Islamofobia – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 L’ebreo immaginario degli antisemiti non abita a Tel Aviv https://www.carmillaonline.com/2024/04/19/lebreo-immaginario-degli-antisemiti-non-abita-a-tel-aviv/ Thu, 18 Apr 2024 22:10:59 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81974 di Fabio Ciabatti

Manuel Disegni, Critica della questione ebraica. Karl Marx e l’antisemitismo, Bollati Boringhieri, Torino 2024, pp. 448, € 26,60.

Ma davvero qualcuno ha potuto sostenere che Marx era antisemita? Ebbene sì. Evidentemente è difficile resistere alla tentazione di attribuirgli anche questa infamia. Di sicuro il linguaggio del rivoluzionario tedesco è tutt’altro che politically correct quando parla dei problemi attinenti alla questione ebraica. Si pensi, solo per fare un esempio, a un’espressione come la “raffigurazione sordidamente giudaica” utilizzata nelle Tesi su Feuerbach.  In ogni caso, tutta questa faccenda non meriterebbe di essere presa sul serio se non fosse che, dietro [...]]]> di Fabio Ciabatti

Manuel Disegni, Critica della questione ebraica. Karl Marx e l’antisemitismo, Bollati Boringhieri, Torino 2024, pp. 448, € 26,60.

Ma davvero qualcuno ha potuto sostenere che Marx era antisemita? Ebbene sì. Evidentemente è difficile resistere alla tentazione di attribuirgli anche questa infamia. Di sicuro il linguaggio del rivoluzionario tedesco è tutt’altro che politically correct quando parla dei problemi attinenti alla questione ebraica. Si pensi, solo per fare un esempio, a un’espressione come la “raffigurazione sordidamente giudaica” utilizzata nelle Tesi su Feuerbach.  In ogni caso, tutta questa faccenda non meriterebbe di essere presa sul serio se non fosse che, dietro di essa, si nasconde il tentativo truffaldino di attribuire lo stigma dell’antisemitismo a tutta una tradizione politica che a Marx si richiama o, molto più spesso, si richiamava. E questo per alimentare la narrazione degli opposti estremismi, di destra e di sinistra, a beneficio di un centrismo liberale tanto nobile quanto introvabile. O, peggio ancora, il presunto peccato di Marx servirebbe a ripulire l’immagine di una destra che verso gli ebrei ha avuto storicamente un’ostilità esplicita e feroce. Come dire, tutti antisemiti, nessun antisemita. 

E allora prendiamo il toro per le corna, utilizzando l’interessante testo Critica della questione ebraica. Karl Marx e l’antisemitismo di Manuel Disegni. Attraverso questo libro vogliamo partire da Marx per giungere a questioni di più stretta attualità arrivando a conclusioni che, meglio dichiararlo subito, potrebbero anche non piacere all’autore. Marx tratta apertamente dell’antisemitismo in un solo testo, per di più giovanile. Si tratta del famoso articolo intitolato Sulla questione ebraica in cui Marx non ha remore nell’utilizzare stereotipi ripresi dalla tradizione antiebraica a lui coeva. Senonché, nota l’autore, non li utilizza perché li condivide ma perché li vuole ritorcere contro chi li propugna. La natura “sordidamente giudaica” infatti non viene attribuita agli ebrei, ma a tutta la società contemporanea, caratterizzata dalla scissione tra il citoyen, il cittadino astratto dedito al bene comune, incarnazione della volontà generale, portatore della razionalità illuministica, da una parte, e il bourgeois, l’uomo concreto, egoista, dedito esclusivamente ai suoi interessi individuali, ostinatamente attaccato alla sua particolarità, dall’altra. La raffigurazione dell’ebreo altro non è che il risultato dell’attribuzione a un’alterità mostruosa delle caratteristiche proprie del bourgeois. Le caratteristiche, cioè, della società civile che mettono costantemente a rischio l’appartenenza dell’individuo alla comunità politica raggiunta attraverso la partecipazione alla vita dello stato.
In queste pagine del giovane filosofo tedesco abbiamo, insomma, un’anticipazione del concetto psicoanalitico di proiezione, il meccanismo inconscio attraverso il quale un soggetto attribuisce a un nemico immaginario il proprio lato oscuro e inconfessabile. Nel caso specifico, la sua essenziale asocialità. Questo stesso dispositivo retorico viene replicato in molti altri testi, come accade ripetutamente con l’utilizzo da parte di Marx della figura dell’usuraio ebreo Shylock, il personaggio del Mercante di Venezia di Shakespeare. E ciò testimonia, secondo Disegni, come il tema dell’antisemitismo sia presente in tutta la sua produzione teorica. Sebbene in modo implicito, Marx ci ripete che gli antisemiti hanno la stessa religione dei loro ebrei immaginari: adorano solo il dio denaro.

Ma c’è di più. Secondo l’autore l’opera matura di Marx si può configurare anche come una critica dell’economia politica dell’antisemitismo. Quest’ultimo, sin dai suoi inizi fino al suo apice nazista, si basa sulla dicotomia tra lavoro e denaro. Il primo santificato, il secondo demonizzato. Il lavoro rende liberi, sta scritto all’entrata del campo di sterminio nazista di Auschwitz. Quella che potrebbe sembrare soltanto una macabra ironia è in realtà uno dei fondamenti dell’antisemitismo, secondo Disegni.
Il lavoro è al centro del progetto emancipatore della modernità borghese. È ciò che consente all’uomo di liberarsi dalla tirannia della natura e di costruire liberamente il proprio mondo. È il naturale fondamento della proprietà. Ma il lavoro è anche ciò che, nell’ideologia nazista, connette i singoli alla comunità razzialmente connotata. Esso è pensato come intrinsecamente nazionale, ariano. Ma il mondo in cui si esplica questo lavoro è tutt’altro che coeso, pacificato, comunitario. È un mondo in profonda crisi, scisso. E questa crisi deve essere attribuita al potere del denaro che ha un carattere cosmopolita, ubiquo, astratto. In una parola, ebraico. Il potere del denaro opprime e disgrega la laboriosa comunità nazionale. Bisogna perciò eliminare ciò che impedisce il naturale compimento del benessere collettivo sopprimendo il mostruoso detentore di questo potere. In sintesi, si parte dalla dicotomia tra lavoro e denaro e si arriva alla soluzione finale. 

Vedremo tra breve la critica di Marx a questo dispositivo, ma prima bisogna notare che esso può funzionare solo se viene accettato il binomio ebrei-denaro. Un binomio che affonda le sue radici nel medioevo quando gli ebrei, impediti nel partecipare alle più comuni attività produttive, si specializzano nel commercio e nel prestito di denaro. Tutto ciò potrebbe far pensare a una sostanziale continuità tra il medioevo e modernità quanto a discriminazione contro gli ebrei. Cosa che Disegni nega decisamente. L’antisemitismo, afferma, è un fatto moderno che ha natura completamente diversa dall’antigiudaismo medioevale. Insomma, “soltanto quando il concetto della eguaglianza umana possegga già la solidità di un pregiudizio popolare”, per dirla con Marx, può sorgere una questione ebraica, cioè il problema se sia lecito o meno negare l’emancipazione a un gruppo particolare.
Il trattamento discriminatorio riservato agli ebrei non poneva alcun problema alla coscienza medioevale. Quel mondo era esplicitamente composto da diversi gruppi caratterizzati da differenti diritti e doveri. La mancata emancipazione degli ebrei è dunque una questione che si pone nell’ambito del progetto illuministico, segnalando le sue interne contraddizioni. Anche se il binomio ebrei-denaro nasce in un lontano passato il suo significato muta con il mutare del significato del denaro che, nel mondo borghese, ha un ruolo essenzialmente diverso rispetto a quanto accadeva nei modi di produzione precapitalistici.

E qui è il concetto di modo di produzione ad essere quanto mai rilevante. Marx non parla semplicemente di un modo di appropriazione della ricchezza prodotta dal lavoro. Cosa che sarebbe tutto sommato compatibile, secondo Disegni, con l’idea, antisemita, che è il potere del denaro ad espropriare il lavoro. Marx parla, appunto, di modo di produzione e cioè di una modalità in cui si esplica il lavoro che è essa stessa la forma in cui si realizza l’espropriazione. Insomma, la contraddizione è tutta interna al lavoro che, da una parte è strumento di potenziale emancipazione, dall’altra di effettivo sfruttamento.
Non è un caso che Marx giunge a formulare i suoi concetti più maturi sul capitale passando attraverso la critica di Proudhon che vorrebbe abolire il denaro per salvaguardare il lavoro. Il lavoro così com’è. Il socialista francese, veemente antisemita fino al punto di invocare lo sterminio degli ebrei, sarà sempre uno dei suoi bersagli polemici da un punto di vista teorico e politico. Perché la sua puerile dialettica tra un lato buono da salvaguardare (il lavoro) e un lato cattivo da abolire (il denaro) mette capo ad un programma che potremmo sintetizzare con la famosa formula “cambiare tutto per non cambiare nulla”. Marx invece vuole un cambiamento radicale, a partire dal rivoluzionamento dei rapporti di produzione. Il filosofo tedesco non nega l’importanza del lavoro per l’emancipazione dell’umanità, ma ritiene che è proprio in questo ambito che si infrangono le promesse della modernità. Ed è proprio da qui che bisogna iniziare ad incidere se a quelle promesse si vuol tener fede.

Ma non è tutto. Il potere del denaro non è un mero abbaglio, ma un’apparenza necessaria che scaturisce dallo stesso modo di produzione capitalistico. È la realtà fenomenica, il mondo come appare immediatamente agli individui che si sentono soggiogati da una potenza aliena, estranea di cui non riescono a comprendere il funzionamento. Il denaro è la manifestazione più appariscente del capitale, anche se in realtà è solo una delle forme in cui si incarna il capitale stesso per adempiere alla sua natura di valore che incessantemente si valorizza. Tutto ciò sarebbe assolutamente impensabile al di fuori del modo di produzione capitalistico in cui il denaro, nelle sue diverse forme, è il medium universale della produzione materiale e dunque della riproduzione degli individui. Per questo il binomio ebrei-denaro nella modernità capitalistica mette capo a un particolare tipo di pregiudizio antiebraico, l’antisemitismo, che è cosa storicamente diversa dall’antigiudaismo del medioevo, epoca in cui il denaro ha solo un ruolo limitato.
Questo ci spiega, secondo Disegni, la pervasività dell’antisemitismo. Non è sbagliato parlare della radice piccolo-borghese di questo fenomeno, ma è limitativo. Se ci si fermasse a questa considerazione di natura sociologica, sostiene l’autore, non potremmo capire perché l’antisemitismo abbia attecchito ampiamente anche tra la borghesia propriamente detta e tra le classi popolari. L’apparenza necessaria di cui abbiamo parlato, essendo un fenomeno che in modi diversi riguarda tutti, ci può infatti spiegare la diffusione del pregiudizio antiebraico. 

In sede di commento, come già anticipato, prendiamo spunto da alcune questioni suscitate dal libro per arrivare ai giorni nostri. Sebbene Disegni non lo espliciti, a partire dalla connotazione storicamente determinata del pregiudizio antiebraico moderno, così come la descrive lo stesso autore, si può contestare alla radice l’idea che le critiche allo stato di Israele possano rappresentare una forma di antisemitismo, come pretenderebbe, per esempio, la cosiddetta definizione operativa dell’Alleanza internazionale per la memoria dell’Olocausto. La connotazione ectoplasmatica dell’ebraismo immaginario degli antisemiti è infatti l’esatto opposto della natura concreta di uno Stato. A maggior ragione se abbiamo a che fare con una potenza fortemente militarizzata e pervicacemente impegnata a conquistare palmo a palmo la “terra promessa”, incurante di chi da secoli la abita. Il forte legame con la terra contrasta in modo netto la natura deterritorializzata del potere del denaro, espressione per eccellenza del presunto potere ebraico.
Insomma, se vogliamo capire dove attecchiscono oggi le radici della sempreverde malapianta dell’antisemitismo dobbiamo guardare altrove. Bisognerebbe indagare il rapporto tra il pregiudizio antiebraico e il razzismo genericamente inteso, tema che è completamente assente nel testo di Disegni. Per esempio si potrebbe fare riferimento al ruolo attribuito al miliardario ebreo Soros nell’attuazione del fantomatico Piano Kalergi, cioè la sostituzione etnica delle popolazioni bianche attraverso l’immigrazione extraoccidentale. In questo ever green del complottismo più farneticante, vediamo fondersi il più classico antisemitismo con il razzismo altrettanto classico nei confronti delle popolazioni non occidentali che oggi si declina soprattutto come islamofobia. La comunità nazionale degli onesti lavoratori, per riprendere uno dei temi del libro di Disegni, non sarebbe oggi minacciata solo dall’alto, dal potere “ebraico” del denaro, ma anche (o forse soprattutto) dal basso, dalla marea di colore formata dai migranti. 

Il fatto è che in tempi recenti il capitale ha iniziato a dismettere le sembianze cosmopolite e multiculturaliste degli anni ruggenti della mondializzazione neoliberista. In tempi di deglobalizzazione selettiva (processo, invero, assai contraddittorio) indossa sempre più volentieri una maschera nazionale. Ma, sotto questa maschera, la comunità nazionale rimane un’ombra priva di corpo perché la scissione marxiana tra citoyen e bourgeois rimane operativa e, semmai, si è approfondita. Per questo si cerca dare nuova linfa a questo corpo esangue attraverso una retorica etno-nazionalista. Il risultato, però, è solo una fragile soggettività pseudo-collettiva caratterizzata da una rancorosa volontà di escludere l’alterità più che da un sentimento di vicinanza con il proprio simile. Un rancore che può avere come bersaglio, anche se con motivazioni differenti, gli immigrati o un qualsiasi altro gruppo razzializzato. Compresi, evidentemente, gli ebrei perché il capitale deterritorializzato può tornare a rappresentare un nemico da dare in pasto alla plebe impoverita in un periodo in cui monta la retorica del rimpatrio dei capitali (che poi si rivela essere una parziale rilocalizzazione in chiave geopolitica).
Inutile girarci attorno, mettere a tema il rapporto tra antisemitismo e razzismo non può che creare imbarazzo tra i sostenitori a prescindere dello stato di Israele (per essere chiari, non sto parlando dell’autore del libro recensito di cui non conosco le posizioni in proposito). Il legame indissolubile tra colonialismo e razzismo, infatti, riguarda anche il sionismo che, sin dalle sue origini tardo ottocentesche, è un progetto di carattere coloniale. L’idea che la Palestina fosse una terra senza popolo da destinare a un popolo senza terra (in teoria al popolo ebraico, in realtà al movimento politico sionista che non ha mai coinciso con l’insieme delle persone di fede e cultura ebraiche) è tutto sommato sovrapponibile al concetto che da sempre giustifica la spoliazione coloniale, quello terra nullius: terra di nessuno, appunto, e per questo liberamente appropriabile. Il fatto che il sionismo abbia avuto successo perché ha offerto un approdo di salvezza agli ebrei perseguitati in Europa nulla toglie alla sua natura coloniale, mentre aggiunge sale sulle ferite del popolo palestinese che, utilizzando le parole di Edward Said, si trova a vivere non solo il dramma dell’occupazione, ma anche “la tragedia di essere vittima delle vittime”. 

In conclusione, tornando al testo di Disegni, è senz’altro vero, come sostiene l’autore, che l’antisemitismo ha una sua connotazione peculiare che lo distingue dal razzismo genericamente inteso. Ma distinto non significa privo di relazioni. Se, per contrastare un supposto antisemitismo, si finiscono per alimentare stereotipi razzisti di altra natura (per esempio quelli nei confronti delle popolazioni di fede islamica che si oppongono allo stato di Israele), si rischia seriamente di bruciarsi con il fuoco che si sta appiccando per tenere lontano dal proprio fortino le orde di barbari. Ha di nuovo ragione Disegni quando sostiene che l’antisemitismo è il frutto di una mancanza di radicalità nell’affrontare il tema del lavoro sfruttato e alienato, ma lo stesso vale per il razzismo in quanto tale. Una radicalità che possiamo ritrovare anche con l’aiuto di Marx. Una radicalità che la leggenda del suo antisemitismo vorrebbe screditare. Anche per questo è oggi utile leggere Critica della questione ebraica. Karl Marx e l’antisemitismo.

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Islam: riforma e identità https://www.carmillaonline.com/2019/12/27/islam-riforma-e-identita/ Fri, 27 Dec 2019 22:00:39 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=56902 di Giovanni Iozzoli

Alle volte, per cogliere qualche frammento di verità dentro grandi fenomeni globali di difficile lettura, possono essere utili libri “minori” – quelli scritti da autori eccentrici, privi di pedigree accademico e non facilmente inquadrabili. Se si parla del presente dell’Islam – uno dei nodi più complessi della modernità – vale la pena leggere due libri, non recentissimi: Viaggio al termine dell’Islam di Michael Muhammad Knight (Castelvecchi 2015) e Non c’è Dio all’infuori di Dio. Perché non capiamo l’Islam di Reza Aslam (Rizzoli 2015). Tra le infinite suggestioni che suscitano questi [...]]]> di Giovanni Iozzoli

Alle volte, per cogliere qualche frammento di verità dentro grandi fenomeni globali di difficile lettura, possono essere utili libri “minori” – quelli scritti da autori eccentrici, privi di pedigree accademico e non facilmente inquadrabili. Se si parla del presente dell’Islam – uno dei nodi più complessi della modernità – vale la pena leggere due libri, non recentissimi: Viaggio al termine dell’Islam di Michael Muhammad Knight (Castelvecchi 2015) e Non c’è Dio all’infuori di Dio. Perché non capiamo l’Islam di Reza Aslam (Rizzoli 2015). Tra le infinite suggestioni che suscitano questi due testi, si intrecciano questioni diverse e attualissime: come sta impetuosamente cambiando l’Islam, sotto la spinta potente della modernità; come muta in tempi brevi l’immagine che l’Occidente coltiva dell’Islam; come si intersecano i nodi delle identità – occidentale e “musulmana” – tra conversioni laceranti e silenziose apostasie.

Due autori controversi, dicevamo. Knight è un americano dalla fanciullezza complicata – per essere eufemistici. Si è convertito ad un Islam purista e conservatore alla tenera età di 17 anni. La relazione tra la sua identità di americano – pienamente figlio della sua epoca, dei suoi miti spettacolari, dei suoi linguaggi – e la sua identità di neo-musulmano, riproduce pirotecnici contorcimenti. Affrontati comunque con ironia: in copertina la sua collezione di pupazzini dei personaggi di Star Wars circonda un modellino della Ka’ba – non si capisce se minacciosamente o in adorazione. E’ visto malissimo, Knight, dalle comunità islamo-americane, per i suoi toni dissacranti al limite della bestemmia. Pare invece letto e apprezzato dai giovani musulmani Usa. La sua storia, così estrema e paradossale, racconta molto della produzione di soggettività – abbastanza schizoide – che la modernità sta liberando. Basti dire che Knghit si è interessato all’Islam leggendo gli scritti di Malcom X – a sua volta conosciuto attraverso i testi dei Public Enemy -; si è poi avvicinato ai gruppi neri, separatisti, legati alla Nation of Islam; ha studiato in una madrassa pakistana, aderendo – pare – anche alla resistenza cecena antirussa. Per poi, in età adulta, diventare cultore e narratore della scena Taqwacores (l’area musicale punk-rock diffusa tra i giovani americani di provenienza mediorientale), produrre romanzi e film provocatori – sempre sul filo di lama delle identità meticce e dissacranti – e sfidare a wrestling i suoi eruditi detrattori in barba bianca. Insomma, un americano a tutto tondo.

preferirei essere uno sciita a New York che al Cairo o un sunnita a New York che a Theran. Preferirei essere un ahmadi a New York che a Lahore, preferirei essere un sufi a New York che alla Mecca. E’ una cosa stronza da dire? […] Forse l’America era davvero la nazione più sinceramente Islam-friendly del mondo. (pag. 19)

Ed è un nodo interessante: le democrazie tardo liberali ti lasciano essere ciò che vuoi, praticare qualsiasi eresia, coltivare qualsiasi culto; purché questi trasformismi identitari non intacchino la vera unica fede che deve far da sfondo a ogni identità: il monoteismo del profitto – della merce, del denaro, della supremazia anglosassone. Per cui si può tollerare benissimo la moschea – o la pagoda o qualsiasi altro tempio – nel grande melting pot della metropoli americana: ma si bombarderà spietatamente la medesima moschea in Afghanistan o in Pachistan se si sospetta sede di attività antiamericane. Non è questione di islamofobia, solo business e policy. E’ pur sempre il paese che ha avuto per otto anni un presidente dal nome arabo (di esibita fede cristiana, puntualizza Knight, perché avrebbe avuto il medesimo problema di accettazione se si fosse dichiarato musulmano o ateo).

Knight rievoca in continuazione gli eroi profetici di una storia non sua: come quella del Nobile Drew Ali, il fondatore del Tempio della Scienza Moresca, un predicatore di inizio secolo che, grazie a un eclettismo vertiginoso – tra teosofia e riscrittura coranica – portò per la prima volta il termine Islam nei ghetti di Chicago e New York, invocando l’“orgoglio moresco” dei popoli “scuri” e sventolando orgogliosamente la bandiera del Marocco ad Harlem. Ugualmente carismatico fu il suo seguace Wallace Fard Muhammad, poi fondatore della Nation of Islam, autoproclamatosi addirittura incarnazione profetica. Fard scompare misteriosamente negli anni ‘30 e Knight, nel suo personale pellegrinaggio americano, crede di averne persino ritrovato le tracce, che arrivano fino agli infuocati anni ’70. La cosa paradossale è che uno come Knight, agli occhi di Fard, sarebbe stato etichettato solo come “un diavolo dagli occhi blu”, essendo la teologia della Nation fondata su un afroislamismo che rievoca suggestioni e leggende circa la supremazia della razza nera e il carattere demoniaco di quella bianca. In quel furioso convulso inizio del ’900 americano, con le prime generazioni di ex schiavi che si riversavano nelle città ridisegnandone linguaggi e culture, la scelta di usare l’Islam come veicolo di militanza e organizzazione non era astrusa. Per tutto il ’900, l’Islam – o meglio “l’dea di Islam” di volta in volta più funzionale allo scopo – è stato spesso sventolato come bandiera di emancipazione o di resistenza antimperialista, non solo nelle colonie ma anche nei ghetti metropolitani. Negli Usa diventò potente fattore di attivazione di un orgoglio black motivato teologicamente: creare la Nazione nera dei puri e dei santi, contro la razza depravata dei bianchi oppressori. Erano anche gli anni in cui Garwey elaborava il mito parallelo del ritorno all’Africa come nuova Sion. Insomma, un guazzabuglio nel quale Michael Muhammad Knight si muove testardamente, quasi rassegnato all’idea che la sua vita debba essere fondata sull’incoerenza. Tanto da continuare a preferire i discorsi di Fard contro i “diavoli bianchi”, al Malcom X ultimo periodo, che lascia la Nation e si converte all’universalismo dell’islamicamente corretto. Del resto la letteratura è contraddizione, scandalo, paradosso: e se tutto si incanala nel binario giusto, cosa resta da scrivere ad un povero narratore della post-modernità?

Nelle sue pagine meno narcisistiche e dissacranti, Knight lascia affiorare un afflato spirituale reale, malinconico, dolente, che non trova nelle forme attuali dell’Islam un suo appagamento. Come ogni scrittore americano in crisi di identità, Knight partorisce il suo romanzo on the road, un racconto di viaggio mistico e prosaico, sacro e dissacrante tra Pakistan, Siria, Etiopia e lo conclude in Arabia Saudita, intraprendendo infine l’Haji, il sacro pellegrinaggio alla Mecca. Ovunque Knight semina la sua confusione e le sue domande irrisolte: prega nei grandi mausolei dei santi pakistani, visita il Minareto Bianco di Damasco da cui Gesù discenderà per decapitare l’Anticristo; irride il rigore iconoclasta della polizia religiosa saudita che vigila affinché le modalità del culto siano in linea con le prescrizioni governative; infine in un eccesso parossistico, proprio in casa del nemico saudita – simbolo della ipocrisia e della burocratizzazione del potere religioso – si “converte” allo sciismo e piange sul destino di Husayn e di tutti i martiri.

Knight è solo uno scrittore dall’identità impazzita come una maionese? E’ solo il figlio di un tempo in cui per la prima volta le persone possono decidere cosa essere – anche quale maschera indossare – per assecondare bisogni, desideri e frustrazioni dell’ego? Ma allora perché rimanere testardamente attaccato proprio alla più complicata, scomoda e “pesante” tra le tante maschere disponibili – quella musulmana? Per lacerarsi masochisticamente nei dubbi? Perché ormai si è ritagliato una fetta di mercato come convertito dissacratore?

Negli ultimi 15 anni Maometto era diventato il mio linguaggio, il tramite delle mie domande e risposte. Se questo linguaggio aveva un cuore concreto in questo mondo, se da qualche parte si poteva trovare una traccia di Maometto, allora portatemi là. Portatemi da lui. (pag. 269)

C’è dell’altro, in questo ragazzone, al di là delle pose, qualcosa di altrettanto contemporaneo e pungente: una malattia dell’anima, la struggente mancanza che si avverte anche quando si chiude il libro appena scritto, l’inafferrabilità della verità dietro le ombre colorate della società dello spettacolo, il senso di crisi e di decadenza che si intravede dietro ogni ottimismo tecnologico. Da questo punto di vista è una lettura stimolante per tutti, non solo per i cultori della materia.

Reaza Aslam, non è meno interessante, in tema di nomadismi identitari; la famiglia, iraniana, scappa dalla rivoluzione Khomeinista e lui cresce in America – la terra dove ogni gnosi e ogni materialismo, anche i più estremi, convivono serenamente. Si converte giovanissimo al cristianesimo pentecostale e poi si “riconverte” allo sciismo, di cui rivendica tutt’ora l’appartenenza, sia pure nelle forme estremamente eterodosse tipiche dell’intellettuale inquieto che è. Tra le molte cose del suo curriculum, si è occupato (ovviamente) dei gruppi spirituali marginali – le frange, i bordi estremi dell’esperienza religiosa – perorando la causa del Bahismo perseguitato in Iran; o provocando l’indignazione degli induisti americani per aver mostrato in un documentario un asceta tantrico che mangia resti di cervello umano, stile Hannibal.

Insomma, il tipo giusto per affrontare una questione colossale e stringente:

Dopo quattordici secoli di furiosi dibattiti su cosa significhi essere musulmano, di accese discussioni sull’interpretazione del Corano e sull’applicazione della legge islamica, di tentativi di riconciliare una comunità divisa appellandosi all’Unità Divina, di lotte tribali, crociate e guerre mondiali, l’Islam è entrato nel suo quindicesimo secolo e ha iniziato a realizzare la sua lungamente attesa e tanto combattuta Riforma. Questa non verrà però risolta nei deserti della Penisola arabica, dove il messaggio dell’Islam ha fatto la sua comparsa sulla terra, ma nelle capitali dei paesi in via di sviluppo del mondo islamico (Theran, il Cairo, Damasco e Giacarta) e nelle capitali cosmopolite dell’Europa e degli Sati Uniti (Londra, Parigi, Berlino e New York), dove il messaggio islamico viene oggi rielaborato da schiere di immigrati musulmani di prima e seconda generazione, stanchi della predominanza del tradizionalismo e della militanza nella loro fede […] Come le riforme del passato, anche questo sarà un evento terrificante, un evento che ha già iniziato a travolgere il mondo. Ma dalle ceneri del cataclisma emergerà un nuovo capitolo della storia dell’Islam; e anche se resta ancora da vedere chi scriverà questo capitolo, è imminente una nuova rivelazione che si è risvegliata, dopo secoli di sonno, e sta avanzando verso Medina per rinascere. (pag. 330)

Raza è ben consapevole della problematicità dell’uso della categoria “Riforma”, applicato all’analisi di fenomeni assolutamente estranei a quella storia. Ma mantiene il termine, proprio per il senso di drammatico passaggio storico che essa evoca: così come la Riforma Luterana ha ridisegnato poteri e culture in Europa, così la Riforma Islamica di cui prevede (e auspica) l’avvento, stravolgerà l’attuale forma del mondo politico-religioso musulmano. L’evocazione delle guerre di religione europee è anche pertinente storicamente: sarà un processo travagliato, doloroso, almeno quanto lo furono i conflitti intestini che spaccarono e incendiarono il nostro continente, fino alla conclusione della Guerra dei Trent’anni.

Ma attraverso quali segni l’autore preconizza l’inizio di questa grande Riforma? Essenzialmente nella decadenza delle istituzioni e delle élite specialistiche, destinate alla trasmissione del sapere nel mondo islamico – vedi la caduta di prestigio dell’Università di Al Azahr, l’istituzione più prossima all’idea di un “centro” teologico-giurisprudenziale comune, costituitosi in seno al variegatissimo universo islamico.

In passato se un musulmano del Cairo voleva una fatwa, ossia un editto religioso su un argomento controverso, doveva sedere ai piedi dei venerabili studiosi dell’Università Al Azhar, le cui opinioni su questioni religiose e sociali erano legge. Oggi quel musulmano può starsene a casa , connettersi a IslamOnline e frugare nel vasto archivio di fatwe nuove o precedentemente pubblicate […] Poiché provengono da un’ampia varietà di fonti, l’utente può accedere a numerose fatwe, spesso contrastanti, sullo stesso argomento: non deve far altro che decidere quale gli piace di più. […] Se il responso del cyber-mufti si dimostra insoddisfacente, l’utente può rivolgersi ad uno dei concorrenti di IslamOnline, come FatwaOnline.com, IslamismScope.net […] Oppure un migliaio di altri siti gestiti da uno stuolo di leader religiosi e laici, attivisti e accademici, guide spirituali, intellettuali e dilettanti, ognuno dei quali può estendere la sua influenza al di fuori della comunità locale con un semplice indirizzo IP. (…) E’ difficile esagerare l’impatto che ha avuto Internet non soltanto sull’evoluzione dell’Islam, ma in maniera più significativa, sul modo in cui l’autorità religiosa si è dispersa e democratizzata. L’unico paragone legittimo è con l’invenzione della stampa, perché esattamente come quel progresso tecnologico spinse l’Europa cristiana verso la Riforma protestante […], così Internet è diventato il veicolo grazie al quale la Riforma islamica si sta realizzando. (pag. 342)

Pur senza condividere eccessivi cyber-entusiasmi (da cui noi occidentali dovremmo ormai essere vaccinati), è evidente che dentro il mondo islamico, anagraficamente giovane, dinamico e in espansione, molte cose stanno bollendo e molti cambiamenti sono irreversibili. La moderna Umma globale non si fida più delle sue guide, le mette in discussione e grazie all’iperconnessione globale inventa nuovi centri di elaborazione, nuovi canali di comunicazione, nuove prassi che silenziosamente possono diventare egemoni.

Certo, è uno scenario che si sta sviluppando in due direzioni contraddittorie: da una parte si potrebbero moltiplicare le spinte centrifughe verso lo Jhiadismo globale, definitivamente svincolato dalla necessità di farsi legittimare teologicamente da una qualche autorità; dall’altro potrebbero sorgere fenomeni di ibridazione culturale molto interessanti in senso democratico – pensiamo ad una nuova generazione di guide comunitarie giovani e di sesso femminile, già visibili nel contesto italiano. Sia chiaro però che lo scontro non è tra “Tradizione e innovazione”: l’uno e l’altro esito saranno entrambi espressioni dell’impatto dell’Islam con la modernità. Infatti, al di là di mitopoiesi e apparati coreografici, il salafismo e lo Jhiadismo, sono fenomeni contemporanei e recenti (in senso relativo lo è anche il wahabbismo) che, pur richiamandosi a purezze arcaiche, hanno fatto la loro irruzione sulla scena solo da qualche decennio, occupando l’immaginario collettivo a suon di bombe e califfati fasulli – sempre, tra l’altro, dentro un forte intreccio logistico, militare e finanziario, con gli Stati impegnati nella contesa geopolitica globale.

Siamo davvero davanti a un passaggio epocale. Bisogna prestare molta attenzione a questi scenari, analizzarli, condividere con le comunità islamiche occidentali livelli di dibattito sempre più profondi, contrastare ogni anacronistica islamofobia: come dice l’autore, le periferie di Londra e di Parigi saranno palcoscenici importanti, quanto quelli mediorientali, nella definizione degli equilibri futuri del mondo.

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Er Burkarolo https://www.carmillaonline.com/2013/05/26/er-burkarolo/ Sun, 26 May 2013 19:20:10 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=5673 di Alessandra Daniele

Magritte.jpg– Quella! – Il vigile indica una passante in nero. Il collega la guarda girarsi. – È ‘na monaca. – Cazzo, peccato. Potevo esse’ er primo a becca’ ‘na mussurmana burkata. Annavo sur tiggì. – Pe’ l’ordinanza antimmigrati? – Nun è antimmigrati – puntualizza il collega – è p’i diritti d’e donne. – I diritti de che?… D’i capelli? Allora te n’c’hai diritti. Il collega dalla testa rasata gli dà un’occhiata torva. – E pe’ identificalle. Nun so’ riconoscibbili.

Indica un’altra figura tra la gente. – Qua’ llà?… – È n’omo. C’ha’r cappuccio. – Sicuro che è n’omo? [...]]]> di Alessandra Daniele

Magritte.jpg– Quella! – Il vigile indica una passante in nero. Il collega la guarda girarsi.
– È ‘na monaca.
– Cazzo, peccato. Potevo esse’ er primo a becca’ ‘na mussurmana burkata. Annavo sur tiggì.
– Pe’ l’ordinanza antimmigrati?
– Nun è antimmigrati – puntualizza il collega – è p’i diritti d’e donne.
– I diritti de che?… D’i capelli? Allora te n’c’hai diritti.
Il collega dalla testa rasata gli dà un’occhiata torva.
– E pe’ identificalle. Nun so’ riconoscibbili.

Indica un’altra figura tra la gente.
– Qua’ llà?…
– È n’omo. C’ha’r cappuccio.
– Sicuro che è n’omo?
– C’ha ‘a barba.
– Malimortacci…
Sbuffa.
– Ma com’è che nun ne passano? ‘Ndò stanno?
– Dice che ce ne so’ puro troppe. Mò però se saranno tappate ‘n casa.
– Ma ‘ste mussurmane se devono mette’ er burka nero puro drento casa?
– Esticazzi? L’ordinanza dice che debbono da esse’ riconoscibbili per strada.
Il collega indica un’altra passante.
– Quella!
– È ‘na negra, è nera de colore, ‘n c’ha er burka.
– Beccamola uguale, nun è riconoscibbile, è troppo nera.
– None. Io voglio becca’ ‘na burkata ve-ra! – Scandisce – Voglio anna’ sur ti-ggì!
– Dev’esse proprio una cor burka nero origginale, o basta ch’è coperta?
– Me basta coperta – si guarda attorno con aria triste.- a ‘sto punto me contento puro se ‘n testa c’ha ‘na tovaja.
– Quella llà! – Indica il collega – Cor fazzoletto!
– Evvai! Daje, beccamola!
I due vigili raggiungono la passante alle spalle, e la bloccano, la donna si gira, divincolandosi.
– Ma che cazzo state a fa’?
– A ma’!
– È tu’ madre?
– Certo che so’ io, a ‘mbecilli! – La donna molla una borsettata al figlio vigile – Ma che volevi, carcera’ tu’ madre?
– A ma’… perché stai coperta?
– Perché c’ho ‘a permanente fresca, cojone!
Il vigile china la testa.
– Scusa ma’.
– Scusa ar cazzo! M’hai fatto pijà ‘n corpo! Me credevo ch’eravate mussurmani!

[Nota personale: chi fosse interessato a un mio commento al piccolo vespaio suscitato da Il Dottore Stranamore, lo trova qui: La ragazza che ha aspettato abbastanza]

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