crede, teme che un’altra ragazza, Grace, una sconosciuta che continua a ripeterglielo, sia una pazza.

Grace è arrivata a sua volta dal futuro, proprio come il terminator Schwarzenegger T-800 arrivò nel n. 2. Ma non è una macchina. E’ un’umana potenziata, alta, dinoccolata, con un collo da giraffa e un viso bellissimo. La sua missione è proteggere Dani, come quella del Rev-9 è di ucciderla. Due cavalieri insomma, uno del bene e uno del male, contrapposti in uno scontro che ha come unico epilogo la morte. Lei non conosce Sarah Connor né suo figlio John, perché il futuro è cambiato, grazie all’azione di Sarah, di suo figlio e del T-800. Skynet, il programma diventato autocosciente che ha scatenato la guerra, è stato distrutto, ma alla nuova catastrofe ci penserà Legion, un nuovo sistema di guerra cibernetico che infetterà i computer, i telefoni, l’intera rete delle comunicazioni e delle attrezzature.

Si rinnova la caccia spietata, ossessiva, e la fuga senza fine. Gli inseguimenti in macchina, obbligatori per legge in qualsiasi film americano, sono ancora più estremi, e non ne manca uno addirittura in aereo, tra un enorme velivolo da trasporto e una cisterna, con effetti spettacolari e un uso magistrale del rumorismo.

A un certo punto ritroviamo anche un’invecchiata, sarcastica, antipatica Sarah Connor, interpretata dalla stessa Linda Hamilton, e il T-800, a sua volta invecchiato, con la barba e le rughe. Per cui uno potrebbe chiedersi come fa un robot a invecchiare, a sgonfiarsi la muscolatura da body builder. Ma non ce lo chiediamo. E’ troppo fascinoso il ritorno di Schwarzenegger umanizzato, che ha addirittura messo su famiglia, con moglie e figlio.

Insomma, una riscrittura dei n.1 e 2? Un’ottima cover?

In realtà no. Sarebbe un giudizio semplicistico. Non è la copia di un quadro coi colori appena cambiati e qualche dettaglio spostato. E’ come il blues, che a un ascolto superficiale sembra la musica più ripetitiva della storia. Ma l’anima del blues non è solo tecnica. E’ il sentimento, l’intensità. Basta l’intonazione della voce, il tocco della chitarra, il soffio dell’armonica, per creare un nuovo viaggio, e godere di un’altra avventura. Il blues è un’immanenza che non si estingue, tocca corde profonde perché è nata come musica vitale, di resistenza e di speranza nell’inferno sulla terra. Per questo è sempre diversa. Non ha bisogno di distinguersi a tutti i costi, per non perdere l’appeal.

Così Destino Oscuro fa rivivere la gioia degli appassionati, perché richiama quello stupore, quell’empatia. Infatti ogni viaggio non è mai uguale, anche se all’interno dello stesso paesaggio, lungo la stessa strada.

E può piacere anche ai non specializzati di fta, gli spettatori per così dire generalisti, purché non siano snob, ovvero che non si neghino il piacere di amare le storie, e le favole avventurose.

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Immagini del conflitto / Corpi https://www.carmillaonline.com/2018/06/09/immagini-del-conflitto-corpi/ Fri, 08 Jun 2018 22:01:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=46124 di Gioacchino Toni

Convinto di come il genere fantascientifico – nelle sue molteplici dilatazioni – abbia saputo condensare epocali processi sociali e conflitti politici, Antonio Tursi, nel suo recente libro Immagini del conflitto. Corpi e spazi tra fantascienza e politica (Meltemi, 2018), si sofferma su alcune rappresentazioni che a ridosso del cambio di millennio hanno messo in luce quei mutamenti di confini che stanno ridisegnando i nostri corpi in un orizzonte post-umano.

Attraverso una serie di esempi narrativi – la figura del cyborg, con i suoi rimandi alla creatura frankensteiniana e a Dracula; [...]]]> di Gioacchino Toni

Convinto di come il genere fantascientifico – nelle sue molteplici dilatazioni – abbia saputo condensare epocali processi sociali e conflitti politici, Antonio Tursi, nel suo recente libro Immagini del conflitto. Corpi e spazi tra fantascienza e politica (Meltemi, 2018), si sofferma su alcune rappresentazioni che a ridosso del cambio di millennio hanno messo in luce quei mutamenti di confini che stanno ridisegnando i nostri corpi in un orizzonte post-umano.

Attraverso una serie di esempi narrativi – la figura del cyborg, con i suoi rimandi alla creatura frankensteiniana e a Dracula; l’universo avatariano di James Cameron; la nuova carne cronenberghiana; la trilogia cinematografica dei fratelli Larry e Andy Wachowski; il ciberspazio dei romanzi di William Gibson, il Metaverso descritto da Neal Stephenson – Tursi riflette su questioni che toccano il nostro presente materiale-immaginario in un volume suddiviso in due parti: Corpi e Spazi. In questo scritto ci limiteremo a prendere in esame soltanto la prima parte del libro, relativa ai Corpi, ripromettendoci di tornare sulla seconda, dedicata agli Spazi, successivamente.

Il rapporto tra corpi e immaginario risulta meno oppositivo di quanto non appaia in un primo momento e ciò risulta particolarmente evidente nell’immaginario tecnologico. Se già nel Golem, creatura umanoide artificiale della tradizione ebraica, nel suo essere proto-umano, i confini tra umano e non-umano, organico e inorganico, naturale e artificiale non appaiono tracciati con la nettezza che contraddistingue la cultura occidentale, è però sull’essere mostruoso assemblato da Frankenstein e sulla figura del conte Dracula che Tursi avvia la riflessione sulla recente figura ibrida del cyborg.

Il corpo della creatura frankensteiniana di Mary Shelley rappresenta l’oggetto scandaloso con cui è costretta a confrontarsi la società borghese pre-vittoriana. «Un corpo assemblato rappezzando pezzi anatomici di cadaveri, attraverso un commercio con il-già-morto, con membra destinate alla putrescenza. Con ciò che la società degli umani ha già relegato nell’altro da sé, anche fisicamente rinchiudendolo nei cimiteri all’esterno delle città» (p. 34). Il corpo della creatura mostruosa è sospeso tra vita e morte, «tra visioni normalizzate dell’umano e visioni inquietanti di ciò che umano non è ritenuto e che, nonostante ciò o proprio a causa di ciò, insiste nel mettere in discussione le certezze umane» (p. 34). Le membra tratte dai cadaveri ricevono la vita dal dominio moderno tecnico-scientifico sulla natura; l’immaginario tecnologico veicolato dalle vicende della creatura frankensteiniana ha sicuramente a che fare con i mutamenti tecnologici e sociali propri del periodo compreso tra la prima e la seconda rivoluzione industriale. Scriveva a tal proposito sul finire degli anni Settanta Alberto Abruzzese (La grande scimmia. Mostri vampiri automi mutanti. L’immaginario collettivo dalla letteratura al cinema e all’informazione, 1979) che nel momento in cui le macchine invadono l’uomo e la natura, all’orrido paesaggistico finiscono con l’aggiungersi gli orrori industriali e metropolitani di un capitalismo che porta sfruttamento e alienazione.

Un aspetto interessante della creatura di Frankenstein riguarda il legame tra l’evoluzione biologica e quella culturale, tra corpo e tecnica. Quando il mostro assemblato tenta di raggiungere una sua autonomia, inevitabilmente sente il bisogno di esprimere le sue emozioni, di comunicare con gli altri esseri umani al fine di farne a tutti gli effetti parte ma, paradossalmente, «è poco macchina»; non possiede la macchina sociale del linguaggio. Il mostro deve acquisire un elemento artificiale come il linguaggio per potersi dire davvero umano.

Dracula di Bram Stoker è invece un essere metamorfico, il suo corpo si trasforma in altro da sé, in altre specie viventi, collocandosi in un immaginario di fine secolo caratterizzato dall’instabilità del soggetto moderno. È attraverso il sangue raggiunto dai denti aguzzi che il suo corpo di non-morto si ibrida con il corpo dei mortali in un meccanismo di attrazione reciproca, di contaminazione e di trasformazione. «Metamorfosi e ibridazione emergono come caratteristiche decisive del corpo di Dracula e perturbano la stabilità e l’identità dei corpi umani» (p. 42). Nella sua alterità si annida un vettore di disordine che mette in pericolo l’identità occidentale che la tradizione umanistica ha edificato nel corso dei secoli: è l’intero ordine da essa costruito ad essere messo a rischio.

La narrazione di Dracula, sottolinea Tursi, si inscrive perfettamente all’interno delle trasformazioni comunicative moderne; nel testo si giustappongono diversi mezzi di comunicazione e attorno al buon esito o meno della comunicazione si determinano comprensioni o incomprensioni tra i diversi personaggi con importanti ricadute sull’epilogo. Oltre alle comunicazioni anche i numerosi mezzi di spostamento hanno importanza nella narrazione che conduce, inesorabilmente, verso la dissoluzione del corpo di Dracula e se ciò accade è perché i suoi nemici possono ricorrere ai mezzi messi a disposizione dalla moderna società capitalista che regola così i conti con un passato costretto a lasciare spazio al nuovo mondo che avanza.

Questa immersione nella civiltà tecnologica dei protagonisti del romanzo di Stoker svela sino in fondo il conflitto che ha portato alla dissoluzione del corpo di Dracula e all’impedimento posto alla trasformazione in non-morta del corpo di Mina. Da un lato, infatti, c’è l’aristocratico conte Dracula dotato di notevoli risorse, lascito di un passato glorioso; dall’altro, un manipolo, tutto sommato abbastanza omogeneo, sintesi della borghesia occidentale, anch’essa dotata di bastevoli risorse, frutto delle attività dei tempi recenti. Evidentemente, queste ultime superiori alle prime tanto da consentire la vittoria all’avvocato Jonathan Harker, all’americano Quincy Morris e agli altri inseguitori. Alla fine Mina potrà con un certo autocompiacimento “riflettere sul meraviglioso potere del denaro! Che cosa possono fare i soldi quando sono impiegati come si deve”. Cosa pu fare il capitalismo nel pieno della seconda rivoluzione industriale e poco prima del passaggio di secolo? (p. 45).

A dissolversi con il corpo del conte è anche l’Uomo cartesiano, infrantosi contro il «corpo polimorfico, ibrido e desiderante di Dracula. Questo essere diabolico ha rivelato la contingenza storica del progetto moderno: le apparentemente intoccabili catene dell’ancien régime si sono spezzate per essere prontamente sostituite da nuove catene, quelle che nel romanzo di Stoker si colgono nel rapporto di reverenza nei confronti delle classi emergenti da parte dei personaggi di ceto sociale inferiore» (p. 46). Usciamo da questa vicenda coscienti del «carattere dinamico del nostro “essere-generico” (gattungswesen) […] costruzione prodotta dai rapporti capitalistici di produzione» (p. 47).

Non è difficile comprendere i motivi per cui il mostro organico-artificiale frankensteiniano e il metamorfico Dracula riescano ad avere ancora un ruolo importante nell’immaginario contemporaneo. Nonostante si tratti di figure nate nel corso di un epoca passata di grandi mutamenti della quale hanno saputo condensare i conflitti sociali e l’immaginario, sembrano comunque capaci di far riferimento anche a un contesto contemporaneo caratterizzato da un immaginario tecnologico riferito al corpo umano in cui

la tenco-scienza si è fatta mondo, si è posta […] l’obiettivo di costruire non una seconda natura per l’essere umano ma la natura stessa dell’essere umano. Se nel primo caso, infatti, poteva ancora valere il tentativo di segnalare il carattere compensativo della tecnica rispetto a una carenza dell’umano, oggi ciò che è tecnica e ciò che è umano mostrano la loro indissolubilità e indistinguibilità ab origine. La tecno-scienza ha addirittura proposto (preteso), attraverso la mappatura completa del genoma, di tradurre l’umano in un codice d’informazioni, disponibile alla riproducibilità tecnica (p. 49).

L’essere umano si modella tanto «attraverso una messa in forma civilizzante» (attraverso pratiche di educazione, disciplinamento, formazione…), quanto ricorrendo all’ingegneria genetica e alle biotecnologie «che intervengono a costruire l’umano, a manipolare la sua costruzione biologica in modo accelerato» (p. 50). Il ricorso sempre più massiccio alla tecno-scienza comporta una messa in discussione dei confini che definiscono l’umano. «Affrontare i confini della nostra vita corporea, il suo inizio e la sua fine, ripensare le nostre vulnerabilità e le nostre potenzialità, cogliere i limiti e gli sconfinamenti della nostra pelle, di quella membrana che ci interfaccia con il mondo, si pongono come questioni di scelta politica da cui non possiamo sottrarci come singoli, come collettività e come società globale» (p. 51).

Alla luce di tali trasformazioni, l’individuo contemporaneo, rispetto al passato, tende inevitabilmente ad avvertire come la sua condizione sia tutto sommato simile a quella del corpo assemblato immaginato da Shelley o metamorfico narrato da Stoker. «Parti inorganiche (le protesi), semiorganiche (gli organi bioartificiali) o appartenenti a organismi non più viventi (gli organi trapiantati) sono pronte a costruire e ricostruire, a modificare in continuazione i nostri corpi grazie ai meravigliosi progressi tecnoscientifici degli ultimi decenni. La rottura di un ordine, che il corpo mostruoso della creatura di Frankenstein manifestava ai suoi contemporanei, è diventata normalità, condizione quotidiana di noi post-umani del terzo millennio» (pp. 52-53).

Mentre la civiltà classica ha tendenzialmente manifestato l’inquietudine circa l’identità umana elaborando un universo di mostri in cui l’umano si intrecciava con l’animale, l’attuale civiltà tecnologica si proietta su sconfinamenti che riguardano l’antroposfera e la tecnosfera. Da tali sconfinamenti nascono le figure dei nuovi mostri: automi, robot, androidi, replicanti, mutanti… Nell’età contemporanea tali inquietanti ibridazioni consentono di fare i conti il concetto stesso di “vera natura” che si tramanda da secoli.

Gli attuali e diffusi sconfinamenti tra antroposfera e tecnosfera impongono la sfida concettuale di interrogarsi su quanto queste sfere (compresa naturalmente la teriosfera) possano definirsi nella loro distinzione netta se non oppositiva, così come la civiltà classica e poi quella umanistica hanno suggerito, e non invece nella loro ibridazione reciproca. Se dalla civiltà umanistica abbiamo ereditato un certo Uomo, autoreferenziale nel suo intendimento e persino violento nel suo progetto di dominio, in un orizzonte post-umanistico possiamo riconsiderare le trame di relazioni che l’essere umano costruisce da sempre con l’alterità, sia essa innanzitutto umana (superando, per esempio, quelle distinzioni di razza e di genere che per troppo tempo hanno contribuito a isolare quel certo Uomo e a produrre sub-uomini), animale o macchinica. Sono queste trame a permettere l’emerge stesso di ciò che siamo abituati a chiamare umano (pp. 53-54).

Senza dubbio la figura del cyborg è quella che meglio esprime l’ibridazione tra elementi organici e cibernetici pensando però a questi ultimi non soltanto come oggetti aggiunti a un corpo naturale. «Essi, in quanto ultima manifestazione del nostro esserci tecnico, rientrano appieno nel definire la natura umana ovvero nel coglierne la fondamentale costruzione storica» (p. 56). L’orizzonte post-umano comporta dunque una riconsiderazione dell’intera storia dell’evoluzione dell’essere umano e non soltanto degli esiti recenti tecnologicamente più avveniristici. Se da un lato si può affermare che l’essere umano è sempre stato post-umano in quanto ibridato (con piante,  cibo, farmaci, droghe e, in epoca più recente, macchine) e modificato (attraverso pratiche artificiali), dall’altro lato vi è però un’importante discontinuità che risiede nella sua inedita consapevolezza.

Secondo Tursi occorrerebbe «rintracciare nel cuore della modernità, nei suoi disumanizzanti processi di industrializzazione e artificializzazione, crepe rispetto a quella civiltà umanistica che è valsa come alveo della modernità stessa» (p. 57). È proprio «nel momento in cui il progetto umanistico si è compiuto imponendo la sua egemonia sul mondo intero [che] si sono avvertiti i suoi limiti e le sue ambivalenze. L’Uomo bianco, nel portare sulle spalle il suo gravoso fardello, si è trovato di fronte a un cuore di tenebra: ha incontrato mostri come quello di Frankenstein e il conte Dracula» (p. 57) e questi hanno insegnato a guardare al di sotto della superficie della della civiltà occidentale, cogliendone le ambivalenze. «E così il mostro di Frankenstein e il conte Dracula invitano anche a guardare nell’attuale orizzonte post-umano per cogliere sfumature e ambiguità, opportunità e rischi del nostro essere cyborg, per essere cioè all’altezza delle sfide complesse che esso ci pone, a iniziare da quella di riconsiderare le tracce della storia che conducono ai nostri corpi, sulla cui pelle si giocano i conflitti del presente a venire» (p. 57).

Dopo una breve parentesi in cui, ragionando attorno ad Avatar (2009) di James Cameron, lo studioso riflette sulla soggettività e l’agire politico nel mondo contemporaneo a partire dall’intersezione tra corpo e tecnologia in un’epoca in cui la politica sembrerebbe fondarsi «sul coinvolgimento emotivo, sulla condivisione di un sentimento di appartenenza, di un sentire comune» (p. 71) più che sulla ricerca di una soluzione razionale, Antonio Tursi giunge ad affrontare, inevitabilmente, la produzione cornemberghiana.

Attorno al passaggio di millennio, in un’epoca segnata da nuove scoperte scientifiche e innovazioni tecnologiche, oltre che dall’aprirsi di una prospettiva di globalizzazione, è stata messa in discussione l’eredità umanistica antropocentrica che «mentre dichiarava l’essere umano (o meglio un certo essere umano: uomo, bianco, colto, razionale e possidente) misura di tutte le cose, lasciava sul terreno macerie e tragedie impensabili. Dell’essere umano si è compresa la dinamica emergenziale: non si tratta di un essere fisso e immodificato (di cui rinvenire l’essenza) ma di un’entità costruita nei tempi lunghi della sua filogenesi» (pp. 80-81). La consapevolezza che l’essere umano derivi da numerosi processi di ibridazione (con simili, con l’ambiente, con la tecnica…) ha comportato un ripensamento del corpo «ripensato e compreso non come datità ma come retaggio di lunghi processi filogenetici, processi di adattamento e sfida all’ambiente» (p. 81) in cui è possibile – inevitabile – accogliere alterità.

In ambito cinematografico David Cronenberg è sicuramente l’autore che meglio di ogni altro ha saputo «condensare uno dei passaggi mediologici cruciali del secolo scorso: cioè il ruolo profondo dei media elettronici e in particolare della televisione» (p. 82). In Videodrome (1983) il regista «ci ha messo di fronte alle caratteristiche decisive della televisione: al suo essere ambientale (e non riducibile a un mero strumento) e al suo essere tattile (e non legato unicamente al regime visivo)» (pp. 82-83).

Cronenberg […] ha saputo cogliere e rendere percepibile il medium televisione: Videodrome ci ha offerto scene di pulsazioni degli aggeggi televisivi, di piccoli schermi che risucchiano corpi, di corpi che ospitano e liberano aggeggi, di desideri che si incontrano sulle superfici dei tubi catodici, di ibridazioni tra umano e tecnologico, di immersioni profonde in ambienti televisivi, di emergenza di una nuova forma di vita. Inoltre, Videodrome rappresenta il consolidarsi del nuovo regime mediale come conflitto tra progetti alternativi, tra istanze divergenti […] Un conflitto che […] ridisegna l’essere umano, la sua carne, sino a far emergere un ibrido tra corpo e comunicazione, tra psiche e segnali dell’etere, tra sistema nervoso e immaginario, tra “realtà” e allucinazioni (p. 84).

La fusione tra essere umano e ambiente si completa nelle scene finali quando il protagonista, desiderando andare oltre i suoi confini, oltre la sua umanità, inneggia alla “nuova carne” mentre lo schermo televisivo di fronte a lui esplode eruttando interiora e sangue. «Così la fusione tra uomo e ambiente televisivo è completa e profonda. Ed è avvenuta spingendo oltre l’uomo e oltre il suo rassicurante ambiente abituale, verso una superficie scontornata che amalgama pelle e transistor, carni e metalli, desideri e immaginari senza soluzioni di continuità» (p. 85). Tematiche simili si rintracciano anche in eXistenZ (1999) dello stesso Cronemberg, con il mondo dei videogiochi digitali e reticolari al posto della televisione tradizionale.

Tursi evidenzia che se in molte produzioni cinematografiche recenti Cronemberg sembra aver accantonato l’ossessione per le tecnologie, soprattutto comunicative, e la loro ibridazione con il corpo umano, è pur vero che questa riflessione la si ritrova, in qualche modo, e in maniera del tutto particolare, nel suo romanzo Consumed (Divorati, 2014). Curiosamente in questo caso Cronemberg ricorre a un medium come il libro stampato, in cui la fotografia ha un ruolo centrale nella narrazione.

Divorati si apre con uno schermo di un computer portatile, quello attraverso il quale Naomi esplora l’abitazione dei coniugi Aristide Arosteguy e Célestine Moreau (“Naomi era nello schermo” sono le prime parole del romanzo). Durante tutto il romanzo, le nostre tecnologie e piattaforme di comunicazione sono costantemente richiamate: dall’iPhone all’iPad, dal MacBook Air alle schedine di memoria SD, da Adobe Lightroom a Photoshop, da YouTube a Skype, da Facebook a Google. Esse rappresentano lo sfondo della vita quotidiana di Naomi e Nathan esattamente come rappresentano lo sfondo della vita quotidiana di ciascuno di noi. E naturalmente come l’acqua per i pesci, queste tecnologie rischiano di essere sempre più inavvertite nel momento stesso in cui si normalizzano e ci circondano nelle routine quotidiane (p. 87).

Pur evitando di mostrare tecnologie e scenari futuristici, Cronemberg evidenzia la

quotidianizzazione dei media digitali. Comprendere il loro carattere ambientale, da un lato, diventa più difficile perché ormai ne siamo costantemente immersi ma, dall’altro, è una possibilità offerta a ciascuno e non più solo un’esperienza eccezionale, quale era quella a cui aveva avuto accesso – nel caso di Videodrome – il produttore televisivo Max Renn. Una possibilità che diviene più che mai necessario cogliere per muoversi agilmente nel nuovo scenario mediale, individuarne gli elementi conflittuali e non lasciarsi risucchiare in una narcosi da Narcisi postmoderni, non lasciarsi sommergere dalla “inesorabile, rovente colata lavica della tecnologia” (pp. 87-88).

Le macchinette fotografiche che letteralmente infestano le vite dei protagonisti del romanzo si riveleranno incapaci di garantire autenticità alle immagini. Su «quelle foto, sulla loro capacità di catturare o ancor di più costruire e veicolare la nuova carne, si è giocata una partita globale tra poteri» (pp. 89-90). Cronemberg mette in scena scontri globali sulle tecnologie che «nel dispiegare la nuova carne del mondo, configurano uno scontro profondo sul modo stesso in cui ci comprendiamo, comprendiamo i nostri corpi, configuriamo le nostre identità ibride. Attraverso le tecnologie, si ridisegna il rapporto tra carne e corpo» (p. 91).

Attraverso il romanzo Cronenberg sembrerebbe pertanto riprendere la sua indagine sull’estetica contemporanea intesa come «cartina di tornasole delle dinamiche politiche attuali». Un’estetica fondata sull’ibridazione tra tecnologie e corpi che accoglie concetti di bellezza in passato non ritenuti tali.

La malattia che eccita, la seduzione del decadimento, il profumo della morte, le disfunzioni corporee (come quella di Peyronie), la disabilità umana, i nuovi corpi che emergono dall’amputazione di membra (apotemnofilia): modalità di una bellezza che si contrappone a quella classica basata sulla conformità, sull’armonia, sull’organicità. Una bellezza capace di competere con quella naturale o addirittura di superarla per capacità di seduzione, una bellezza all’altezza delle nuove condizioni industriali-tecnologiche dell’uomo. Un riallineamento dell’estetica che fa perno sulla diversità stessa, diventata “afrodisiaca e stuzzicante”. E intorno a questa bellezza che si costruiscono nuove identità, che si giocano perciò gli scontri di potere. In un mondo in cui il “vero oggetto dell’innata brama di bellezza erano adesso le merci, i prodotti industriali”, in un mondo in cui il corpo stesso è ridotto a merce, è omologato, è triturato dall’“insaziabile ethos consumista occidentale che tutto divora”, ovvero è costruito come prodotto dalle tecnologie, in questo mondo non ci resta che diventare consumatori di noi stessi, appropriarci di noi stessi in modo estremo, essere divoratori della carne ormai sconfinata oltre i confini della nostra pelle. […] Abitare un corpo ibrido, aperto, contaminato. Che non può più rappresentare il confortevole porto di partenza dal quale sicuri guardare il mondo ma l’approdo instabile del nostro cammino nel mondo (p. 95).

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Nemico (e) immaginario. L’Umano e l’Alieno https://www.carmillaonline.com/2016/08/16/nemico-immaginario-nemico-allo-schermo-lumano-lalieno/ Tue, 16 Aug 2016 21:30:47 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=29821 di Gioacchino Toni

crazies-romero-Passando in rassegna la cinematografia di fantascienza americana si può notare come la minaccia, anche quando proviene da mondi lontani o da strane creature, in molti casi è l’uomo ad averla, più o meno direttamente, ispirata o causata. A volte l’essere umano è indicato come motivo del male comparendo come figura di potere malvagia e megalomane, in altre occasioni è per causa umana che qualche strano essere, non di rado mutato geneticamente a causa di esperimenti bellici, semina morte e distruzione. Che si tratti di virus letali, di [...]]]> di Gioacchino Toni

crazies-romero-Passando in rassegna la cinematografia di fantascienza americana si può notare come la minaccia, anche quando proviene da mondi lontani o da strane creature, in molti casi è l’uomo ad averla, più o meno direttamente, ispirata o causata. A volte l’essere umano è indicato come motivo del male comparendo come figura di potere malvagia e megalomane, in altre occasioni è per causa umana che qualche strano essere, non di rado mutato geneticamente a causa di esperimenti bellici, semina morte e distruzione. Che si tratti di virus letali, di catastrofi ambientali, di mutazioni genetiche, a ben guardare, secondo tanta fantascienza, l’uomo pare rappresentare la vera minaccia per l’intero pianeta ed, in alcuni casi, anche per altri mondi. Per certi versi anche la figura dell’alieno finisce per parlare dell’essere umano, visto che su tale figura, frequentemente utilizzata per esorcizzare l’ignoto, vengono spesso proiettare le peggiori caratteristiche dell’umanità.

Nelle pellicole in cui è l’uomo ad essere indicato come responsabile dei disastri non di rado viene messa sotto accusa l’intera specie umana, quasi fosse affetta da una colpa da cui non può liberarsi. Altre volte i film mostrano come le colpe siano sì umane ma riconducibili alla sete di potere ed alla ricerca del profitto ad ogni costo di quanti, per raggiungere i propri scopi, non esitano a distruggere ed uccidere. In questo secondo caso l’accusato, più che l’intera specie umana, è specificatamente l’essere umano che fa dello sfruttamento nei confronti dei suoi simili e dell’intero universo la propria ragione di vita.

Ricorrendo al saggio di Maxime Coulombe, Piccola filosofia dello zombie. O come riflettere attraverso l’orrore (Minesis, 2014), abiamo analizzato [su Carmilla], attraverso la metafora dello zombie, le pulsioni autodistruttive dell’essere umano incapace di sognare un mondo migliore. In un secondo scritto [su Carmilla] abbiamo fatto riferimento al testo di Roberto Giacomelli, Nemici dell’America, nemici dell’umanità. Il “nemico” nel cinema fantascientifico americano (Sovera Edizioni, 2014) a proposito delle modalità con cui il cinema fantascientifico ha dato immagine ai nemici dell’America. Riprendiamo ora il discorso proprio a partire da questo ultimo volume che, nella sua seconda parte, focalizza l’attenzione sulle figure dell’Umano e dell’Alieno proposte della science fiction statunitense. Occorre ribadire quanto sottolineato nel precedente scritto a proposito dell’impossibilità di essere esaustivi nel passare in rassegna un genere che conta una produzione davvero sterminata. Detto ciò, in tale volume, le denunce delle responsabilità dell’essere umano espresse dalla fantascienza cinematografica vengono analizzate a partire da opere che affrontano le minacce atomiche. Questo filone, secondo l’autore, può dirsi iniziare nei primi anni ’50 con lungometraggi come Il risveglio del dinosauro (The Beast from 20,000 Fathoms, Eugène Lourié, 1953) ed Il continente scomparso (Lost Continent, Sam Newfield, 1951). In entrambi i casi il mostro è prodotto dagli esperimenti nucleari umani. Qualche anno dopo Il mostro del pianeta perduto (Day the World Ended, Roger Corman, 1955) mette in scena l’umanità sopravvissuta alla catastrofe atomica, costretta a fare i conti anche con i suoi effetti a lungo termine. È comunque nella seconda metà degli anni ’50 che proliferano film popolati da “mostri atomici”, come ad esempio il giapponese Godzilla (Gojira, Ishiro Honda, 1954) che apre la strada a numerose produzioni nipponiche ed americane ad esso ispirate.

Nel caso di Assalto alla Terra (Them!, Gordon Douglas, 1954) il terrore è seminato da formiche rese giganti dagli esperimenti statunitensi effettuati in attesa di “fare sul serio” ad Hiroshima e Nagasaki ed il film termina lasciando inquietanti interrogativi circa la nuova era aperta dallo scoppio dell’atomica. Tra i monster movie passati in rassegna dal saggio abbiamo: Tarantola (Tarantula, Jack Arnold, 1955), Il mostro dei mari (It Came from Beneath the Sea, Robert Gordon, 1955), La mantide omicida (The Deadly Mantis, Nathan Juran, 1957), L’assalto dei granchi giganti (Attack of the Crab Monsters, Roger Corman, 1957) ed alcune opere del prolifico Bert I. Gordon, come I giganti invadono la terra (The Amazing Colossal Man, Bert I. Gordon, 1957). In questo ultimo film è un colonnello contaminato da una bomba al plutonio a subire la mutazione che lo trasforma in un gigante, come a dire, suggerisce Giacomelli, che è l’uomo il vero mostro da temere. La massima concentrazione di monster movie si raggiunge nel 1957, poi sarà la volta delle invasioni aliene. «Si parte dunque da una paura generata dalle potenzialità espresse o virtualmente esprimibili dall’armamentario nucleare delle due superpotenze e si giunge al timore per le possibilità di un’invasione sovietica» (p. 66).

Alien-1Al mostro generato da un uso scriteriato della scienza si inizia a preferire una più generalizzata azione negativa dell’uomo sulla natura che, non di rado, pare ribellarsi contro colui che l’ha a lungo violentata. L’essere umano si trova improvvisamente in balia di una natura che, inspiegabilmente, lo attacca, come accade, ad esempio, in Frogs (id., George McCowan, 1972), Long Weekend (id., Colin Eggleston, 1978) e Fase IV – Distruzione Terra (Phase IV, Saul Bass, 1973). Tra i film che si concentrano sulle recenti ansie ecologiche, il volume si sofferma su E venne il giorno (The Happening, M. Night Shyamalan, 2008). In questo caso è direttamente l’uomo ad essere carnefice di se stesso: senza alcun motivo spiegabile le persone si bloccano, divengono apatiche e pongono fine alla propria esistenza. Sul versante della denuncia ecologista viene analizzato il film Isolation – La fattoria del terrore (Isolation, Bill O’Brien, 2005) ove vengono fatti riferimenti alla BSE che, nel mondo reale, ha colpito interi allevamenti di bovini. Anche in questo caso è l’uomo ad aver prodotto il disastro. Epidemie causate dall’essere umano si trovano anche in Dead Meat (id., Conor McMahon, 2005) e The Mad (id., John kalangis, 2007). Nel caso di Mimic (id., Guillermo Del toro, 1997), invece, evidenzia Giacomelli, è la stessa scienza al nobile servizio dell’uomo, nel suo tentativo di debellare malattie, che sfugge di mano e determina la catastrofe. Nel volume non mancano di essere analizzate opere in cui l’uomo risveglia creature preistoriche, come accade in Jurassik Park (id., Steven Spielberg, 1992) ed in diversi altri film.

Uno dei filoni più interessanti riguarda il timore del contagio. Virus ed armi batteriologiche sono presenti in diverse opere cinematografiche, a partire da quello che nel volume è considerato l’antesignano del genere: Satan Bug (The Satan Bug, John Sturges, 1964). In questo film sono ravvisabili alcuni elementi ricorrenti in tanta produzione focalizzata sul contagio: «la paura paranoica per un killer invisibile e […] la mancanza di fiducia verso il governo» (p. 82). Nel caso specifico il nemico «vuole distruggere al fine di evitare la distruzione, punire chi è intenzionato a muovere guerra in un atto di denuncia estrema» (p. 83).
Il contagio torna anche ne L’esercito delle 12 scimmie (12 Monkeys, Terry Gilliam, 1995) ed in Virus letale (Outbreak, William Petersen, 1995). In questo ultimo caso ad essere messi sotto accusa sono gli stessi governanti che, pur avendo a disposizione un antidoto per risolvere le cose, preferiscono nasconderne l’esistenza e conservare il virus e l’antidoto in vista di un loro impiego bellico. La città verrà distrutta all’alba (The Crazies, George A. Romero, 1973), può invece essere indicato come vertice del cinema virologico di denuncia. «Romero attacca la politica, il governo e l’esercito con l’anarchico entusiasmo che ha spesso contraddistinto il suo cinema ed esplicitando il suo disappunto e la sua sfiducia verso chi tiene le redini del Paese» (p. 85). In film come questo le colpe non vengono attribuite genericamente “all’essere umano” od alla malvagità di un qualche megalomane o folle, ma, piuttosto, vengono addebitate in maniera specifica all’establishment. L’opera di Romero ispira numerose pellicole, oltre ad un remake del 2010 ad opera di Brek Eisner.

Giacomelli dedica spazio anche al ruolo svolto dal romanzo I Am Legend (1954) di Richard Matheson nell’ispirare alcuni espliciti adattamenti cinematografici ed una lunga serie di opere. Nel romanzo, realizzato in clima da Guerra Fredda, viene narrato di come il contesto post-atomico abbia talmente trasformato il pianeta che è l’essere umano stesso, nel suo essere divenuto minoritario in mondo popolato da vampiri, ad essere “il diverso”. La prospettiva si è pertanto ribaltata: sono i vampiri a temere l’essere umano ed a comportarsi nei suoi confronti di conseguenza, cioè esattamente come si comporta solitamente l’uomo di fronte ai diversi da sé. Nel saggio vengono segnalati come adattamenti cinematografici del romanzo, con differenziati livelli di aderenza ad esso, i film L’ultimo uomo della terra (The Last Man on the Earth, Sidney Salkow, 1964), 1975: Occhi bianchi sul pianeta Terra (The Omega Man, Boris Segal, 1971) ed Io sono leggenda (I Am Legend, Francis Lawrence, 2007).

Negli ultimi decenni la tematica virologica è stata al centro di un rinnovato interesse e tra i tanti titoli ad essa ispirati il volume indica I figli degli uomini (Children of Men, Alfonso Cuaròn, 2006), Carriers – Contagio letale (Carriers, David e Alex Pastor, 2009) e Blindness – Cecità (Blindness, Fernando Meirelles, 2008). Ne I figli degli uomini, film di produzione anglo-americana, tratto da un romanzo di P.D. James, l’infertilità dilagante tra l’umanità sta condannando l’essere umano alla scomparsa. «Il mondo sembra distrutto dalle guerre e dall’intolleranza, azioni violente di morte e segregazione si abbattono sulle comunità di extracomunitari clandestini, deportati […] in zone flagellate dalle rivolte e immerse nelle macerie di una civiltà che ormai rimane un ricordo […] Il futuro dell’umanità è affidato a un’extracomunitaria ed è garantito da un uomo disilluso e un ex hippie» (p. 93). Da tale pellicola emerge una visione decisamente anti-sistemica che punta il dito verso un sistema politico e sociale non poi così dissimile dal nostro. Restando su pellicole recenti, il libro si sofferma su Contagion (id., Steven Soderbergh, 2011), film in cui l’epidemia ha origine in un allevamento suino; non a caso il film esce pochi anni dopo il dilagare, nel 2009, fuori dallo schermo, della cosiddetta “febbre suina”. In questo lungometraggio le ragioni che determinano il virus restano sconosciute mentre l’interesse della pellicola si concentra da una parte sui tentativi dei potenti di accaparrarsi i vaccini e, dall’altra, su chi, accusando il carattere classista dell’accesso ai farmaci, propone le sue dubbie cure omeopatiche come alternativa all’industria farmaceutica.

Altro filone particolarmente denso di opere è quello delle macchine ribelli all’uomo. Quando nei film di fantascienza si affrontano le macchine, non è difficile finire per parlare di robot e quando ciò accade è quasi d’obbligo riferirsi alle “Tre leggi della robotica” di Isaac Asimov. Nel film Io, Robot (I, Robot, Alex Proyas, 2004) la vicenda narrata prende inizio proprio dall’infrazione della Prima delle tre leggi, visto che un robot ha ucciso un essere umano. Il film focalizza la vicenda attorno al tema della tecnologia nemica dell’uomo aprendo a riflessioni circa la possibilità che la macchina possa trasgredire all’essere umano. Tale questione la si ritrova in numerosissime pellicole, come, ad esempio, Eagle Eye (id., D.J. Caruso, 2008), film in cui un computer progettato per garantire la sicurezza nazionale, eseguendo alla lettera il compito, finisce col prendere di mira i vertici stessi degli Stati Uniti perché su di loro cadono le responsabilità della messa in pericolo del Paese. Non a caso il film esce sul finire del secondo mandato presidenziale di George W. Bush. Celebre precedente di computer che smette di obbedire agli ordini umani lo abbiamo in 2001: Odissea nello spazio (2001: A Space Odyssey, Stanley Kubrick, 1968), film, derivato dal racconto La sentinella (1948) di Arthur C. Clarke, che ispirerà numerose produzioni cinematografiche

giacomelli_nemici_americaMacchine sfuggite all’uomo si trovano anche in Pianeta Rosso (Red Planet, Antony Hoffman, 2000) e Wargames – Giochi di guerra (Wargames, John Badham, 1983) ma è su Blade Runner (id., Ridley Scott, 1982), e relative appendici, ed Il mondo dei replicanti (The Surrogates, Jonathan Mostow, 2009) che il saggio concentra la sua attenzione: dal replicante oppresso che chiede conto al suo creatore/oppressore, all’uomo apatico che vive per procura attraverso suoi sostituti. «Blade Runner e Il mondo dei replicanti rappresentano l’alfa e l’omega di un ideale continuum temporale dedicato ai robot antropomorfi: macchine ostili nel primo caso, utili completamenti dell’uomo nel secondo, che però ne diventano possessori piuttosto che posseduti» (p. 105).
Altre pellicole analizzate dal saggio riguardano la lunga serie inaugurata da Terminator (The Terminator, James Cameron, 1984): «L’intelligenza artificiale che sta alla base di Terminator può essere considerata come la concretizzazione del sogno di tutte le macchine ribelli della fantascienza cinematografica, l’omega della storia dell’uomo sulla Terra che ha portato a compimento i piani diversamente elaborati dai cervelli elettronici di Wargames, Io, Robot e Eagle Eye. Ma a differenza di questi Skynet […] uccide perché vuole farlo, è l’incarnazione del male, la condanna dell’umanità in quanto tale e non per i suoi errori. O meglio, l’errore dell’uomo è programmare una macchina per scopi bellici, dotando così il suo futuro nemico di tutte le armi necessarie a distruggerlo» (pp. 108-109). Tra i film che mettono in scena mondi popolati da robot, non poteva che essere affrontata dallo studioso anche la serie, che conta ormai diverse pellicole, iniziata con RoboCop (id., Paul Verhoeven, 1987).

I robot possono anche essere costruiti per il divertimento degli esserei umani ed, a tal proposito, l’autore inizia inevitabilmente da Il mondo dei robot (Westworld, Michael Crichton, 1973), ove in un parco giochi popolato da robot a cui gli uomini si divertono a dare la caccia, per qualche oscuro guasto, viene a darsi un capovolgimento dei ruoli e l’uomo da cacciatore si trova ad essere preda. In La fabbrica delle mogli (The Stepford Wives, Bryan Forbes, 1975), tratto dal romanzo di Ira Levin del 1972, invece, i robot assoggettati all’essere umano rappresentano il riscatto del maschio nei confronti delle rivendicazioni femministe: a Stepford gli uomini sostituiscono le proprie mogli con robot servizievoli che ne riproducono le fattezze fisiche e non si può non notare come l’acconciatura di queste donne-robot richiami gli anni ’50, un’epoca in cui le donne ancora “sapevano stare al loro posto”. Al film si ispireranno alcune produzioni cinematografiche ed una serie televisiva. Anche i giocattoli sviluppati a partire da tecnologie militari possono sfuggire di mano; è il caso di Evolver (id., Mark Rosman, 1995) e Small Soldiers (id., Joe Dante, 1998).

Tante pellicole fantascientifiche denunciano l’asservimento dell’essere umano alla tecnologia che, creata per essere sfruttata, tende a trasformarsi in sfruttatrice del suo creatore. Nel caso di Matrix (The Matrix, Andy e Larry Wachowski, 2003) e Matrix Revolutions (id., 2003), secondo Giacomelli, si giunge alla summa «del tema delle macchine ribelli, un mondo immaginario in cui l’uomo non solo è schiavo delle macchine, ma rappresenta la loro fonte di nutrimento […] Ma la cosa più inquietante dell’universo creato dai Wachowski è l’illusione: tutti gli uomini, mentre alimentano le macchine con le loro energie, si trovano in uno stato di sospensione mentale e credono di vivere nella normalità quotidiana di un XX secolo ormai passato. La Matrice crea una gigantesca illusione collettiva, un mondo reale per la mente umana ma in verità del tutto artificiale che tiene a bada l’essere umano mentre funge da pasto per le macchine» (p. 116). E tale mondo in cui l’uomo è sfruttato ed è inconsapevole di esserlo, suggerisce lo studioso, è stato prodotto dall’essere umano. Come a dire: l’uomo si guardi da se stesso anziché andare a cercare nemici di comodo.

La figura dell’alieno, si diceva in apertura, è frequentemente utilizzata al fine di proiettare su di essa le caratteristiche meno nobili dell’umanità. Alieno è chi è diverso rispetto all’ambiente od al contesto sociale in cui si viene a trovare. Nella figura dell’alieno abbiamo, in definitiva, “lo straniero” che, anche quando riesce (più o meno volontariamente) ad “integrarsi”, difficilmente può scalare gerarchie sociali: «lo straniero per il sentire comune è principalmente l’alieno ostile, colui che arriva senza aver ricevuto il permesso e mette in atto un’opera di colonizzazione diretta all’annullamento della cultura originaria, alla schiavizzazione mentale e fisica degli autoctoni» (p. 118). Insomma, l’extra-terrestre e l’extra-comunitario, nella percezione comune, hanno diversi punti di contatto.

Nel cinema di fantascienza l’alieno ha frequentemente rappresentato il nemico del momento; spesso giunge sulla terra furtivamente per poi dare il via ad un vero e proprio processo di contaminazione e/o di sostituzione avendo come finalità la conquista. L’invasione degli ultracorpi (Invasion of the Body Snatchers, Don Siegel, 1956) rappresenta un modello ripreso da diversi film, tra questi Terrore dallo spazio profondo (Invasion of the Body Snatchers, Philip Kaufman, 1978) ed Ultracorpi – L’invasione continua (Body Snatchers, Abel Ferrara, 1993). Come i film citati, anche Il terrore della sesta luna (The Puppet Masters, Stuart Orme, 1994), derivato dall’omonimo romanzo del 1951 di Robert A. Heinlein, mostra un’umanità asservita alla minaccia aliena, tematica che torna anche in The Faculty (id., Robert Rodriguez, 1998) in cui è molto evidente la questione dello straniero emarginato che riesce a socializzare soltanto con altri tipi di figure aliene ed in questa situazione «il nemico è tale perché si sente inadatto al luogo che lo ospita» (p. 124). Occorre sottolineare come il film sviluppi anche una riflessone sui pericoli dell’omologazione.

Con La cosa (The Thing, John Carpenter, 1982), film derivato da un racconto di John W. Campbell Jr. del 1948, l’alieno si smaterializza grazie al suo essere in grado di assumere le sembianze degli esseri con cui entra in contatto. «La “cosa” è il simbolo assoluto della paranoia e del conflitto uomo-uomo; assumendo le sembianze degli uomini che popolano la stazione di ricerca, l’alieno diffonde un senso di inaffidabilità su ogni essere vivente che si trova nei paraggi […] L’alieno di Carpenter rappresenta la negazione dell’umanità intesa sia come forma corporea che incarnazione di sentimenti ed emotività. La “cosa” è il mostro che si annida in ogni persona […] è la disgregazione dei rapporti umani» (p 131). Già nei primi anni ’50 il racconto di Campbell è alla base della pellicola La cosa da un altro mondo (The Thing from Another World, Christian Nyby, 1951) mentre, dopo la versione di Carpenter del 1982, viene realizzato il prequel dal medesimo titolo: La cosa (The Thing, Matthijs van Heijningen, 2011). In quest’ultima pellicola l’alieno palesa la sua pericolosità in quanto straniero e, non a caso, con tale smania di evidenziare i propositi minacciosi insiti proprio nel suo essere straniero, il film non può che terminare con l’esaltazione della potenza americana.

Signs (id., M. Night Shyamalan, 2002) ed Altered – Terrore nello spazio profondo (Altered, Eduardo Sanchez, 2006), sono citati dal volume come esempi di invasioni aliene alla conquista della Terra in cui l’ignoto impaurisce e da meta da conquistare diviene minaccia da cui fuggire. «L’umano e l’alieno in Altered si compensano, due facce della stessa medaglia arrugginita in cui l’offesa è l’unica forma di comunicazione possibile tra le due razze» (p. 137). L’obiettivo dell’extraterrestre non è la distruzione dell’essere umano ma la sua resa in schiavitù.

Essi vivono (They Live, John Carpenter, 1988), liberamente ispirato ad un racconto di Ray Nelson, viene considerato da Giacomelli il manifesto della critica all’America degli anni ’80. «Carpenter è fortemente critico verso una società votata all’apparenza e plagiata dai mezzi di comunicazione. Lo stile di vita occidentale è indotto dalle alte sfere della società, dal mondo del consumo, che riesce a controllare i comportamenti delle masse installando gusti e mode […] Chi non può permettersi di seguire le mode è un emarginato, ma allo stesso tempo può conquistare la facoltà di scoprire la verità […] Alieni che fanno del business il personale raggio distruttore di coscienze e che sono minacciati da un semplice operaio […] che nel sacrificio finale riesce a rivelare al mondo intero la vera natura degli impostori, risvegliando le coscienze» (p. 138). La modificazione della realtà e la manipolazione dell’identità rappresentano il filo conduttore di Dark City (id., Alex Proyas, 1998) che mette in scena alieni che si mescolano alla popolazione riscrivendone le storie ed il futuro. Sia nel film di Carpenter che in quello di Proyas non manca chi decide di porre fine al proprio stato di schiavitù.

L’invasione dei mostri verdi (The Day of the Triffids, Steve Sekely, 1963) ed Evolution (id., Ivan Reitman, 2001), vengono presentati dal saggio come esempi di film – il secondo con tono decisamente grottesco – in cui l’eliminazione dell’umanità, presentata come parassita che distrugge la natura, può dare alla Terra una vita migliore. Qualche pagina del volume è inevitabilmente dedicata anche alla serie che si origina dal film Blob – Fluido mortale (The Blob, Irvin S. Yeaworth Jr., 1958), con inevitabile sequel, Beware the Blob! (id., Larry Hagman 1972), ed un remake, Il fluido che uccide (The Blob, Chuck Russell, 1988), in cui viene suggerita la possibilità di un uso bellico dell’organismo extraterrestre.

HRG_252Alien (id., Ridley Scott, 1979) è «uno dei film che ha rivoluzionato la concezione di alieno al cinema trasformando l’essere antropomorfo con intenzioni di conquista in un mostro ferino che uccide come un animale selvatico messo alle strette» (p. 143). Il film del 1979 origina diverse pellicole, tra queste si possono contare, ad oggi, almeno tre sequel ed un prequel del primo lungometraggio. Nella serie inaugurata da Predator (id., John McTierman, 1987), entra in scena una specie aliena che ama cacciare prede in tutto l’universo, uomo compreso. «Il predator presenta un vero e proprio codice comportamentale che lo allontana sostanzialmente dal prototipo dell’alien: non più animale feroce e distruttivo che uccide per istinto, ma un essere senziente che seguire regole ben precise, ha dei sentimenti e un codice guerriero. Da una parte la furia distruttiva e irrazionale, dall’altra la spinta motivazionale e l’intelligenza» (p. 145). Il cinema non ha resistito a mettere a confronto le due specie in Alien vs. Predator (id., Paul W. S. Anderson, 2004) ed inevitabile sequel.

Nel volume sono messe a confronto due pellicole di metà anni ’90 in cui gli extraterrestri vengono presentanti particolarmente spietati e distruttivi: Independence Day (id., Roland Emmerich, 1996), un’apologia della Nazione e dell’americano qualunque in cui gli alieni si mostrano brutali macchine da guerra, e Mars Attacks! (id., Tim Burton, 1996), ove gli invasori appaiono compiaciuti dei disastri che commettono. «Se il film di Burton condivide con quello di Emmerich una razza di alieni tra i più cattivi mai apparsi sul grande schermo, al contrario porta in scena un’umanità gretta e meschina che merita la fine a cui sta andando incontro» (p. 151).

Giacomelli individua tra il 2010 ed il 2013 un periodo assai fertile per la messa in scena sul grande schermo di bellicosi invasori alieni. Se film come Skyline (id., Strause Bros, 2010) e World Invasion (Battle: Los Angeles, Jonathan Liebesman, 2010) non mancano di richiamare i nemici mediorientali, vi sono anche produzioni in cui prevale l’autoironia e la parodia, come Battleship (id., Peter Berg, 2012), od opere ove si danno alleanze tra ex-nemici ora uniti contro il nemico comune, come avviene in Pacific Rim (id., Guillermo Del Toro, 2013), film che, mescolando generi ed immaginari dei due paesi, mostra USA e Giappone fronteggiare, uniti, giganteschi mostri, oppure L’ora nera (The Dark Hour, Chris Gorak, 2011), ove l’alleanza è tra americani e russi.

In alcune pellicole gli alieni si mostrano del tutto pacifici nei confronti dell’essere umano. A tal proposito il saggio cita Incontri ravvicinati del terzo tipo (Close Encounters of the Third Kind, Steven Spielberg, 1977), E.T. – L’extraterrestre (E.T.: The Extra-Terrestrail, Steven Spielberg, 1982) e Cocoon – L’energia dell’universo (Cocoon, Ron Howard, 1985), con relativo sequel. Alieni amici dell’uomo si trovano anche in opere meno recenti, come ad esempio Ultimatum alla Terra (The Day the Earth Stood Still, Robert Wise, 1951), film che denuncia l’assurdità della guerra proprio nel periodo in cui si è da poco concluso il Secondo conflitto mondiale e nell’aria si percepisce la possibilità di un conflitto tra le superpotenze.

Anche la questione dell’integrazione aliena è affrontata dal cinema fantascientifico. Riguardo a ciò Giacomelli indica, ad esempio, Men in Black (id., Barry Sonnenfeld, 1997), con relativi sequel, film che, attraverso un registro da commedia d’azione, mostra «l’alieno impegnato a integrarsi nella società che lo ospita […] Ci sono gli immigrati regolari, lavoratori retti e responsabili, integrati con gli uomini fin da tempo e magari con la possibilità di far carriera. Poi ci sono i criminali, clandestini dediti a traffici illegali, rapine e piani terroristici. Il mondo extraterrestre è costruito sul riflesso di quello terrestre» (pp. 166-167). In tale opera l’alieno ha sembianze umane perché il governo preferisce nascondere agli umani la presenza extraterrestre. In Alien Nation (id., Graham Baker, 1988), altra pellicola che si concentra sulle questioni della tolleranza e del razzismo, si assiste “all’invasione” di profughi alieni in fuga da un regime dittatoriale e, seppure in maggioranza si tratti di “alieni perbene”, non mancano “malintenzionati”. In District 9 (id., Neill Blomkamp, 2009) è di scena l’insofferenza tra umani ed alieni e, anche in questo caso, la narrazione si focalizza sull’intolleranza e la xenofobia. Il film simpatizza per gli alieni che, respinti dai terrestri, sono costretti a prendere atto della mancanza di volontà di integrazione da parte degli esserei umani ed a lasciare la Terra. In Starman (id., John Carpenter, 1984) l’alieno in fuga si sostituisce all’essere umano ma non perché mosso da velleità di conquista, anzi, si rivela la parte migliore di un’umanità gretta e meschina del tutto disinteressata ad approfittare dell’occasione di confrontarsi con “lo straniero”, l’alieno, appunto.

L’umanità messa in scena da molti film di genere fantascientifico si manifesta davvero come una brutta specie ma, al suo interno, megalomani, potenti e sfruttatori appaiono decisamente peggiori degli altri. Visto che alieni ed umani finiscono per essere gli uni la proiezione degli altri, sarebbe il caso di individuare attentamente i  nemici, dentro e fuori dallo schermo.

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Il reale delle/nelle immagini. Forme di resistenza all’onda mediale https://www.carmillaonline.com/2016/03/22/28837/ Tue, 22 Mar 2016 22:45:36 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=28837 di Gioacchino Toni

JLGodardLa resistenza all’onda mediale secondo Andrea Rabbito nei film:

Synecdoche, New York (2008) di Charlie Kaufman, La Vénus à la fourrure (2013) di Roman Polański, Dans la maison (2012) di François Ozon, Adieu au langage (2014) di Jean-Luc Godard e Gone Girl (2014) di David Fincher

Abbiamo visto [su Carmilla] come Andrea Rabbito (L’onda mediale. Le nuove immagini nell’epoca della società visuale, Mimesis, 2015), indichi con finzione terziaria quel tipo di immagini che palesano la propria artificiosità, quando la finzione, la resa di un Oltremondo, risulta dichiarata. [...]]]> di Gioacchino Toni

JLGodardLa resistenza all’onda mediale secondo Andrea Rabbito nei film:

Synecdoche, New York (2008) di Charlie Kaufman, La Vénus à la fourrure (2013) di Roman Polański, Dans la maison (2012) di François Ozon, Adieu au langage (2014) di Jean-Luc Godard e Gone Girl (2014) di David Fincher

Abbiamo visto [su Carmilla] come Andrea Rabbito (L’onda mediale. Le nuove immagini nell’epoca della società visuale, Mimesis, 2015), indichi con finzione terziaria quel tipo di immagini che palesano la propria artificiosità, quando la finzione, la resa di un Oltremondo, risulta dichiarata. Riprendendo gli studi di Edgar Morin (Il cinema o l’uomo immaginario) che indicano nel cinema la presenza di due caratteri, quello della pittura non-realista, votata alla creazione di una propria realtà, e quello della fotografia, volta ad immortalare la realtà esistente, Rabbito segnala come nel caso della finzione terziaria, ciò che si osserva risulti sbilanciato sul versante della pittura non realista.
Nella finzione terziaria di grado minimo la finzione è occultata, nonostante lo spettatore sappia perfettamente di trovarsi di fronte ad una costruzione. Allo spettatore è richiesto di stare al gioco al fine di godersi lo spettacolo; la realtà rappresentata deve essere percepita come vera, come uno specchio della realtà. Fingendo vi sia soltanto il rappresentato senza alcun rappresentante, si struttura uno spettacolo antitetico a quello proposto da Bertold Brecht (Scritti teatrali).
Nel caso di una finzione terziaria di grado intenso, si riprendono alcune finalità tipiche delle rappresentazioni barocche, cioè «spingere a fare proprio il sapere dell’incertezza, di diffidare di ciò che si vede e di stare all’erta sia nei riguardi della realtà sia nei riguardi della finzione. […] Si invita insomma a considerare l’immagine per quella che è, una rappresentazione, e non creare una confusione tra questa e la realtà» (pp. 121-122). Dunque, nel ricorso alla finzione terziaria di grado intenso si intenderebbe: mettere in discussione il linguaggio audiovisivo; ripensare al ruolo del regista e dello spettatore; evidenziare la complessità della realtà mostrata; esplicitare le modalità di messa in rappresentazione della realtà; rendere vigile lo spettatore e farlo riflettere sulle nuove immagini. In tal modo lo spettatore non verrebbe più trascinato in un ruolo passivo ed ipnotico, ma resterebbe vigile e consapevole.

In questo scritto ci si limiterà a prendere in esame la finzione terziaria di grado intenso proposta dal volume di Andrea Rabbito.

Synecdoche, New York (2008) di Charlie KaufmanIn Synecdoche, New York (2008) di Charlie Kaufman, analizzato da Rabbito a partire dagli studi di José Ortega y Gasset (Meditazioni del Chisciotte), in un intrecciarsi di figure retoriche (metafora, sineddoche, metonimia), si narra di come il protagonista, il regista Caden Cotard (Philip Seymour Hoffman), intenda creare uno spettacolo teatrale capace di riproporre il mondo esterno in una sorta di doppio del reale che lo porta a ricreare all’interno di un grande capannone uno spaccato di una zona di New York. «La New York di Cotard diviene così una particolare metafora/sineddoche/metonimia dell’originale New York, nel senso che la prima sostituisce la seconda; il rappresentante, dunque, il doppio, il falso più che rimandare al rappresentato, al vero, crea con questo un forte legame e tende a sostituirlo» (p. 136). Cotard giunge a creare una situazione talmente legata alla realtà che finirà col perdersi in questa con-fusione tra i due mondi.
La duplicazione del reale allestita dal protagonista lo induce anche a trovarsi un alter ego, Sammy Barnathan (Tom Noonan), che lo interpreti trasferendosi nell’appartamento allestito sul set. «Quello che si verifica dunque, con progressiva evidenza, è la dinamica della metafora/sineddoche/metonimia: ovvero il rappresentante, Sammy, nega sempre più la propria realtà per essere sostituito dal personaggio che rappresenta, Cotard; e questi a sua volta si orienta ad una sempre maggiore derealizzazione di se stesso, per sparire nell’irreale da lui creato. E tale derealizzazione avviene con esito così incisivo in quanto non è in gioco un rimando, ma un legame, reso mediante l’eccedere la norma della verosimiglianza. Il riflesso speculare si confonde con il soggetto reale di cui duplica le apparenze, creando una dinamica di reciproca sostituzione dei due enti e profonda confusione fra questi» (pp. 139-140).
Si apre così un gioco di specchi che porta alla creazione di un altro set che, dal suo interno, duplica il primo, così che Sammy possa imitare Cotard. A ciò si aggiunge poi l’idea di aumentare il tutto di un nuovo livello di riproduzione, un terzo spazio in cui continuare questo gioco di duplicazione. Tale proliferazione conduce a quella mise en abyme di cui parla Andrè Gide analizzata da Lucien Dällenbach (Il racconto speculare). «Si palesa come attraverso la mise en abyme si costruisca una rappresentazione mostrando in che modo questa intenda rimandare alla realtà, e come il rappresentato rimandi al rappresentante, mettendo in luce la modalità con cui queste dimensioni “si derealizzano, si neutralizzano” tra loro. E, inoltre, si mostra come la derealizzazione avvenga in maniera particolarmente suggestiva quando vi è una forte somiglianza, la quale […] pone in essere non più un rimando, ma un legame tra rappresentato e rappresentante, fra rappresentazione e realtà; quando infatti fra questi due vi è una forte somiglianza, la finzione più che a rimandare al vero, tende a legarsi in maniera radicale a quest’ultimo fino ad orientarsi a farne le veci e a sostituirlo» (p. 143).
Di fronte ad una tale confusione di piani, lo spettatore è indotto a riflettere a proposto del confine che separa realtà e finzione e di come ogni tipo di rappresentazione crei un dialogo tra reale e simulacro. Quello sviluppato dal film di Kaufman, sostiene Rabbito, è un discorso metalinguistico che, pur riguardando anche le immagini classiche, sembra avere come vero obiettivo le nuove immagini.

La Vénus à la fourrure (2013) di Roman Polański è un film – tratto da una pièce di David Ives che narra delle prove teatrali dell’adattamento di Venere in pelliccia di Leopold von Sacher-Masoch – che mette in scena il rapporto di stampo sadomasochistico tra i due interpreti soffermandosi sulla descrizione dei meccanismi della rappresentazione. Il primo livello di lettura dell’opera è rivolto allo spettatore che intende limitarsi a seguire il contenuto, il secondo livello è invece destinato a chi desideri approfondire la forma mediante la quale il contenuto si offre al pubblico.
A differenza della rappresentazione cinematografica convenzionale che tende a mostrarsi come duplicazione del reale, il film di Polanski «mira invece a decostruire la magia cinematografica, a scardinarla, in quanto mostra i meccanismi mediante i quali la rappresentazione realizza la sua magia» (pp. 149-150). Il cineasta polacco mostra quel significante che solitamente risulta celato nelle opere cinematografiche. Attraverso l’uscita dai personaggi di Wanda e Thomas l’illusione viene continuamente interrotta in modo da indurre lo spettatore a rimanere vigile.

venere pellicciaA partire dalla resa esplicita della finzione si moltiplicano i livelli di realtà ed i personaggi iniziali, Wanda von Dunayev (Emmanuelle Seigner, attrice moglie di Polanski) e Thomas Novachek (Mathieu Amalric, attore somigliante a Polanski) finiscono per rinviare alla coppia Polanski-Seigner generando nello spettatore «la strana sensazione che Polanski e Seigner stiano recitando la parte di Thomas e Wanda, e che questi due, a loro volta, interpretino i ruoli di Wanda Dunayev e Severin Kushemski» (p. 151). Il gioco di specchi continua ed alle «tre dimensioni, a cui rimanda il film, vanno aggiunte quella relativa al Thomas e alla Wanda, non dell’adattamento di Thomas, ma del romanzo di Sacher-Masoch; e in più, viene interpellata anche la dimensione dello stesso von Sacher-Masoch e della scrittrice Fanny Pistor, i quali realmente pattuirono un rapporto di padrone e schiavo dietro la volontà dello scrittore, il quale, in seguito, trasse da questa personale vicenda ispirazione per la sua opera letteraria» (p. 151). Si crea così un inestricabile mise en abyme che spinge lo spettatore a riflettere a proposito dell’illusione del doppio ed a proposito di come risulti difficile distinguere la realtà dalle rappresentazioni.

Il film Dans la maison (2012) di François Ozon narra invece del rapporto tra il professore di letteratura Germain (Fabrice Luchini) e l’allievo Claude Garcia (Ernst Umhauer) che sottopone al docente suoi resoconti del tempo passato presso la famiglia dell’amico Rapha Artole (Bastien Ughetto). Dall’intrecciarsi della tendenza della letteratura e del cinema di duplicare il reale si giunge ad esplicitare come ciò «si leghi al desiderio di ammirare e possedere il mondo esterno. A riguardo il mito di Narciso descrive chiaramente come l’uomo risulti affascinato dalla possibilità sia di visionare la realtà che si apprezza, sia di far proprio tale fenomeno del reale; ed è per questo il simulacro si dimostra, come mette in luce il mito, una perfetta forma che soddisfa tali desideri e che permette di immergersi in esso, e in questo perdersi» (p. 156). Rabbito ricorda a tal proposito come Christian Metz sottolinei come i desideri di vedere ed ascoltare attivati dal cinema si possano considerare “pulsioni sessuali” basate sulla “mancanza”.
Germain, grazie ai racconti di Claude, si introduce all’interno dell’abitazione della famiglia Artole, ma, sostiene Rabbito, il voyeurismo del docente è diverso da quello dello spettatore cinematografico; lo spettatore è di fronte ad un prodotto di finzione mentre Germain spia l’intimità dell’abitazione. «Certo, quello di Germain è proprio un atto di spiare, è vero, ma Ozon ci rende coscienti, a noi spettatori, che ciò che sta leggendo il suo personaggio possa essere un inganno, una costruzione immaginata da Claude. Ed è lo stesso Germain che all’inizio ne è cosciente» (pp. 158-159). Seppur cosciente del possibile inganno operato da Claude attraverso il racconto, il docente non è più in grado di discernere la finzione dalla realtà giungendo così, un po’ alla volta, per essere fagocitato dall’Oltremondo.

Adieu au langage (2014) di Jean-Luc Godard intende svelare l’illusorietà delle nuove immagini ed enfatizzare come, a differenza di quanto accade ai protagonisti dei film precedentemente analizzati di Kaufman, Polanski e Ozon, non si debbano con-fondere i due mondi. Le immagini sono le immagini e la realtà è la realtà, sembra suggerire con forza il lungometraggio del cineasta francese.
In Adieu au langage, suggerisce Rabbito, non abbiamo un protagonista che cade vittima della proliferazione dei duplicati di realtà determinata dal teatro o dalla letteratura, ma i principali protagonisti del film di Godard risultano essere la rappresentazione stessa e lo spettatore.
«Non c’è infatti, nell’opera di Godard, la creazione di una vera e propria storia con un personaggio che si trova coinvolto nelle spire della finzione, ma è lo spettatore stesso che diviene il protagonista ed è lui a dover da un lato fronteggiare senza intermediari il mondo delle nuove immagini e della loro illusione, dall’altro lato confrontarsi con la loro messa in discussione sviluppata dal regista francese» (p. 162).

cinema-rabbito-onda-medialeL’opera di Godard recupera la forma epica brechtiana rivolgendosi ad uno spettatore a cui si richiede la “ratio” e non il “sentimento” e, sostiene Rabbito, attraverso la sua opera, il regista francese «ridimensiona l’onda mediale, interrompe sul nascere la possibilità del sorgere di illusioni da parte del film, e di identificazioni da parte dello spettatore [indirizzandosi] verso quella “funzione sociale” propria del cinema […] Funzione che riconosce come uno dei suoi fini quello non solo di spezzare le illusioni, ma di rendere consapevole il pubblico, attraverso lo svelamento del “gioco” della rappresentazione, di come quest’ultima agisce» (p. 163).
Secondo Rabbito il film di Godard critica quelle immagini che duplicano il reale, che lo uccidono sostituendolo con il suo simulacro. È evidente quanto ciò sia affine alle tesi di Jean Baudrillard (Le strategie fataliIl delitto perfetto) che ha più volte evidenziato come la perfetta duplicazione della realtà comporti l’uccisione del reale. A tutto ciò, sostiene Rabbito, Jean-Luc Godard aggiunge, analogamente a Guy Debord (La società dello spettacolo) che la duplicazione e la sostituzione pregiudicano il funzionamento dei sentimenti dell’uomo, della sua esperienza cosciente o subcosciente. «L’obiettivo […] che si pone Godard, recuperando il pensiero di Brecht, è quello di “rinuncia[re] a creare illusioni” per far “prendere posizioni” allo spettatore e svegliarlo dal suo sonno e dal suo cattivo sogno, e questo permette anche all’autore di instaurare un dialogo costruttivo e stimolante con il proprio pubblico» (p. 174).
Adieu au langage mette dunque «in evidenzia che, con le nuove immagini, […] gli oggetti del reale [e] ciò che crea l’uomo, si confondono fra loro, in una duplicazione in cui il referente reale si perde nel suo doppio, in maniera molto più esaustiva rispetto a quanto riescono le immagini classiche» (p. 175).

Gone Girl (2014) di David Fincher riflette sul ricorso alle nuove immagini come registrazione oggettiva della realtà. Se per mettere in discussione la presentazione della realtà da parte delle nuove immagini, Godard fa ricorso alle modalità epiche brechtiane, Fincher preferisce riprendere i meccanismi barocchi: denuncia le illusioni delle nuove immagini proponendo agli spettatori le stesse illusioni prodotte da tali immagini.
Se nella prima parte del lungometraggio lo spettatore è indotto a condividere con i personaggi del film, influenzati dalle immagini, che il protagonista Nick è colpevole della scomparsa della moglie, nella seconda parte del film si fa strada il dubbio, le deduzioni iniziali risultano superficiali. «Il farci cadere in errore, da parte di Fincher, è una scelta funzionale per far riflettere come la presentazione della nuova immagine possa essere del tutto inattendibile, e sollecita a ripensare come sia una quasi-realtà ciò che viene proposta in immagine e non una realtà, marcando particolarmente il suo essere “quasi”» (p. 182). Se col metodo brechtiano rappresentante e rappresentato vengono differenziati sin dall’inizio enfatizzando lo statuto illusorio, la “via barocca” propone invece una momentanea illusione poi messa in discussione.

Gli esempi riportati da Rabbito hanno mostrato come la capacità delle immagini di presentare la realtà esterna possa essere utilizzata al fine di contrastare questa loro capacità illusionistica. Tra gli ulteriori titoli citati dallo studioso come esempi di opere capaci di far riflettere lo spettatore circa il fatto che le immagini dovrebbero limitarsi ad avere un ruolo di mediazione e non di identificazione con il reale si possono ricordare: Eyes Wide Shut (1999) di Stanley Kubrick, eXistenZ (1999) di David Cronemberg, Being John Malkovich (1999) di Spike Jonze , Mulholland Drive (2001) di David Lynch, Dogville (2003) di Lars von Trier, La mala educacion (2004) di Pedro Almodóvar, Cigarette burns (2005) di John Carpenter, The Wild Blue Yonder (2005) di Werner Herzog, La Science des rêves (2007) di Michel Gondry, Avatar (2009) di James Cameron, Shutter Island (2010) di Martin Scorsese, Inception (2010) di Christopher Nolan, Holy Motors (2012) di Leos Carax, Birdman (2014) di Alejandro González Iñárritu, Youth – La giovinezza (2015) di Paolo Sorrentino. Anche grazie a queste opere, la lotta contro l’illusione di cui parla Edgar Morin (I sette saperi necessari all’educazione del futuro), è aperta.

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