IWW – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 La rivoluzione come una bella avventura / 4: Germania e Stati Uniti 1918-1934 (e oltre) https://www.carmillaonline.com/2025/01/15/la-rivoluzione-come-una-bella-avventura-4-germania-e-stati-uniti-1918-1934-e-oltre/ Wed, 15 Jan 2025 21:00:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86478 di Sandro Moiso

Paul Mattick, La rivoluzione. Una bella avventura, Asterios Editore, Trieste 2020, pp. 174, 18 euro

Si spiega in questa occasione la scelta del titolo di una serie di articoli che, probabilmente, ha fatto arricciare il naso a diversi elettori. L’accostamento di Rivoluzione e Avventura può infatti aver dato l’idea di una forzatura letteraria ed ideologica nei confronti di un tema serio, o almeno ritenuto tale da coloro che del grigiore politico hanno fatto uno schema esistenziale immemore di tutta la gioia, la passione e di tutto il coraggioso slancio soggettivo insiti e necessari all’interno di un reale [...]]]> di Sandro Moiso

Paul Mattick, La rivoluzione. Una bella avventura, Asterios Editore, Trieste 2020, pp. 174, 18 euro

Si spiega in questa occasione la scelta del titolo di una serie di articoli che, probabilmente, ha fatto arricciare il naso a diversi elettori. L’accostamento di Rivoluzione e Avventura può infatti aver dato l’idea di una forzatura letteraria ed ideologica nei confronti di un tema serio, o almeno ritenuto tale da coloro che del grigiore politico hanno fatto uno schema esistenziale immemore di tutta la gioia, la passione e di tutto il coraggioso slancio soggettivo insiti e necessari all’interno di un reale e vitale movimento rivoluzionario.

A far comprendere tutto ciò cui si è appena accennato è proprio l’”autobiografia” di Paul Mattick uscita alcuni anni or sono per l’editore triestino Asterios nella collana “in folio” con il numero 21 e precedentemente pubblicata in Francia nel 2013 con il titolo La Révolution fut une belle aventure. Des rues de Berlin en révolte aux mouvements radicaux américains (1918- 1934). Edizione da cui è tratta la postfazione di Laure Batier e di Charles Reeve dell’edizione italiana curata da Antonio Pagliarone che è anche autore della prefazione alla stessa. Prima di addentrarci nella lettura dell’avventura rivoluzionaria di Mattick occorre però inquadrare il comunista tedesco nel periodo in cui visse.

Paul Mattick (Slupsk, 13 marzo 1904 – Boston, 7 febbraio 1981) può essere collocato all’interno del comunismo di sinistra, in cui rappresentò uno dei maggiori esponenti di quello cosiddetto consiliarista, critico infatti sia del bolscevismo che dello stesso Lenin il cui pensiero e azione politica erano stati rivolti, a suo dire, sostanzialmente all’ascesa di un capitalismo di stato, controllato attraverso le maglie di uno stato estremamente autoritario e, per certi versi, prossimo al fascismo.

Nato nella Pomerania polacca, al tempo facente parte dell’impero guglielmino, crebbe a Berlino in una famiglia operaia sindacalizzata e politicizzata. A 14 anni, entrò a far parte della Freie Sozialistiche Jugend, la frazione giovanile della Lega di Spartaco fondata da Rosa Luxemburg e Karl Liebnecht. Ed è a questo punto, agli albori della cosiddetta rivoluzione tedesca, che la narrazione delle sue “avventure” ha inizio. Così, nella conversazione con Michael Buckmiller pubblicata in parte come ottavo capitolo del testo, Paul Mattick, a proposito di quei primi anni di militanza giovanile, afferma:

Nel mio percorso non c’è stata nessuna rottura. Come se ci fossero in un primo momento la pratica e il gusto dell’avventura e poi, una volta soddisfatte le condizioni materiali, il lavoro teorico. No, tutto si limitava ad una questione di tempo. Ci mancava proprio questo per capire di più le cose. […] C’era la pratica, ma c’era anche la teoria. Non si entrava nell’organizzazione Freie Sozialistiche Jugend come se si andasse ad un club di ginnastica. […] Comunque sia, se avessimo avuto più tempo per noi, se non avessimo dovuto lavorare molte ore1, è certo che saremmo stati molto più maturi sul piano teorico. Abbiamo cercato, nelle condizioni che ci venivano imposte, di crescere intellettualmente. Ma, nello stesso tempo, c’era un movimento operaio reale, di cui facevamo parte, e che cercava la sua via rivoluzionaria2.

Sono significative queste affermazioni di uno dei più importanti teorici del comunismo di sinistra sull’importanza del legame tra lavoro teorico e prassi rivoluzionaria e su come il primo sia spesso appannaggio di coloro che non devono prestare molte ore alla fatica del lavoro di fabbrica o salariato. Una separazione che troppo spesso ha visto riflettersi anche nelle organizzazioni rivoluzionarie la separazione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale tipica dell’organizzazione del lavoro di stampo capitalistico. Separazione che soltanto una pratica rivoluzionaria attiva e in un contesto favorevole al suo sviluppo può superare, di cui la pratica consiliarista fu certamente espressione.

In realtà tutto il testo si basa principalmente, come spiegano Laure Batier e Charles Reeve nella Postfazione, su quanto riportato da due interviste concesse da Paul Mattick, a Claudio Pozzoli, il 7 ottobre 1972 ad Amsterdam, e al già citato Michael Buckmiller, dal 21 al 23 luglio 1976 nel Vermont dove risiedeva fin dai pri anni ‘50. Interviste riorganizzate tra di loro, grazie anche al sostegno del figlio del comunista tedesco-americano, Paul Mattick Jr.

Dopo le prime “avventure” giovanili durante le quali il giovane Paul, dopo aver aderito al KAPD (Kommunistische Arbeiterpartei Deutschlands), il Partito comunista operaio tedesco nel quale iniziò a militare nelle fila dell’organizzazione giovanile Rote Jugend scrivendo per il suo giornale, rischiò di essere ancora più volte arrestato e ucciso, rimasto senza lavoro e impossibilitato a trovarlo per motivi “politici” e deluso dalla normalizzazione seguita all’avvento della Repubblica di Weimar il nostro, nel 1926, si vide costretto ad emigrare negli Stati Uniti. Da dove continuò comunque a mantenere i rapporti sia con il KAPD che con l’AAUE (Allgemeine Arbeiter-Union – Einheitsorganisation), l’organizzazione sindacale “unitaria” fondata da Otto Rühle, all’interno della quale aveva precedentemente stabilito contatti con intellettuali, scrittori e artisti che lavoravano per la stessa.

Giunto negli Stati Uniti Mattick avrebbe ritrovare là un’occupazione come operaio, sia dedicarsi agli studi e a quel lavoro teorico che lo avrebbe portato nel giro di qualche decennio a diventare uno dei maggiori esponenti del comunismo di sinistra e dei consigli. Nel fare questo, però, non si allontanò mai dal lavoro organizzativo che si manifestò sia attraverso il tentativo, una volta giunto a Chicago sul finire degli anni Venti, di unire le diverse organizzazioni di lavoratori tedeschi, cercando di far rivivere nel 1931, ma senza successo, il «Chicagoer Arbeiter-Zeitung», un giornale carico di tradizione, sia attraverso il suo avvicinamento, per un certo periodo, agli IWW, gli Industrial Workers of the World, unico sindacato rivoluzionario unitario al di sopra delle differenziazioni di mestiere, categoria o appartenenza nazionale e razziale.

Nel 1934 Mattick, con alcuni apparteneti agli IWW e alcuni militanti espulsi dal PPA, Partito Proletario d’America, fondò il Partito dei Lavoratori Uniti (United Workers Party), poi ribattezzato Gruppo dei Comunisti dei consiglio (CCG). Organizzazione che rimase in stretto contatto con i gruppi i della sinistra comunista sopravvissuti in Germania e pubblicò l’«International Council Correspondence», giornale in cui erano pubblicati articoli e dibattiti provenienti dall’Europa insieme alle analisi economiche ed i commenti politici critici di temi d’attualità negli USA e in altre parti del mondo. Poiché nella seconda metà degli anni trenta il comunismo dei consigli europeo fu costretto a darsi alla clandestinità per poi scomparire formalmente, dal 1938 Mattick cambiò il nome della rivista, di cui era il principale collaboratore, in «Living Marxism» e, dal 1942, in «New Essays».

Nonostante il fallimento dei suoi tentativi di riorganizzare il movimento operaio di quegli anni, Mattick ebbe comunque il modo sia di avvicinarsi maggiormente alle opere di Henrik Grossman sulla teoria della crisi in Marx3, sia di stringere amicizia e collaborare con Karl Korsch, altro teorico della sinistra comunista e non leninista, proprio per il tramite della rivista «New Essays»4.

Fu però, in quegli anni, proprio per l’esperienza prima a fianco del vasto movimento dei disoccupati creatosi negli Stati Uniti a partire dalla Grande crisi del 1929 e negli anni successivi e poi in seguito ai provvedimenti economici e sociali del New Deal roosveltiano, che Mattick maturò e affinò maggiormente le sue analisi sul movimento operaio e la critica al pensiero economico di Keynes e la sua applicazione in chiave riformistica e neo-capitalistica, redigendo una serie di note critiche e articoli contro la teoria e la pratica keynesiane. Lavoro in cui sviluppò ulteriormente la teoria dello sviluppo capitalista di Marx e Grossmann al fine di rispondere criticamente ai nuovi fenomeni e forme del capitalismo moderno..

Pur escluso dai circoli intellettuali legati alle Università e pur trovandosi nuovamente, a partire dal 1940, in gravi difficoltà sia economico-lavorative che personali, Paul riuscì a continuare ostinatamente e, si potrebbe dire, in direzione contraria sia alla fiducia nel riformismo del piano di Roosvelt che del leninismo ormai trasformato in marxismo-leninismo dallo stupro teorico e politico operato in quegli anni dallo stalinismo, a sviluppare un lavoro teorico che ancora alla fine degli anni Sessanta e all’inizio degli anni Settanta lo avrebbe fatto riscoprire sia dai movimenti studenteschi che da quelli radicali di classe sia al di qual che al di là dell’Oceano Atlantico5. E proprio nell’intervista a Lotta Contimua del 1977, egli avrebbe saputo sintetizzare al meglio la sua critica al keynesismo, inquadrandola nella crisi economica della seconda metà degli anni Settanta.

“Prima del 1930 ai periodi di depressione si rispondeva con procedure deflazionistiche, cioè lasciando che le “leggi del mercato” svolgessero il loro compito nell’aspettativa che prima o poi il declino dell’attività economica avrebbe finito col ripristinare l’equilibrio perduto tra domanda e offerta e rilanciato così la redditività capitale. La crisi del 1930, tuttavia, era troppo profonda e troppo estesa per permettere ai modi tradizionali di affrontarla. Si rispose con procedure inflazionistiche, cioè con interventi governativi nel meccanismo di mercato, fino al punto di giungere a una ristrutturazione dell’economia mondiale attraverso una centralizzazione forzata dei capitali nazionali più deboli che con una vera e propria distruzione di una frazione cospicua dei capitali nazionali sia nella forma monetaria che in quella fisica. Finanziato mediante disavanzi pubblici, cioè, con metodi inflazionistici, i risultati erano ancora deflazionistici, ma su un piano molto più ampio di quanto non fosse stato realizzato in precedenza facendo affidamento passivo sulle “leggi del mercato”. Il lungo periodo di depressione e la seconda guerra mondiale, e il conseguente enorme distruzione di capitale, hanno così creato le condizioni per un periodo straordinariamente lungo di espansione del capitale nelle principali nazioni occidentali.
Sia la deflazione che l’inflazione hanno portato quindi allo stesso risultato, una nuova ripresa dei capitali, e successivamente e alternativamente utilizzati nel tentativo per garantire la stabilità economica e sociale appena conquistata. Indubbiamente, è possibile tramite il finanziamento del deficit, cioè attraverso il credito, ravvivare un’economia stagnante. Ma è non è possibile mantenere in questo modo il saggio di profitto sul capitale e quindi perpetuare le condizioni di prosperità. Era quindi solo questione di tempo prima che il meccanismo di crisi della produzione di capitale si ripeta. Ormai è ovvio che la mera disponibilità di credito per espandere la produzione non è una soluzione alla crisi, ma un una politica di ripiego fugace con effetti “positivi” soltanto temporanei. Che, se non seguito da una vera e propria ripresa dei capitali basata su maggiori profitti, deve obbligatoriamente crollare su sé stessa. Il “rimedio keynesiano” ha portato semplicemente a una nuova situazione di crisi con crescente disoccupazione e crescente inflazione, entrambe ugualmente dannose per il capitalismo”.

Sempre allineato con la difesa dell’iniziativa spontanea e cosciente dei lavoratori e contrario all’intervento esterno in chiave partitico-settaria all’interno del movimento operaio, Mattick, nella stessa intervista avrebbe criticato l’ideologia e la pratica della lotta armata, senza rinnegare però la violenza necessaria per la difesa degli interessi di classe oppure per il ribaltamento offensivo delle condizioni dello sfruttamento capitalistico e della sua organizzazione sociale.

“La violenza è immanente al sistema e quindi una necessità sia per il lavoro che per il capitale. La borghesia può governare solo in virtù del suo controllo sui mezzi di produzione, quindi deve difendere questo controllo con mezzi extra-economici, attraverso il suo monopolio sui mezzi di soppressione. Già il rifiuto di lavorare svuota di significato il possesso dei mezzi di produzione, poiché è solo il processo lavorativo che produce il profitto capitalistico. Una “pura” la lotta “economica” tra lavoro e capitale è quindi fuori questione; la borghesia completerà sempre questa lotta con la violenza, dovunque essa minacci seriamente la redditività del capitale. Non consta ai lavoratori di scegliere tra metodi non violenti e violenti di lotta di classe. È la borghesia, in possesso dell’apparato statale, che determina quale sarà in qualsiasi occasione particolare. Alla violenza si può rispondere solo con la violenza, anche se le armi sono estremamente disuguali. Non entra qui in gioco alcuna questione di principio, ma solo la realtà della struttura sociale di classe e dello sviluppo delle sue contraddizioni.
Tuttavia, la domanda che ci si pone è se gli elementi radicali delle lotte anti-capitalistiche dovrebbero prendere l’iniziativa nell’uso della violenza, invece di lasciare la decisione alla borghesia e ai suoi mercenari. Potrebbe esserci situazioni, certo, che trovano la borghesia impreparata e dove uno scontro violento con le sue forze armate potrebbe favorire i rivoluzionari. Ma tutta la storia del radicalismo mostra chiaramente che tali eventi accidentali non sono di alcuna utilità. In ambito militare in termini di condizioni, la borghesia avrà sempre il sopravvento, a meno che il movimento rivoluzionario non sia assume proporzioni tali da incidere sullo stesso apparato statale, scindendo o sciogliendo le sue forze armate. È solo in concomitanza con grandi movimenti di massa, che disgregano totalmente il tessuto sociale, che diventa possibile strappare i mezzi di produzione e con questo giungere alla soppressione delle classi dominanti.
È per questo motivo che è così pericoloso insistere sulla non violenza e fare della violenza il privilegio esclusivo del classe dirigente. Ma qui parliamo di situazioni molto critiche, non come quelle che esistono attualmente nei paesi capitalistici, e anche di forze grandi e sufficientemente armate in grado di condurre la loro lotta per un periodo di tempo considerevole. In mancanza di tale situazioni critiche, tali azioni non sono altro che un suicidio collettivo, non sgradito alla borghesia. Possono essere apprezzati in termini morali o anche estetici, ma non servire al corso della rivoluzione proletaria, se non entrando nel folklore della rivoluzione.”

Tra le sue opere di maggior rilievo vanno infine ricordate Marx and Keynes. The Limits of Mixed Economy del 19696, che venne tradotta in diverse lingue, così come Critique of Herbert Marcuse: The one-dimensional man in class society, saggio sulla celebre opera di Herbert Marcuse, L’uomo a una dimensione (1964), in cui Mattick respinse con forza la tesi di Marcuse secondo la quale il “proletariato”, così come Marx lo aveva inteso, era diventato un “concetto mitologico” nella società capitalista avanzata.

Chi scrive si è allontanato dalle pagine del libro di Mattick e sulla sua esperienza, ma ciò che è indubitabile è il fatto che fino alla fine dei suoi giorni il rivoluzionario comunista guardò il mondo tanto con uno sguardo “oggettivo” rivolto alla comprensione critica dell’esistente e delle difficoltà insite in esso per lo sviluppo di un movimento rivoluzionario quanto con quello limpido e “soggettivo” di chi sogna la più grande e irrinunciabile delle avventure.


  1. Il riferimento è al fatto che Paul Mattick era entrato giovanissimo come apprendista alla Siemens e successivamente, all’età di 17 anni, alla Klöckner-Humboldt-Deutz di Colonia, dove rimase fino al suo licenziamento a causa dell’organizzazione degli scioperi e della partecipazione ai moti insurrezionali che condussero anche al suo arresto.  

  2. P. Mattick, La rivoluzione. Una bella avventura, Asterios Editore, Trieste 2020, pp. 124–125.  

  3. H. Grossman, Il crollo del capitalismo. La legge dell’accumulazione e del crollo del sistema capitalista, Jaca Book, Milano 1976 (ed.originale Das Akkumulations- und Zusammenbruchsgesetz des kapitalistischen Systems. (Zugleich eine Krisentheorie) – 1929.  

  4. Si vedano gli scritti contenuti in P. Mattick, K. Korsch, H. Langerhans, Capitalismo e fascismo verso la guerra. Antologia dai «New Essays» (scritti 1934–1943), a cura di G. Bonacchi e C. Pozzoli, La Nuova Italia Editrice, Firenze 1976.  

  5. Per quanto riguarda l’Italia, oltre a uelli già citati, si vedano Ribelli e rinnegati. Il ruolo degli intellettuali e la crisi del movimento operaio, (a cura di C. Pozzoli), Musolini editore, Torino 1976; Crisi e teorie della crisi (testi di Paul Mattick, Christoph Deutschmann e Volkhard Brandes; trad. it. di Giuseppe Mininni), Dedalo, Bari 1979; Critica dei neomarxistii (trad. it. di Giuseppe Mininni), Dedalo, Bari 1979 e Il marxismo ultimo rifugio della borghesia? Scritti scelti (a cura di Antonio Pagliarone), Sedizioni, Milano 2008, si veda l’intervista pubblicata sul quotidiano Lotta Continua ancora nell’ottobre 1977 (qui)  

  6. P. Mattick, Marx and Keynes. The limits of the mixed economy, Boston, Porter Sargent Publisher, 1969 (edito in Italia come Marx e Keynes. I limiti dell’economia mista, trad. it. di Luigi Occhionero, De Donato, Bari 1969)  

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Lotta di classe western https://www.carmillaonline.com/2024/02/27/lotta-di-classe-western/ Mon, 26 Feb 2024 23:01:36 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81502 di Luca Cangianti

Louis Adamic, Dynamite! Storie di violenza di classe in America, Alegre, 2023, traduzione e cura di Andrea Olivieri, pp. 576, € 24,00 stampa, 14,99 ebook.

«Ho l’impressione che ci aspettino grandi cambiamenti in questo paese, e quando arriveranno probabilmente ci renderemo conto… che nessun cranio è stato rotto invano dal manganello di un poliziotto durante questa depressione, né una sola goccia di sangue è stata sparsa senza senso.» Così scriveva una conoscente a Louis Adamic, operaio emigrato negli Stati Uniti dalla Slovenia austroungarica, autodidatta e poi scrittore di discreta fama. In effetti il suo libro Dynamite! – uscito per [...]]]> di Luca Cangianti

Louis Adamic, Dynamite! Storie di violenza di classe in America, Alegre, 2023, traduzione e cura di Andrea Olivieri, pp. 576, € 24,00 stampa, 14,99 ebook.

«Ho l’impressione che ci aspettino grandi cambiamenti in questo paese, e quando arriveranno probabilmente ci renderemo conto… che nessun cranio è stato rotto invano dal manganello di un poliziotto durante questa depressione, né una sola goccia di sangue è stata sparsa senza senso.» Così scriveva una conoscente a Louis Adamic, operaio emigrato negli Stati Uniti dalla Slovenia austroungarica, autodidatta e poi scrittore di discreta fama. In effetti il suo libro Dynamite! – uscito per la prima volta nel 1931 – è prevalentemente una sequela di lotte sconfitte, ma, come ci ha insegnato Valerio Evangelisti, non inutili, «perché già la battaglia è liberazione».

Si parte dalla metà dell’ottocento con i Molly Maguires, una società segreta di minatori che non vedeva contraddizione alcuna tra l’assassinio di padroni e crumiri, e l’ossequio più sincero al cattolicesimo irlandese. Si prosegue con le orde anarchiche, radicali e socialiste provenienti dalle rivoluzioni europee represse nel sangue, tra bombe, bandiere rosse e nere, la Marsigliese gridata nelle rivolte di piazza e i primi goffi tentativi di organizzazione sindacale ancora imbevuti di esoterismo e di spirito didattico-moraleggiante. Si pensi ai Knights of Labor che cercavano di rendere gli operai gentiluomini inducendoli a smettere di bere. Nascono le prime agenzie specializzate in spionaggio e attività antisindacali, cui i lavoratori rispondono con la stessa moneta: i cecchini operai puntano le canne dei fucili sui sicari delle aziende, fanno esplodere le loro proprietà e negoziano facendo girare il tamburo delle proprie colt. Nel frattempo i cerimoniali dei Knights of Labor vengono soppiantati dal sindacalismo di mestiere «puro e semplice» dell’American Federation of Labor. «L’attitudine della Afl nei confronti della società», racconta Adamic «era, per molti aspetti, non dissimile da quella dei capitalisti. I dirigenti dei sindacati di categoria erano inclini a conquistare per sé stessi e per i loro membri tutto il possibile date le condizioni, ogni volta fosse possibile, attraverso ogni mezzo – inclusa la dinamite – che non implicasse gravi rischi per sé stessi e per i destini dell’organizzazione.» Un pugno «imbullonato» sulla faccia di un crumiro da parte di un «gorilla» costa cinquanta dollari, a New York e a Chicago dilaga la moda degli abiti concepiti per nascondere pistole e fucili, la criminalità organizzata viene ingaggiata per far avanzare le «negoziazioni». D’altra parte l’Afl non si fa scrupolo di aggredire sindacati concorrenti come gli Industrial Workers of the World – un’organizzazione operaia rivoluzionaria, strutturata lungo linee industriali, anziché di mestiere, che pratica l’azione diretta. «Nell’autunno del 1909 le autorità a Spokane incarcerarono tutti i relatori wobbly che tentarono di tenere comizi nelle strade. I sindacati degli Iww fecero resistenza e inviarono uomini e donne per tenere altri comizi, finchè più di cinquecento wobbly intasarono la prigione cittadina.» Un’altra volta, per fare approvare un provvedimento di emergenza che predisponesse alloggi e pasti gratuiti per gli indigenti, centinaia di wobblies (così venivano chiamati gli appartenenti a questo strano sindacato) si riversano su St. Louis mangiano e bevono a crepapelle nei vari ristoranti locali sostenendo che il conto vada spedito al sindaco. Nel frattempo passano gli anni, scoppia la rivoluzione in Russia, e i comunisti compaiono perfino negli Stati Uniti, ma quelli descritti da Adamic assomigliano poco allo stereotipo leninista e molto di più a un lavapiatti di sua conoscenza che per affermare i propri diritti versa taniche di kerosene nei barili di zucchero e piscia nei contenitori del caffè e del tè.

Nella nuova edizione critica di Andrea Olivieri – di cui si segnala anche Una cosa oscura, senza pregioDynamite! si è guadagnato due copertine e l’appartenenza incrociata sia alla collana Quinto tipo diretta da Wu Ming 1 che a quella Working Class diretta da Alberto Prunetti. Il motivo di questa scelta sta probabilmente nella pluralità dei volti esibiti dall’opera: reportage, inchiesta sociologica, ricostruzione storica, new journalism, pamphlet di denuncia, ma anche letteratura working class, hard boiled, memoir travisato in cui si mischiano fiction e non fiction. Adamic, senza dichiaralo, racconta in presa diretta eventi in cui non era presente; rompe il patto di fiducia con il lettore, ma il risultato non è un falso, ancorché il prodotto sia inaccurato. La narrazione, infatti, proprio grazie al suo carattere ibrido (o «colorito» come definì Evangelisti1) ne beneficia in profondità. Si prendano ad esempio alcune suggestive descrizioni di personaggi. Iniziamo con Eugene V. Debs, candidato socialista alle elezioni presidenziali nel 1900 e nel 1904: «alto, magro, un fanatico dalla voce gentile, di grande potere persuasivo, un messia infiammato da sentimenti per gli umili e gli oppressi». E ancora Big Bill Haywood, leader degli Iww: «una forza della natura, con la prestanza fisica di un bue, una testa enorme e una mascella tremenda. Duro, diretto, di resistenza immensa, insofferente davanti agli ostacoli, privo di prudenza, violento, pronto a battersi colpo su colpo, gran bevitore». E infine i sindacalisti dell’Afl: «Per lo più sono uomini di mezza età o anziani benestanti, conformisti, ben vestiti, ben rasati, dalle guance floride, dal doppio o triplo mento, con pance ampie solcate da catenelle d’orologio in oro e spillette sulla cravatta. Guidano belle macchine o viaggiano in taxi tra gli hotel, i migliori della città, e le sale dei congressi. Hanno mani soffici e grassocce, desiderose di stringere altre mani. Sono tipi spigliati, dai modi amichevoli e professionali.»

Quella che emerge da Dynamite! è una storia di conflitti di classe così violenti da non permettere più la partizione semplicistica tra buoni e cattivi. Se una differenza ancora c’è – e questo emerge chiaramente nel racconto di Adamic – è che la violenza dei proletari (piaccia o meno) è solo legittima, disperata ed estrema, difesa.


  1. Lo scrittore bolognese ha dedicato alla lotta di classe negli Stati Uniti i tre romanzi del Ciclo americano: Antracite, Mondadori, 2003; Noi saremo tutto, Mondadori, 2004, One big union, Mondadori, 2011. 

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Quel movimento inarrestabile https://www.carmillaonline.com/2022/12/17/quel-movimento-inarrestabile/ Sat, 17 Dec 2022 21:00:59 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75197 di Giorgio Bona

I dreamed I saw Joe Hill last night, Alive as you or me Says I, “But Joe, you’re ten years dead,” “I never died,” says he “I never died,” says he […] “The copper bosses killed you, Joe, They shot you, Joe,” says I. “Takes more than guns to kill a man,”

 

Ho sognato di aver visto Joe Hill la scorsa notte, Vivo come te o me Gli dico, “Ma Joe, sei morto da dieci anni,” “Non sono mai morto”, dice lui “Non sono mai morto”, dice [...]]]> di Giorgio Bona

I dreamed I saw Joe Hill last night,
Alive as you or me
Says I, “But Joe, you’re ten years dead,”
“I never died,” says he
“I never died,” says he

[…]
“The copper bosses killed you, Joe,
They shot you, Joe,” says I.
“Takes more than guns to kill a man,”

 

Ho sognato di aver visto Joe Hill la scorsa notte,
Vivo come te o me
Gli dico, “Ma Joe, sei morto da dieci anni,”
“Non sono mai morto”, dice lui
“Non sono mai morto”, dice lui
[…]
“I boss del rame ti hanno ucciso, Joe,
Ti hanno sparato, Joe,” dico io.
“Ci vogliono più delle armi da fuoco per uccidere un uomo”

 

Era il 24 luglio 1970, quando Joan Baez all’arena civica di Milano aveva appena cantato Love is Just a Four-Letter Word di Bob Dylan, il pubblico scandiva in coro “Gettiamo in mare le basi americane”… ed ecco la voce melodiosa e toccante di lei innalzare questa canzone, che cresceva con un impeto straordinario ammutolendo i presenti.

Celebri versi ripresi proprio da Joan Baez con il personaggio simbolico che incarnava il desiderio di giustizia degli operai, minatori e contadini USA, molto vicino a quello raccontato da Bruce Springsteen nella canzone The Ghost of Tom Joad (nel suo omonimo album, 1995), a sua volta un riferimento o, meglio, una citazione del protagonista del celebre romanzo di John Steinbeck, Furore, dal quale è stato tratto il celebre film The Grapes of Wrath del 1940, la regia di John Ford con Henry Fonda attore protagonista nella parte di Tom Joad.

La canzone, in origine, era stata una poesia scritta attorno al 1930 da Alfred Hayes (I Dreamed I Saw Joe Hill Last Night, nota anche come Joe Hill) in occasione della ricorrenza dell’esecuzione di Joe Hill (19 novembre 1915): musicata da Earl Robinson nel 1936, diverrà immediatamente una canzone popolare, nel suo genere una delle più famose di tutti i tempi. Verrà cantata come inno dai minatori del Galles in lotta e sarà interpretata da Paul Robeson, Pete Seeger, e più avanti da Joan Baez, che ne faranno un inno del movimento operaio di tutti i paesi.

Il nome di Joe Hill fu conosciuto da milioni di persone in ogni angolo del mondo e molti appoggiarono la sua causa protestando che il suo arresto era fondato su false accuse, ovvero era falsa l’accusa di omicidio di un droghiere e di suo figlio che determinò la condanna. Dietro c’era una vera e propria persecuzione rivolta al sindacalista che era anche il poeta dei lavoratori, colui che, con le sue canzoni, esprimeva le esigenze più profonde della classe operaia.

Tramite la biografia curata da Gibbs M. Smith, Joe Hill fu anche un film nel 1971 con la regia di Bo Widerberg (coproduzione Svezia – USA, Hill era un immigrato svedese), con Thommy Berggren nel ruolo del protagonista, Kelvin Malave e Hasse Persson. Vi si narra la vicenda di questo giovane scandinavo di belle speranze costretto a fare molto presto i conti con le dure realtà cui erano sottoposti i lavoratori stranieri: non solo una lingua da imparare, lavori massacranti e disgustosi, e la povertà dilagante nei territori dell’est. Joe si guadagnava da vivere con un lavoro modesto in un bar finché non si mise in viaggio verso l’ovest dove si legherà all’organizzazione dei “Wobblies”, composta da operai non specializzati che si battevano per l’unione degli operai di tutto il mondo.

I Wobbies – definizione di origine discussa – erano membri della IWW,  Industrial Workers of the World, una realtà fondata a Chicago nel 1905: si presentavano come sindacato rivoluzionario americano in una sintesi di ideologia socialista, comunista e anarchica, avendo come tattica l’azione diretta e come obiettivo l’abolizione del lavoro salariato e il raggiungimento di una democrazia industriale, dove la gestione dei luoghi di lavoro fosse trasparente e nelle mani della classe lavoratrice.

Di qui il ruolo da protagonista del grande Sindacato Rivoluzionario in One Big Union, straordinario libro di Valerio Evangelisti (2011), col racconto di una sequenza di scioperi durati mesi legati a stragi di lavoratori in uno scenario da film western. Che però sottolinea come la storia del movimento dei lavoratori rappresenti assai più di una cronaca di scioperi, di attività spionistiche, di sindacati corrotti e di sparatorie, perché i suoi contenuti sono valori fondamentali.

In One Big Union vivono tanti Joe Hill, uomini e donne senza nome per la storia e che nella realtà si identificano con quei lavoratori durante un periodo così conflittuale nel mondo del lavoro: organizzano riunioni, proclamano scioperi, distribuiscono volantini, cospargono il seme e diffondono le parole che fanno crescere la giusta causa .

Ed eccoli qui i protagonisti, lavoratori non qualificati, quelli esclusi, lavoratori sempre in movimento, che saltano da un treno ad un altro, da uno stato all’altro, sui treni merci, viaggiando nei bagagliai.

È un sindacato in movimento anche l’Industrial Workers of the World, il grande sindacato rivoluzionario che cerca di organizzare precari, immigrati, braccianti, disoccupati e manovali a giornata per poter dare vita appunto a un solo grande sindacato che rechi in sé il modello di società a venire.

I Wobbies non furono più di 60000 ma influenzarono milioni di persone coinvolgendo in un’ondata di scioperi tutto il paese. Una grande idea che porterà a una dolorosa sconfitta ma che lascerà un segno indelebile nella storia.

La solidarietà della classe operaia trova supporto nel riferimenti di Walt Whitman alla maglia dell’identità in Song of Myself (1855, in Leaves of Grass, anche se il titolo del poema compare soltanto nella settima edizione, 1881)  che si riferisce al suo approccio di offuscare le distinzioni tra individui e sé medesimo, riunire tutte le genti in un paese comune, un’esperienza comune, un’umanità comune.

I socialisti che leggono i riferimenti di Whitman all’unità dell’America e alla solidarietà della classe operaia potrebbero estrarre da questi riferimenti una celebrazione del movimento sindacale. Del resto, la massa di gente comune celebrata da Whitman non poteva essere che questa: sfruttati e vagabondi, uomini visti come ribelli ed è il viatico di One Big Union, dove quel sindacato in movimento, dove il fischio della locomotiva nella notte, l’odore di cenere e di fumo e il fischio della locomotiva sono una grande unione.

Questo principio di Whitman è presente più che mai nel libro di Evangelisti che diventa una lettura indispensabile, una lettura che contribuisce a creare una cultura politica perché, come scriveva Mario Tronti, ai padroni fa paura la storia operaia e non fa paura la politica delle sinistre.

È tutto vero, basta poco per ritrovarsi in queste pagine di Evangelisti.

Where working-men defend they rigths, it’s there you find (dove i lavoratori difendono i loro diritti, là ti possiamo trovare).

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Huck, Ishmael e la guerra di classe https://www.carmillaonline.com/2016/04/25/huck-ishmael-la-guerra-classe/ Mon, 25 Apr 2016 19:01:58 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=29926 di Sandro Moiso

fugitive days Bill Ayers, Fugitive Days. Memorie dai Weather Underground, DeriveApprodi 2016, pp. 336, € 22,00

Bill Ayers racconta la vicende di un pugno di ragazzi e di ragazze che volevano fare la rivoluzione. Ci mette sotto gli occhi il diario del tentativo, messo in atto da un gruppo di giovani incoscienti e coraggiosi, di portare la guerra fin nel cuore dell’Impero, quando negli Stati Uniti d’America, tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta, alcuni militanti della sinistra radicale dichiararono ufficialmente guerra al mostro imperialista. Mentre, allo stesso tempo, ci narra la storia [...]]]> di Sandro Moiso

fugitive days Bill Ayers, Fugitive Days. Memorie dai Weather Underground, DeriveApprodi 2016, pp. 336, € 22,00

Bill Ayers racconta la vicende di un pugno di ragazzi e di ragazze che volevano fare la rivoluzione.
Ci mette sotto gli occhi il diario del tentativo, messo in atto da un gruppo di giovani incoscienti e coraggiosi, di portare la guerra fin nel cuore dell’Impero, quando negli Stati Uniti d’America, tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta, alcuni militanti della sinistra radicale dichiararono ufficialmente guerra al mostro imperialista. Mentre, allo stesso tempo, ci narra la storia della ricerca collettiva di un altro mondo, di un’altra vita e di altre esperienze, sulle orme di Huckleberry Finn e di Ishmael, l’io narrante di “Moby Dick”.

L’autore oggi settantunenne, militante e fondatore dell’organizzazione clandestina dei Weather Underground, ci regala una delle più belle autobiografie scritte da un rivoluzionario. Epica, commovente, a tratti divertente ed ironica, ma mai, assolutamente mai, segnata da qualsiasi forma di autocompiacimento o, al contrario, dalla resa incondizionata alle ragioni del nemico. Anzi, il testo brilla proprio per la capacità del narratore di sollevare più di una critica nei confronti della pratica, militare ed ideologica, dei Weathermen, senza per questo slittare nel rifiuto della militanza rivoluzionaria o dell’azione diretta.

Non potrei immaginare, oggi, di mettere una bomba in un edificio. Tutto questo mi sembra molto chiaramente appartenere al passato. Ma, allo stesso tempo, non posso immaginare di scartare del tutto l’eventualità. L’affermazione «Vogliamo giustizia» ha per me il senso assoluto che ha sempre avuto e, perciò, aggiungere «Però, certo, non con ogni mezzo» mi sembra che equivalga a mettere la testa sul ceppo” (pag.322)

I Weather Underground, nati da una frazione separatasi dall’ SDS (Students for a Democratic Society) a partire dagli scontri della Convenzione democratica di Chicago del 1968 e dalle successive Giornate della Rabbia dell’anno successivo, si posero molto presto il problema della violenza. Soprattutto di “quale violenza”. Una violenza che colpisse solo le cose o anche le persone?

diana e ted Al di là del dibattito puramente ideologico che, come sempre, servì soltanto a confondere le idee di molti e ad esaltare inutilmente l’ardore militante di alcuni, a risolvere il dilemma ci pensò, in maniera catastrofica e catartica, l’esplosione che, nel marzo del 1970, avvenne in un’elegante palazzina situata al numero 18 della West Eleventh Street nel Greenwich Village e che spazzò letteralmente via, oltre che i muri dell’edificio, anche le vite di tre militanti della prima ora che stavano preparando una bomba ad alto potenziale destinata a colpire le odiatissime forze dell’ordine.

La morte improvvisa di Diana Oughton, Ted Gold e Terry Robbins (di cui non fu ritrovato nemmeno il corpo) segnò irrimediabilmente il corso successivo dell’organizzazione che, pur continuando a colpire con le bombe le istituzioni militari, poliziesche, bancarie ed economiche dell’imperialismo americano, rifiutò di utilizzare la violenza come metodo per distruggere i corpi. Seppure degli avversari. Una scelta difficile che, contemporaneamente, rischiò di inimicare ai suoi membri sia l’ala pacifista del movimento di contestazione alla guerra nel Vietnam, sia quella più radicale e politicizzata.

Ma, prima di giungere a quelle drammatiche scelte, il cammino di Ayers e degli altri militanti era stato lungo, tortuoso e segnato da numerose esperienze di auto-organizzazione (le scuole per i bimbi poveri, quasi solamente afroamericani, di Chicago o Detroit), autodifesa (la rivolta di Cleveland nel 1966), difesa dei cittadini di colore e dei loro diritti (fin dai primi anni sessanta) e, soprattutto, dal rifiuto di una guerra ritenuta profondamente ingiusta e sbagliata: quella in Vietnam appunto.

weatherman-days-of-rage-chicago-october-9-1969 Il percorso di formazione, dall’infanzia in un ambiente borghese e perbenista fino alla scelta di una militanza integrale e svolta in clandestinità , è delineata dall’autore con un taglio spesso degno di Mark Twain, equamente diviso tra ironia, spacconeria, a tratti, ed amarezza. Il fiume della Storia, dall’azione antischiavista di John Brown prima della guerra civile o, ancor prima, dal Boston Tea Party che diede il via alla guerra di indipendenza o dalla ribellione di Shay che la seguì, fino all’azione degli IWW e alle parole del Che o a quelle di Ho Chi Min, diventa così una sorta di ideale e lunghissimo Mississippi lungo il quale Ayers discende sulle orme di Huckleberry Finn e dello stesso Twain.

Mentre, soprattutto nelle parti più prossime all’autocritica e al rimpianto per le perdita degli amici e della donna amata, il testo sembra rievocare quel “Call me Ishmael” con cui ha inizio il più bel romanzo della letteratura americana dell’Ottocento: Moby Dick. E questa similitudine è resa possibile non soltanto dal tentativo dichiarato, fin dalla Convention di Chicago del ’68, di arpionare il mostro capitalista e la sua democratica balena bianca, ma anche dal fatto che il fragile Pequod e la fragile organizzazione di cui l’autore ha fatto parte sono destinati a scomparire proprio nel momento in cui il loro obiettivo sarà raggiunto.

Inoltre di Ishmael non conosceremo mai il cognome o il vero nome, così come l’autore perderà per anni il suo vero nome fino quasi a dimenticarlo per vivere, in clandestinità, sotto altri nomi e le più svariate identità sociali e lavorative. L’Io qui si rivela così essere qualcosa, allo stesso tempo, di collettivo e di estremamente soggettivo. Collettiva la spinta, collettive le motivazioni e le aspirazioni, soggettiva la scelta e soggettive le riflessioni. Soggettivo, soprattutto il coraggio, sempre accompagnato da una certa umiltà.

Umiltà che sembra lasciare sullo sfondo l’importanza dell’azione diretta nella chiusura dell’intervento americano nella guerra in Indocina; umiltà che assegna solo all’organizzazione e al coraggio dei combattenti e delle popolazioni vietnamite e cambogiane il merito della vittoria militare. Eppure, eppure…

Avevamo rivendicato una mezza dozzina di attentati, ognuno enormemente ingigantito dalla valenza simbolica dell’obiettivo, dall’entità, volutamente cauta e prudente dello scoppio, e dai puntuali comunicati pubblici che suggerivano la terribile o esilarante notizia che in America si stava formando un movimento di guerriglia interno. Esplose un’onda positiva di violenza e disperazione, ma avevamo ormai poche illusioni sulle nostre reali capacità, e potevamo vedere quello che stava succedendo in tutto il mondo. L’escalation di attentati alle sedi del ROTC (Reserve Officers’ Training Corps – Corpo di Addestramento degli ufficiali di Riserva), agli uffici di leva e ai centri di reclutamento, durava da almeno due anni, e i bersagli della volenza politica adesso includevano grandi società chiaramente collegabili con l’aggressione e l’espansione degli Stati Uniti: Bank of America, United Fruit, Chase Manhattan Bank, IBM, Standard Oil, Anaconda, general Motors. Dall’inizio del 1969, fino alla primavera del 1970, negli USA ci furono più di 40 mila minacce o attentati e 5 mila esplosioni riuscite contro governativi o imprenditoriali, una media di sei attentati al giorno. Salvo due o tre casi, l’intera orgia di esplosioni era rivolta contro le proprietà, non le persone […] Cinquemila esplosioni, circa sei attentati al giorno, e i Weather Underground ne avevano rivendicate sei, in tutto. Sono cifre che fanno riflettere” (pag.262)

Si aggiunga a tutto ciò la rivolta in centinaia di campus universitari, l’azione auto-organizzata del Black Panther Party, l’uccisione dal parte delle forze del disordine di decine di studenti bianchi e di militanti neri, la rivolta, nemmeno troppo sotterranea, dei sodati al fronte e di quelli ritornati a casa e si capirà perché la guerra del Vietnam sia il secondo ed unico conflitto internazionale del ‘900 chiusosi, come il primo conflitto mondiale, non soltanto e solo per una sconfitta militare, ma anche, e soprattutto, per la paura delle classi dirigenti per l’apertura di un insanabile ed insuperabile conflitto interno destinato a sfociare, inevitabilmente, in una rivoluzione sociale.

Ayers non lo dice, non rivendica, anzi tende a smitizzare e a limitare il ruolo del suo movimento anche se il ruolo simbolico che assunse non fu certamente estraneo a ciò che avvenne. Grazie anche alla propaganda con cui il Federal Bureau (FBI), gli strumenti di repressione e disinformazione gonfiarono la pericolosità dei singoli militanti dell’organizzazione. Ricercati, inseguiti, dispersi, ma mai sconfitti. Come la resa degli ultimi militanti nel 1980 (tra cui lo stesso Ayers e la sua compagna Bernardine Dohrn) e il loro rapido rilascio, una volta rivelati gli sporchi trucchi ed inganni usati nei loro confronti dall’FBI, ben dimostrano.

billayersfbiLe accuse dei federali di cospirazione che ci avevano collocato sulla lista dei dieci più ricercati dall’FBI erano, ironia della sorte, decadute a causa della condotta del governo, estremamente cattiva. Si era scoperto, in seguito allo scandalo Watergate, che il Bureau aveva spudoratamente sorvegliato telefoni, violato abitazioni, e addirittura elaborato un piano per rapire il nipotino di Bernardine” (pag.329)

Ma non bastò solo quella prova a salvaguardare l’integrità fisica e la libertà dei più importanti rappresentanti dei Weathermen. L’altro, e principale fattore, fu rappresentato da una struttura “non partitica” e quindi non verticistica o piramidale dell’organizzazione e dalla sua strutturazione a cellule o “tribe” separate organizzativamente e soltanto unite dalla pratica e dagli obiettivi perseguiti.
Insieme, naturalmente, al fatto che tra gli arrestati ben pochi furono coloro disposti a parlare1 o a pentirsi.

Il libro racconta molto di più naturalmente: trasmette emozioni e suscita riflessioni che sono ancora tutte di estrema attualità. E’ un bellissimo libro non di memorie, ma sulla memoria. Sulla memoria dei vinti, dei vincitori, degli stati, dei rivoluzionari, dei controrivoluzionari e degli individui. Con tutti i loro difetti e le loro lacune.
Quando l’America ha perso la guerra – miseramente, alla fine – non è riuscita, com’era prevedibile, ad ammettere la sconfitta, a ricordare e a fare i conti con la realtà […] La verità è che gli Stati Uniti hanno perso la guerra in Vietnam. La verità è che hanno vinto quegli altri” (pag.324)

Non stiamo vivendo, possiamo esserne certi, sulle montagne, in tempi rivoluzionari, e questo è un dato di fatto. Viviamo a valle – tempi di incertezza e confusione, tempi di endemica irreparabilità e di sempre più profonda disperazione. Sono tempi in cui bisogna rimanere svegli e coscienti, raccogliere le forze, studiare e costruire i nostri progetti, apportare ogni modesto contributo possibile, per soffiare lievemente sui tizzoni della giustizia – e ricordare” (Pag.323)
Cosa che l’autore nel suo libro riesce a fare benissimo.

Nel caso in cui l’intervista autobiografica di Toni Negri vi avesse annoiato o irritato, gettatela via e, senza rimpianti, infilate le cuffie per ascoltare “Volunteers” dei Jefferson Airplane, “Kick Out The Jams, Motherfuckers!” degli MC5 oppure “Brown Shoes Don’t Make It” dei Mothers of Invention. Poi iniziate a leggere Ayers, non ve ne pentirete. Mai.


  1. Come dimostra anche il bellissimo documentario The Weather Underground di Sam Green e Bill Siegel  

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Detroit è morta, viva Detroit! (prima parte) https://www.carmillaonline.com/2013/08/09/detroit-e-morta-viva-detroit-prima-parte/ Thu, 08 Aug 2013 23:00:08 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=8246 iggy1di Sandro Moiso

E’ stata la capitale mondiale dell’auto. La Parigi dell’Ovest del XIX secolo americano. Un tempo fu  Fort Pontchartrain du Détroit, fondato nel 1701 dai francesi e poi conquistato dai fucilieri  del maggiore inglese Rogers. Fu al centro della guerra franco-indiana e poi della guerra del 1812 tra gli Stati Uniti e il Regno Unito. Oggi, con i suoi settecentomila abitanti è praticamente una sorta di ghost town, cui rimane il merito di essere la capitale di quella che fu chiamata rust belt a partire dagli anni ottanta del [...]]]> iggy1di Sandro Moiso

E’ stata la capitale mondiale dell’auto. La Parigi dell’Ovest del XIX secolo americano. Un tempo fu  Fort Pontchartrain du Détroit, fondato nel 1701 dai francesi e poi conquistato dai fucilieri  del maggiore inglese Rogers. Fu al centro della guerra franco-indiana e poi della guerra del 1812 tra gli Stati Uniti e il Regno Unito. Oggi, con i suoi settecentomila abitanti è praticamente una sorta di ghost town, cui rimane il merito di essere la capitale di quella che fu chiamata rust belt a partire dagli anni ottanta del secolo appena concluso. Eppure,eppure…

Heavy Music

 Non fatevi fregare dalle critiche compiacenti: l’ultimo album di Iggy and the Stooges fa cagare! Molto peggio del penultimo e senza paragoni rispetto a quelli degli anni sessanta e settanta. Il chitarrista James Williamson non ricorda nemmeno vagamente gli assalti sonici di Raw Power, Iggy s’è giocato la voce ai dadi e il resto del gruppo…beh, meglio lasciar perdere. Eppure Ready To Die, con la foto di copertina che ritrae Iggy  avviluppato da  una cintura esplosiva  sui fianchi e sul torace nudo può rappresentare simbolicamente (e non solo per il titolo) un ottimo punto di partenza per un viaggio a ritroso nella storia politica, sociale,economica e culturale della città del Michigan. Un viaggio, come quello di Iggy, a ritroso verso la gloria di un tempo, oggi forse definitivamente perduta.

 Perché proprio a partire dagli Stooges? Perché Detroit fu una delle capitali del rock alternativo e del rock blues degli anni sessanta e settanta. Tutti ricordano i luoghi sacri del rock’n’roll: Memphis e la Sun Records, San Francisco e la scena acida e psichedelica, New York e la provocazione delinquenziale dei Velvet prima e del primo, selvaggio punk poi; i fuori di testa texani e i compiti bostoniani indecisi tra psichedelia selvaggia e pop. Ma Detroit ragazzi…oh, Detroit!?! Fu la patria di quella che Bob Seger battezzò con il titolo di un suo brano: Heavy Music.

 Musica rock infarcita di blues e chitarre metalliche, di provocazione politica e incitamento alla rivolta. Piena zeppa di cantanti furiosi  e esplosioni soniche free form rubate al jazz più innovativo di quegli anni. I Motor City 5 (MC5) legati al White Panther Party e a John Sinclair, gli Up che si facevano fotografare armati fino ai denti con baionette e fucili M-1 (riparleremo più avanti di questo modello di fucile), Iggy che si contorceva sulla scena come un rettile mentre il resto del gruppo inscenava truculentissime gag a base di sangue (vero) e svastiche (false) come simbolo del potere dominante.

E poi Sun Ra che si spostava lì da Chicago, con la sua Arkestra, per partecipare al festival annuale della cittadella universitaria di Ann Arbor, più famosa per la riottosità dei suoi studenti che per la qualità delle sue accademie. E ancora Alice Cooper, incontrastato re del glam, benedetto agli esordi dal genio di Zappa che lo volle per la sua (fallimentare) Bizarre Records oppure la Tamla Motown (Motor Town) una delle grandi etichette di musica nera: innovativa, arrabbiata e fiera di esser tale.

I Rationals e il loro garage venato di  blues e, in seguito, i Grand Funk Railroad, in origine pesanti e metallici forse più dei veicoli prodotti dalla Ford della loro originaria Flint; la James Gang e gli assoli rock blues infiniti, Bob Seger con il suo Sound System ispirato al soul e alla cultura blue collar, fino ai catastrofici Destroy All Monsters di Ron Asheton (ex- Stooges) e della indemoniata cantante  Niagara nei primi anni ottanta. Senza dimenticare il grande Sixto “Sugarman” Rodriguez, i cui testi costituiscono sicuramente uno dei prodotti più genuini della street e class culture della Detroit di quegli anni. Qualcuno o qualcosa è stato certamente dimenticato, ma già questi bastano  a dar vita a un bel gruppo di kamikaze sonori e culturali.

Oggi la stampa nazionale e internazionale parla della crisi di Detroit come del fallimento del welfare e delle conseguenze della globalizzazione, ma ignora tutto ciò e quello che qui seguirà perché dovrebbe porsi domande imbarazzanti. Come, ad esempio: Da dove proveniva tutta questa energia? Quale era il tessuto sociale e culturale che la propagava? Perché è finita?

Società multirazziale, lotta di classe e laboratorio sociale

Nel 1820 la città, sorta sule rive del fiume Detroit nella regione dei Grandi Laghi, contava 1.422 abitanti; nel 1900 ne contava 285.704, nel 1920 ben 993.678, mentre nel 1950 raggiunse la cifra di 1. 849.568. Una crescita esponenziale, legata soprattutto all’industria dell’auto, da quando Henry Ford, nel 1904, iniziò a realizzare lì la prima vettura”di massa”: la Model T. Mentre, sempre nella stessa città, anche i fratelli Dodge (John Francis e Horace Elgin) e Walter Chrysler iniziavano a  produrre automobili. Crescita demografica dovuta dunque all’enorme massa di diseredati, bianchi e neri e di differenti nazionalità, che si riversò  nella città a caccia di un posto di lavoro.

Con la seconda guerra mondiale e lo sviluppo delle industrie belliche l’afflusso, soprattutto dagli stati del Sud, divenne gigantesco, finendo anche con l’aumentare le tensioni razziali e di classe che già si erano manifestate nel corso delle lotte sindacali degli anni trenta e delle race riot  del 1943. Ancora oggi una qualsiasi cartina stradale ci mostra, figurativamente, qual’era la posizione centrale di Detroit rispetto all’industria americana.

A circa 380 chilometri ad Est sorge Chicago, che era stato l’altro grande collettore di manodopera nera e immigrata più o meno negli stessi decenni e in cui, dalla seconda metà dell’Ottocento, l’industria della carne in scatola (con relativi mattatoi e macelli) aveva fato da traino. Un po’ più a sud, sulla riva opposta dello stesso lago, si trova Cleveland, con i suoi impianti industriali in disuso, e poche miglia più a sud di questa troviamo Akron, ex-capitale della gomma  e della produzione di pneumatici.

Scendiamo ancora e troviamo, non molto distante, Pittsburgh con le sue acciaierie e, verso est, Buffalo, centro portuale ed industriale da tempo riciclato in città turistica e “culturale”. Siamo nel cuore del cuore delle vecchie regioni industriali. Là dove il conflitto sociale può vantare decenni di storia e gli IWW avevano giocato le loro sorti e quelle del sindacalismo d’industria nei primi quarant’anni del XX secolo. Si potrebbe dire di essere in prossimità di quello che, in un tempo neppure troppo lontano, è stato  il cuore del conflitto sociale degli Stati Uniti.

Ancora nel 1972, Detroit costituiva  il quartier generale dell’industria dell’auto, quella che all’epoca dava lavoro ad un americano su sei. E proprio in quell’anno Lawrence M. Carino, Presidente della Camera di Commercio di Detroit, poteva dichiarare: ”Detroit è la città dei problemi. Se ne esistono, noi probabilmente li avremo. Sicuramente non ne avremo l’esclusiva. Ma certamente li avremo prima di altri…La città è ormai diventato il laboratorio vivente  per il più completo studio possibile sulla condizione urbana in America*.

Cinque giorni a luglio

Nel momento in cui rilasciava questa dichiarazione, Carino doveva ancora avere ben in  mente i cinque giorni del luglio 1967 in cui la città era stata protagonista della più grande rivolta urbana della storia degli Stati Uniti dopo quella di New York del 1863 contro la leva obbligatoria istituita nel corso della Guerra Civile. In quel caso fu l’artiglieria ad essere usata contro i rivoltosi nelle strade di New York City, mentre a Detroit si fece ricorso ai carri armati e all’aviazione in dotazione alla Guardia nazionale.detroitriot 1

Tutto era iniziato a causa di un intervento della polizia per chiudere un locale privo della licenza di vendita per le bevande alcoliche che si trovava nei locali della United Community League for Civil Action, sull’angolo della Dodicesima Strada  con Clairmount Street nel Near West Side. Gli agenti pensavano di trovare poca gente poiché erano le 3:45 del mattino di una domenica. Invece nei locali si trovavano 82 afro-americani intenti a festeggiare alcuni loro amici appena tornati dal servizio in Vietnam. Come la polizia tentò di arrestarli tutti, nelle strade si radunò una folla enorme che costrinse gli agenti ad una precipitosa ritirata sotto una pioggia di bottiglie e sassi. Era il 23 luglio.

Nel corso dei giorni successivi vi furono 43 morti (34 neri e 9 bianchi, tra i quali l’unico agente di polizia ucciso durante i disordini), 1189 feriti, 7200 arresti e 2000 edifici distrutti. Furono assaltati supermercati e negozi, mentre la polizia lamentò (senza mai provarlo veramente) la presenza di cecchini tra i manifestanti. Per sedare i disordini fu richiesto prima l’intervento della Guardia Nazionale, autorizzato dal Presidente Johnson il 25 luglio, e, successivamente, di reparti aviotrasportati dell’esercito.

Di fatto la città finì con l’essere occupata militarmente da 8000 soldati della Guardia Nazionale e 4700 paracadutisti del 32° Airborne oltre che da 360 agenti della Michigan State Police. Nei giorni successivi la presenza massiccia di truppe sul territorio urbano contribuì ad incrementare il numero degli uccisi, dei feriti e degli arrestati, ma rischiò anche di degenerare in scontri a fuoco tra soldati della Guardia nazionale (prevalentemente bianchi) e paracadutisti (prevalentemente neri). Tanto che  fu ordinato ai paracadutisti di far ricorso alle armi soltanto su ordine o in presenza di un ufficiale bianco.

Con il 27 luglio la rivolta ebbe termine e l’ordine tornò a regnare su Motor City, ma il segnale era stato allarmante e l’establishment politico ed economico si rese conto che le conseguenze sociali e politiche avrebbero potuto essere ben più gravi. Dopo quella rivolta la rabbia nera perse, però, le sue connotazioni esclusivamente razziali per conseguire una maggiore coscienza di classe che si sarebbe da lì a poco manifestata attraverso nuove e più politicizzate forme di organizzazione.

John Lee Hooker per primo si fece cantore della rivolta con il suo blues Motor City Is Burning, ma anche il cantautore canadese Gordon Lightfoot le dedicò la sua Black Day in July. Ma si può tranquillamente affermate che fu proprio la rivolta a cambiare l’attitudine di numerose rock band che fino a quell’anno erano state prevalentemente legate al garage per poi passare dopo quegli eventi ad un atteggiamento più rabbioso ed impegnato. Primi fra tutti i Motor City 5 di Fred Sonic Smith, Wayne Kramer  e Rob Tyner.detroit-riots

I danni furono calcolati intorno ai 500 milioni di dollari;  tra gli arrestati più di 6000 erano adulti e quasi un migliaio gli adolescenti. Il più giovane aveva 4 anni e il più vecchio 82, mentre 5000 persone rimasero senza casa. Quando agli inizi del XX secolo gli afro-americani erano emigrati dagli stati del Sud verso il Nord, in quella che è ancora de finita la Grande Migrazione, la popolazione cittadina, come si è già visto, si era enormemente incrementata, ma non così l’offerta e la disponibilità di case per nuovi venuti. In questo modo i neri di Detroit furono pesantemente discriminati sia sul piano sociale che su quello lavorativo.

Nei primi anni sessanta la loro condizione era parzialmente migliorata e si andava formando una classe media di origine afro-americana, ma alla vigilia della rivolta molti appartenenti alla comunità nera si ritenevano insoddisfatti o delusi dai lenti progressi di cui erano testimoni e/o attori. La commissione di inchiesta formata dopo la fine della rivolta accertò che, prima della rivolta, il 45% degli agenti di polizia operanti nei quartieri abitati prevalentemente da afro-americani erano decisamente “anti-negro” (come li definì la stessa commissione) e che un altro 34% era costituito da agenti significativamente marchiati dal pregiudizio razziale.

Nell’insieme il corpo di  polizia della città di Detroit era formato al 93% da agenti bianchi a fronte di un 30% di residenti neri nella città. Così era facile che gli agenti di pattuglia si rivolgessero ai maschi neri di qualsiasi età con il termine “Boy” e alle donne di colore con i termini confidenziali “Honey” o “Baby”. Queste ultime venivano poi spesso fermate ed arrestate per “prostituzione” se camminavano da sole per strada. Senza contare, poi, che un certo numero di residenti in città, non solo neri, dichiarò che uno dei problemi principali durante la rivolta di luglio era stato costituito dalla brutalità e dal comportamento aggressivo della polizia.

* Dan Georgakas, Marvin Surkin, Detroit: I Do mind Dying, South End Press, Cambridge, Ma, 1998, prima edizione 1975, pag.1

(Fine prima parte – continua)

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