Jack London – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 17 Aug 2025 20:00:38 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 La terra promessa di Sion non è per i Giusti https://www.carmillaonline.com/2025/01/29/la-terra-di-sion-non-e-per-i-giusti/ Wed, 29 Jan 2025 21:00:32 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86567 di Sandro Moiso

“Mi addormentai così, oppresso dal cupo destino che sembrava incombere su di noi. Pensavo a Brigham Young, che nella mia fantasia di bambino aveva assunto le dimensioni di un gigantesco essere malvagio, un diavolo vero e proprio, con tanto di corna e di coda.” (Jack London, Il vagabondo delle stelle – 1915)

I grandi spazi dell’ Ovest americano hanno sempre rappresentato, ancor prima che località geografiche davvero esistenti e concretamente materiali, un luogo dell’immaginario in cui storia e geografia si confondono spesso con la mitologia. Un gigantesco palcoscenico adatto ad ospitare sia la rappresentazione della “grandezza” [...]]]> di Sandro Moiso

“Mi addormentai così, oppresso dal cupo destino che sembrava incombere su di noi. Pensavo a Brigham Young, che nella mia fantasia di bambino aveva assunto le dimensioni di un gigantesco essere malvagio, un diavolo vero e proprio, con tanto di corna e di coda.” (Jack London, Il vagabondo delle stelle – 1915)

I grandi spazi dell’ Ovest americano hanno sempre rappresentato, ancor prima che località geografiche davvero esistenti e concretamente materiali, un luogo dell’immaginario in cui storia e geografia si confondono spesso con la mitologia. Un gigantesco palcoscenico adatto ad ospitare sia la rappresentazione della “grandezza” e la “vitalità” di una nazione bianca, protestante e “libera” quanto quella della sua anima più oscura e il suo volto più feroce, in cui è quasi sempre la morte a trionfare sulla vita. Come nei romanzi di Cormac McCarthy e Larry McMurtry.

Si potrebbero citare decine o, meglio, centinaia di romanzi, film, narrazioni di ogni ordine e grado e una miriade di fumetti usciti fin dall’inizio del XX secolo per dimostrare sia l’una che l’altra ipotesi. A partire da The Great Train Robbery (La grande rapina al treno), un film del 1903, scritto, prodotto e diretto da Edwin S. Porter e considerato una pietra miliare nella storia del cinema in quanto fu il primo ad utilizza una serie di tecniche innovative, come il montaggio incrociato, in cui due scene venivano mostrate in svolgimento simultaneo anche se ambientate in luoghi diversi, e frequenti movimenti della cinepresa e che costituì sia il primo film americano d’azione, di fatto il primo western della storia del cinema, che uno di quelli più popolari fino all’uscita di Nascita di una nazione (The Birth of a Nation) diretto da David W. Griffith.

Quello di Griffith fu immesso nel circuito cinematografico nel 1915 e anche il primo film muto dotato di una completa colonna sonora, ottenendo uno dei maggiori incassi della storia del cinema fino ad allora, ma che, nonostante la perizia della sua realizzazione, fin dalla sua uscita, fu sempre aspramente contestato per i contenuti razzisti verso la popolazione afroamericana, il sostegno al Ku Klux Klan e la sua misoginia.

Da una parte, quindi, il cinema dei banditi del West, pur puniti dalla legge, ma sempre rappresentati come uomini liberi e selvaggi, mentre dall’altra il film fondativo dell’immaginario cinematografico di una nazione dai contorni razzisti e patriarcali. Due narrazioni, due trame apparentemente distanti, ma appartenenti al medesimo luogo mitopoietico di cui si parlava all’inizio.

Poco dopo si sarebbero uniti al genere, oltre a quelli ispirati dalle storie di sceriffi e fuorilegge o dal lavoro dei cow-boys con le mandrie, i film che avrebbero avuto al loro centro lo scontro tra pionieri e nativi americani, questi ultimi rappresentati per molti decenni come i cattivi da combattere ed eliminare. Tesi fortemente presente e virulenta in particolare negli anni della Guerra Fredda, quando la somiglianza tra “uomini rossi” e “rossi” comunisti e, possibilmente, sovietici non aveva certo bisogno di essere sottolineata poiché la sollecitazione era davvero scoperta.

Però, già sul finire degli anni Cinquanta e all’inizio del decennio successivo, due film di John Ford, Sentieri selvaggi (The searchers, 1956) e Il grande sentiero (Cheyenne Autumn, 1964), oltre che Cavalcarono insieme (Two Rode Together, 1961), sempre dello stesso Ford, e Gli inesorabili (The Unforgiven, 1960) di John Huston iniziarono a ribaltare, almeno parzialmente, lo sguardo sul rapporto tra bianchi e nativi e, fatto non secondario, sulla possibilità di convivenza e accettazione nella comunità o nelle famiglie bianche di chi nella tradizione nativa fosse cresciuto, anche se bianco.

Ma, com’è d’uopo per ogni produzione artistica degna di rispetto, sarebbero stati gli anni successivi, infiammati dalle lotte per i diritti civili oppure contro la guerra in Vietnam o, ancora più semplicemente dalla lotta di classe in pieno sviluppo sia negli Stati Uniti che nel resto del mondo, a rimuovere gli ultimi ostacoli alla politicizzazione e radicalizzazione di un genere che aveva costituito uno dei pilasti della settima arte e di Hollywood.

Così alla cinematografia anarchica e ribelle, oltre che ultra-violenta, di Sam Peckimpah con Il mucchio selvaggio (The Wild Bunch, 1969) e Pat Garrett e Billy the Kid (1973), si sarebbero aggiunti i western di Sergio Leone, con tutto il seguito di spaghetti western spesso radicali e inneggianti alla rivoluzione oppure alla lotta contro i potenti trust bancari e ferroviari, e quelli ancora incentrati sullo sterminio dei nativi americani che la “conquista del West” aveva portato con sé.

Furono infatti film come C’era una volta il West (1968) e Giù la testa (1971) dello stesso Leone oppure Quien sabe? (1966) di Damiano Damiani, solo per citarne alcuni, a portare la Rivoluzione fin dentro il genere western, mentre Soldato blu (Soldier Blue, 1970) di Ralph Nelson, Il piccolo grande uomo (Little Big Man, 1970) di Arthur Penn, Ucciderò Willie Kid (Tell Them Willie Boy Is Here, 1969) di Abraham Polonsky e, soprattutto, lo splendido Ulzana’s Raid (Nessuna pietà per Ulzana, 1972) di Robert Aldrich avrebbero contribuito ad una radicale revisione storica del dramma delle tribù dei nativi sterminate e della prolungata persecuzione nei confronti degli stessi.

D’altra parte quelli erano gli anni del Rinascimento indiano, del Red Power e della rivolta di Wounded Knee degli Oglala Lakota, durante i quali, comunque, molti attivisti nativi furono ancora uccisi o imprigionati1.

Tutto questo, però, per giungere a parlare di American Primeval, che chi scrive non ha timore di definire come una delle migliori serie televisive mai realizzate, scritta da Mark L. Smith e diretta da Peter Berg per la piattaforma statunitense Netflix. Una miniserie western (sei puntate) che aggiunge un drammatico riferimento all’attualità pur partendo dalle basi e dalle svolte avvenute nel genere e fin qui anticipate e riassunte.

Ambientata, con estrema precisione storica, nello Utah del 1857, la serie rinvia visualmente alla ricostruzione e all’attenzione per i particolari della vita degli indiani e dei mountain men che già aveva contraddistinto l’opera fino ad ora più famosa di Mark L. Smith come sceneggiatore: Revenant – Redivivo di Alejandro González Iñárritu, del 2015 e interpretato da Leonard Di Caprio. Opera cinematografica che ebbe, però, il difetto di tradire nella sostanza il romanzo dallo stesso titolo di Michael Punke (2002), edito in Italia da Einaudi nel 2014.

Anche questa, se si vuole, è una storia di sopravvivenza in un ambiente estremamente ostile sotto tutti i punti di vista, ma invece di essere basata sulle vicende individuali di un unico personaggio principale, il cacciatore di pellicce Hugh Glass, questa “America primordiale” si trasforma in un’autentica tragedia collettiva che vede coinvolti uomini, donne, bambini, soldati, nativi americani di varie tribù tra loro ostili, uomini delle montagne, coloni e profeti religiosi di una terra promessa soltanto per i fedeli “bianchi”.

Ma, ancor prima di passare all’analisi dei vari aspetti di una serie assolutamente innovativa dal punto di vista assunto per narrare le vicende, vanno qui sottolineate sia la plumbea e magnifica fotografia di Jacque Jouffret, già cameraman per il film Into the wild diretto da Sean Penn nel 2007, di cui ritornano le atmosfere fredde e selvagge legate ad una Natura molro più grande dell’uomo, e l’interpretazione, molto ben calibrata sui personaggi, degli interpreti principali.

Taylor Kitsch è un solitario mountain man, Isaac Reed, cresciuto in una tribù di Shoshone dopo essere stato rapito da bambino, e perseguitato dal ricordo della morte della moglie, appartenente a quella stessa tribù, e del figlio per mano di cacciatori di scalpi bianchi. Mentre Betty Gilpin veste i panni di Sara Holloway-Rowell, in fuga per portare suo figlio Devin dal padre, dopo essere stata accusata per l’omicidio e la rapina del suo ricco e violento marito, e per questo motivo inseguita da una spietata posse di cacciatori di taglie.

Kim Coates interpreta invece Brigham Young, il primo governatore autonominatosi del Territorio dello Utah e il secondo presidente della Chiesa dei Santi degli Ultimi Giorni, dopo la morte del suo fondatore Joseph Smith2.
Shea Whigham riesce invece a dare corpo e volto a Jim Bridger, il fondatore e leader della stazione commerciale di Fort Bridger intorno a cui ruotano i principali interessi di espansione territoriale e politica dei mormoni di Young. Entrambi, Brigham (1801-1877) e Bridger (1804-1881), realmente esistiti.

Saura Lightfoot-Leon una giovane donna mormone, Abish Pratt, moglie più per dovere che per amore o convinzione di Jacob, un credente nella Chiesa dei Santi degli Ultimi Giorni, da cui sarà separata violentemente nel corso di un massacro compiuto da Mormoni e da mercenari della tribù Paiute, ai danni di una carovana di coloni diretta in California, interamente, o quasi, sterminata a Mountain Meadows. Ma che troverà tra gli Shoshone, dopo l’iniziale rifiuto, il proprio destino di donna coraggiosa e ribelle al patriarcato bianco.
Infine, altrimenti l’elenco risulterebbe troppo lungo, Derek Hinkey, nei panni di Piuma Rossa, un guerriero Shoshone, capo del Clan del Lupo, che disprezza e combatte con orgoglio e determinazione gli americani bianchi per la loro aggressione contro il suo popolo e la sua terra.

Nel corso delle sei puntate tutte le contraddizioni e gli orrori che stanno alla base della formazione di un paese che si vorrebbe “grande e felice”, vengono violentemente e spietatamente al pettine. Non c’è carità, non c’è pietà, non c’è altruismo nelle vicende narrate. Per ognuno la prima cosa è sopravvivere, a costo di tradire gli amici oppure i soldati che si comandano, mentre la miseria non è motore di altro che non sia la brutalità o l’efferatezza dei crimini che ne derivano.

Sullo sfondo rimane tangibile la presenza di una guerra civile, una guerra di tutti contro tutti come viene spiegato fin dalla prima puntata, iniziata ben prima delle tradizionali date fornite ancora oggi dai libri di storia e continuata, pressoché ininterrotta, fino ai nostri giorni3. La stessa tenuta dei soldati a cavallo dell’epoca sembra, oggi, già contenere in sé la futura divisione tra Sud e Nord degli Stati Uniti, tra Confederazione e Unione: divisa blu e mantella grigio-azzurra. Così come la disputa tra due ben distinti presidenti: quello dei mormoni e quello ufficialmente in carica.

Ognuno va ad ovest inseguendo un sogno, per cercare fortuna, non importa se a danno di chiunque altro, non importa se “bianco” o “rosso”, ma soprattutto rosso. Il sogno va realizzato. Che si tratti di una città che dovrebbe sorgere sulla pista per l’Oregon a partire da un miserabile posto di scambio per pellicce, merci, rye whiskey, puttane e cacciatori di taglie oppure del Regno dei Santi degli Ultimi Giorni, la terra di Sion voluta dal Signore per i suoi fedeli e i suoi, feroci, profeti.

Ed è proprio il tema dell’occupazione mormone dello Utah a parlare allo spettatore di realtà ben più vicine, come quella della guerra in Palestina e del genocidio perpetrato a Gaza in nome del sionismo più sanguinario. Le premesse sono le stesse: un popolo perseguitato a lungo per la propria fede religiosa ritiene “sacro” e intangibile il diritto di fondare un proprio Stato. Retto da leggi religiose e governato da uomini spietati nella difesa del popolo di Dio, sia che si tratti della religione ebraica che di quella ispirata all’insegnamento di Joseph Smith.

Così, la terra di Sion dovrà essere fondata e difesa ad ogni costo, senza pietà per chiunque non ne accetti i precetti o i comandamenti. Il denaro scorre silenziosamente sotto le vaghe promesse del Regno e, come nel caso di Jim Bridger, può contribuire alla risoluzione di fittizie occasioni di contrasto, create soltanto per alzare il valore della posta in gioco. Soltanto Jack London, in uno dei sogni narrati nel Vagabondo delle stelle4, era stato così spietato e lucido nei confronti degli appartenenti ad una chiesa, quella mormone appunto, che della propria fede avrebbero fatto motivo di esclusione e dominio territoriale nei secoli a venire. Cosa prolungatasi fino ad oggi proprio nello Utah.

E’ giusto ricordare London poiché le vicende di American Primeval prendono spunto proprio dal massacro di Mountain Meadows narrato nelle pagine di Il vagabondo delle stelle che come ricorda, nella nota a cura del traduttore Stefano Manferlotti, l’edizione Adelphi:

L’episodio ricostruito da London è rigorosamente storico. Nel maggio del 1857 una carovana di pionieri che comprendeva centoquarantadue persone lasciò l’Arkansas diretta in California. Giunti nella località di Mountain Meadows, vennero attaccati da un folto gruppo formato da milizie mormoni e indiani. Dopo una prima scaramuccia i mormoni, allora in rotta con il governo del presidente James Buchanan, convinsero i pionieri ad arrendersi, promettendo loro salva la vita. Li sterminarono tutti, risparmiando solo i bambini più piccoli. Dovettero trascorrere vent’anni prima che i fatti fossero ricostruiti con una precisione sufficiente a mandare davanti al plotone di esecuzione John Dee Lee, il capo religioso mormone al quale London fa riferimento5.

Gli unici ad uscire dalle vicende nobili e integri nel loro orgoglio, anche se destinati al massacro, saranno proprio gli Shoshone con la loro sciamana e matriarca Winter Bird, la madre di Piuma Rossa e madre adottiva di Reed. Consci di appartenere ad un mondo ben più vasto di quello ricostruito dall’immaginario dell’avidità bianca e dei suoi precetti religiosi. Un mondo per cui vale la pena di morire in sua difesa e non per appropriarsene, di cui soltanto il capitano Edmund Dellinger, l’ufficiale comandante il distaccamento di cavalleria destinato ad essere distrutto dalla violenza dei mormoni, prenderà pienamente coscienza nelle sue ultime riflessioni notturne.

Un mondo, quello dei nativi, in cui le donne combattono come gli uomini, ferocemente, per la difesa della terra e della tribù e che condurrà anche la giovane Abish ad appartenergli e difenderlo. Fino alla morte.
Un discorso complessivo, quello della serie, in cui la difesa dell’ambiente e la ricostruzione del ruolo della donna in società strutturalmente lontane da quella patriarcale bianca, ben si accompagnano alla critica del colonialismo e del suo prodotto peggiore, quello di carattere messianico che, all’epoca come oggi, non può far altro che alimentare le peggiori violenze e i più oscuri impulsi nelle società che ancora in esso si riconoscono. Accettandone crimini e abusi in nome di un preteso diritto alla difesa di chi è stato perseguitato, in nome di una giustizia superiore che, certamente, per i Giusti non può essere tale.

Ancora una volta quindi, come avrebbe detto Elio Vittorini: «L’America non è più America, non più un mondo nuovo: è tutta la Terra.» Mai come in questo caso.

***

Questo intervento è dedicato, per ragioni che si sperano evidenti, a Leonard Peltier, militante per i diritti dei nativi americani uscito dal carcere il 20 gennaio 2025, dopo quasi cinquant’anni di detenzione per essere stato condannato a due ergastoli per gli incidenti alla riserva indiana di Pine Ridge dove due agenti speciali dell’FBI, Ronald A. Williams e Jack R. Coler, morirono nel 1975 nel corso di una sparatoria.


  1. Si vedano in proposito: A. Mattioli, Tempi di rivolta. Una storia delle lotte indiane negli Stati Uniti, Giulio Einaudi editore, Torino 2024; J. Brand, L’FBI contro l’American Indian Movement. Vita e morte di Anna Mae Aquash, Xenia Edizioni, Milano 1997 oltre ai fondamentali J. V. Deloria, Custer è morto per i vostri peccati. Manifesto indiano, Jaca Book , Milano 1994 (ed. in lingua originale 1969) e S. Steiner, Uomo bianco scomparirai, Jaca Book, Milano 1978.  

  2. Joseph Smith Jr. (1805 – 1844), primo presidente della Chiesa dei santi degli ultimi giorni e predicatore del Libro di Mormon, che fu lui stesso a pubblicare il 26 marzo del 1830 e considerato dai membri della Chiesa da lui stesso fondata un libro rivelato. Il cui titolo deriva da Mormon, un profeta che, secondo il testo stesso, avrebbe compendiato la storia del suo popolo incidendola su tavole d’oro.  

  3. Si veda in proposito: S. Moiso, E il folle mondo viene avanti rotolando. Immagini della Guerra Civile nel sogno americano, in S. Moiso (a cura di), Guerra civile globale. Fratture sociali del Terzo Millennio, Il Galeone Editore, Roma 2021, pp. 287- 329 e, ancora, S. Moiso, Paul Auster e i fantasmi della guerra civile americana 2.0 (qui).  

  4. J. London, Il vagabondo delle stelle, Adelphi, Milano 2005, pp. 131-185.  

  5. J. London, op. cit., p. 185.  

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Which side are you on? https://www.carmillaonline.com/2024/07/23/which-side-are-you-on/ Tue, 23 Jul 2024 20:00:14 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83563 di Sandro Moiso

Mario Maffi, Da che parte state. Narrazioni, conflitti sociali e “sogno americano” 1865-1920, Shake Edizioni, Milano 2024, pp.344, 23 euro

Dicono nella Harlan County Che lì non ci sono neutrali O sei iscritto al sindacato Oppure sei uno scagnozzo di J. H.Blair Oh, lavoratori, come fate a sopportarlo? Oh, ditemi come fate Sarete pidocchiosi crumiri O vi comporterete da uomini? Da che parte state? Da che parte state? (“Which Side Are You On?”, Florence Reece – 1931)

Mario Maffi può essere considerato tra gli studiosi italiani come uno di quelli con la più vasta conoscenza della letteratura [...]]]> di Sandro Moiso

Mario Maffi, Da che parte state. Narrazioni, conflitti sociali e “sogno americano” 1865-1920, Shake Edizioni, Milano 2024, pp.344, 23 euro

Dicono nella Harlan County
Che lì non ci sono neutrali
O sei iscritto al sindacato
Oppure sei uno scagnozzo di J. H.Blair
Oh, lavoratori, come fate a sopportarlo?
Oh, ditemi come fate
Sarete pidocchiosi crumiri
O vi comporterete da uomini?
Da che parte state?
Da che parte state?

(“Which Side Are You On?”, Florence Reece – 1931)

Mario Maffi può essere considerato tra gli studiosi italiani come uno di quelli con la più vasta conoscenza della letteratura e della cultura nordamericana. Conoscenza che, fin dagli anni Settanta, si è sempre accompagnata ad un impegno militante fortemente intriso di marxismo e al tentativo, quasi sempre riuscito, di ricollegare la lettura marxiana della realtà alla capacità di penetrare a fondo in quella che, per i seguaci più ortodossi del filosofo di Treviri, è sempre stata relegata a semplice sovrastruttura dell’attuale modo di produzione.

A dimostrarlo fu proprio l’opera prima, se così si può definire un saggio articolato nella sua prima edizione in due volumi, La cultura underground, pubblicata per la prima volta nel 1972 da Laterza e poi ripresa e rivista ancora successivamente dalla stessa casa editrice (1973 e 1980) e, nel 2009, da Odoya. Opera che, in Italia, fu forse la prima a politicizzare seriamente i differenti aspetti delle culture alternative sorte nell’ambito dei movimenti giovanili e di protesta statunitensi, a partire dalla musica fino al teatro e alla letteratura.

D’altra parte proprio la letteratura nordamericana ha costituito per Mario Maffi il vero e proprio campo di indagine di una vita professionale che si è svolta all’Università statale di Milano dove ha insegnato Cultura e letteratura anglo-americana dal 1975 al 2011. Motivo per cui, tra il gran numero di articoli, prefazioni e libri pubblicati dallo stesso, spesso anche all’estero, vanno certamente ricordati la Storia della letteratura americana pubblicata, insieme a Guido Fink, Franco Minganti e Bianca Tarozzi, da Sansoni editore nel 1991; Mississippi. Il grande fiume: un viaggio alle fonti dell’America (Rizzoli 2004 e il Saggiatore 2009); Americana. Storie e culture degli Stati Uniti dalla A alla Z, con Cinzia Scarpino, Cinzia Schiavini e Sostene Massimo Zangari (il Saggiatore 2021) oltre alle le varie indagini condotte sulla città di New York e i suoi quartieri differentemente caratterizzati sia dal punto di vista etnico che sociale.

Il motivo di questo interesse per gli Stati Uniti e le loro “culture”, spesso sovrapposte e conflittuali tra di loro alla faccia del tanto declamato melting pot, è stato ben spiegato dall’autore medesimo nell’introduzione ad Americana:

Per quasi quarant’anni, ho cercato di insegnare che cos’è l’«America», da quando nacque nell’immaginario europeo per trasformarsi in territorio di conquista, a quando divenne Stati Uniti d’America – fino a un oggi che la vede in declino. Non so se ci sono riuscito: proprio l’invadenza della sua cultura, riflesso della potenza d’un secolo e più, la rende a volte inafferrabile, indicibile, ostica al contatto che afferra – una sorta di grande Moby Dick in perpetua navigazione sulle rotte oceaniche, la cui cattura può voler dire, al contempo, un drammatico naufragio… Eppure, la frequente, rinnovata sorpresa, colta negli occhi degli studenti nell’arco di quei quasi quarant’anni, mi ha detto che, forse, sì, una percezione più articolata di questa storia, società, cultura, è passata attraversole parole pronunciate – come credo sia passata attraverso le parole scritte nei libri con cui ho cercato di sentire, afferrare e trasmettere ciò che andavo scoprendo dell’«America»1.

L’attuale saggio pubblicato dalle edizioni Shake in realtà costituisce la riedizione di una delle sue opere più importanti, La giungla e il grattacielo (Laterza 1981 e Odoya 2013), che, oltre a una revisione completa del testo con lo spostamento di un capitolo e l’aggiornamento della bibliografia, contiene due ampi capitoli aggiuntivi e uno breve finale che non comparivano né nell’edizione del 1981 né in quella del 2013. E un nuovo titolo tratto da una canzone di lotta che Florence Reece (1900-1986), attivista e moglie di un minatore e organizzatore sindacale, compose nella primavera del 1931, nel corso di un lungo e aspro sciopero nelle miniere di carbone della Harlan County (Kentucky) passato alla storia come “The Harlan County War”, durante il quale lo Stato (nella persona dello sceriffo J. H. Blair) e il padronato ricorsero a ogni mezzo, legale e illegale, per piegare la lotta dei lavoratori: Which Side Are You On? Da che parte state, appunto.

Uno degli autentici inni del proletariato americano ripreso non soltanto durante le lotte, ma anche da interpreti quali Pete Seeger, Billy Bragg, Nathalie Merchant e Ani Di Franco, solo per citarne alcuni. Come spiega lo stesso autore per motivarne l’impiego come nuovo titolo della ricerca:

mi e sembrato infatti che l’ormai celebre verso di Florence Reece fosse ancora più appropriato a un libro che tratta del modo in cui, a fronte di un acuto e incessante conflitto sociale dispiegatosi negli Stati Uniti nei decenni tra la fine della Guerra civile (1865) e il 1920, un congruo numero di scrittori e scrittrici presero posizione da una parte o dall’altra: chi a favore delle lotte proletarie e chi contro, chi con titubanza e chi con decisione, e chi in difesa del sempre risorgente “Sogno Americano”; e lo fecero con un corpus sorprendente di opere, di importanza non secondaria per la scena letteraria statunitense, oltre che per l’evoluzione dei singoli autori e delle singole autrici2.

Oggi, mentre Trump è tornato a sventolare dalla convention repubblicana di Milwaukee, il “sogno americano”, diventa indispensabile ripercorrere il cammino culturale, letterario e soprattutto di lotte, spesso sanguinose e irriducibili, che hanno portato il proletariato americano, soprattutto “bianco”, a diventare parte integrante ma non ancora del tutto integrata di quel sogno. Servito spesso più ad escludere che ad integrare, lungo le linee implacabili del “colore” e della separazione etnica e razziale. E il bel libro di Maffi, riprendendo il discorso fin dalle origini, è un validissimo strumento per comprendere l’evoluzione della presenza del proletariato nella letteratura e nell’immaginario americano.

Ecco allora passare sotto i nostri occhi le opere di scrittori come Stephen Crane, con le sue ragzze di strada e di officina; di Jack London, con i suoi proletari irriducibili e spesso, troppo, un po’ razzisti; di Theodore Dreiser e le sue ricostruzioni della Grande Mela della finanza e dello sfruttamento; di Upton Sinclair con le sue storie della “giungla” dei macelli e delle officine di Chicago; di Sherwood Andersone e dei suoi proletari bianchi del Sud; di John Reed e del suo apprendistato rivoluzionario, poi coronato dall’esperienza della rivoluzione messicana e dai Dieci giorni che sconvolsero il mondo di quella bolscevica. Senza dimenticare sia i muckracker, ovvero i giornalisti e gli scrittori che scavavano nel fango e nella melma degli scandali dell’arricchimento e dello sfruttamento, due facce della stessa medaglia venduta con il sogno, antesignani del giornalismo di inchiesta moderno; sia le dime novel, ovvero i romanzetti popolari a puntate, precursori dell’editoria e della letteratura di massa con tutti i loro miti ed eroi, destinati allo svago ma spesso riflettenti le opinioni di coloro che ne erano i principali lettori e consumatori.

Nelle pagine di Da che parte state è come se il lettore assistesse alla formazione della classe operaia americana all’interno della letteratura statunitense che, anche se inizialmente inesistente come avrebbero lamentato Eleanor Marx ed Edward Aveling nel 1891 in un loro studio sul movimento operaio nordamericano, avrebbe finito invece col costituire lo humus da cui, a partire dagli anni Trenta, si sarebbe poi sviluppata gran parte della migliore letteratura statunitense con autori come John Dos Passos, John Steinbeck, Erskine Caldwell e avrebbe allungato in qualche modo la sua ombra fino alle pagine sui poveri bianchi del Sud che avrebbero caratterizzato le opere di William Faulkner e altri. Magari fino a quella Hillbilly Elegy che è stata l’opera con cui molti americani hanno incontrato per la prima volta l’attuale candidato repubblicano alla vicepresidenza: J. D. Vance.

C’è una componente etnica sullo sfondo della mia storia. Nella nostra società, fondamentalmente ancora razzista, il vocabolario non va quasi mai al di là del colore della pelle: parliamo di «neri», di«asiatici» e di «bianchi privilegiati». A volte queste macro categorie sono utili, ma per comprendere la mia storia personale dovete entrare nei dettagli. Sì, sono bianco, ma non mi identifico di sicuro nei WASP, i bianchi anglosassoni e protestanti del Nordest. Mi identifico invece con i milioni di proletari bianchi di origine irlandese e scozzese che non sono andati all’università. Per questa gente, la pvertà è una tradizione di famiglia: i loro antenati erano braccianti nell’economia schiavista del Sud, poi mezzadri, minatori e, infine, in tempi più recenti meccanici e operai. Gli americani li chiamano hillbilly (buzzurri o montanari), redneck (collirossi o contadini) e white trash (spazzatura bianca). […] Come scriveva un osservatore, «viaggiando in lungo e in largo per gli Stati Uniti, mi sono convinto che gli americani di origine scozzese e irlandese rappresentano la sottocultura regionale più persistente e immodificabile del paese. Mentre in quasi tutte le altre zone la gente si distacca in massa dalla tradizione, le loro strutture famigliari, le loro convinzioni religiose e politiche e la loro vita sociale restano immutate. […] E’ stato lo spostamento dei Grandi Appalachi dal partito democratico al partito repubblicano a ridefinire gli assetti politici dell’America dopo Nixon. Ed è nei Grandi Appalachi che le fortune dei bianchi della classe operaia sembrano particolarmente in declino. Dalla bassa mobilità sociale alla povertà, dalla diffusione dei divorzi alla droga endemica, la mia patria è la terra dell’infelicità3.

Pagine ben lontane, per il loro intrinseco populismo, da quelle delle lotte affrontate a cavallo tra i due secoli e riportate nei testi utilizzati da Maffi; così come queste ultime sono lontane da quelle di Harvey Swados (On the Line, 1957 in Italia Alla catena, Feltrinelli) oppure di Hubert Selby Jr. (Last Exit Brooklyn, 1964, in Italia Ultima fermata Brooklyn, ancora per Feltrinelli) in cui alla sconfitta di classe si accompagna la dolorosa e definitiva presa di coscienza dell’irrealizzabilità del sogno americano.

Ma per non inseguire un discorso che ci porterebbe troppo lontano nella riflessione, torniamo al testo di Maffi e, in particolare, a una delle due nuove parti aggiunte all’edizione attuale: quella intitolata Donne al lavoro e in lotta. Estremamente attuale e ricca di spunti di riflessione, sia sui problemi legati alla classe che a quelli di genere. Soprattutto in un Occidente che sembra, soprattutto con il fenomeno Me Too, averli radicalmente e definitivamente separati.

Tra la fine del XIX secolo e l’inizio del successivo

il conflitto sociale, gli scioperi, lo scontro di classe alimentato dalle ricorrenti crisi economiche di un capitalismo in travolgente e caotica ascesa, conoscono punte acutissime: addirittura di quasi guerra civile, come avviene a più riprese nelle regioni minerarie dell’Ovest. Queste lotte finiscono per coinvolgere intere comunità ruotanti intorno alle fabbriche, alle miniere, ai posti (e avamposti) di lavoro: toccano tutti e tutte, mobilitano interi gruppi familiari, uomini, donne, bambini, anziani, con l’immediata e istintiva solidarietà che si sprigiona da questi eventi. Gli esempi sono numerosissimi: dall’attività clandestina dei Molly Maguires nei pozzi di carbone della Pennsylvania allo sciopero generale e alla Comune di St. Louis del 1877, dalla mobilitazione per le otto ore di lavoro culminata nei “fatti di Haymarket” a Chicago nel 1886 alle autentiche battaglie che negli anni novanta videro protagonisti per l’appunto i minatori dell’Ovest, gli operai delle acciaierie di Homestead in Pennsylvania nel 1892 e quelli della fabbrica di carrozze ferroviarie Pullman di Chicago e poi dell’intera rete ferroviaria nel 1894, la mobilitazione delle camiciaie di New York nel 1909-1910, fino ai grandi scioperi nelle fabbriche tessili di Lawrence nel Massachusetts nel 1912 e nelle seterie di Paterson nel New Jersey nel 1913… gli episodi fra i più importanti, anche dal punto di vista del coinvolgimento in essi di intere comunità e di conseguenza del ruolo decisivo che vi svolsero le donne proletarie4.

Ma, nonostante tutto ciò:

L’ancora scarsa sindacalizzazione femminile, dovuta anche alle posizioni corporative e conservatrici assunte dal maggiore sindacato, l’American Federation of Labor, rese ben più drammatica la condizione proletaria in generale, e quella delle donne proletarie in primis: e sarà solo con la nascita degli Industrial Workers of the World nel 1905, con il loro programma di mobilitazione e organizzazione delle fasce più sfruttate e marginali della manodopera americana, che la situazione comincerà a mutare, aprendosi a una diffusa presenza femminile nella mobilitazione e negli organismi di lotta dei primi due decenni del nuovo secolo5.

Questo non impedirà, però, il formarsi di una letteratura, sospesa tra saggistica e narrativa, che, pur non abbandonando talvolta le strutture della mentalità piccolo borghese di chi contribuiva a crearla, iniziava a porre le donne, soprattutto quelle giovani e immigrate, spesso di origine ebraica, al centro di vicende drammatiche che le vedevano protagoniste dei grandi scontri di classe allora in atto.

L’intento di denuncia compreso in molte delle opere elencate e riassunte da Maffi rivela anche come il realismo dell’epoca, molto vicino al naturalismo di cui Émile Zola era all’epoca maestro in Francia, contribuisse a dar vita a trame in cui elementi romantici e descrizioni ad effetto delle condizioni di vita delle classi meno abbienti finivano col sopravanzare la portata politica del messaggio contenuto in quegli stessi romanzi e novelle, troppo spesso ancora intrisi di una certa moralità borghese.

Ma tale presenza nelle lotte insieme all’attivismo politico e sindacale femminile costituiva una delle grandi novità per il movimento operaio del nascente XX secolo così come, all’altro capo del mondo, le giovani operaie di San Pietroburgo avrebbero dimostrato dando inizio, con il loro sciopero spontaneo del febbraio 1917, a quella che sarebbe poi diventata la Rivoluzione russa.

Una storia oggi rimossa, spesso dallo stesso movimento femminista borghese, timoroso di scoprire come liberazione della donna e della sessualità e lotta di classe siano inscindibilmente legate, come anche gli anni Sessanta e Settante, sia in America che in Europa e nel corso delle lotte di liberazione nazionale, avrebbero ancor dimostrato.

Così la sollevazione delle 30.000 operaie nel Lower East Side di New York avrebbe superato nella realtà le premesse contenute fino ad allora nella letteratura femminile di stampo proletario.

Nel rigido inverno del 1909-10, le operaie addette alla confezione di camicie (per lo più giovanissime immigrate di recente) bloccarono per quattordici settimane uno dei settori chiave nell’industria dell’abbigliamento che, in quegli anni, stava radicalmente trasformandosi per rispondere a un mercato di massa in espansione: il ready-made. Fu uno sciopero agguerrito, fatto di duri picchetti, di ripetuti scontri con la polizia, di raffiche di arresti (seicentocinquantatre) e di pesanti condanne da parte di una magistratura invariabilmente schierata dalla parte del padronato e dello Stato (nell’emettere una sentenza, il famigerato giudice Olmstead ebbe a dichiarare: “Siete scese in sciopero contro Dio e contro la Natura, la cui legge intoccabile è che l’essere umano si procaccia il cibo con il sudore della fronte. Siete scese in sciopero contro Dio”).
Le camiciaie di New York seppero dunque dare vita a un sindacato fino a quel momento osteggiato, e la loro lotta si accompagnò a una grande mobilitazione nel Lower East Side, da cui in massima parte provenivano – preludio ai conflitti degli anni seguenti che videro scendere in piazza piu di 100.000 lavoratori e lavoratrici dell’industria dell’abbigliamento. E la trasformazione dello sciopero di settore in sciopero generale è espressa in maniera appassionata dall’intervento in yiddish della ventitreenne Clara Lemlich all’assemblea del 22 novembre 1909. Dopo avere assistito a due ore di inutili discorsi da parte dei rappresentanti sindacali, la ragazza prese la parola e proclamò: “Sono un’operaia. Una di quelle che sono scese in sciopero contro condizioni intollerabili. Sono stanca di stare a sentire interventi che parlano in termini generali. Noi siamo qui per decidere se scioperare o meno. Propongo una mozione perché venga dichiarato lo sciopero generale – adesso!”.
La sala esplose in un uragano di applausi, seguito a gran voce dal giuramento modellato sul tradizionale giuramento ebraico di fedeltà alla causa: “Se dovessi mai tradire ciò per cui mi batto, che la mia mano possa avvizzire sul braccio che ora levo”. La quasi totalità delle 30.000 operaie scese in lotta nei giorni immediatamente successivi, appoggiata da altri settori del mondo del lavoro newyorkese6.

La vicenda sarebbe stata narrata in poco meno di cento pagine, in The Diary of a Shirtwaist Striker. A Story of the Shirtwaist Makers’ Strike in New York (pubblicato nel 1910 dalla Co-operative Press di New York) sotto forma di un “diario” (dedicato alle “eroine senza nome” di quella lotta clamorosa), che si immagina scritto tra il 23 novembre 1909 e il 23 gennaio 1910 da Mary, un’operaia americana. La vera autrice del “diario” fu, invece, Theresa Serber (1874-1949), nata nei dintorni di Kiev in una famiglia russo-ebrea che giunse negli Stati Uniti nel 1891, andando a vivere e lavorare nel Lower East Side. Dopo aver trovato impiego come mantellaia, Theresa da subito iniziò a occuparsi delle condizioni di vita e lavoro nel settore e per tutta la vita si occupò della condizione femminile e dell’educazione delle donne immigrate, schierandosi contro l’orientamento del femminismo piccolo-borghese; mentre nel 1917, prese apertamente posizione contro l’ingresso in guerra degli Stati Uniti.

Per sole ragioni di spazio occorre, purtroppo, chiudere qui la recensione di un testo che meriterebbe ancora ben altre riflessioni e annotazioni, con la speranza di essere comunque riuscito nell’intento di stimolare l’interesse delle lettrici e dei lettori nei suoi confronti e in quelli del suo autore e delle sue ricerche sulla lotta di classe e la cultura americana


  1. M. Maffi, Introduzione a M. Maffi, C. Scarpino, C. Schiavini e S.M. Zangari, Americana, il Saggiatore, Milano 2021, p. 14.  

  2. M. Maffi, Da che parte state. Narrazioni, conflitti sociali e “sogno americano” 1865-1920, Shake Edizioni, Milano 2024, p. 8.  

  3. J. D Vance, Elegia americana, Garzanti 2020  

  4. M. Maffi, op.cit., p. 230.  

  5. Ibidem, p. 231.  

  6. Ivi, pp. 243-244.  

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Fresco come la rabbia, è amore alla Gkn https://www.carmillaonline.com/2024/02/19/fresco-come-la-rabbia-e-amore-alla-gkn/ Sun, 18 Feb 2024 23:05:30 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81241 di Luca Baiada

Valentina Baronti, La fabbrica dei sogni, Alegre, Roma 2024, pp. 144, euro 12,35, ebook euro 6,99.

Apri e sei a casa. Nella prima pagina c’è una cucina, con un tavolo e un mettitutto. Una volta c’era la madia, ne parlano anche le favole. Adesso ci sono le cucine su misura, prima c’erano i pensili avvitati al muro e prima il mettitutto: un mobile con cassetti, sportelli, un vuoto col ripiano (sì, anche a casa mia c’è un mettitutto). Certi mobili sono tenaci come il letto di Odisseo. In un romanzo di Jack London, La Valle della Luna, una donna [...]]]> di Luca Baiada

Valentina Baronti, La fabbrica dei sogni, Alegre, Roma 2024, pp. 144, euro 12,35, ebook euro 6,99.

Apri e sei a casa. Nella prima pagina c’è una cucina, con un tavolo e un mettitutto. Una volta c’era la madia, ne parlano anche le favole. Adesso ci sono le cucine su misura, prima c’erano i pensili avvitati al muro e prima il mettitutto: un mobile con cassetti, sportelli, un vuoto col ripiano (sì, anche a casa mia c’è un mettitutto). Certi mobili sono tenaci come il letto di Odisseo. In un romanzo di Jack London, La Valle della Luna, una donna ha in eredità dalla madre un cassettone forato da una pallottola indiana, e in un momento forte della storia bacia il foro. La Valle della luna e Il tallone di ferro erano fra le letture della Resistenza, ma adesso sono fuori moda; e pensare che in un racconto di Vasco Pratolini, fra partigiani che parlano di libri, uno fa: «Il tallone di ferro è la Divina Commedia, e che scherziamo?».

Pane, vino e zucchero, in questo libro: il ricordo dei sapori, degli odori. La vita contadina prima dell’industrializzazione. Pane, vino e zucchero è una madeleine dei poveri, come l’odore delle stanze abbandonate, dei fazzoletti piegati nei cassetti, delle lenzuola. Ai partiti della sinistra novecentesca, però, non piaceva l’introspezione. Realismo, ci vuole. Che poi, è un modo per dire che l’anima ce l’hanno solo i padroni e che i proletari hanno i muscoli. Al padrone piace, questo proletario senza l’anima. Ma solo coi muscoli, si progetta poco.

Una delle cose più forti, nell’esperienza della Gkn, è il programma di reindustrializzazione dal basso. Agata se ne accorge. Viene dal mondo contadino, dal campo, però è figlia di operaio e fa l’impiegata; Agata capisce che la salvezza della Gkn è nella modernità. La tecnologia non si ferma, l’idea di piccole patrie arcaiche è assurda e se fosse vera sarebbe autarchia e fascismo. Agata si apre alla vita dopo le manifestazioni, gli scioperi, la vertenza in tribunale, e soprattutto con la fase dei contatti allargati, della socialità diffusa: giuristi, ingegneri, economisti, e poi associazioni e studenti. Un mondo ha pugnalato la Gkn; quindi gli operai, la cittadinanza, il lavoro intellettuale vogliono cambiare quel mondo. Lei si tuffa nella lotta e s’innamora: «Un altro mondo possibile. Non uno slogan utopico, ma realtà cruda, fatta di pelle, sudore, sangue, nervi, orgoglio, storia, visione». E intelligenza, perché stare dalla parte del popolo vuol dire organizzazione.

Organizzarsi contro lo sfruttamento e la negazione. Anche con l’illusione, anche col disincanto. Come in amore. Quello di Agata e Lorenzo è alla Gkn. Lorenzo viene dal Sud ed è andato al Nord. La fabbrica dei sogni non lo dice subito, ma quel Nord è Firenze, perché c’è sempre un altro Nord sopra un Sud, e oggi si dice Nord globale e Sud globale, aree senza più neanche confini fisici. E qui ci sono altre prospettive: incrociate, sovrapposte, cioè reali e irrisolte. A Firenze, prima della Gkn, Lorenzo lavora in una fabbrica di borse, nella stanza delle donne. Si accorge che il padrone mette le mani addosso alle operaie, ma anche che la moglie fa finta di niente perché la ditta rende e il marito la porta in vacanza. È un’altra violenza, di genere, ma resta classista.

Sul rapporto fra economia e ambiente la battaglia della Gkn vuole spezzare i pregiudizi. Per questo, dopo una manifestazione Agata sente un vento «fresco come la rabbia giovane, forte come la lotta operaia». La devastazione del territorio va insieme alla distruzione del lavoro, ma dopo che l’individualismo portato dall’ordine borghese ha tolto ai lavoratori i punti di riferimento, li ha resi soli anche nel privato. Adesso sappiamo, però, che per la difesa dell’ambiente c’è chi si ribella. Li accusano di colpire i beni culturali, ma invece colpiscono le loro immagini: gettano colori innocui o sudiciume, ma non sulle opere d’arte, sui vetri che le proteggono. Un mese fa, per esempio, al Louvre hanno versato zuppa sul vetro della Gioconda, e subito il personale di sorveglianza ha isolato tutta l’area con pannelli scuri: l’importante è nascondere, abbuiare l’immagine. Una curiosa simmetria. Colpiscono l’immagine, non i beni. Gli speculatori, invece, svuotano i beni per appropriarsi del valore d’immagine, per mettere le mani su apparenze o rendite di posizione. Così uno stabilimento può diventare sede di tutt’altro, essere stravolto da una ristrutturazione, mutare in location.

L’immagine, certo, ma come? Il libro non si rifiuta di guardare, anzi. Ha una presa quasi cinematografica e si potrebbe farne un girato, magari con un montaggio sincopato, espressionista. La finestra apre sui campi, si vedono cose a occhi chiusi, dalla fabbrica si vedono il centro commerciale, il cinema eccetera. Agata e Lorenzo quando si incrociano si vedono e non si vedono, ma è lui che la accompagna a guardare dentro la fabbrica; gli sguardi dicono i desideri e li nascondono. È lui, a guardare Firenze dalla torre di San Niccolò, coi compagni lassù. Ed è lei, guardandosi nelle vetrate della Gkn, a vedersi bella perché ha fatto l’impensabile: ha parlato in assemblea, che è proprio il momento in cui tutti ti guardano, e se hai qualche problema a esporti, c’è da morire. Come c’è da tremare, a rivolgersi a Lorenzo per parlargli. Guardare una città, guardarsi, guardare dritto chi si ama, essere guardati. Col rovescio oscuro: la città vetrina, Firenze turistificio, la donna oggetto, la donna guardata male o ignorata se non corrisponde al canone estetico.

E sotto lo sguardo? Sotto c’è la pancia. A Lorenzo, quando lavora in mezzo alle donne, arrivano in pancia le risate delle ragazze. Agata crede di avere troppa pancia. Lorenzo da bambino ha preso un pugno in pancia, da grande il licenziamento è un colpo alla pancia. Qualcosa di profondamente fisico. Fa pensare al nesso evidente fra comportamento alimentare e rapporti sociali: l’oppressione produce alienazione e frustrazione direttamente sui corpi. Forse anche quel detto attribuito a Maria Antonietta – il popolo non ha pane, che mangi brioche – , vero o falso, ha sottotesti da decifrare, a proposito di carnalità nelle relazioni di potere. In Toscana si dice «corpo pieno non crede al digiuno». Insomma, la questione del cibo ci parla direttamente – alla pancia, direi – ed è una tappa obbligata della socialità. E Agata coglie presto una grossa vittoria, alla Gkn, proprio a tavola: riesce a mangiare davanti a lui, mentre di solito voleva mangiare sola.

La narrazione spariglia i capitoli con scritti in seconda persona e con «sogni». Non ci credo, però, che siano sogni. A meno che l’autrice scriva quando dorme; e non dico di più per non sciupare la lettura, che altrimenti non fa pro. Invece propongo una riflessione. Nel secondo Novecento c’erano intellettuali che si chiedevano fra loro: come giustifichi la tua latitanza dalla fabbrica? La domanda adesso ha senso soltanto se alla fabbrica si aggiungono l’allevamento intensivo, l’ufficio, il motorino dei fattorini schiavi dell’algoritmo eccetera. Però sarebbe troppo prevedibile chiedersi come si pone, chi fa narrativa, rispetto alla produzione: nel mondo iperconnesso siamo tutti latitanti e tutti troppo presenti.

La forma narrativa incuriosisce, si presta a implicazioni. La Gkn è una struttura produttiva e può svegliare gli appetiti degli speculatori, specialmente immobiliari. Si sente una somiglianza con gli usi predatori della cultura. Una certa narrativa in circolazione, in Italia, è fatta di scheletri di qualcosa, ossami di morto riconvertiti in centri commerciali, dove ognuno ha la sua vetrina, si mette in posa e dà in cambio l’anima. La fabbrica dei sogni fa il contrario: con una storia d’amore inseparabile dal lavoro, Agata l’anima se la riprende. In più è messa in chiaro una parte del lavoro di scrittura, come se si permettesse a chi legge di cercare qualcosa sul tavolo di chi scrive.

Per la Gkn ha importanza il rapporto con le persone del luogo, con la storia locale, col tessuto umano profondo. È un caso, che questa lotta sia in Toscana? Il dubbio è un terreno minato. Qualsiasi prodotto, basta scriverci sopra «Toscana» e vende di più. La Toscana è stata un perno della civiltà ma sta diventando tristemente un marchio caricaturale. La Toscana fu in prima fila nel fascismo e nell’antifascismo. Toscani furono Michele Della Maggiora, primo fucilato dal tribunale speciale fascista, ed eroi antifascisti assassinati dallo squadrismo, come Spartaco Lavagnini; ma anche il più fanatico dei fascisti giustiziati a Dongo, Alessandro Pavolini, fu toscano, come la sua amante Doris Duranti, diva del regime. Toscani furono il vescovo fascista di San Miniato, Ugo Giubbi, e il priore di Barbiana Lorenzo Milani, che in questo libro si affaccia, e sia benvenuto. Insomma, dico il territorio, che poi non vuol dire nulla; meglio, dico le persone, lo spiritaccio, come quello della nonna di Agata, che ride anche da morta.

Qualcosa mi riguarda. Per dare corpo a una produzione che sia al servizio della società ci vogliono anche i giuristi, e io sono un giurista. Ora, giuristi che si opposero al fascismo ce ne furono, con casi eroici come Giacomo Matteotti. Fra loro c’è Silvio Trentin: è talmente bravo che fa l’assistente universitario già prima della laurea; si sposa, ha davanti un carrierone e una vita comoda; arriva il fascismo: lui lascia la carriera e va all’estero con la giovane famiglia, a fare il contadino e il manovale. Lieto fine?

Cammina, cammina e càmmina… – come si dice fra i toschi – arriviamo al 1992: uno dei figli di Trentin, nato nell’esilio, che si chiama Bruno ed è giurista anche lui, firma gli «accordi di luglio», pietra miliare della disfatta del salario, cominciata molti anni prima. È la rivincita del capitale. Il babbo di Agata dà le dimissioni dalla Cgil e scrive proprio a Bruno Trentin: «Cancellare la scala mobile significa consegnarci di nuovo alla povertà, al ricatto dello stipendio che non basta mai, significa dover dire ai miei figli che tutto quello che ho insegnato loro non esiste più». Allora. Più la produzione è condizionata dalla tecnologia, più ci vogliono regole; ma vatti a fidare di chi quelle regole le scrive, le cambia, le applica, le invoca.

La Gkn ha bisogno dei giuristi, ma il punto resta: cos’hanno da dire gli scrittori a proposito del lavoro intellettuale applicato, quando chi lavora in fabbrica, negli uffici, nella logistica ha bisogno di contratti, organizzazione, garanzie. Il libro non è sui giuristi, ma nessuno è estraneo a questa storia. E poi, via: se la Repubblica è fondata sul lavoro, è sul lavoro che tutti devono misurarsi. A volte il confronto funziona proprio nelle realtà più vivaci ed esposte: a Roma, dieci anni fa, il Teatro Valle occupato è stato un laboratorio, oltre che di spettacolo e politica, anche di diritto, specialmente sui beni comuni. E anche lì si sono incrociate vite, esperienze. Che si fa?

Come si legge in questa storia d’amore e di molto altro, stavolta c’è di mezzo una fabbrica che «illumina la vita e crea speranza».

 

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«Svegliati, amore, è scoppiata la guerra!» https://www.carmillaonline.com/2023/04/05/svegliati-amore-e-scoppiata-la-guerra/ Wed, 05 Apr 2023 20:00:58 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76677 di Sandro Moiso

Alberto Airoldi, SUGAR MOUNTAIN. Il brusco risveglio, Casa editrice Leonida, Reggio Calabria 2022, pp. 198, 18,00 euro

Oh, to live on Sugar Mountain With the barkers and the colored balloons You can’t be twenty on Sugar Mountain Though you’re thinking that you’re leaving there too soon You’re leaving there too soon (Sugar Mountain, Neil Young)

Quello riportato qui, nel titolo, è uno degli incipit più sorprendenti della letteratura italiana degli ultimi anni. Incipit che sarebbe piaciuto sicuramente a Valerio Evangelisti che spesso, molto spesso, lamentava la scarsa attinenza alla realtà [...]]]> di Sandro Moiso

Alberto Airoldi, SUGAR MOUNTAIN. Il brusco risveglio, Casa editrice Leonida, Reggio Calabria 2022, pp. 198, 18,00 euro

Oh, to live on Sugar Mountain
With the barkers and the colored balloons
You can’t be twenty on Sugar Mountain
Though you’re thinking that you’re leaving there too soon
You’re leaving there too soon
(Sugar Mountain, Neil Young)

Quello riportato qui, nel titolo, è uno degli incipit più sorprendenti della letteratura italiana degli ultimi anni. Incipit che sarebbe piaciuto sicuramente a Valerio Evangelisti che spesso, molto spesso, lamentava la scarsa attinenza alla realtà materiale e al suo divenire espressa in tanta produzione letteraria nazionale. Una letteratura che si accontenta il più delle volte di avvitarsi intorno a vicende individuali e famigliari in cui trionfano l’introspezione, il sentimentalismo e la lagna esistenziale.

La quotidianità dei sentimenti trionfa così sulla quotidianità del lavoro, mentre il discorso liberale sui diritti individuali finisce col nascondere le condizioni reali di sopravvivenza collettiva anche là dove facili etichette, post mortem ancor più che postmoderne, promettono riletture attualizzate della working class e del suo mondo. Un panorama letterario prodotto da una generazione che Airoldi, pur a quella appartenendo, mette alla berlina nelle pagine del suo romanzo.

Romanzo che, oltre tutto, ha osato immaginare la guerra, ovvero ciò che era indicibile per i benpensanti, soprattutto di sinistra, fino al febbraio del 2022 (e forse ancora successivamente per un bel po’ di tempo). Soprattutto il brusco risveglio di questi ultimi dopo aver camminato sulla montagna di zucchero amaramente cantata da Neil Young.

Non una guerra locale, liquidabile come operazione di polizia internazionale dall’Occidente oppure come azione di stampo coloniale dal sempre presunto antagonismo della sinistra sedicente radicale, ma “mondiale”. Allargata ad una dimensione planetaria destinata a sconvolgere la vita non soltanto del protagonista delle vicende narrate, Raffaele, e del suo alter ego o doppelgänger (dallo stesso nome, guarda caso) con cui si incontra a metà del romanzo, ma anche dei suoi conoscenti, più o meno amici, e di migliaia o milioni di altre persone.

Una guerra di cui si fatica a riconoscere la causa scatenante e i protagonisti, ma che vede certamente coinvolta l’Italia e il suo governo, qualunque esso sia, gran dispensatore di leggi speciali e misure repressive atte a ridurre qualsiasi forma di contestazione e di lotta. Come afferma l’autore nell’introduzione:

Quando scrissi questo romanzo, tra il 2015 e il 2016, ero convinto che una guerra generalizzata in Europa sarebbe stata un’eventualità sempre più probabile, anche se non nel breve periodo. Non è questa la sede per illustrare le mie considerazioni dell’epoca, comunque ben sintetizzate dal noto adagio di Jean Jaurès: «Il capitalismo porta la guerra come la nuvola porta la tempesta». […]
Il mio intento era quello di utilizzare la narrativa per esplorare le possibili reazioni e conseguenze a livello politico e sociale, non mi interessava descrivere la guerra, che infatti resta sullo sfondo, minacciosa e indefinita. La prima parte del romanzo è classificabile come fantapolitica. A seguito del dissolversi di un’opposizione politica organizzata e alla luce del sole e di un evento tragico, il protagonista si trova a dover stravolgere la sua esistenza e a vivere una vita completamente nuova1.

Nella storia si mescolano, in maniera più che evidente, elementi autobiografici con riflessioni sui comportamenti non tanto dello Stato oppressore quanto di coloro che un tempo avevano immaginato di modificare il mondo senza doversi sporcare troppo le mani. Il riferimento piuttosto esplicito è alla generazione del movimento della Pantera, o almeno a una sua parte, e dei suoi succedanei (per intenderci, dai girotondini a Elly e alle sue “sardine”). Movimento, il primo, di cui hanno fatto parte sia l’autore che il suo alter-ego romanzesco, Raffaele.

Una riflessione che percorre soprattutto la prima parte del libro e che sembra voler sottolineare la fine di sogni mai veramente sognati e che non hanno fatto altro che trasformarsi negli incubi notturni e diurni del protagonista. Che finirà nella lotta e nella Resistenza, dalle caratteristiche mai del tutto esplicitate quasi fino alla fine del libro, sia per la tragedia che lo tocca personalmente, sia per la noia di un ambiente vile, falsamente cinico e, allo stesso tempo, falsamente impegnato sul nulla. Di cui, in più di una pagina, Airoldi esprime una critica ironica, razionale e spietata.

Sugar mountain è un romanzo con marcati riferimenti agli anni Novanta e Duemila, che cerca di fare i conti con le poche esperienze politiche di rilievo di una generazione che non ha mai potuto avere nemmeno l’illusione di cambiare il mondo, ma che forse non ha maturato neppure la consapevolezza di poterlo vedere sprofondare2.

Una generazione che si è risvegliata, forse, solo con l’annuncio della guerra reale, ma talmente addormentata da non saper ancora del tutto che pesci pigliare.

«In guerra… con chi… da quando?»
«L’Europa, l’Unione Europea, ha dichiarato guerra, il parlamento italiano non ha ancora votato, ma lo farà nei prossimi giorni. Stanno già bombardando. Questa volta ci siamo dentro anche noi.»
[…] La televisione, che solo ora riconoscevo in sottofondo, reiterava immagini e notizie inutili. Prendevano tempo, in attesa di direttive superiori. Inviati con l’elmetto cercavano di far credere di avere più notizie dei giornalisti in studio. La versione ufficiale era confezionata sull’imprescindibile necessità di sferrare un attacco preventivo perché il feroce satrapo nord-orientale si stava preparando a sferrare un micidiale colpo contro le difese del mondo libero, forse un bombardamento nucleare tattico che preludeva sicuramente un’invasione. Mesi o secoli dopo, seduto su un’auto che sfrecciava in un deserto africano, mi sarebbe venuto da pensare a lei in quei giorni come a una donna di Pompei che cerca invano di fare capire il pericolo rappresentato dalla fontana di fuoco che domina la città3.

Inizialmente lo Stato sembra permetter le manifestazioni pacifiste di protesta, ma soltanto perché:
«Uno Stato fascista non tollera nemmeno una manifestazione di protesta, uno Stato democratico ne può tollerare diverse, purché non servano a nulla.» (p.16). Anche se sarà solo questione di un attimo, prima che la repressione violenta ferisca, disperda, uccida e costringa alla fuga e alla latitanza chi vuole, o avrebbe voluto, opporsi alla guerra e alle sue conseguenze.

Le schermaglie ai confini dell’Europa si erano trasformate nei primi fronti di guerra, il governo garantiva il suo impegno incondizionato nel mantenimento della pace. Il sottosegretario aveva assicurato che il nostro paese avrebbe fornito armi e mezzi, ma soprattutto un instancabile impegno per una ricomposizione diplomatica. Il ministro, questa volta, si era risparmiato tutta l’abituale fraseologia calcistica, che gli imponeva di parlare sempre di partite impegnative da giocare fino in fondo, di fuorigioco, di difesa, centrocampo e attacco. L’unico partito che fingeva di rappresentare una sedicente opposizione di sinistra, il cartello “Pane, amore e fantasia”, aveva dichiarato che mai e poi mai avrebbe votato per la guerra.
«Una partita a Risiko?» buttò lì Davide.
«Non mi sembra il caso… se quelli di Pane, amore e fantasia hanno detto così, mi sa che avete ragione voi e che la guerra sta per scoppiare veramente…» rispose Paolo, ormai pago dell’ultimo ammazzacaffè. (p. 31)

Poi, sparite le manifestazioni pacifiste, i mercatini “equi e solidali”, i discorsi sui prodotti alimentari a km Zer0, le bandiere multicolori e insignificanti, a trionfare saranno la paura o le scelte individuali. Sviluppando così, all’interno del progredire della vicenda, una sorta di dialogo, a distanza di più di un secolo, con un classico dell’immaginario distopico: Il tallone di ferro di Jack London.

Meglio, però, interrompere qui la narrazione di una storia, comunque, tesa. In qualche modo audace nella scrittura e nella rappresentazione, tutt’altro che incline a concessioni al mondo del mainstream letterario, fosse anche irrorato apparentemente da venature classiste.

Un romanzo sicuramente da leggere per riflettere sul nostro presente, ma anche sul recente passato e sul nostro possibile futuro. Senza sconti e senza concessioni alle illusioni solidali e perbeniste che non servono ad altro che a nascondere una realtà orrenda dietro a una farlocca maschera democratica e progressista.


  1. A. Airoldi, Introduzione dell’Autore in A. Airoldi, SUGAR MOUNTAIN. Il brusco risveglio, Casa editrice Leonida, Reggio Calabria 2022, p.5  

  2. Ibidem., p.6  

  3. Ibid., pp. 13-14  

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Un’Odissea post-apocalittica https://www.carmillaonline.com/2021/12/16/unodissea-post-apocalittica/ Thu, 16 Dec 2021 22:00:22 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=69662 di Paolo Lago

Gianluca Di Dio, La Sublime Costruzione, Voland, Roma, 2021, pp. 209, € 16,00.

Secondo lo studioso omerico Alain Ballabriga, i viaggi di Odisseo si sarebbero spinti ben più a est e ben più a nord di quanto comunemente si creda: ad esempio, l’isola di Circe, Aiaie, secondo questa teoria, sarebbe localizzata in un remoto nord-est, quello della Colchide (l’odierna Crimea). Qui, l’eroe vi sarebbe giunto dopo essersi perduto nel Mediterraneo e poi, proprio nel Mediterraneo sarebbe ritornato una volta accomiatatosi da Circe. Sono comunque svariate le teorie sui presunti luoghi [...]]]> di Paolo Lago

Gianluca Di Dio, La Sublime Costruzione, Voland, Roma, 2021, pp. 209, € 16,00.

Secondo lo studioso omerico Alain Ballabriga, i viaggi di Odisseo si sarebbero spinti ben più a est e ben più a nord di quanto comunemente si creda: ad esempio, l’isola di Circe, Aiaie, secondo questa teoria, sarebbe localizzata in un remoto nord-est, quello della Colchide (l’odierna Crimea). Qui, l’eroe vi sarebbe giunto dopo essersi perduto nel Mediterraneo e poi, proprio nel Mediterraneo sarebbe ritornato una volta accomiatatosi da Circe. Sono comunque svariate le teorie sui presunti luoghi reali identificabili nel viaggio dell’eroe. D’altronde, si è sospettato anche che l’autore dell’Odissea si sia avvalso di un modulo narrativo e cosmologico assai diffuso nel Mediterraneo antico e definito dagli studiosi come «viaggio cosmico», in cui l’eroe di turno è chiamato a dimostrare le sue doti superumane percorrendo i territori più estremi e pericolosi dell’universo1.

Un’allusione al viaggio di Odisseo, ‘riambientato’ in un oscuro nord devastato da una catastrofica guerra, è stata attuata recentemente da Gianluca Di Dio col suo romanzo La Sublime Costruzione. L’allusione è una delle pratiche letterarie che, secondo Gérard Genette, rientrano all’interno della definizione di intertestualità perché essa si configura come «un enunciato la cui piena intelligenza presuppone la percezione di un rapporto con un altro enunciato al quale rinvia necessariamente l’una o l’altra delle sue inflessioni, altrimenti inaccettabile»2. Il viaggio di Odisseo diviene una sorta di macrotema al quale vengono attuate diverse allusioni che prendono corpo sotto le vesti di cinque tappe in cui incorrono i protagonisti del romanzo. Come accennato, nel futuro imprecisato narrato nel libro c’è stata una guerra catastrofica e il protagonista, Andrej Nikto, insieme all’amico Årvo Kettula, dalla sua devastata cittadina intraprende un lungo viaggio nella notte nordica a bordo di una gigantesca corriera bianca che conduce le persone verso una specie di fantomatico cantiere, dove si sta costruendo la «Sublime Costruzione» nel quale tutti potranno trovare un lavoro adatto a loro. Del resto, come avverte l’autore sotto la voce dell’io narrante Andrej, si tratta di una storia «simbolica, farneticante, totalmente esagerata». La ripresa del viaggio odisseico assume perciò tonalità simboliche che vanno a rappresentare «una storia comune, che non si distingue tra passato e futuro, una storia che ogni volta si distrugge per poi riaccadere di nuovo».

Il viaggio di Odisseo si trasforma nella peregrinazione post-apocalittica di Andrej e compagni, rappresentati quasi come dei migranti in fuga dal loro paese devastato dalla povertà e dalla guerra, nonché segnato da catastrofi ambientali provocate dalla stessa guerra. Come ci ricorda Marco Malvestio, sono due i modi con cui la fantascienza racconta le possibili catastrofi del futuro: distopia e romanzo post-apocalittico. Se la distopia evidenzia l’eccessivo sviluppo di alcuni tratti negativi di una società (come la sorveglianza di massa o l’inquinamento), il romanzo post-apocalittico «rappresenta la sopravvivenza di individui e/o società umane dopo un evento catastrofico»3. Rifacendosi al critico Heather J. Hicks, Malvestio nota come i tropi narrativi, in questo tipo di romanzi, siano più o meno sempre gli stessi: bande di sopravvissuti che si trovano a percorrere ambienti urbani distrutti circondati da campagne abbandonate mentre tutto intorno si trova una società regredita e imbarbarita, caratterizzata da una violenza estrema4. Lo stesso sfondo narrativo lo ritroviamo, ad esempio, in altri recenti romanzi italiani. Possiamo ricordare Sirene (2007), di Laura Pugno, che racconta un futuro in cui la società degli umani è costretta a vivere al buio e in città subacquee; Bambini bonsai (2007), di Paolo Zanotti, dove però la dimensione di abbrutimento e violenza è rivestita di toni fiabeschi; Qualcosa, là fuori (2016), di Bruno Arpaia, che racconta la migrazione del protagonista, fra violenze e sopraffazioni, in fuga da un’Italia devastata dall’inaridimento del suolo dovuto al cambiamento climatico; Pietra nera (2019), di Alessandro Bertante, in cui il protagonista deve compiere un viaggio dalle tonalità iniziatiche attraverso una Milano imbarbarita e una pianura padana disseminata di bande violente; Quando qui sarà tornato il mare. Storie dal clima che ci attende  (2020), del collettivo Moira Dal Sito, raccolta di racconti a cura di Wu Ming 1 che mostrano una comunità palafitticola nella bassa ferrarese del futuro, ormai inondata dall’acqua, in cui dominano barbarie e violenze ma anche una solida organizzazione comunitaria.

Nel caso de La Sublime Costruzione l’impianto post-apocalittico della narrazione, in virtù dell’allusione a un ipotesto come l’Odissea, subisce un travestimento dai tratti quasi epicizzanti, allontanati in una lontana e irraggiungibile dimensione epica. Rispetto alle altre narrazioni che seguono questi tropi narrativi, quella allestita da Di Dio possiede una marcata impronta onirica e visionaria. Tutto avviene come in un grande sogno all’interno di una notte polare e ghiacciata. La meta finale, quella «Sublime Costruzione» il cui cantiere può offrire lavoro a tutti, assume importanti tratti utopistici. Dopo l’apocalisse, perciò, c’è ancora spazio per l’utopia: un luogo dove finalmente si può ricostruire una vita all’insegna della normalità. Del resto, la presenza di questo cantiere che offre lavoro a tutti, nella città del protagonista, viene pubblicizzata con manifesti e volantini lanciati dai camion di passaggio. La dimensione utopistica di questo luogo potrebbe far pensare al «Teatro naturale di Oklahoma», sulla cui immagine si chiude il romanzo incompiuto e postumo di Franz Kafka, Amerika (1927). Come il cantiere, anche il «Teatro naturale di Oklahoma», un’enorme organizzazione con musicanti, attori, trombettieri, impiegati d’ogni sorta e che può offrire lavoro a tutti assume connotazioni utopistiche in quanto potrebbe rappresentare, per molti immigrati come il protagonista del romanzo, Karl, la realizzazione utopica di libertà all’interno del nuovo mondo americano.

I capitoli relativi alle cinque tappe che rimandano ai momenti narrativi dell’Odissea recano in esergo delle citazioni dal poema con il luogo testuale al quale si riferiscono. Nel capitolo quinto, intitolato Le pescatrici, si allude agli incanti delle sirene, presenti nel canto XII del poema; nel capitolo sesto, I sonnivori, il riferimento è all’episodio odisseico dei Lotofagi, nel cui paese voleva rimanere chi assaggiava il frutto del Loto; il capitolo settimo, I due colossi, riecheggia invece la sosta di Odisseo e compagni presso l’isola dei Ciclopi e l’incontro con Polifemo; il capitolo ottavo, La corruttrice prodiga, il più lungo e articolato, allude all’episodio di Circe; il capitolo nono, infine, riecheggia i momenti del poema in cui Odisseo incontra le anime dei morti nel paese dei Cimmerii.

Non è mia intenzione, qui, rivelare più di tanto sulla trama del romanzo e su come si configurano le trasposizioni in chiave post-apocalittica dei menzionati episodi omerici. Questo toccherà al lettore scoprirlo. Mi interessa, invece, analizzare la struttura del viaggio messo in scena dall’autore, all’interno del quale le tappe di matrice odisseica sono ben funzionali e opportunamente inserite. Lo spostamento, che costituisce il nucleo principale della narrazione, si configura come una vera e propria immersione amniotica in un mondo onirico, cadenzato appunto dal sogno e dal sonno. Non a caso, la gigantesca corriera bianca è un enorme contenitore di sonno e di sogno, dal momento che si configura come un grande dormitorio nel quale i «reclutati» per il lavoro al cantiere trascorrono il tempo sdraiati su una branda. La corriera avanza nella notte gelida e innevata come un vero e proprio essere mostruoso destinato a percorrere inenarrabili distanze disseminate di soste nel silenzio notturno dove, in lande devastate dalla catastrofe, possono celarsi i rischi più inaspettati. Allora, oltre che con il viaggio di Odisseo, si potrebbero scorgere delle consonanze anche con il viaggio di ritorno degli argonauti, nelle Argonautiche di Apollonio Rodio, nei momenti in cui il viaggio degli eroi si dirama su percorsi incerti e sconosciuti, quando «neppure sapevano / se navigavano sopra le acque / o nel regno dei morti» (IV, 1698-1699).

Il paesaggio è caratterizzato da esterni ed interni spogli e abbandonati, lande desolate o colline innevate disseminate di povere abitazioni, mentre le figure umane sembrano i simulacri di un’esistenza ormai incancrenita in un’abitudine all’orrore. Gli uomini e le donne che si trovano sulla corriera sono una sorta di automi che si muovono spinti più dal caso che dalla necessità di sopravvivenza, pronti a rivoltarsi gli uni contro gli altri per qualsiasi futile motivo. Per certi aspetti, la corriera assomiglia al treno che corre incessantemente nel mondo ghiacciato e devastato messo in scena dal film Snowpiercer (2013) di Bong Joon-ho: in esso l’umanità superstite è costretta a vivere secondo una rigida divisione in classi sociali ma dai vagoni dei più poveri partirà ben presto una inarrestabile rivolta. Sulla corriera de La Sublime Costruzione non ci sono poveri e ricchi o, meglio, i viaggiatori sono tutti dei poveri migranti che cercano una qualche possibilità di sopravvivenza dignitosa presso la «Sublime Costruzione». Nella motrice, invece, alloggiano i «reclutatori» (nonché dei «valletti» destinati alle mansioni pratiche), coloro che, per mezzo di un pervasivo controllo, sanno tutto sulla vita e le attitudini dei reclutati. Né mancheranno, come già accennato, delle vere e proprie lotte tra poveri, risse scatenatesi nei dormitori per i più futili motivi.

Il viaggio post-apocalittico affrontato dai personaggi del romanzo si srotola in un paesaggio onirico e lunare, devastato e ghiacciato, abbrutito nella sua totale disumanizzazione, simile a quello attraversato dall’uomo e dal bambino protagonisti de La strada (The Road, 2006) di Cormac McCarthy. Se quest’ultimo romanzo si riallaccia alla tradizione americana del ‘viaggio di formazione’ sulla strada (basti pensare a London e a Kerouac), in esso, come scrive Giuseppe Panella, «il mito sembra arrivato al capolinea e si congiunge con una visione devastata e livida di un mondo ormai giunto alla sua conclusione ‘innaturale’ per effetto di una non ben identificata e descritta epidemia inarrestabile»5. Il colore predominante nel paesaggio del romanzo di Gianluca Di Dio è il bianco: bianchi sono i campi e le strade innevate, bianca è la mostruosa corriera, «tutta completamente bianca». Nella parte finale della narrazione, dopo le innumerevoli peripezie, i protagonisti aspettano un’altra corriera ed essa si distingue da lontano proprio per il suo biancore quasi accecante: «Dal fondo del pendio sorse un rantolo felpato, e intravedemmo una chiazza di bianco luminosa scivolare sulla coltre, cancellata a tratti dai vortici dei fiocchi». Del resto, il Bianco – nota ancora Panella – «può essere ben più allucinante e devastante dell’emergenza della Nerezza»6, basti pensare all’orrorifico bianco accecante con cui si chiude la Storia di Gordon Pym (The Narrative of A. Gordon Pym of Nantucket, 1837) di Edgar Allan Poe.

Nonostante la narrazione de La Sublime Costruzione rappresenti un viaggio simbolico e onirico, in esso è comunque presente la dimensione del corpo e del basso corporeo, in tutti i suoi aspetti, dalla rappresentazione del corpo degradato, piagato dagli stenti e dalla fatica fino all’evocazione della sfera sessuale e alla pressoché costante presenza del cibo e dei suoi scarti. I personaggi, infatti, durante le soste, si ritrovano spesso intorno a fuochi sui quali stanno cuocendo pezzi di carne sanguinolenta e la divorano facendola a brandelli in modo selvaggio. Anche se i corpi, come afferma Andrej Nikto, sono «incarcerati come fossili nel sedimento incoerente del pensiero», essi non perdono mai la loro preponderante dimensione fisica: copulano, si cibano in modo rozzo e disordinato, si colpiscono, si feriscono, sanguinano, sono sottoposti a sforzi fisici enormi. È il corpo a conferire una nota di colore ‘vivo’, quasi ‘carnevalesco’, all’interno dell’indistinto, glaciale sfondo bianco che avvolge la narrazione.

Del resto, il corpo è probabilmente l’unica ricchezza che questi migranti post-apocalittici possiedono come, d’altronde, i reali migranti contemporanei al confine fra Bielorussia e Polonia, imprigionati in un’apocalisse che sta avvenendo sotto i nostri occhi, rimbalzata ogni dove sui media, e di fronte alla quale siamo miseramente impotenti. Corpi di uomini, donne e bambini attanagliati dal freddo glaciale, in un altro apocalittico nord, costretti a viaggi inenarrabili, bloccati, esclusi, indesiderati, fra le macerie della catastrofe capitalistica. Ma la narrazione de La Sublime Costruzione si chiude con un accento di speranza, nell’immagine di una nuova creatura venuta al mondo, anche se si tratta di un mondo post-apocalittico: «fino all’ultimo dovremo apparecchiarci a un interminabile cammino di speranze. In questo viaggio astruso e senza ritorno, forse mostruoso, ma che immancabilmente dischiuderà la vita e la sua immancabile bellezza».

Che alla fine del viaggio ci sia, se non un’Itaca da raggiungere, almeno uno spazio di nuova vita e di nuova resistenza.


  1. Cfr. M. Bettini, C. Franco, Il mito di Circe. Immagini e racconti dalla Grecia a oggi, Einaudi, Torino, 2010, p. 58. 

  2. G. Genette, Palinsesti. La letteratura al secondo grado, trad. it. Einaudi, Torino, 1997, p. 4. 

  3. M. Malvestio, Raccontare la fine del mondo. Fantascienza e Antropocene, Nottetempo, Milano, 2021, p. 20. 

  4. Cfr. ivi, pp. 20-21. 

  5. G. Panella, Il disastro prossimo venturo. Distopia, apocalisse, fantascienza: tra Saramago e Ballard passando per Cormac McCarthy, in N. Turi (a cura di), Ecosistemi letterari. Luoghi e paesaggi nella finzione novecentesca, Firenze University Press, Firenze, 2016, p. 231. 

  6. Ivi, p. 228. 

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Si può vivere solo nel modo più feroce possibile https://www.carmillaonline.com/2021/03/17/si-puo-vivere-solo-nel-modo-piu-feroce-possibile/ Wed, 17 Mar 2021 21:10:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=65293 di Sandro Moiso

Robert Coover, Huck Finn nel West, traduzione di Riccardo Duranti, Enne Enne Editore, Milano 2021, pp. 368, 19 euro

In questo paese si rischia di finire sparati da qualsiasi parte e farsi sparare sul fiume è sempre meglio che farsi sparare nel deserto, poco ma sicuro (Huck Finn)

Chi ama la letteratura americana contemporanea può trovare nei romanzi pubblicati da Enne Enne editore, molto curati e ben tradotti (fatto non più così comune nel nostro paese da diversi anni a questa parte, nonostante la lezione di Cesare Pavese, Elio [...]]]> di Sandro Moiso

Robert Coover, Huck Finn nel West, traduzione di Riccardo Duranti, Enne Enne Editore, Milano 2021, pp. 368, 19 euro

In questo paese si rischia di finire sparati da qualsiasi parte e farsi sparare sul fiume è sempre meglio che farsi sparare nel deserto, poco ma sicuro (Huck Finn)

Chi ama la letteratura americana contemporanea può trovare nei romanzi pubblicati da Enne Enne editore, molto curati e ben tradotti (fatto non più così comune nel nostro paese da diversi anni a questa parte, nonostante la lezione di Cesare Pavese, Elio Vittorini e Fernanda Pivano), sicuramente un ottimo punto di riferimento. Prova ne sia questo romanzo di Robert Coover, tradotto magistralmente da Riccardo Duranti.

Robert Coover (1932), autore di romanzi e racconti, è considerato uno dei padri della letteratura postmoderna statunitense e ha insegnato per più di trent’anni alla Brown University.
Riccardo Duranti che ha avuto il compito, e la capacità, di trasporre in italiano le sue invenzioni linguistiche e letterarie, ha precedentemente tradotto l’opera omnia di Raymond Carver e autori come Cormac McCarthy, Richard Brautigan, Philipo K.Dick e Henry David Thoreau.

Per un romanzo che riprende le vicende del più noto, o dei più noti, tra i personaggi di Twain la traduzione si rivela come uno dei punti di forza, considerato che, per la prima volta, il linguaggio torna ad essere quello desiderato dallo scrittore che aveva preso il proprio nome d’arte dal gergo dei battellieri del Mississippi e che aveva tratto le proprie storie e le parole con cui raccontarle da quelle della Frontiera e della società americana a cavallo tra ‘800 e ‘900. Come afferma lo stesso Duranti:

A parte la narrazione fluida, in cui i piani temporali si sovrappongono e si fondono con continuità, i fantasmagorici effetti cooveriani di questo romanzo sono essenzialmente concentrati nel linguaggio. Coover riprende e porta alle estreme conseguenze l’intuizione di Twain di affidare a narratori improbabili e linguisticamente anomali la testimonianza degli eventi; e a mio parere raggiunge risultati ancor più efficaci dello stesso Twain, amplificando l’azione eversiva del linguaggio ruspante di Huck.
Questa centralità del linguaggio mi ha posto seri problemi di traduzione: nello sforzo di riprodurre, in un contesto linguistico diverso, scarti e deformazioni espressive irrinunciabili, le normali sfide traduttive sono amplificate ed esasperate.
[…] Come in tutti i tentativi di derivazione, non sempre le soluzioni sono all’altezza dell’originale, ma in alcuni casi, con mia grande sorpresa, l’equivalente italiano si è rivelato molto efficace, aggiungendo assonanze allusive più esplicite. Per esempio, il soprannome affibbiato al generale che perseguita Huck, Hard Ass, che diventa Culo Tosto e lo avvicina dal punto di vista fonico all’evidente modello storico del Generale Custer, con cui condivide almeno due nessi. Oppure le riunioni sulla “stragetia” da adottare con i pellirossa che Tom tiene con i suoi sodali e in cui la metatesi rivela più immediatamente in italiano che in inglese le inquietanti intenzioni che le sottendono1.

Coover si misura, in realtà, con un romanzo, Le avventure di Huckleberry Finn (1884), che T.S. Eliot aveva definito un “capolavoro”, in cui «il genio di Twain trova la sua piena realizzazione». A questo giudizio si sarebbe poi aggiunto quello di Ernest Hemingway: «Tutta la letteratura americana viene da un libro di Mark Twain che si intitola Huckleberry Finn… Non c’era niente prima. E non c’è stato niente del genere dopo»2.

Operazione certamente impegnativa quella di riprendere i personaggi di Mark Twain per seguirli nelle avventure successive a quelle originali, senza intaccarne le caratteristiche. Ancor di più se si coglie che Coover li immerge deliberatamente fino al collo nella storia del loro paese per circa un trentennio, sviluppandone le personalità con un realismo ed una credibilità sorprendenti.
Ma ciò ancora non basta: Coover riesce a demistificare e far implodere tutto il “mito americano”, soprattutto quello fondante della Frontiera.

Trent’anni di storia americana condensati nello sgangherato resoconto di Huck con tutte le relative tragedie e “contardizioni” (dalla guerra “sivile” alla corsa all’oro, passando per il genocidio delle tribù native ad opera dei coloni e dei “calvari-legieri”), da cui la retorica del mito patriottico esce decisamente a pezzi. Mentre sono impressionanti, e certamente non casuali, i collegamenti con l’attualità politica contemporanea.

«Gli Stati Uniti rivendicano questo territorio a se stessi per cacciare fuori a calci i pellerossa cannibali e blastemi – che non sono manco del tutto UMANI!» così ha detto. «E d’ora in poi, l’esercito americano proteggerà TUTTI i migranti legali e i minatori! OVUNQUE volete andare!». Tutti si sono messi ad acclamarlo come matti. «Vi assicuro, amici, che non ci saranno più massacri pellerossa né processi somari e manco più linciaggi! Tutto sarà LEGALE e PRO-PROGRESSO, aggiusta regola! La regola AMERICANA! Grassatori, osti-lì e leva-picchetti saranno PERSEGUITATI! Tutto dovrà essere come DOVREBBE essere! Stiamo costruendo la prima nazione perfetta al mondo quaggiù e non c’è nessun maledetto pellerossa che si metterà di traverso, e nemmanco nessun re e nessuna sciocchezza né senti né mentale né quacchera che sia, per non parlare manco dei banchieri forestieri! Costruiremo il paradiso in terra dove tutti saranno RICCHI e nessuno oserà togliervi quello che vi aspetta di diritto ed è VOSTRO! Questo è il nuovo ELDORADO!»3.

La grande promessa americana, sulle labbra dell’amico di sempre, Tom Sawyer, oppure su quelle di Trump o di Biden fa lo stesso, come Make America Great Again nasconde sempre la truffa, la menzogna e la violenza. Sarà l’evidenza dei fatti, e delle stragi di tribù e di animali (soprattutto cavalli) a spingere Huck, coerentemente al suo istintivo pessimismo anarchico, verso una crescente ammirazione per le storie del trickster Coyote, modello ideologico che Huck assorbe da Eeteh, il nuovo e definitivo (?) amico nativo americano, insieme ad un maggior apprezzamento di quello sociale, anche se decisamente imperfetto, dei Sioux Lakota con cui ha vissuto (non sempre felicemente) rispetto a quello “bianco” che si va affermando in tutta la sua crudezza.

In realtà, a trionfare è ancora una volta il desiderio di fuggire; lo stesso che già aveva animato le vicende di Huck nella sua scorribanda sul Grande Fiume (il Mississippi) nel romanzo originale e, successivamente, tutte le grandi fughe della letteratura americana. Da Jack London a Jack Kerouac compresi. Forse causate, anche inconsapevolmente, da ciò che avrebbe scritto in seguito William Burroughs, nel suo Pasto nudo (1959): «L’America non è una terra giovane: era già vecchia, sporca e malvagia prima dei coloni, prima degli indiani. Il male è lì che aspetta».
Qualcosa che si coglie indirettamente nelle parole di un fotografo che dovrebbe documentare le gesta di un Tom Sawyer vestito e descritto come un Buffalo Bill circense

«Ho lo studio lì. Perlopiù facevo foto di morti. Sono famoso per la mia specialità: i ferrotipi di bambini morti. Se sono svelto a beccare i pupi, li sistemo in modo che sembrano ancora vivi. Nello studio ho un sacco di bambole di paglia per mettergliele nei pugnetti. I vecchi sono più facili se li becchi prima che s’irrigidiscono troppo, però non sono altrettanto carini. Ho fatto anche foto di gente viva, ma non vanno molto». Mi ha mostrato una foto che aveva fatto a Tom nel suo costume tutto bianco, con la mano infilata nella camicia, in sella a Tempesta come s’addice a un generale. Si è infilato un sigaro tra le sue ampie labbra, se lo è acceso e ha sorriso. «Lo Strabiliante Tom Sawyer è venuto lì a cercarmi e da allora l’ho seguito dappertutto. Gli faccio le foto dovunque va, mentre combatte i pellirosse, i rapinatori e l’ingiustizia, mentre cerca l’oro e appicca i crinimali, ma soprattutto quando si riposa in sella al suo cavallo col suo cappello bianco e il vestito di pelle di daino. Lui è il Sivilizzatore del West, me l’ha detto lui stesso. Sta facendo un libro famoso su se stesso»4.

Ma l’operazione di Coover è tutt’altro che forzata: l’ironia feroce nei confronti di un sistema violento e ingiusto era già nelle opere di Twain. Nei confronti di un sogno, quello americano della Frontiera, che si era trasformato da subito in un delirio imperialistico che, dopo essersi arricchito con lo sfruttamento degli schiavi neri e lo sterminio dei popoli nativi, alla fine dell’Ottocento stava già rivolgendo le sue armi verso il resto del mondo. Nella sua Autobiografia sono pagine terribili, di sanguinolente denuncia, quelle che dedica alla conquista delle Filippine da parte degli Stati Uniti durante la guerra con la Spagna del 18985.

E anche l’attenzione che Coover dedica all’autentica strage di cavalli, bisonti e altri animali che portò con sé la “conquista del West” deriva direttamente dalle pagine dell’autore a cui si è ispirato. Ad esempio, nell’Autobiografia del cavallo di Buffalo Bill, che è una girandola di invenzioni linguistiche in cui tutte le vicende sono narrate attraverso i dialoghi tra animali parlanti oppure lettere che gli uomini si scrivono tra di loro, quasi che ad avere diritto di parola nel libro siano soltanto gli animali (cavalli, cani, tori) e non gli esseri umani, che quel dono hanno sprecato. E sarà proprio per questo, forse, che due cavalli, interrogandosi sull’aldilà, giungeranno alle seguenti conclusioni: «Quando noi moriamo andiamo in paradiso e viviamo con gli umani?»
«Mio padre pensava di no. Era dell’opinione che non siamo costretti a finire lì a meno che non ce lo siamo meritato»6.

La polemica con la società americana della sua epoca, però, esplode anche in quel caso con la solita cattiveria, usando il parametro dei maltrattamenti degli animali per misurare anche la condizione umana nella Land of Freedom. Ecco come si risolve, ad esempio, un dialogo tra due personaggi del racconto sul destino dei tori durante la corrida:

«Il toro viene sempre ucciso?»
«Sì. A volte si intimidisce, trovandosi in un luogo così strano, e, tremante, rimane fermo, o cerca di ritirarsi. Allora tutti lo disprezzano per la codardia e le gente vuole che sia punito e messo in ridicolo; per cui, da dietro, gli tagliano i garretti, ed è la cosa più divertente del mondo vederlo zoppicare in giro sulle zampe recise; tutto l’anfiteatro scoppia in un uragano di risate; nel vedere una cosa del genere, io stesso risi fino a che le lacrime mi scesero lungo le guance. Dopo essersi esibito fino al massimo in cui gli riesce di farlo, non è più utile ed è ucciso».
«Beh, assolutamente grande, Antonio, perfettamente bello. Arrostire un negro mica lo batte»7.

Molto ci sarebbe ancora da dire su un libro, quello di Coover, che è tanto divertente quanto drammatico e, soprattutto, tanto ben scritto e tradotto, ma almeno un altro motivo di pregio va ancora qui segnalato: quello di aver integrato sapientemente il classico tall tale (racconto o narrazione che “le spara grosse”) della tradizione della letteratura della Frontiera con il recupero dell’oralità, da cui direttamente derivava la prima, della tradizione narrativa degli Indiani d’America. Soprattutto con le avventure del trickster Coyote8, celebrate qui magistralmente nella loro libertà espressiva, erotica e libertaria9.

In un bellissimo testo di Jaime De Angulo10 si afferma che «Le storie di Coyote formano un ciclo regolare, una saga […] Coyote ha una doppia personalità. E’ al tempo stesso il Creatore e il Buffone. L’uomo saggio e il buffone: ecco i due aspetti di Coyote, del Vecchio Uomo Coyote» (p. 89). Frutto di un immaginario altro, in cui la differenziazione tra il bene e il male non sembra avere una grande importanza, le storie di Coyote sembrano fornire l’unica spiegazione possibile per un mondo in cui la ferocia può essere combattuta e vinta soltanto dalla forza vitale e liberatrice della risata.


  1. Riccardo Duranti, Huck Finn pessimista e anarchico in Robert Coover, Huck Finn nel West, Enne Enne editore, Milano 2021, pp. 9-10  

  2. cit. in Norman Mailer, Huck Finn, vivo dopo 100 anni in M.Twain. Le avventure di Huckleberry Finn, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2004, p.VI  

  3. R. Coover, op. cit., pp. 214-215  

  4. R. Coover, op. cit., pp. 249-250  

  5. Mark Twain, Autobiografia (da pubblicare cent’anni dopo la morte secondo la volontà dell’autore), Donzelli, Roma 2014  

  6. Mark Twain, Autobiografia del cavallo di Buffalo Bill, Mattioli 1885, p.88  

  7. M. Twain, op.cit., p.86  

  8. Sulla figura del trickster (briccone) nella tradizione dei popoli nativi dell’America settentrionale si veda: Carl Gustav Jung, Karl Kerény, Paul Radin, Il briccone divino, SE, Milano 2006  

  9. Ma raccolte anche, dalla voce dei nativi, nel magistrale Jaime de Angulo, Racconti indiani, Adelphi, Milano 1973, da troppi anni assente dal mercato editoriale italiano  

  10. Indiani in tuta, Adelphi 1978  

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La peste scarlatta di Jack London https://www.carmillaonline.com/2020/03/13/la-peste-scarlatta-di-jack-london/ Fri, 13 Mar 2020 22:00:44 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=58561 Adelphi Milano 2009, pp 94, € 9

di Pierluigi Sullo

Il Coronavirus sta, tra le altre cose, impedendo la presentazione dei nuovi libri. Ho almeno due amici che ne hanno appena pubblicato uno e si chiedono: e ora? Non resta che parlarne sul web. Dove il tempo ha un altro ritmo. Così, leggere un romanzo di Jack London pubblicato esattamente 108 anni fa risulta bizzarramente attuale, come fosse stato scritto l’altro ieri. Sarà il tema del racconto, a dare questa impressione. Il romanzo, breve, descrive quel che accade al mondo quando si scatena [...]]]> Adelphi Milano 2009, pp 94, € 9

di Pierluigi Sullo

Il Coronavirus sta, tra le altre cose, impedendo la presentazione dei nuovi libri. Ho almeno due amici che ne hanno appena pubblicato uno e si chiedono: e ora? Non resta che parlarne sul web. Dove il tempo ha un altro ritmo. Così, leggere un romanzo di Jack London pubblicato esattamente 108 anni fa risulta bizzarramente attuale, come fosse stato scritto l’altro ieri. Sarà il tema del racconto, a dare questa impressione. Il romanzo, breve, descrive quel che accade al mondo quando si scatena una epidemia, o pandemia, globale.

La capacità di London di immaginare il futuro è stupefacente. Già ne Il tallone di ferro, uscito due anni prima, aveva immaginato che all’inizio degli anni trenta del novecento molte nazioni sarebbero state preda di dittature sanguinarie. E La peste scarlatta precede di sei o sette anni la peggiore epidemia globale che, fin qui, si sia impadronita del pianeta, quella passata alla storia come “spagnola”: tra cinquanta e cento milioni di morti (sui due miliardi dell’umanità di allora).

Leggerlo ora, questo romanzo, fa ovviamente impressione, anche se la “peste scarlatta” è molto diversa dal “coronavirus”. Perché è letale al cento per cento, il corpo si ammala e in pochi minuti la pelle dei malati diventa tutta rossa, e i contagiati muoiono.

Nel 2073, sessanta anni dopo lo sterminio, un vecchio ridotto malissimo cerca di raccontare ai nipoti selvaggi, i piccoli delle tribù create dai pochissimi sopravvissuti misteriosamente immuni al contagio, vestiti di pelli e che allevano capre, cosa sia accaduto in quel tempo ormai lontano. I ragazzi capiscono a malapena la lingua, l’inglese, del vecchio macilento, che era stato un docente universitario a Berkeley. Ora parlano un linguaggio semplificato, che serve solo per le faccende pratiche, mangiare, salvarsi dai lupi, il sesso…

Con fatica, il vecchio spiega che nessuno capì, all’inizio, cosa stava accadendo, finché il contagio non si diffuse così rapidamente che l’industria, le città, l’istruzione, tutto ciò che fa da scheletro della civilizzazione, cominciarono a crollare rapidamente. E tutto si riassunse nel cercare di sottrarsi, di fuggire, perdendo via via umanità e compassione, e chi diventava rosso (forse una metafora? London era socialista) veniva allontanato, addirittura abbattuto. Intanto i sani, almeno coloro che ancora lo erano, si chiudevano, si ritiravano, si armavano: in quattrocento barricati nella facoltà di chimica dell’università, poi in fuga, quando il morbo entrò anche lì, ai piani superiori; fuori sulla strada in colonne di affamati, deboli (e qui il romanzo ricorda o previene La strada di Cormack McCarthy), perdendo sempre più persone, famiglie intere. Finché il docente restò solo e sopravvisse in un bosco, per anni.

Quando ne uscì trovò che i più forti, tra i pochi rimasti, dominavano i deboli. L’aristocratica e bellissima moglie di uno dei Magnati, l’élite che governava il paese al momento dell’epidemia (il potere dell’economia e delle multinazionali, già), veniva trattata come una schiava da un ex autista di autobus volgare e violento, fondatore di una delle nuove tribù, quella degli Autisti.

Una volta Einstein, se non ricordo male, disse una di quelle frasi che finiscono sull’involucro dei cioccolatini: non so come finirà la seconda guerra mondiale, ma so come sarà la terza: si combatterà con bastoni e pietre. Il mondo che London racconta assomiglia a questo ritratto, solo che a far crollare la civiltà in questo caso non è una guerra generale, ma un morbo di origine sconosciuta.

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Il cantore americano del socialismo. Intervista a Tarnel Abbott, pronipote di Jack London https://www.carmillaonline.com/2017/05/15/il-cantore-americano-del-socialismo-intervista-a-tarnel-abbott-pronipote-di-jack-london/ Mon, 15 May 2017 21:30:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=38279 di Fabrizio Rostelli

Tarnel Abbott (1)Il tallone di ferro il prossimo anno compirà 90 anni. Romanzo distopico, scritto da Jack London nel 1908, che predice con lucidità l’avvento del fascismo e al tempo stesso descrive attraverso dialoghi semplici quanto avvincenti i meccanismi della produzione capitalistica. Il sottotitolo del libro potrebbe essere: come spiegare il socialismo e la lotta di classe. Approfittando della mia permanenza degli Stati Uniti e prendendo spunto dall’analisi puntuale di Valerio Evangelisti, recentemente ho intervistato la pronipote di London, Tarnel Abbott, attivista e bibliotecaria in [...]]]> di Fabrizio Rostelli

Tarnel Abbott (1)Il tallone di ferro il prossimo anno compirà 90 anni. Romanzo distopico, scritto da Jack London nel 1908, che predice con lucidità l’avvento del fascismo e al tempo stesso descrive attraverso dialoghi semplici quanto avvincenti i meccanismi della produzione capitalistica. Il sottotitolo del libro potrebbe essere: come spiegare il socialismo e la lotta di classe. Approfittando della mia permanenza degli Stati Uniti e prendendo spunto dall’analisi puntuale di Valerio Evangelisti, recentemente ho intervistato la pronipote di London, Tarnel Abbott, attivista e bibliotecaria in pensione, che recentemente ha curato un adattamento teatrale del romanzo. Abbiamo discusso di socialismo e resistenza, di Nietzsche e Marx e degli esperimenti utopici di London.

Quando hai saputo che il tuo bisnonno era un famoso scrittore?
Direi dai primi ricordi che ho, perché mia nonna parlava spesso di lui e trascorrevamo un bel po’ di tempo a casa di mia nonna. Quando ero molto piccola ricordo che si partecipava a eventi commemorativi come l’inaugurazione della Jack London Square a Oakland o dello State Park a Glen Ellen (California). Ma ho capito quanto fosse famoso solo tempo dopo. L’anno scorso in particolare (centenario della morte – ndr) ho compreso quanto fosse popolare a livello internazionale; è incredibile quanta gente in altri Paesi sia stata influenzata da questa persona.

Qual è il testo di Jack London che ha ispirato di più la tua vita?
Ce ne sono molti. Il popolo degli abissi (opera pubblicata nel 1903 e ispirata all’inchiesta condotta sotto falsa identità da London nell’East End, uno dei quartieri più poveri di Londra – ndr) ha avuto un forte impatto su di me e naturalmente Il tallone di ferro che credo di aver letto due o tre volte prima di capire realmente di cosa parlasse.

Cos’è che rende Il tallone di ferro un testo così attuale e dirompente?
Questo romanzo non solo predice quello che è accaduto negli anni ’20 e ’30 con l’ascesa del fascismo in Europa, ma descrive la situazione attuale con l’ascesa dei super ricchi, quella che London chiama oligarchia. I politologi oggi descrivono il nostro Paese come un’oligarchia dove il potere estremo dei soldi ha preso il sopravvento sulla democrazia e l’ha distrutta e lo stato è diventato una specie di dittatura del capitale. Ci sono degli arcaismi nell’uso del linguaggio ed è difficile comprenderli per noi oggi, ma è una storia classica e al tempo stesso profetica di cose che sono già accadute e di cose che vediamo accadere ora. È spaventoso. London sostiene che quella cosa mostruosa che noi chiamiamo fascismo si sarebbe potuta evitare e questo vale anche oggi. Dal romanzo emerge un messaggio di ribellione, di speranza e di fratellanza: combattere il fascismo e non permettere che ci danneggi.

Durante la Resistenza contro i nazifascisti, i comandanti suggerivano ai partigiani italiani di leggere Il tallone di ferro di London nei momenti di pausa, tra un’azione e l’altra. Lo sapevi?
Non lo sapevo e spero veramente che abbiano avuto la possibilità di leggere la storia fino alla fine così da cogliere il messaggio di speranza e di fratellanza.

Prima di diventare un affermato scrittore, London ha vissuto una serie di esperienze incredibili. Personalmente sono rimasto affascinato dal suo libro di ricordi La strada e dalla sua avventura con la Kelly’s Army (esercito di disoccupati). London è diventato socialista in quel periodo?
Credo abbia iniziato a formare la sua coscienza politica in quel periodo. Forse non sarebbe entrato in contatto con il socialismo se non fosse stato influenzato dagli intellettuali hoboes (vagabondi – ndr) che parlavano con lui dell’idea di socialismo nella storia. Ha imparato sulla strada, ma anche quando è andato nel Klondike (nel 1897 per fare il cercatore d’oro tra Canada e Alaska – ndr) e ha portato con sé alcune opere di Karl Marx per studiarle.

Secondo la testimonianza della figlia Joan, London scrisse Il tallone di ferro dopo la sconfitta della rivoluzione russa del 1905. London inoltre era preoccupato dal moderatismo crescente del Partito socialista americano, al quale era iscritto. Qual è stato il suo rapporto con il Socialist Labor Party e poi con l’American Socialist Party?
Per rispondere a questa domanda mi dovrei documentare meglio, non conosco bene la storia dei due partiti, ma so che alla fine della sua vita ha lasciato il partito perché non era abbastanza radicale per lui e aveva smesso di combattere. London invece credeva che si doveva combattere perché il socialismo non ti viene servito su un piatto, le persone devono combattere per questo. Lo stesso vale per la libertà, non ti viene concessa, devi combattere per ottenerla, te la devi guadagnare, devi lavorare per questo. Insomma, secondo lui il partito era troppo moderato.

Nei suoi testi London esprime chiaramente la sua idea socialista e rivoluzionaria, penso ad esempio ai Favoriti da Mida e a Il sogno di Debs. Perché i critici letterari spesso cercano di ridimensionare questo aspetto?
È complicato. Direi che in questo Paese, a partire dagli anni ’50, durante l’era McCarthy, si è diffusa la “paura rossa” e una propaganda contro qualsiasi cosa fosse di sinistra. Gli accademici poi tendono a essere conservatori, non vogliono assumersi rischi. Certo, ci sono delle eccezioni come ad esempio Jonah Raskin, tuttavia per la maggior parte di loro deve pubblicare per giustificare la propria carriera e concentra l’attenzione su un modo tradizionale di pensare. Molta gente in questo Paese non si interessa assolutamente alla filosofia o alle idee di Marx, non ha un pensiero critico. Sono molto rare le persone che rompono gli schemi, che guardano in profondità ed esplorano. È ironico e triste perché London stesso diceva che c’erano sempre due livelli nelle sue storie, uno superficiale e uno più profondo. Ad esempio nel Richiamo della foresta i critici si concentravano sulle avventure del cane e sullo stile di scrittura naturalistico e pionieristico, mentre ignoravano l’allegoria sociale delle bestie al lavoro che erano oppresse e trattate crudelmente.

London fu presidente dell’Intercollegiate Socialist Society, di cui era segretario Upton Sinclair. Cosa puoi raccontarci in proposito?
È stata fondata per diffondere l’idea del socialismo tra i giovani. London era un oratore eccellente, molto qualificato, carismatico ed era famoso abbastanza per attirare un pubblico vasto. Ha girato le università degli Stati Uniti per un tour elettorale e ha tenuto dei discorsi che sono stati raccolti in un saggio chiamato Revolution. Questo era il suo modo di raggiungere le masse e di influenzarle direttamente attraverso il suo sogno utopico di fratellanza tra gli esseri umani.

La forza dei forti (molto amato da Lenin) fu distribuito come opuscolo, quale mezzo di propaganda, dal sindacato americano degli Industrial Workers of the World. Cosa pensi di questo testo?
È divertente, l’ho letto e riletto. Posso capire perché veniva distribuito in quel modo, è un’analisi sociale più diretta rispetto al Richiamo della foresta. Le persone, tramite questa storia, comprendono come la loro forza si possa moltiplicare rimanendo uniti.

Quando viveva nel Beauty Ranch (La Valle della Luna) London aveva concesso agli operai giornate lavorative di 8 ore e ospitava spesso vagabondi, ma soffriva il fatto di essersi allontanato dal proletariato. È vero che non accettava di essere diventato ricco?
Penso fosse una persona molto complicata. Senza dubbio era lo scrittore vivente più pagato del suo tempo, ma ha speso i suoi soldi tanto velocemente quanto ha impiegato a guadagnarli. Aveva centinaia di progetti in corso, aveva investito nella fattoria e faceva sperimentazioni nella produzione del cibo, era un pioniere in quella che oggi chiameremmo coltivazione biologica e sostenibile. Aveva una visione: creare una piccola utopia socialista nella sua fattoria, voleva ottenere il benessere per i lavoratori, voleva costruire una scuola per i bambini, un ufficio postale, un negozio. Penso anche alla Casa del lupo dove aveva investito molti soldi. Credo che il suo ranch fosse pensato per essere un luogo dove poteva intrattenere hoboes, intellettuali e persone delle più svariate provenienze, un ritiro per artisti e scrittori dove mescolarsi e contaminarsi a vicenda. Nelle sue lettere scriveva che non era un uomo della working class, ma ripensava alla sua infanzia trascorsa in povertà, in un quartiere della working class, nonostante sua madre provenisse da una famiglia benestante. Per questo era a suo agio sia tra le persone ricche che tra quelle molto povere. La maggior parte delle persone non può muoversi tra le classi sociali come ha fatto lui. Credo che questo lo avesse reso un uomo diverso e al tempo stesso lo facesse sentire solo e alienato.

Pensando a questo periodo Martin Eden può essere interpretato come un romanzo autobiografico?
Penso che potremmo dire semi-autobiografico. Sicuramente si era ispirato alle sue ultime esperienze, ma in una lettera aveva scritto che Martin Eden era morto, si era suicidato, perché era un individualista. E London non si sarebbe mai suicidato, perché non era un individualista.

London ha sempre lottato contro l’individualismo, credeva in un superuomo collettivo. Possiamo dire che ha tentato di coniugare Nietzsche e Marx?
Non sono in grado di fare questa analisi perché non ho mai letto Nietzsche. Certamente London credeva nella forza, ma sapeva di essere un anti-individualista. Nella storia del Lupo di mare (1904) Wolf Larsen è una sorta di superuomo, ma guarda cosa gli accade, si ammala, rimane solo e muore. Penso che volesse confrontarsi con la teoria di Nietzsche, ma non credo ci si riconoscesse.

Puoi raccontarci qualcosa dell’adattamento teatrale de Il tallone di ferro che hai curato?
Lo abbiamo portato in scena cinque volte e la prima volta che l’abbiamo fatto eravamo stati invitati a una perfomance teatrale in Turchia ad Ankara. Ci siamo inventati quello che chiamiamo reader theater costituito da uno spettacolo nel quale si fondono arte, musica e maschere teatrali. Io ho adattato la storia, ma è stato molto difficile farlo. Mi hanno aiutato alcuni amici artisti utilizzando una tecnica chiamata “cantastoria”: si racconta la storia leggendo il testo, contemporaneamente ci sono delle illustrazioni su un grande telo di sfondo, dei musicisti e degli attori che indossano delle maschere per rappresentare i diversi personaggi. Abbiamo provato a essere fedeli al testo e per mantenere alto l’interesse abbiamo fatto solo una piccola aggiunta di dialoghi dove nel libro c’è un lungo monologo.

Hai qualche aneddoto familiare sul tuo bis-nonno?
Leggendo le memorie personali di mia nonna ho scoperto molte cose sui genitori di Jack. In particolare ho fatto molte ricerche sulla madre Flora Wellman, che secondo quasi tutti i biografi non amava il figlio e lo aveva persino rifiutato. C’è perfino uno studioso che recentemente in un film francese ha detto che Flora ha provato a suicidarsi pur di non dare alla luce il figlio. Questa è una delle cose più assurde. Non credo che Flora non amasse suo figlio o lo odiasse. La vita di Jack era stata salvata da neonato da una donna nera, una ex schiava che lo ha tenuto con sé probabilmente fino all’età di 2 o 3 anni. Jack è cresciuto in entrambi i contesti, “nero” e “bianco”, e questo ha permesso che non diventasse razzista come molta gente invece lo considera. Penso che il loro rapporto sia stato male interpretato. Flora gli ha scritto una lettera amorevole mentre lui era in viaggio perché era preoccupata e lui le ha scritto una dedica all’interno di un libro in cui dice una cosa del tipo: tu e io abbiamo sempre viaggiato insieme e penso che tra noi sia sempre andato tutto bene. È una frase molto affettuosa e questo credo sia il principale aneddoto di famiglia che ho.

[Una versione ridotta di questa intervista è stata pubblicata sul Manifesto del 18.3.2017]

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Un inno alla Natura (e all’azione diretta) https://www.carmillaonline.com/2015/11/04/un-inno-alla-natura-e-al-sabotaggio/ Wed, 04 Nov 2015 21:01:50 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=26390 di Sandro Moiso

Desertsolitaire Edward Abbey, Desert solitaire. Una stagione nella natura selvaggia, Baldini & Castoldi 2015, pp. 363, € 19,50

Questa non è una guida turistica, è un’elegia. Un memoriale. State stringendo una lapida tra le mani. Una roccia insanguinata. Non lasciatela cadere ai vostri piedi, scagliatela contro un grosso vetro. Che cosa avete da perdere?” Siamo soltanto alle pagine introduttive del testo di Edward Abbey, ma già l’autore ha reso esplicito il programma; non soltanto del suo diario del periodo trascorso come ranger dell’Arches National Monument nello Utah, ma dell’intera sua opera letteraria.

Edward Abbey, nato in Pennsylvania nel [...]]]> di Sandro Moiso

Desertsolitaire Edward Abbey, Desert solitaire. Una stagione nella natura selvaggia, Baldini & Castoldi 2015, pp. 363, € 19,50

Questa non è una guida turistica, è un’elegia. Un memoriale. State stringendo una lapida tra le mani. Una roccia insanguinata. Non lasciatela cadere ai vostri piedi, scagliatela contro un grosso vetro. Che cosa avete da perdere?” Siamo soltanto alle pagine introduttive del testo di Edward Abbey, ma già l’autore ha reso esplicito il programma; non soltanto del suo diario del periodo trascorso come ranger dell’Arches National Monument nello Utah, ma dell’intera sua opera letteraria.

Edward Abbey, nato in Pennsylvania nel 1927 e morto in Arizona nel 1989, appartiene sicuramente alla schiera di scrittori statunitensi che hanno posto al centro della loro letteratura la natura e il rapporto che l’uomo mantiene con essa. Insieme al tema della morte è infatti questo ad aver caratterizzato buona parte della migliore letteratura americana e a differenziarla decisamente dalla cultura europea che ha visto nella natura, dai classici a Baudelaire e a Nietzsche, soltanto qualcosa da superare.

Invece, da Henry David Thoreau a Herman Melville e da Walt Whitman a A.B.Guthrie solo per citarne alcuni, il tema del rapporto, spesso distruttivo, instauratosi tra la nostra specie e l’ambiente circostante costituisce il vero centro narrativo dell’opera letteraria. Valga per tutti il capolavoro che fonda la letteratura nord americana: Moby Dick, in cui distruzione e morte della natura vanno di pari passo con quella dell’uomo.

Abbey, però, scrive il suo Desert Solitaire. A Season in the Wilderness nel 1968 e molte cose sono cambiate rispetto al mondo in cui scrivevano gli autori dell’Ottocento e del primo novecento. Non in meglio, poiché la devastazione dell’ambiente legata allo sfruttamento delle risorse oppure alla crescita delle città e delle metropoli o anche soltanto al turismo si è fatta ormai evidentissima. Ogni promessa del millantato progresso si è dimostrata vana e l’American Way of Life soltanto una menzogne o una trappola per allocchi. Ecco perché la sua scrittura si rivela fin dalle prime opere così radicale.

Autore di romanzi come Fire on the Mountain (1962)1 e The Monkey Wrench Gang (1975),2 ha finito col diventare l’inconsapevole (?) ispiratore di movimenti radicali di difesa dell’ambiente e del territorio come Earth First ed altri, sia in America che in Europa. A differenza, però, di un altro grande cantore della wilderness o natura selvaggia, Jack London, l’ambiente, con la sua geologia, la sua flora, la sua fauna, le su acque e i suoi pericoli, per Abbey non è soltanto qualcosa in cui e con cui l’uomo deve imparare a convivere e sopravvivere.

Per lo scrittore statunitense l’uomo deve riconoscersi parte del tutto e difendere, anche con il sabotaggio più radicale, la natura incontaminata, là dove ancora esiste, dallo sfruttamento capitalistico dei suoli e delle sue ricchezze. Preferendo, piuttosto, alla devastazione incontrollata della wilderness, la distruzione della società dell’ingordigia, dell’abbrutimento e dello sfruttamento di qualsiasi specie, non soltanto della nostra. Non essendo, in fin dei conti, quest’ultima né migliore né più importante delle altre all’interno del grande quadro del cosmo che ci circonda e permea.

Non a caso il punto di partenza, l’osservatorio privilegiato sulla realtà è costituito dalle grandi regioni desertiche che si estendono tra l’Ovest e il Sud Ovest degli Stati Uniti. E non solo perché in quei territori di canyon profondissimi, labirinti geologici e caldo insopportabile il nostro si trovò a svolgere l’attività di ranger per il National Park Service per periodi piuttosto lunghi e in quasi totale solitudine.

Il deserto non dice nulla. Completamente passivo, agìto ma non agente, se ne sta lì come lo scheletro nudo dell’Essere, spoglio, sparso, austero e completamente inutile, invitando non all’amore ma alla contemplazione. Così semplice e ordinato da suggerire classicità; senonché il deserto è un regno oltre l’umano e nella visione classicista solo l’umano è significativo, se non addirittura reale” (pag. 326) Inutile, impensabile per il modo di produzione capitalistico qualcosa che non sia immediatamente utile, e oltre l’umano, totalmente distante da quella cultura umanistica e di stampo prettamente europeo in cui tutto deve essere ridotto all’uomo e alla sua esperienza.

Ho scoperto che non mi opponevo all’umanità in generale, ma alla centralità dell’uomo, all’antropocentrismo, all’idea che il mondo esiste solamente per l’uomo; che non mi opponevo alla scienza – che significa semplicemente conoscenza – ma alla scienza male applicata, alla venerazione della tecnica e della tecnologia, a quella perversione della scienza giustamente chiamata scientismo; che non mi opponevo alla civiltà ma alla cultura” (pag. 331) Sono qui già accennati argomenti che saranno poi sviluppati da filosofi anarchici come John Zerzan.

Ma è proprio la distinzione tra civiltà e cultura che diventa chiarissima in Abbey: “ Civiltà è la forza vitale nella storia dell’uomo; cultura è la massa inerte delle istituzioni e organizzazioni che vi si accumula intorno e tende a rallentare l’avanzata della vita; Civiltà è Giordano Bruno che affronta la morte sul rogo; cultura è il cardinale Bellarmino, che condanna Giordano Bruno a essere bruciato in Campo de’ Fiori; […] Civiltà è rivolta, insurrezione, rivoluzione; cultura è la guerra di uno Stato contro l’altro o delle macchine contro il popolo, come in Ungheria o in Vietnam; Civiltà è tolleranza, distacco e humor, oppure passione, rabbia e vendetta; cultura è l’esame di ingresso, la camera a gas, la tesi di laurea e la sedia elettrica;

Civiltà è Nestor Machno, il contadino ucraino che combatté i tedeschi, poi i Rossi, quindi i Bianchi, poi ancora i Rossi; cultura è Stalin e la Patria; Civiltà è Gesù che trasforma l’acqua in vino; cultura è Cristo che cammina sulle acque; Civiltà è un ragazzo con una molotov in mano; cultura è il carro armato sovietico o il poliziotto di Los Angeles che gli spara; Civiltà è il fiume che scorre libero; cultura, 592.000 tonnellate di cemento;3 la Civiltà scorre; la cultura si ispessisce e si coagula, come sangue esausto e malato” ( pp. 333 – 334)

Tutto il pensiero radicale dal 1968 in avanti è qui concentrato in poche righe. La lotta per difendere la Natura e l’ambiente è l’unica lotta che può salvare la specie nella sua breve transumanza nell’universo. L’uomo è tale se inserito nella Natura, ma diventa disumano quando se ne separa. Come in Marx, mai citato da Abbey, storia dell’uomo e storia naturale dovranno tornare a coincidere. Pena la fine dell’umanità stessa.

Fine che potrebbe rivelarsi, oltre che tragica, ridicola. Con milioni di individui di ogni sesso ed età inscatolati in sedie a rotelle meccaniche, inquinanti e mortali, che li separano, attraverso pochi millimetri di metallo, dalle bellezze del mondo circostante, rendendoli anche solo incapaci di comprenderle. La poesia della natura non è più per tutti in un mondo dominato dal profitto, dai media e dalle automobili.

Sono entrato nelle caverne ai piedi delle Mooney Falls, cascate alte settanta metri. Che cosa ho fatto? Non c’era nulla da fare. Ho ascoltato le voci, le molte voci vaghe e distanti ma sorprendentemente umane dell’Havasu Creek. […] Mi sono immerso nel luogo e ho fantasticato per giorni sulla riva della pozza sotto la cascata, ho vagato nudo sotto i pioppi come Adamo, ispezionando i miei giardini di cactus. I giorni si sono fatti strani e ambigui, il fluire del tempo era pervaso da un elemento sinistro. Ho vissuto ore narcotiche durante le quali, come il taoista Zhuangzi, mi preoccupavo delle farfalle e di chi sognava cosa […] e ho smarrito la capacità di distinguere tra me e il mondo circostante” (pag. 275)

L’istituzione dei parchi nazionali sembra poi costituire null’altro che il tentativo di vendere un prodotto a milioni di turisti/acquirenti con l’istituzione di giganteschi Expo che racchiudono la natura in autentiche riserve indiane. Destino che negli Usa sembra accomunare i nativi americani e la wilderness negli stessi ambiti locali. “Quest’area bizzarra che sono sicuro un giorno o l’altro verrà trasformata nell’ennesimo parco nazionale provvisto di polizia, amministratori, strade asfaltate, percorsi naturalistici per automobili, punti panoramici ufficiali, aree per il campeggio prefissate, lavanderie a gettone, punti ristoro, distributori di Coca Cola, toilette e biglietti d’ingresso” (pag. 235)

I Supai sono una tribù eccellente: sono generosi, festosi e intelligenti. Non solo intelligenti, scaltri. Non solo scaltri, saggi. Esempio: l’Ente degli Affari Indiani e il Bureau of Public Rooads, come la maggior parte degli enti governativi, si intromettono sempre, si agitano sempre, sono sempre in cerca di qualcosa da fare, e l’anno scorso hanno fatto un’offerta congiunta per costruire una strada da un milione di dollari nell’Havasu Canyon senza alcun costo per la tribù, spalancando così la loro terra alle ricchezza de turismo motorizzato. La maggioranza dei Supai ha votato contro la proposta” (pag. 274)

I popoli nativi sembrano ancora riconoscere la differenza tra capitale e vera ricchezza, tra grandi opere e ambiente vitale. Tra interesse della specie e, ancora una volta, cultura. “E’ questo il locus dei? Qui ci sono abbastanza cattedrali, templi e altari per un pantheon di divinità indù […] Se l’uomo non avesse un’immaginazione così debole e facile a stancarsi, se la sua capacità di meravigliarsi non fosse così limitata, abbandonerebbe per sempre le fantasticherie celesti. Imparerebbe a percepire l’assoluto e il meraviglioso nell’acqua, nelle foglie e nel silenzio, e sarebbe una consolazione più che sufficiente per la perdita degli antichi sogni” (pp. 244 – 245)

L’amore per la natura selvaggia è ben più di un semplice appetito per ciò che è inaccessibile., è anche un’espressione di fedeltà alla terra, la terra che ci ha creato e che ci sostiene, l’unica casa che mai conosceremo, l’unico paradiso di cui abbiamo davvero bisogno. Se solo avessimo gli occhi per vedere. Il peccato originale , il vero peccato originale, è la distruzione cieca per semplice cupidigia del paradiso naturale che ci circonda. Se solo ne fossimo degni” (pag.231)

Sospeso tra memoria romanzata, poesia, saggio, libello politico e panteismo radicale il libro di Abbey si rivela ancora, a distanza di cinquant’anni dalla sua prima stesura e a distanza di venti dalla sua prima edizione italiana,4 un testo fondamentale, non solo per la letteratura americana moderna ma anche per saper distinguere tra civiltà e cultura (elevata o di massa che sia), tra passione e falsa coscienza, tra azione e sottomissione.

Nel deserto non c’è carenza d’acqua, ce n’è la giusta quantità, un rapporto perfetto tra acqua e roccia e tra acqua e sabbia che assicura la presenza di quello spazio ampio, libero, aperto e generoso tra le piante egli animali, le case, i paesi che rende l’arido West così diverso da ogni altra parte della nazione. Qui non manca l’acqua, a meno che non si voglia costruire una città dove una città non dovrebbe esserci.

Gli Sviluppatori – politici, imprenditori, banchieri, amministratori ed ingegneri – ovviamente la pensano altrimenti e si lamentano in continuazione con amarezza della terribile siccità, soprattutto del Sud Ovest. Propongono progetti faraonici per deviare l’acqua […] Non riescono a capire che la crescita per la crescita è una follia cancerosa […] Non capiranno mai che un sistema economico che può solo espandersi o morire è disonesto nei confronti di tutto ciò che è umano” (pag. 179)


  1. Fuoco sulla montagna, Meridiano Zero, 2004  

  2. I sabotatori, Meridiano Zero, 2001  

  3. Riferimento, quest’ultimo, alla costruzione di dighe per la produzione di energia idroelettrica destinate a sconvolgere alcuni degli ambienti più belli e selvaggi del Sud Ovest degli Stati Uniti  

  4. Muzzio, 1993  

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Mark Twain o della modernità https://www.carmillaonline.com/2014/12/27/mark-twain-modernita/ Fri, 26 Dec 2014 23:01:37 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=19661 di Sandro Moiso

twain 1 Mark Twain, Autobiografia (da pubblicare cent’anni dopo la morte secondo la volontà dell’autore), Donzelli 2014, pp. 470, € 35,00

“Tutta la letteratura americana moderna discende da un libro di Mark Twain intitolato «Huckleberry Finn» […] è il libro migliore che abbiamo avuto. Tutta la prosa americana viene da lì. Non c’era niente prima. E non c’è stato niente del genere dopo”.1 Non molti critici hanno dato retta, per buona parte del ‘900, al giudizio chiaro e sintetico di Hemingway su Mark Twain e sul suo libro più importante. [...]]]> di Sandro Moiso

twain 1 Mark Twain, Autobiografia (da pubblicare cent’anni dopo la morte secondo la volontà dell’autore), Donzelli 2014, pp. 470, € 35,00

“Tutta la letteratura americana moderna discende da un libro di Mark Twain intitolato «Huckleberry Finn» […] è il libro migliore che abbiamo avuto. Tutta la prosa americana viene da lì. Non c’era niente prima. E non c’è stato niente del genere dopo”.1 Non molti critici hanno dato retta, per buona parte del ‘900, al giudizio chiaro e sintetico di Hemingway su Mark Twain e sul suo libro più importante. Anzi, per un lungo periodo, l’autore americano è stato trattato con la bonomia destinata agli umoristi e agli autori di romanzi per ragazzi. Quando, addirittura, non è stato relegato al rango di semplice rappresentante del populismo americano.

Niente di più sbagliato, naturalmente. Elio Vittorini, nel 1941, ebbe già a scrivere di lui: ”Nato (Samuel Langhorne Clemens per lo stato civile) l’anno 1835, nel Middle West, sul Mississippi, morì l’anno 1910. Fu, nella vita, uno di quelli che aprirono le vie dell’Ovest: un pioniere. Pilota sul grande fiume, cercatore d’oro, agricoltore, uomo d’affari, infine giornalista e romanziere. Ebbe molta popolarità, più che ogni altro scrittore americano di prima e di dopo”.2

La sua biografia lo avvicina infatti ad un percorso simile a quello di scrittori come Jack London o Jack Kerouac, accomunati, pur in periodi diversi, da una scrittura fortemente influenzata dalle esperienze di vita e lavorative precedenti il momento della scrittura. In Twain, però, più che negli altri la ricostruzione del proprio percorso esistenziale diventa motivo centrale e quasi ossessivo di alcune delle sue opere più importanti: Life on the Mississippi 3 e Roughing It4 oltre alla presente Autobiografia.

Della quale erano già stati pubblicati spezzoni in altre opere oppure una versione in cui gli episodi narrati erano stati messi in ordine cronologico nel 1959, dal suo curatore Charles Neider5 che aveva anche provveduto a censurarne i tratti più feroci, o, ancora prima, riordinata nel 1924 da Bigelow Paine, che aveva sovrinteso alla dettatura della stessa da parte di Twain in diversi periodi compresi tra il 1906 e il 1910.

Lo stesso Twain aveva confidato, in uno scritto del 1906, che: ”Il mio sistema si fonda su una completa e deliberata confusione: non ha un punto di partenza, non segue nessuna rotta e forse non raggiungerà una meta finché vivo”, aggiungendo poi che l’opera avrebbe dovuto essere pubblicata postuma, possibilmente a cent’anni dalla sua morte. Ed è proprio questa confusione che l’edizione attuale, condotta seguendo l’ordine dei testi stabilito dall’edizione originale a cura di Harriet Elinor Smith nell’ambito del «Mark Twain Project», presso la Bancroft Library, e pubblicata in accordo con l’Università della California nel 2010, ristabilisce.

Confusione che, a più di cent’anni dalla morte dell’autore, è essenziale per comprenderne l’importanza e la modernità. Non solo all’interno dell’evoluzione della letteratura nord-americana.
Perché se è vero che noi possiamo rintracciare la lezione di Mark Twain in molti dei più importanti autori americani del ‘900 ( da Thomas Pynchon a Kurt Vonnegut e da Ernest Hemingway a Elmore Leonard passando anche per William Faulkner e Raymond Carver), questo è dovuto principalmente al cinismo e alla grande babele linguistica, con utilizzo di registri lontanissimi tra di loro, di cui l’ex-battelliere del Mississippi fu sicuramente maestro.

Cinismo, umorismo e dialoghi tratti spesso non solo dalla quotidianità della nascente nazione, ma anche dalla tradizione orale che ne accompagnava la narrazione e di cui i tall tales, i racconti esagerati, costituivano la manifestazione più tipica ed esilarante. Oralità che sta alla base del ritmo e della narrazione di Twain, ma che si è anche saldamente instaurata nella tradizione dei brillanti, vivaci e realistici dialoghi tipici della narrativa e della cinematografia americana moderna.
Se Tarantino infatti rivendica in Leonard l’ispiratore di suoi dialoghi, è anche vero che lo stesso Leonard fu molto onorato di sentirsi una volta paragonato a Mark Twain. Proprio per l’ironia e vivacità dei suoi dialoghi.

Ma nell’Autobiografia la tradizione orale, che l’autore volle apparentemente salvaguardare dettando e non scrivendo direttamente l’opera, si fa flusso di coscienza ininterrotto, in cui episodi grandi e piccoli, tracce di ricordi e di umori si ricollegano gli uni agli altri in uno stile estremamente moderno che si spinge, per paragone, fino a Marcel Proust e James Joyce oppure all’inglese B.S.Johnson, senza tralasciare la rabbia e l’ipocondri di un Céline nelle invettive. Perché, molto probabilmente, una vita non può essere ridotta a mera sequenza cronologica di avvenimenti.
E fu forse la coscienza della modernità, ancora eccessiva per molti critici attuali, della propria narrazione, in cui il tempo interiore si espandeva voluttuosamente oltre e al di sopra del tempo dei calendari e degli orologi, che spinse l’autore a chiedere che l’opera fosse pubblicata cento anni dopo la sua morte.

Non per viltà, come qualche critico o autore moderno, pavido e insicuro potrebbe pensare, ma proprio per il fatto che lo stesso autore, giunto ormai alla fine dei suoi anni attraverso un percorso dolorosissimo, durante il quale tutte e due le figlie e la moglie vennero a mancare prima di lui, si era reso conto della bigotteria e del tradizionalismo che lo circondavano e dell’incapacità della società americana di realizzare quel sogno di libertà di cui aveva rappresentato soltanto una vaga promessa.

Sogno che, troppo presto, si era tramutato in un delirio imperialistico che, dopo essersi arricchito con lo sfruttamento degli schiavi neri e lo sterminio dei popoli nativi, stava rivolgendo le sue armi verso il resto del mondo. Nell’Autobiografia sono pagine terribili, di sanguinolente denuncia, quelle che Twain dedica alla conquista delle Filippine da parte degli Stati Uniti durante la guerra con la Spagna della fine dell’ottocento. Pagine che trovano il loro termine di paragone soltanto nello scritto aspro e crudele che lo stesso autore aveva dedicato al dominio imperialista belga sul Congo nel “Soliloquio di Re Leopoldo6 o ad altri episodi del dominio imperialista occidentale sul resto del mondo.

Anti-imperialismo e anti-colonialismo che, al contrario di ciò che molti pensavano e tutt’ora pensano del suo populismo, lo aveva sospinto, proprio durante gli ultimi anni della sua vita, a simpatizzare per il socialismo russo. Simpatia di cui troviamo traccia proprio nelle ultime pagine dell’Autobiografia, in un messaggio che l’autore invia ad un rappresentante del socialismo russo, in esilio dopo la fallita rivoluzione del 1905, che stava percorrendo gli Stati Uniti in cerca di fondi a sostegno dei partiti rivoluzionari attivi nell’impero zarista.

Scriveva infatti a Tchaykoffsky: “Alla rivoluzione russa va la mia solidarietà, ovviamente. Non c’è bisogno di dirlo. Spero che abbia successo, e adesso che ho parlato con lei sono certo che così sarà. E’ stato tollerato più che abbastanza, secondo me, un governo che usa false promesse, menzogne, inganni e il coltello dal macellaio a beneficio di una singola famiglia di parassiti e dei suoi oziosi, maligni parenti. E si spera che il sollevamento della nazione, la cui forza cresce, presto vi metterà fine e creerà al suo posto la repubblica. Possano alcuni di noi, perfino chi ha i capelli bianchi, vivere fino a vedere il benedetto giorno in cui fra di voi ci sarà la stessa penuria di Zar e Granduchi come sono certo che ci sia in paradiso” (pp.456-457).

E affinché il militante russo non si illudesse troppo sulla democrazia americana, a fronte dell’entusiasmo dimostrato dallo stesso per una colletta di due milioni di dollari raccolta negli Stati Uniti a favore della Russia rivoluzionaria, in un dialogo riportato ancora nell’Autobiografia, Twain rispondeva: “Quei soldi non sono venuti da americani, sono venuti da ebrei; molti da ebrei ricchi, ma la gran parte da ebrei russi e polacchi dello East Side – vale a dire, dai più poveri” (pag. 455).

Del libro vanno infine sottolineate la bella traduzione e l’introduzione a cura di Salvatore Proietti, curatissime entrambe.

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twain 2Mark Twain, Autobiografia del cavallo di Buffalo Bill, Mattioli 1885, 2013, pp. 106, € 9,90

Mark Twain, Visite in Paradiso e istruzioni per l’aldilà, Mattioli 1885, 2014, pp.118, € 9,90

I due libricini, pubblicati nell’ambito della ristampa dell’opera integrale di Mark Twain da parte dell’editore Mattioli 1885, contengono alcuni di quegli scritti che tanto resero famoso l’autore americano presso il grande pubblico già durante la sua vita. Entrambi, però, sono frutto, come l’Autobiografia, della fase finale della vita di Samuel Langhorne Clemens. Il primo pubblicato nel 1906 e il secondo nel 1909, a sei mesi dalla morte.

Pur essendo nati come racconti destinati alla pubblicazione si rivista, i due testi possono essere letti in parallelo con la precedente autobiografia, poiché ritroviamo in essi elementi che li accomunano alla stessa. Ma questo, occorre ribadirlo, è dovuto sicuramente al fatto che, ripresa nel suo insieme, l’opera di Twain si rivela come un gigantesco work in progress in cui l’autore torna e ritorna sempre su temi ed episodi legati alla sua vita e alle sue polemiche. Come un assassino sul luogo del delitto verrebbe quasi da dire.

In particolare nel primo dei due, guarda caso un’altra “autobiografia” anche se di un cavallo, scritto contro i maltrattamenti a cui venivano sottoposti gli animali, e in particolare i tori durante le corride, riprende indirettamente un motivo drammatico della propria recente esistenza: la morte per meningite dell’amatissima figlia Susy, avvenuta mentre l’autore era in viaggio in Europa con las moglie. Tale disgrazia costituisce un motivo ricorrente dell’Autobiografia, dove alle pagine dettate da Twain si alternano brevi note tratte dal diario o dalla biografia della figlia scomparsa, mentre qui egli cesella nel personaggio immaginario della piccola Cathy, destinata a morire tragicamente, un ritratto della figlia scomparso, soprattutto attraverso i comportamenti.

La polemica con la società americana della sua epoca, però, esplode anche qui con la solita cattiveria, usando il parametro dei maltrattamenti degli animali per misurare anche la condizione umana nella Land of Freedom. Ecco come si risolve, ad esempio, un dialogo tra due personaggi del racconto sul destino dei tori durante la corrida:

Il toro viene sempre ucciso?
Sì. A volte si intimidisce, trovandosi in un luogo così strano, e, tremante, rimane fermo, o cerca di ritirarsi. Allora tutti lo disprezzano per la codardia e le gente vuole che sia punito e messo in ridicolo; per cui, da dietro, gli tagliano i garretti, ed è la cosa più divertente del mondo vederlo zoppicare in giro sulle zampe recise; tutto l’anfiteatro scoppia in un uragano di risate; nel vedere una cosa del genere, io stesso risi fino a che le lacrime mi scesero lungo le guance. Dopo essersi esibito fino al massimo in cui gli riesce di farlo, non è più utile ed è ucciso.
Beh, assolutamente grande, Antonio, perfettamente bello. Arrostire un negro mica lo batte.” (pag.86)

Il breve romanzo è una girandola di invenzioni linguistiche in cui tutte le vicende sono narrate attraverso i dialoghi tra animali parlanti oppure lettere che gli uomini si scrivono tra di loro, quasi che ad avere diritto di parola nel libro siano soltanto gli animali (cavalli, cani, tori) e non gli esseri umani. Che quel dono hanno sprecato. E sarà proprio per questo, forse, che due cavalli, interrogandosi sull’aldilà, giungeranno alle seguenti conclusioni:
Quando noi moriamo andiamo in paradiso e viviamo con gli umani?
Mio padre pensava di no. Era dell’opinione che non siamo costretti a finire lì a meno che non ce lo siamo meritato.” (pag.88)

Meno drammatico del precedente, il secondo testo riprende invece il tema del viaggio nell’aldilà con un afflato ironico e visionario che, soprattutto nella descrizione della corsa delle anime attraverso le galassie, ricorda ed anticipa a tratti i romanzi di fantascienza di Olaf Stapledon e le prime space opera. Anche se, ancora una volta, per Twain il motivo centrale è quello di ironizzare sulle convinzioni bigotte e ingenue di coloro che credono in un aldilà di tipo religioso. twain 3

Egli costruisce così un paradiso in cui si incrociano le caratteristiche di tutte le religioni rivelate ed anche di quelle sconosciute, provenienti magari da galassie distanti milioni di anni luce dal nostro pianeta, paragonabile per dimensioni ed importanza “ ad una cacca di mosca sulla mappa degli Stati Uniti”. Dando vita ad un sincretismo religioso cacofonico e divertentissimo, dove basta sbagliare indirizzo o porta di ingresso per non essere riconosciuti e confusi dagli angeli o dai profeti di guardia.

Un paradiso dove ad essere famosi ed importanti sono, però, gli sconosciuti, le persone qualunque: ubriaconi, baristi, piccoli artigiani. Spesso più importanti di Shakespeare e Omero oppure delle figure bibliche. E in cui la cosa più noiosa, da cui prima o poi tutti fuggono, è proprio quella di stare in contemplazione, suonando l’arpa e portando un’aureola intorno al capo.
Un Paradiso molto alla Twain quindi, dove tutto viene capovolto e destrutturato.
Un aldilà di cui l’autore, a sei mesi dalla morte, si prende ancora, irriducibilmente, gioco. Con grandissimo divertimento per chi legge.

In un contesto “fantastico” in cui, però, anche la corsa con le comete affrontata dall’anima del protagonista, il comandante Stormfield, rinvia ancora una volta alla biografia dell’autore, visto che la cometa di Halley accompagnò con il suo passaggio sia la sua nascita nel 1835 che la sua morte nel 1910.


  1. Ernest Hemingway, Verdi colline d’Africa  

  2. Elio Vittorini (a cura di), Americana, Casa Editrice Valentino Bompiani 1941, V edizione 1968, pag.246  

  3. Vita sul Mississippi, Mattioli 1885, 2006  

  4. In cerca di guai, Adelphi 1993  

  5. Autobiografia, Garzanti 1998, precedentemente edito da Neri Pozza  

  6. Mark Twain, Contro l’imperialismo (a cura di Mario Maffi), Mattioli 1885 2009  

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