Ippazio Stefàno – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 14 Dec 2025 21:00:52 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Sinistra ecologia – Parte quarta https://www.carmillaonline.com/2013/12/27/11641/ Fri, 27 Dec 2013 02:00:39 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=11641 di Alexik

tamburi [A questo link il capitolo precedente]

“Ognuno fa la sua parte, dobbiamo però sapere che a prescindere da tutti i procedimenti, le cose, le iniziative, l’Ilva è una realtà produttiva a cui non possiamo  rinunciare. … Volevo dirglielo perché poteva chiamare Riva e dirgli che il Presidente non si è defilato” .

Era il sei luglio 2010 quando il Presidente della Regione Puglia si scomodava personalmente (gesto già di per se inusuale) per contattare Girolamo Archinà, il sottopanza dei Riva,1 con una telefonata tornata di recente agli onori [...]]]> di Alexik

tamburi [A questo link il capitolo precedente]

“Ognuno fa la sua parte, dobbiamo però sapere che a prescindere da tutti i procedimenti, le cose, le iniziative, l’Ilva è una realtà produttiva a cui non possiamo  rinunciare. … Volevo dirglielo perché poteva chiamare Riva e dirgli che il Presidente non si è defilato” .

Era il sei luglio 2010 quando il Presidente della Regione Puglia si scomodava personalmente (gesto già di per se inusuale) per contattare Girolamo Archinà, il sottopanza dei Riva,1 con una telefonata tornata di recente agli onori della cronaca.  Al di là di frizzi, lazzi e risatine, l’argomento della conversazione era maledettamente serio: come porre rimedio alla “scivolata” di Giorgio Assennato, il direttore dell’Arpa Puglia che aveva permesso – orrore ! – la diffusione dei risultati di un monitoraggio così sputtanante per i vertici dell’Ilva?

Correlando le misurazioni degli inquinanti alla direzione del vento, l’Arpa aveva fornito infatti la dimostrazione scientifica sull’origine nell’Ilva degli altissimi livelli di benzo(a)pirene nel rione Tamburi2. I risultati del rapporto impegnavano implicitamente la Regione ad intervenire sulla fonte degli inquinanti, a meno di non voler spostare gli abitanti della periferia tarantina tutti quanti sopravento nei giorni di maestrale, quando la brezza proveniente dallo stabilimento innalzava la concentrazione di benzo(a)pirene fino a 3.88 ng/m3  (quasi il quadruplo del valore obiettivo).

Il documento dell’Arpa aveva già indotto il sindaco di Taranto Ippazio Stefano ad emanare un’ordinanza che imponeva all’azienda di ridurre le emissione di B(a)P entro 30 giorni.  Sotto accusa la cokeria del siderurgico, che assieme all’altoforno ed al reparto sinterizzazione risultava di gran lunga la maggior fonte di idrocarburi policiclici aromatici della città3.

Tabella IPA

La pubblicazione dei dati poneva non solo l’Ilva, ma anche i vertici regionali in forte imbarazzo. Avrebbero dovuto riaprire uno  scontro col potere economico, come ai tempi della legge sulle diossine, infrangendo la ritrovata armonia ? Ammettere che la “nuova era nei rapporti tra industria e comunità di Taranto” era una supercazzola ? Che il “governatore della provvidenza”, nel caso dell’Ilva, non aveva ancora risolto un gran chè ?

La normativa ambientale prevedeva che le Regioni  intervenissero sulle fonti di emissione del benzo(a)pirene al superamento del valore obiettivo, pari ad 1 ng/m3 .4 Dato che tale valore era ampiamente superato e la fonte emissiva certa, la Regione Puglia si trovava nell’obbligo di imporre all’Ilva il risanamento della cokeria in base alle migliori tecniche disponibili. Intervento piuttosto oneroso, dato che si trattava (e ancora si tratta) di un impianto vetusto, una sorta di colabrodo sempre più deteriorato dalla carenza di investimenti e dai ritmi eccessivi imposti dalla produzione.

Venne descritto così, in seguito all’ispezione del NOE del novembre 20115:  “I C.C. avevano notato la generazione di emissioni fuggitive provenienti dai forni che, una volta aperti per far uscire il coke distillato, lasciavano uscire i gas di processo che invece dovrebbero essere captati da appositi aspiratori/abbattitori installati sulle macchine scaricatrici, anche se una di tali macchine addirittura ne era sprovvista. Inoltre … nella parte superiore dei forni le bocche di caricamento che dovrebbero essere sigillate prima dell’inizio della cottura, in realtà sfiatavano durante il processo a causa della loro non corretta chiusura. In ultimo, anche nella fase di scaricamento del coke, si evidenziavano copiose emissioni di colore scuro…”

Tabella IPA 1

In mezzo a queste nubi scure, centinaia di operai si sono avvicendati nei turni, giorno dopo giorno, anno dopo anno, tumore dopo tumore. Nel 2002 l’ultimo monitoraggio da parte di strutture pubbliche sui loro livelli di idrossipirene urinario aveva dimostrato il superamento del limite biologico di esposizione agli IPA per 51 operai (sui 325 della cokeria). Alcuni lo superavano 10 volte6 .  Anche per loro sarebbe stato d’obbligo il risanamento del reparto, in base alle norme di igiene e sicurezza del lavoro.

Ma non di questo si parlò nella telefonata fra Vendola e Archinà, e nemmeno nella riunione urgente che si tenne pochi giorni dopo fra la Regione e i vertici dell’Ilva. Almeno a giudicare dai commenti dei convenuti7:

Ilva: cokeria 2011

Ilva: cokeria 2011

Fabio Riva (ragionando su cosa dire in un comunicato stampa):  “… si vende fumo, non so come dire! Si, l’Ilva collabora con la Regione, tutto bene.  E di fumo, in effetti, Riva ne aveva da vendere.

Girolamo Archinà: “Siamo stati da Vendola… e con Vendola avevamo concordato… un certo discorso, in pratica che dovevamo fare con questo tavolo tecnico… che aveva più obiettivi. Uno di quelli in ordine di tempo, uno di quelli, il primo, sconfessare i lavori dell’Arpa Puglia”.

Archinà riferiva anche dell’umiliazione subita dal direttore dell’Arpa  (“Assennato è stato fatto venire al terzo piano però è stato fatto aspettare fuori”)  e  di un ordine del governatore a un dirigente: “Esci fuori vai a dire ad Assennato che lui i dati non li deve utilizzare come bombe di carta che poi si trasformano in bombe a mano!”.

Indagato per concussione con l’accusa di aver esercitato pressioni su Assennato, oggi Vendola sostiene che le parole e le azioni attribuitegli da Archinà  erano una mera invenzione per millantare credito.  Ma il fantasioso tirapiedi dei Riva si era proprio inventato tutto ?

Il giorno dopo l’incontro con i vertici dell’Ilva, l’assessore regionale all’ambiente Lorenzo Nicastro annunciò in una conferenza stampa la creazione di un tavolo tecnico dove si sarebbe definito il cronoprogramma per “avviare il primo vero monitoraggio diagnostico del benzo(a)pirene”, con l’installazione di nuove centraline. “Abbiamo avvertito la necessità di andare oltre per capire in che quantità e soprattutto in che luoghi c’è la maggiore concentrazione di questo idrocarburo. Poi, dati scientifici alla mano, si deciderà sul da farsi”.  Tradotto in altre parole: il monitoraggio già effettuato dall’Arpa, quello foriero di risultati inquietanti, non è né vero né scientifico. I dati di quel monitoraggio non servono per decidere già da ora sul da farsi. Si rimanda ogni decisione ai risultati del vero monitoraggio che, essendo molto approfondito, necessiterà di moolto, ma mooolto tempo. Et voilà ! Il “tavolo tecnico per sconfessare i lavori dell’Arpa Puglia” è servito. Fra l’altro, all’incontro con i giornalisti il direttore dell’Arpa era stranamente assente8.

Era ormai evidente che Regione non sarebbe intervenuta sulla cokeria dell’Ilva, né utilizzando i poteri che ancora aveva grazie alle norme ambientali, né mobilitando i servizi ispettivi dell’Asl in materia di sicurezza del lavoro. Rimaneva in piedi almeno l’ordinanza del sindaco di Taranto, che intimava all’Ilva il rispetto dei valori obiettivo, ma ancora per poco.

Nell’agosto 2010, con il D.Lgs. 155, il governo Berlusconi – sempre solerte nel ricambiare quei 120 milioni di euro sborsati cash dal patron dell’Ilva per l’Alitalia –  provvide ad abrogare  tutta la normativa preesistente sul benzo(a)pirene, spostando il termine per il rispetto del valore obiettivo di 1 ng/mdal primo gennaio 1999 a fine dicembre 20129 . In pratica veniva cancellato un obbligo già in vigore da tempo per rimandarne l’applicazione di altri due anni e mezzo10. Nel frattempo il benzo(a)pirene rimaneva privo di limiti, ovviamente non solo a Taranto, ma in tutt’Italia, ché qui mica si fanno leggi ad aziendam !

Contro il decreto del governo le associazioni tarantine insorsero. La Regione Puglia no. Nonostante le sollecitazioni degli ambientalisti11 , non impugnò davanti alla Corte Costituzionale un provvedimento che impediva agli enti locali di intervenire su inquinamento urbano e tutela della salute (sulla quale la Regione ha competenza concorrente). In compenso promise di promulgare una legge regionale sul benzo(a)pirene, che sulla falsa riga di quella sulle diossine ripristinasse i valori obiettivo per il territorio pugliese.

Nel frattempo la strategia del “vendere fumo” continuava alla grande. Nel novembre 2010 l’Ilva cominciò ad editare una rivista patinata, probabilmente di fantascienza, visti i contenuti oltre i confini della realtà. Il primo numero ospitava una lunga intervista a Nichi Vendola12 :

Sui balconi del rione Tamburi - 2012

Sui balconi del rione Tamburi – 2012

“Dal mio primo incontro con l’ing. Riva sono cambiate molte cose. In primo luogo è cambiata la fabbrica. Negli ultimi anni sono stati realizzati numerosi interventi di ambientalizzazione, sono state avviate importanti campagne di monitoraggio della qualità dell’aria, sono stati cambiati alcuni processi produttivi. Sono cambiate inoltre le modalità di relazione fra l’Ilva e il mondo esterno”…. “gli investimenti dal punto di vista ambientale sono stati notevoli, sebbene rimanga ancora molto da fare. In moltissimi settori sono state applicate le migliori tecnologie disponibili, come previsto dalla legislazione europea, e a breve il cronoprogramma per l’ambientalizzazione completa dell’ILVA sarà attuato al 100%”.

Niente male come marchettone filoaziendale, soprattutto se riferito a gente che stava platealmente gasando la periferia di Taranto con zaffate cancerogene e genotossiche !

L’operazione propagandistica venne completata con la pubblicazione da parte aziendale del “Rapporto Ilva Ambiente e Sicurezza 2010”,  che fra le immagini di mari azzurri, voli di fenicotteri, impianti tirati a lucido e governatori pugliesi con l’elmetto dell’Ilva in testa, riportava vere e proprie perle del tipo: “L’indice di polverosità (dei parchi minerali e fossili)…nel periodo 2005 – 2009 si è ridotto dell’85%”, o  “La cokeria dello stabilimento Ilva di Taranto è attualmente adeguata alle  Migliori Tecniche Disponibili13. Possiamo figurarci con raccapriccio quali possano essere le peggiori.  Il Rapporto Ilva venne accolto con entusiasmo dalla Fiom14 , e dalle 650 pecore degli allevamenti tarantini appena abbattute a causa della contaminazione da diossina15.

La legge regionale sul benzo(a)pirene vide la luce alla fine di febbraio 201116 . Venne votata all’unanimità anche dai consiglieri del centrodestra, e già questo fatto doveva suggerire qualche dubbio. L’Ilva ne accolse l’approvazione con un comunicato stampa che recitava: “La legge sul benzo(a)pirene non ècontronessuno ma traccia un principio di attenzione per le tematiche ambientali condiviso anche dall’Ilva”. Beh, se l’avessi scritta io, avrei cominciato a chiedermi : “dove ho sbagliato ?”.

In realtà, come sostenne il Coordinamento Altamarea, si trattava di una legge “generica, piena di indeterminatezze, priva di effettiva incisività, foriera di contenziosi e di allungamento di tempi”17.  Poteva trovare applicazione solo dopo un ulteriore anno di misurazioni. Dopodiché, una volta accertato il superamento del valore medio annuo di 1 ng/m3 ,  la Regione avrebbe definito un piano di risanamento delle aree esposte intervenendo anche sulle fonti industriali, laddove si stesse verificando il pericolo di un grave danno sanitario. E qui sarebbero passati altri mesi, garantendo complessivamente ai tarantini almeno un altro paio d’anni di inalazione  di B(a)P in dosi da cavallo  .

La legge non stabiliva termini precisi per il rispetto dei valori obiettivo, né sanzioni per le industrie inquinanti, né particolari criteri vincolanti di intervento per la Regione stessa.

Il primo “Piano di risanamento dell’aria del Quartiere Tamburi” venne stilato nel luglio 201218 (dopo altri 16 mesi di sforamenti),quando l’incriminazione dei padroni e dirigenti dell’Ilva  per disastro colposo e doloso, avvelenamento di sostanze alimentari, omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, danneggiamento aggravato di beni pubblici, getto e sversamento di cose pericolose e inquinamento atmosferico, erano già cosa pubblica. Le prescrizioni del piano regionale (quali la copertura degli stoccaggi pulvirolenti esterni) non sono state ancora ottemperate. Il benzo(a)pirene in compenso è calato, grazie al fermo di varie batterie per la produzione del coke, gentilmente indotto dall’intervento della magistratura tarantina. (Continua)


  1. Ilva, audio choc di Vendola. La telefonata integrale con Archinà

  2. Arpa Puglia,Benzo(a)pirene aerodisperso presso la stazione di monitoraggio della qualità dell’aria di via Machiavelli a Taranto. Attribuzione alle sorgenti emissive. Relazione preliminare, 4 giugno 2010, p.33. 

  3. Gli idrocarburi policiclici aromatici (IPA)  costituiscono una folta famiglia di idrocarburi variamente tossici o nocivi. Alcuni (Acenaftene) provocano effetti su fegato, reni, vie respiratorie, altri (Antracene) sono allergenici. Molti sono cancerogeni (o sospetti tali) o mutageni. Nel caso del benzo(a)pirene, esso è classificato dalla Iarc nel gruppo 1 (cancerogeno per gli umani) e genotossico (danneggia il DNA). Per approfondire: IARC,  Benzo(a)pirene. Monografia 2010, p.144. 

  4. Decreto Ministeriale del 25/11/1994 , Decreto Legislativo 3 agosto 2007, n. 152

  5. Tribunale di Taranto, Riesame avverso ordinanza emessa dal GIP in data 25 luglio 2012,  7 agosto 2012, pp. 27/28. 

  6. Tribunale di Taranto, Riesame avverso ordinanza emessa dal GIP in data 25 luglio 2012,  7 agosto 2012, p. 74. 

  7. Giusi Fasano, Ilva, le intercettazioni. I Riva: «Vendiamo fumo. Diciamo che va tutto bene», Il Corriere della sera, 15 agosto 2012. Francesco Casula, Ilva, Riva al telefono: “Ho visto Vendola, vendiamo fumo”, Il Fatto Quotidiano, 15 agosto 2012. 

  8. Michele Tursi, Colpo di spugna sulla cokeria, Corriere del Giorno, 16 luglio 2010. 

  9. Peacelink, Dossier. Le norme sul  Benzo(a)pirene cancellate dal dlgs  155/2010, 17 novembre 2010. 

  10. Non era l’unico aspetto bislacco del decreto. Esso, infatti, veniva preso in attuazione della Direttiva 2008/50/CE che non parlava affatto di benzo(a)pirene, ma di altri agenti nocivi. Non parlava di benzo(a)pirene neanche il testo del provvedimento presentato e approvato dalle commissioni di Camera e Senato. Il B(a)P fu inserito di soppiatto all’ultimo momento. Vedi: Ornella Bellocci, E il governo vara la legge che aiuta i grandi inquinatori,  Il Manifesto , 27 ottobre 2010  

  11. Email a Vendola e Nicastro dal Coordinamento Altamarea con oggetto: Ricorso al TAR Lecce c/o Regione con rilievi di incostituzionalità del D. Lvo 155/2010, 9 novembre 2010. 

  12. Vendola Nichi, Il ponte, novembre 2010, pp. 4/9. 

  13. Ilva, Rapporto Ambiente e sicurezza 2010, p. 160. 

  14. Fiom, Presentato il “Rapporto Ambiente e Sicurezza 2010”  per l’Ilva di Taranto, 25 novembre 2010 

  15. Coordinamento Altamarea, Taranto: diossina. Abbattute 650 pecore di due aziende agricole tarantine, 31/12/10. 

  16. Legge regionale 28 febbraio 2011, n. 3 

  17. Antonello Corigliano, Legge regionale sul benzo(a)pirene, quanti interrogativi, www.pugliapress.org, 3 marzo 2011. 

  18. Taranto, qualità dell’aria: Giunta regionale approva il piano di risanamento anti polveri, www.ecodallecitta.it, 18 luglio 2012. 

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Ilva connection https://www.carmillaonline.com/2013/07/10/ilva-connection/ Tue, 09 Jul 2013 22:01:34 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=7345 di Loris Campetti ilva_campetti

[Anticipiamo l’introduzione all’inchiesta di Loris Campetti Ilva connection. Inchiesta sulla ragnatela di corruzioni, omissioni, colpevoli negligenze, sui Riva e le istituzioni (Manni editore, Lecce 2013, pp. 192, € 14.00). La voce di Campetti si aggiunge a quelle di Cosimo Argentina, Girolamo De Michele, Gianmarco Leone, Mauro Vanetti, con le quali, da diversi punti di vista, Carmilla cerca di mantenere l’attenzione sull’Ilva di Taranto]

L’allevatore Vincenzo Fornaro è rimasto senza gregge perché i suoi armenti sono stati avvelenati dalla diossina e dalle polveri dell’Ilva di Taranto, il cui famigerato camino E312 proietta la sua [...]]]> di Loris Campetti ilva_campetti

[Anticipiamo l’introduzione all’inchiesta di Loris Campetti Ilva connection. Inchiesta sulla ragnatela di corruzioni, omissioni, colpevoli negligenze, sui Riva e le istituzioni (Manni editore, Lecce 2013, pp. 192, € 14.00). La voce di Campetti si aggiunge a quelle di Cosimo Argentina, Girolamo De Michele, Gianmarco Leone, Mauro Vanetti, con le quali, da diversi punti di vista, Carmilla cerca di mantenere l’attenzione sull’Ilva di Taranto]

L’allevatore Vincenzo Fornaro è rimasto senza gregge perché i suoi armenti sono stati avvelenati dalla diossina e dalle polveri dell’Ilva di Taranto, il cui famigerato camino E312 proietta la sua ombra sinistra in una campagna dove il pascolo è stato vietato. Sono a rischio incenerimento anche le prelibate cozze del Mar Piccolo, di cui il miticoltore Egidio D’Ippolito canta le meraviglie. Delle cozze pelose, quelle rarità del mare che nobilitano la tavola e intorbidano la moralità di taluni politici pugliesi, neanche a parlarne perché crescono in colonie, nei fondali del Mar Piccolo, dove per decenni si sono depositati i metalli pesanti, residui malsani di tutte le stagioni dell’industrializzazione tarantina, dall’Arsenale all’acciaio.

Camminando insieme a Vincenzo e attraversando in barca il Mar Piccolo con Egidio mi sono tornate alla mente alcune frasi di Karl Marx: «Il lavoro non è la fonte di ogni ricchezza. La natura è la fonte dei valori d’uso (e in questi consiste la ricchezza effettiva!) altrettanto quanto il lavoro, che è esso stesso soltanto la manifestazione di una forza naturale, la forza lavoro umana». A snaturare l’ambiente è il capitalismo che tutto piega e subordina al profitto. Il lavoro, trasformato in variabile dipendente dell’intero ciclo di accumulazione capitalistica, è la logica conseguenza del passaggio dal valore d’uso al valore di scambio che è la merce, sia essa materiale o immateriale. Immateriale può essere la merce, mai il lavoro.
Inizio questo libro con un riferimento alla Critica al programma di Gotha perché penso che non vi sia molto da inventare per districarsi tra le contraddizioni dell’oggi che si incarnano nel conflitto costruito tra due diritti inalienabili: al lavoro e alla salute, quest’ultima a sua volta condizionata dall’ambiente.
Gli stessi concetti, espressi dal grande vecchio di Treviri, ricorrono in alcuni passaggi dell’ordinanza del gip di Taranto con cui si conferma il carcere per il patriarca della siderurgia italiana, Emilio Riva, per i suoi rampolli e i suoi cavalier serventi. Il lavoro senza la sicurezza e la salubrità non è un diritto ma una maledizione. Questa incontestabile considerazione non è prodotta dall’ideologia, bensì dalla lettura di svariati articoli della Costituzione (1, 4, e dal 35 al 40); le responsabilità della distruzione ambientale di Taranto, e il conseguente disastro sanitario che colpisce operai e cittadini, non possono essere equamente spartite tra chi impone un ricatto e chi talvolta è costretto a subirlo perché è debole, e viene afferrato alla gola da chi usa tutto il suo potere per cancellare il riscatto insito nell’antica cultura del lavoro.

Se è vero che chi fa impresa ha il diritto di garantirsi degli utili, è altrettanto vero che i profitti non possono essere accumulati a danno di chi lavora e della collettività – e che danno: si sta parlando di ogni tipo di tumori, malattie respiratorie e cardiache. A suggerire queste riflessioni contenute nell’ordinanza è, ancora una volta, la nostra Carta costituzionale che si basa su un principio: padrone e operaio non partono dallo stesso livello e non hanno le stesse opportunità, è dunque giusto tutelare maggiormente chi è più svantaggiato. E per rendere ancor più esplicito il concetto, vent’anni dopo la Carta fondamentale ha visto la luce lo Statuto dei lavoratori.
Eppure, quel che appare è ciò che si vuole far apparire, riproponendo per l’ennesima volta la teoria dei due interessi contrapposti: da un lato quello dei lavoratori dell’Ilva che difendono il loro lavoro a ogni costo, anche se il prezzo da pagare è un tumore al polmone e l’inquinamento del territorio, e dall’altra quello dei cittadini che mettono al primo posto la salute, in nome della quale pretendono la chiusura del più grande stabilimento siderurgico d’Europa. Strana idea della cittadinanza questa, che esclude gli operai, trattati da untori. Persino una parte dell’ambientalismo più sensibile alla condizione operaia pretende da loro l’obiezione di coscienza, cioè il rifiuto di lavorare se il prodotto della propria attività provoca un danno sanitario a sé e alla collettività. Così, nella latitanza o peggio con la complicità di tanta politica e tante istituzioni pubbliche e private, laiche e religiose, di tanta stampa asservita e di tanto sindacato cooptato, si perde di vista il nemico principale, il padrone, che grazie a tanta subalternità è riuscito a scatenare la guerra tra poveri, tra le vittime della sua avidità, trasformando il conflitto verticale classico (capitale-lavoro) in un conflitto orizzontale.
Questa contraddizione, che possiamo definire antica, tra diritti inalienabili agita dai soggetti a cui viene negato ora il lavoro ora la salute, ora entrambe, è ben analizzata attraverso una lettura di classe dalla rivista di storia della conflittualità sociale “Zapruder. Storie in movimento”. «Negli anni Settanta, durante la recessione, nelle città statunitensi dell’acciaio circolava uno slogan molto incisivo: ‘Niente lavoro niente cibo – mangia un ambientalista’. […] Non molto diverso era il messaggio di un adesivo, uno di quelli che tanti statunitensi applicano alle loro automobili, tanto popolare in una cittadina dello Stato di Washington completamente dipendente dall’industria del legname e quindi coinvolta nella battaglia ecologista per la difesa del gufo maculato (spotted owl) e del suo habitat: ‘Sei ambientalista o lavori per vivere?’. Ma ‘la separazione tra le due sfere, quella sociale e quella ambientale, è fittizia e politicamente oppressiva, perché l’ingiustizia sociale riflette e (ri)produce l’ingiustizia ambientale in un metabolismo poroso tra corpi, lavoro e potere’. Insomma, quando una fabbrica inquina, i suoi veleni ammazzano anzitutto chi lavora dentro quella fabbrica; poi devastano il territorio dove è collocata, difficilmente un quartiere delle éliteurbane, e fanno ammalare chi ci vive; ed infine i suoi scarti troveranno la via che li condurrà in qualche discarica del sud del mondo o magari di quei tanti sud interstiziali dove vivono i poveri del nord. È l’ingiustizia ambientale che distribuisce i costi della crescita tra i poveri e i marginali, permettendo, invece, ai ricchi di massimizzare i loro profitti» (Un’altra primavera. Le lotte popolari per la giustizia ambientale, di Marco Armiero, Stefania Barca e Andrea Tappi, “Zapruder”, gennaio-aprile 2013).

Alla manifestazione a sostegno dei magistrati, che domenica 7 aprile 2013 ha solcato il centro di Taranto, c’erano medici, infermieri, farmacisti, cittadini, ambientalisti e, in fondo al corteo, il penultimo striscione era tenuto dalla moglie e dalle figlie di Ciro Moccia, l’ultima vittima dell’Ilva. L’operaio si era schiantato al suolo dopo un volo di dieci metri precipitando da una passerella mal posizionata mentre lavorava sull’impianto tarantino. Quello striscione non avrebbe dovuto aprire il corteo, davanti ai camici bianchi? Invece in testa non c’era, e dietro, a sfilare, non c’erano gli operai, i compagni di Ciro. Fino a quando quello striscione resterà in fondo al corteo e finché sarà seguito soltanto dai parenti di un operaio ammazzato, il padrone avrà vinto la sua battaglia.
Il conflitto tra i diritti fondamentali al lavoro e alla salute ha una storia lunga che inizia ben prima dell’Ilva di Taranto. Viene da lontano, dagli impianti chimici di Porto Marghera, dall’Acna di Cengio, da altri impianti inquinanti in Liguria, in Puglia, in Toscana, in Campania. Viene da Casale Monferrato, dove decenni dopo la chiusura dell’Eternit si continua a morire di mesotelioma. Ma all’Ilva questo conflitto ha una specificità che si chiama Emilio Riva, il “rottamaio” di cui questo libro racconta l’epopea: con pochi danari si è portato a casa la siderurgia italiana svenduta dallo Stato che, invece di tutelare un bene della collettività, ha scelto di liberarsene incassando per questa tipica privatizzazione all’italiana la metà dei soldi spesi per ammodernare lo stabilimento tarantino.
L’impero e le ricchezze di Riva si sono realizzate attraverso un sistema basato su ricatti e corruzione, cooptazioni e repressioni, sfruttamento e scambio politico. È impressionante come la storia del conflitto iniziato nello stabilimento di Genova si sia reincarnato tale e quale, quindici anni più tardi, nella fabbrica di Taranto. Due insediamenti produttivi costruiti a ridosso di popolosi quartieri, potremmo dire dentro questi quartieri, Cornigliano a nord e Tamburi a sud. La fabbrica sputa veleni, la popolazione protesta, la politica e le istituzioni “osservano”, si girano dall’altra parte, ma se si permettono di avanzare qualche proposta di risanamento e di ridimensionamento produttivo, pressate dalla rabbia delle vittime dell’inquinamento, Riva le corrompe e arma i suoi operai per lanciarli in una guerra insensata. A Taranto si ripete, più in grande, la storia di Genova che si concluderà con la chiusura della produzione a caldo, trasferita otto anni fa a Taranto per aumentarne la produzione d’acciaio fino a 10,5 milioni di tonnellate annue. Quando nella città dei due mari si materializza la percezione del disastro ambientale e sanitario provocato da diossina, Pcb, polveri sottili e metalli pesanti, comincia a svilupparsi una sensibilità ambientalista. Riva, grazie a un utilizzo senza precedenti della legge sull’amianto, svuota la fabbrica mandando a casa 12.000 lavoratori cinquantenni “usurati”, per sostituirli con altrettanti giovani meno costosi, rimasti a lungo precari, e corre ai ripari con i suoi metodi: disarma e coopta i sindacati, strumentalizza le preoccupazioni operaie, carezza la politica “glocalmente” – a Roma, a Bari, a Taranto – e la Curia arcivescovile, si compra i periti.

ilva_notteA Taranto, però, c’è una magistratura che vigila e fa il suo dovere, perseguendo i reati. Il 26 luglio del 2012 scattano gli arresti che decapitano i vertici del gruppo siderurgico, Emilio Riva, il figlio Nicola (successivamente lo stesso provvedimento toccherà anche all’altro figlio, Fabio, volato nel frattempo sulle rive del Tamigi) e tutti i massimi dirigenti. L’acciaieria viene sequestrata. Ed è soprattutto contro i giudici che si scatena l’azione di Riva, coadiuvato dal sostegno proveniente da troppe sponde: i governi alzano la soglia di inquinanti accettabili; i politici latitano quando non si fanno ammaliare dalle sirene del padrone delle ferriere, non più un nemico, bensì un modello da estendere a tutta la regione, come si evince dalle conversazioni registrate che coinvolgono – politicamente e non giudiziariamente – anche il governatore pugliese Nichi Vendola; un parlamentare del Pd, Ludovico Vico, promette di far uscire il sangue a un altro senatore del Partito democratico, Roberto Della Seta, troppo attento alla salute dei tarantini. E in tanti, a partire dal presidente della Provincia, tentano di dare il benservito al direttore generale dell’Arpa Puglia Giorgio Assennato che, con le sue perizie, sta mettendo a rischio il sistema di potere e i relativi privilegi, destinati a una casta allargata di cui fanno parte anche diversi settori dell’informazione. La compromissione, invece, non è solo politica ma anche giudiziaria nel caso del presidente della Provincia di Taranto, Gianni Florido, dirigente del Partito democratico ed ex segretario della Cisl, al centro di quattro nuove ordinanze di custodia cautelare eseguite – poco prima che questo libro venisse dato alle stampe – dalla Finanza a Taranto, sempre in relazione all’inchiesta “Ambiente svenduto”. Il reato contestato dal gip Patrizia Todisco è di concussione e si riferisce alla discarica Mater Gratiae all’interno dell’Ilva, destinata ai rifiuti speciali. Florido si sarebbe fatto in quattro per convincere chi avrebbe dovuto controllare il rispetto delle norme a chiudere un occhio, meglio tutti e due, per non intralciare il cammino dei Riva.
Ha amici negli ambienti più impensabili Emilio Riva, è “generoso” con la politica e nel 2006 arriva a finanziare con 98.000 euro la campagna elettorale di Pierluigi Bersani. Si tratta di un finanziamento lecito ma imbarazzante per il dirigente democratico, così come quello di 110.000 euro proveniente dalla Federacciai, di cui fanno parte le imprese del settore, Riva e Marcegaglia compresi. Quattro anni più tardi, la lettera di Riva a Bersani perché venisse domato il solito irriducibile senatore Della Seta non avrebbe sortito effetti: lo sostiene lo stesso senatore del Partito democratico che nega qualsivoglia pressione di Pierluigi Bersani. È “generoso” anche con gli operai che pretende di usare come massa di manovra, pagando pullman, panini e giornate non lavorate. Quegli stessi operai spinti a manifestare contro i giudici, con la copertura dei sindacati, ma con l’eccezione della Fiom che, dopo aver fatto pulizia al suo interno, senza risparmio di espulsioni, si rifiuta di manifestare a comando, su ordine del padrone. Il sindacato guidato da Maurizio Landini non ci sta a fermare le linee se a promuovere la protesta è proprio chi invece va combattuto, nemico della popolazione e nemico delle sue maestranze, responsabile del disastro ambientale e culturale di un’intera comunità.
Dall’altra parte c’è chi protesta a difesa dell’azione della magistratura e vuole portare lo scontro fino allo stadio finale, chiedendo la chiusura dell’Ilva anche con un referendum consultivo che il sindaco Stefàno ha tentato di evitare finché il Tar non gli ha imposto di indirlo. È durata sei anni l’attesa di un referendum che per molti protagonisti della vita tarantina rappresentava la strada sbagliata per affrontare un problema troppo serio. Come diceva alla vigilia delle urne un vecchio operaio dell’Ilva, andato in pensione grazie all’applicazione della legge sull’amianto, «se per un miracolo improbabile si raggiunge il quorum e vince chi vuole chiudere la fabbrica, perdono gli operai; se vince il no alla chiusura o, ipotesi più probabile, non si raggiunge il quorum, vince Riva. Bel risultato, davvero». È inutile provare a spiegare a chi si batte per la chiusura totale e definitiva dell’Ilva che l’impianto produce il 75-80% del Pil di Taranto ed è il garante dell’autonomia italiana rispetto all’acciaio; che 11.600 posti di lavoro diretti, più altrettanti nell’indotto, non si inventano dall’oggi al domani in una realtà che la cecità della politica ha voluto monoculturale; che l’acciaio si può produrre in un altro modo e dunque bisogna investire sulla trasformazione della fabbrica e del suo ciclo produttivo mentre si avvia il risanamento del territorio, del terreno, del mare, dell’aria, delle falde acquifere. Il referendum si è tenuto domenica 14 aprile 2013; come era facilmente prevedibile, anche per l’intervento massiccio dei poteri forti e istituzionali, il silenzio di una parte dell’ambientalismo e l’ostilità della maggioranza dei sindacati, il quorum non è stato raggiunto e solo il 19,5% degli elettori tarantini si è recato alle urne. Meno di un quinto degli aventi diritto, meno di un decimo nel martoriato quartiere Tamburi, e figuriamoci se a Tamburi il problema Ilva non è sentito. Il fatto è che “chiedere ai cittadini di chiudere o tenere aperta una fabbrica non si può fare con un referendum, per di più consultivo. Non è come decidere il nome di una strada”, diceva ancora il nostro amico operaio.

Sembra impossibile trovare una soluzione radicale, ma condivisa e praticabile. Infatti, chi non vede alternative alla chiusura dell’Ilva e delega questo compito alla magistratura, controbatte a ogni proposta di ristrutturazione dicendo che 20.000 posti di lavoro si possono realizzare con una grande opera di bonifica ambientale, mentre i soldi si possono trovare rinunciando alle grandi opere inutili come la Tav e tagliando le spese militari. Ma queste due voci sempre invocate, possono bastare a coprire le spese di un nuovo modello di sviluppo? Comunque, soldi a parte, l’anima più estrema dell’ambientalismo pensa e sostiene che, alla fin fine, gli operai dell’Ilva devono decidersi a “smettere”, si cerchino un altro lavoro. Come se a Taranto questo, oggi, fosse possibile. A chi sostiene che la chiusura dello stabilimento tarantino non aprirebbe necessariamente la strada alla bonifica – anzi potrebbe capitare come a Bagnoli, dove la bonifica non è mai stata fatta e chi ne era incaricato si è intascato i soldi disperdendo e mettendo sotto il tappeto amianto e altre schifezze – rispondono che è compito della politica mantenere gli impegni, vigilare e via dicendo. A chi spiega come, proprio a Bagnoli, la chiusura dell’Italsider abbia aperto le porte alla camorra, che finalmente è riuscita a conquistare una delle poche trincee napoletane contro la criminalità organizzata, si risponde che se arriva la criminalità la colpa è della politica. Questi ragionamenti aiutano a capire i motivi del boom di Beppe Grillo a Taranto, tanto tra chi manifesta contro i magistrati quanto tra chi sfila in corteo a favore della gip Patrizia Todisco.
Contro o a favore dei magistrati, sembrerebbe trattarsi di due posizioni opposte. Sono invece figlie dello stesso problema che si chiama assenza della politica. Per decenni la città di Taranto ha rimosso la questione Ilva, eppure c’era chi sapeva e sarebbe dovuto intervenire subito: prima che la situazione sanitaria esplodesse; prima che il conflitto tra città e fabbrica diventasse insanabile; prima che nell’immaginario collettivo l’acciaio – non Riva, come sarebbe logico, non quel modo di produrre, ma l’acciaio tout-court – diventasse incompatibile con una città di quasi 200.000 abitanti. Oggi il clima è talmente deteriorato che chiunque cerchi una soluzione condivisa e praticabile è costretto a tacere e ad abbassare gli occhi quando la madre di un bambino di Tamburi, morto di tumore, urla che quel mostro di ferro dev’essere spazzato via, per sempre.

inva_bimboQuesto libro, raccontando Taranto, cerca di mettere a fuoco un sistema di potere e di gestione dell’economia non meno aggressivo, violento e antisociale di quello, più noto, incarnato da Sergio Marchionne. In comune Riva e Marchionne hanno l’arroganza e il disprezzo nei confronti dei sindacati di cui vorrebbero fare a meno, e se non ci riescono se li comprano, o comunque li pretendono succubi e obbedienti. Sia Riva che Marchionne hanno dalla loro il crollo dell’attenzione democratica in tempi di crisi economica: o il lavoro o i diritti, dice l’amministratore delegato della Fiat; o il lavoro o la salute, gli fa eco il padrone dell’Ilva. Ma il lavoro, senza diritti e senza salute, regredisce a schiavitù. Marchionne ha usato una metafora bellica per spiegare la fine di un’era, del Novecento e del conflitto sociale: un’azienda è come una nave da guerra che combatte per conquistare mari, isole e coste. È fondamentale che tutti, all’interno dell’imbarcazione, marcino compatti, dall’armatore al comandante ai rematori. Siamo o non siamo tutti sulla stessa barca? Il nemico è rappresentato dalla nave nemica che vuole conquistare gli stessi mari, isole e coste. I nemici dei nostri rematori, dunque, non sono più armatore, comandante e ufficiali che dettano il tempo tra due colpi di remo con la frusta in mano, i nemici sono i rematori della barca concorrente. Ecco declinata la guerra tra i poveri, se si sostituiscono gli operai ai rematori la metafora diventa chiarissima. Non è forse la stessa strategia con cui, da sempre, Riva conduce le sue battaglie, trattando gli operai come carne da cannone?
La crisi di Taranto vive dentro la crisi italiana che, a sua volta, è parte di una crisi globale. È una crisi di modello economico che, con le risposte oggi prevalenti imposte dagli stessi che la crisi hanno scatenato, si trasforma in crisi sociale e crisi democratica. Taranto non è più in grado di digerire le conseguenze di scelte sconsiderate, non può più sopportare questo modo di produrre acciaio, imposto da quella che per la procura tarantina altro non è che un’associazione per delinquere. Ma Taranto non può vivere, oggi, subito, senza acciaio, quando ogni alternativa economica è stata cancellata (la cantieristica, lo sviluppo del porto, l’agricoltura, l’allevamento, la pesca, il turismo) o mai costruita. Se il lavoro senza salute non è un diritto, è altrettanto vero che senza lavoro e senza mezzi di sussistenza non c’è dignità né c’è salute. E oggi, lo stato di salute dell’Italia è pessimo, al punto che ogni riferimento al primo dopoguerra sarebbe ingannevole, perché nel primo dopoguerra c’era la speranza e con la speranza la fantasia, la voglia di sperimentare e ricostruire. In fin dei conti, nel primo dopoguerra c’era la politica. Oggi che il lavoro è svalorizzato e ignorato, è impensabile ricostruire il futuro, praticare nuove relazioni sociali, in fabbrica e nel territorio, e sperimentare un nuovo modo di produzione restando dentro lo stesso modello di sviluppo, incompatibile con la natura e dunque con la vita. Vuol dire allora che è finita l’età dell’acciaio – metallo prezioso che dava il nome a Stalin e muoveva automobili, carriarmati e frigoriferi, intelligenze e lavoro di milioni di persone a est e a ovest, a nord e a sud del mondo? Non è così. I metalli, più o meno preziosi, non servono soltanto a costruire la merce del passato, energivora e inquinante; anche gli oggetti-simbolo di un nuovo modello di sviluppo, come i pannelli solari, hanno molto a che fare con la trasformazione industriale dei metalli. Inoltre, evocare modelli di vita, consumo e sviluppo ecologicamente e socialmente compatibili, non fa fare molta strada se non si individuano le forme necessarie a costruirli, le tappe, le risorse, le alleanze. A chi chiede di cambiare sviluppo e consumi dobbiamo ricordare che insieme alla finalità del lavoro e alla ricerca di un nuovo valore d’uso marxiano, bisogna rimettere mano, contemporaneamente e non domani, anche al modo di produzione.

Guardando alla filiera dell’acciaio siamo tornati nei luoghi in cui l’acciaio italiano è nato centodieci anni fa, a Bagnoli, e poi a Genova, due luoghi simbolici la cui esperienza, purtroppo, ha insegnato ben poco. Per progettare un futuro più pulito e democratico, per chi lavora e per tutti quelli che respirano, sarebbe il caso di fare, paradossalmente ma non troppo, un tuffo nel passato, quando gli operai pretendevano di controllare l’intero ciclo produttivo per uscire dalla schiavitù della parcellizzazione, dell’alienazione e dell’ignoranza delle loro azioni. Quegli operai scoprirono la suggestione del rischio zero e gridarono che la salute non si vende e non si scambia, volevano essere attori delle scelte, decidere cosa, come, dove e perché produrre. Erano i primi anni Settanta, il sindacato era quello dei consigli di fabbrica, dei delegati di gruppo omogeneo eletti democraticamente dai lavoratori e non, come oggi, dal padrone come avviene alla Fiat, o altrove nominati dalle organizzazioni sindacali. Erano loro i tutori della salute, in linea e fuori dalla linea di montaggio, erano loro a dare agli scienziati le informazioni sui rischi, mentre oggi se va bene le ricevono. Se la salute è peggiorata per tutti, non solo a Taranto, è anche perché, insieme alla rappresentanza politica, è saltata anche la rappresentanza sociale, e con essa l’autonomia sindacale e di classe.
Liberarsi dal modello Riva e, materialmente, dalla proprietà di Riva a Taranto e in Italia, è il solo modo per avviare una discussione seria sulla siderurgia e sul destino di stabilimenti mastodontici, come quello pugliese, appunto. Per liberarsi da questo modello bisogna che il sindacato riconquisti la sua autonomia come ha iniziato a fare la Fiom. Per liberare l’Ilva è necessaria un’assunzione di responsabilità politica. Sequestrare gli impianti e i capitali di Riva per sanare quel che Riva ha inquinato (ambiente e coscienze) è davvero una provocazione? Si direbbe di sì, visto che l’unico sequestro effettuato da parte della magistratura, che aveva sigillato prodotti finiti e semilavorati per più di un miliardo, è stato annullato da una legge dello Stato chiamata “salva Ilva”, con la successiva benedizione della Corte costituzionale. Una mossa, quella coraggiosamente effettuata dai magistrati tarantini, che forse avrebbe dovuto essere accompagnata dalla confisca dei beni del vero untore, per impedire che i capitali accumulati prendessero il volo verso altri lidi, tra il Lussemburgo e lontani paradisi fiscali nelle Antille olandesi. Il solito gioco della scatole cinesi ha portato a un ridisegno della struttura finanziaria del gruppo Riva, al fine di isolare l’Ilva, che pesa per i due terzi sugli affari di famiglia. La proprietà si dichiara disponibile a investire 400 milioni di euro per intervenire sull’impianto per la riduzione delle emissioni, un decimo del danaro necessario che ammonta a 4 miliardi. Ma lo scorporo dell’Ilva dalle casseforti lussemburghesi – con le dépendance caraibiche di Curaçao – potrebbe salvare i beni di famiglia.
Ma finalmente anche i trucchi finanziari della famiglia Riva per trasferire il plus valore dell’Ilva in scatole finanziarie protette – operazione iniziata, a dire il vero, già da molti anni, addirittura dal momento stesso del passaggio dell’azienda dallo Stato a Emilio Riva – sono stati scoperti dalla magistratura, in questo caso dai pubblici ministeri di Milano. Nella terza settimana di maggio del 2013 è stato effettuato un sequestro di un miliardo e 200 milioni di euro, il corrispettivo del danaro che la famiglia di imprendi- tori bresciani ha sfilato dall’Ilva collocandolo in otto trust nell’isola di Jersey nel Canale della Manica “per occultare la titolarità dei beni”. Si tratta di capitali sottratti al fisco, scudati con operazioni irregolari, anche e soprattutto per impedire che quei soldi potessero essere confiscati per sostenere le spese di risanamento industriale e ambientale dell’Ilva. Per fortuna, però, non sono bastati trucchi, prestanome e scatole cinesi per mettere in salvo la famiglia Riva dalle sue gigantesche responsabilità. Dunque, non sono solo i magistrati tarantini a “tramare” contro i Riva, è una “persecuzione” dell’intera magistratura. Ad ascoltare gli avvocati di famiglia, sembra di assistere alla proiezione di un film già visto e in cui cambia solo il nome dell’attore-imprenditore.

Fatta eccezione per Riva e i suoi accoliti, tutte le persone coinvolte in questo reportage sono convinte di una cosa: Riva è ormai incompatibile con Taranto, e forse persino con l’intera siderurgia italiana. Si tratta di capire se una diversa Ilva sia ancora compatibile, e a quali condizioni, con questa città. L’unica strada per tentare di salvare lavoro, economia e salute è quella di liberarsi dal giogo di chi si è reso responsabile del disastro di Taranto, facendogli pagare i costi della bonifica.

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