Io – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 L’Unico e la sua proprietà https://www.carmillaonline.com/2023/11/29/lunico-e-la-sua-proprieta/ Wed, 29 Nov 2023 21:00:54 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80056 Raúl Zecca Castel, L’unico in rivolta. Vita e opera di Max Stirner, Red Star Press, Roma 2023, pp. 202, 19 euro

[Si pubblica qui di seguito un estratto dall’Introduzione al libro di Raúl Zecca Castel sulla vita e le opere di Max Stirner, edito da Red Star Press. Per esigenze grafiche e di lettura, gli estratti qui presentati sono riprodotti senza l’apparato di note corrispondente. S.M.]

«Io rifiuto un potere conferitomi sotto la speciosa forma di “diritti dell’uomo” […], sono il nemico mortale dello Stato e l’alternativa è sempre: lui o io […]. Proprietario del mio potere sono io stesso, [...]]]> Raúl Zecca Castel, L’unico in rivolta. Vita e opera di Max Stirner, Red Star Press, Roma 2023, pp. 202, 19 euro

[Si pubblica qui di seguito un estratto dall’Introduzione al libro di Raúl Zecca Castel sulla vita e le opere di Max Stirner, edito da Red Star Press. Per esigenze grafiche e di lettura, gli estratti qui presentati sono riprodotti senza l’apparato di note corrispondente. S.M.]

«Io rifiuto un potere conferitomi sotto la speciosa forma di “diritti dell’uomo” […], sono il nemico mortale dello Stato e l’alternativa è sempre: lui o io […]. Proprietario del mio potere sono io stesso, e lo sono nel momento in cui so di essere unico» (Max Stirner)

«L’unico e la sua proprietà» viene dato alle stampe dall’editore Otto Wigand di Lipsia nell’ottobre del 1844, ma a distanza di soli pochi giorni dalla pubblicazione cade sotto il pugno delle ferree leggi censorie del tempo e le autorità politiche del governo di Sassonia ne dispongono l’immediato sequestro, “poiché non solo in singoli passi di tale scritto Dio, Cristo, la Chiesa e la religione in generale vengono trattati con la più irriguardosa blasfemia, ma anche tutto l’assetto sociale, lo Stato e il governo vengono definiti come qualcosa che non dovrebbe più esistere, mentre la menzogna, lo spergiuro, l’assassinio e il suicidio vengono giustificati e il diritto di proprietà viene negato”. Nemmeno una settimana più tardi viene però emessa un’ordinanza di dissequestro e il testo, ora giudicato innocuo e insensato, torna in circolazione. Ancora pochi giorni e un nuovo opposto provvedimento ne decreta la rimozione dal territorio sassone; poi, il 26 agosto 1845 viene definitivamente messo al bando in tutto il Regno di Prussia. Ma è ormai troppo tardi: la turbolenta vicenda di quest’opera “famigerata […], la più estrema che conosciamo in genere” ha già avuto inizio.

Nel corso degli anni si succederanno innumerevoli e controversi giudizi, appassionate dispute interpretative, feroci critiche ed entusiastici elogi, strumentali richiami e grossolane ideologizzazioni, lunghi intervalli di misterioso oblio e improvvise riscoperte alle quali nemmeno l’autore riuscirà a sottrarsi. Friedrich Engels sarà il primo a riconoscere in Stirner “il profeta dell’odierna anarchia”, tanto che l’“ingenua” teoria proudhoniana, “non avrebbe mai portato alle dottrine anarchiche attuali, se Bakunin non vi avesse iniettato una buona dose di rivolta stirneriana; in seguito alla quale gli anarchici sono diventati dei puri ‘unici’, talmente unici” – concludeva con sarcasmo – “che due di loro non possono sopportarsi”. Il giudizio appare acquisito e si protrae – non senza obiezioni, anzi – fino ai giorni nostri: “il più rappresentativo filosofo e ideologo dell’anarchia […], una coscienza visceralmente anarchica”, scrive di lui Antimo Negri. “Stirner può essere annoverato tra i rappresentanti di uno dei poli dell’anarchismo, forse il più importante”, assicura Carlo Roehrssen riferendosi all’individualismo anarchico, e aggiunge poi che “Stirner è certamente un antesignano, un padre fondatore dell’anarchismo”. Massimo La Torre affianca Stirner a William Godwin e a Pierre-Joseph Proudhon in quella che considera la triade dei “pensatori che danno origine alla filosofia politica anarchica”, sostenendo come Der Einzige und sein Eigentum [sia] dunque, molto più di An Inquiry on Political Justice di Godwin e di Qu’est-ce que la propriété? di Proudhon, un libro anarchico” e che si tratti dell’“l’opera in cui per la prima volta, e in maniera articolata e coerente, viene esposta una filosofia morale e politica anarchica”. Una filosofia molto pericolosa a parere di Albert Camus, che legge nelle pagine di Stirner la legittimazione e l’istigazione a una violenza che si sarebbe poi realmente espressa nelle varie “forme terroristiche dell’anarchia”. Ma questa interpretazione, che riconduce a Stirner le responsabilità morali del terrorismo anarchico, viene condivisa e suffragata anche da altri osservatori che, come evidenzia William J. Brazill, “hanno suggerito un legame diretto tra Stirner e i terroristi russi del XIX secolo, in particolare con Sergei Nechaev”.

Sempre a questo filone interpretativo di matrice anarchica appartiene poi la singolare visione di uno Stirner anarco-sindacalista e operaista, considerato il “maggiore teorico e ispiratore della lotta sindacale”. Visione quanto meno paradossale se si tiene conto del fatto che i concetti filosofici cui ruota attorno la filosofia di Stirner sono quelli dell’egoismo e dell’interesse proprio; concetti, cioè, a prima vista antitetici rispetto a quelli dell’organizzazione sindacale, che evidentemente implicano un valore solidaristico condiviso da una collettività. Non è un caso perciò se Enrico Ferri, studioso del pensiero stirneriano, esprime il parere perfettamente opposto per cui “appare difficile, se non impossibile, annoverare Stirner tra i teorici dell’anarchismo” dal momento che ha elaborato “la più radicale concezione individualistica della filosofia moderna”. E non è il solo a pensarlo. Molto prima di lui, in un saggio del 1904 di Victor Basch, se da un lato veniva riconosciuta l’appartenenza di Stirner alla corrente dell’individualismo anarchico – come eloquentemente annunciato dal titolo stesso dell’opera –, dall’altro si arrivava alla conclusione secondo cui tale anarchismo troverebbe espressione compiuta in un elitismo eroico di tipo aristocratico, sia pure con esiti paradossalmente democratici. Ed è a questa figura mitica dell’Unico, declinata in una dimensione epica e quasi millenaristica, che dovette fare riferimento il Benito Mussolini socialista quando rammentava le sue “escursioni sulle più alte vette del mondo” – “dolomiti del pensiero” s’intende, dal momento che scriveva dal carcere –, tra le quali vi si trovava, primo della lista, il nome di Stirner, seguito da quelli di Nietzsche, Goethe, Schiller, Montaigne e Cervantes.

Ancora nel dicembre del 1919, un Mussolini già meno socialista e molto più fascista, si sgolava energicamente sciorinando bassa retorica e incutendo cattivi presagi: “basta, teologi rossi e neri di tutte le chiese, con la promessa astratta e falsa di un paradiso che non verrà mai! Lasciate sgombro il cammino alle forze elementari degli individui, perché altra realtà umana, all’infuori dell’individuo, non esiste! Perché Stirner non tornerebbe d’attualità?”. A conti ormai fatti, ci avrebbe pensato Hans Helms nel 1966 a iscrivere Stirner al partito fascista, affermando lapidariamente che “la storia dello stirnerianismo è una storia del fascismo”. Eppure, il fascistissimo Paolo Orano non avrebbe mai sottoscritto, poiché a suo dire, l’Unico stirneriano “nulla ha a che vedere con il crudo breve risoluto realismo delle Camicie Nere”.

Tuttavia, ciò non ha impedito a Luca Leonello Rimbotti di accreditare a Stirner gravi responsabilità storiche. Facendo riferimento al presunto influsso che Stirner, mediato da Eckart, avrebbe avuto su Hitler, Rimbotti sostiene infatti che è “possibile leggere un’intera epoca del Novecento come qualcosa di molto simile ad una rivelazione violenta delle profezie stirneriane”. Ecco allora che un fedele sostenitore del regime nazista come Carl Schmitt, dal carcere per crimini di guerra di Norimberga dove era rinchiuso, affidava ad un piccolo scritto alcuni significativi pensieri su Stirner. Confessava dunque come “Max” – la confidenza è tutta sua – fosse l’unico a fargli visita nella cella e gli riconosceva il merito di aver “trovato il titolo più bello e comunque più tedesco di tutta la letteratura tedesca”.

[…]

È un misto di fascino e ripugnanza, attrazione e sgomento a contraddistinguere la prima ricezione dell’opera di Stirner, un’opera estrema che chiude i conti con tutta la filosofia precedente compromettendone irrimediabilmente la salute. Per queste ragioni si dovette pensare di escluderla e Kuno Fischer poté scrivere che essa “nulla ha in comune col nome della filosofia e della critica”.

Prima di relegare L’Unico all’ideologia anarchica, Engels aveva (s)qualificato l’opera di Stirner come “la punta acuminata di ogni teoria che si muova all’interno della stupidità corrente” e, ancora, come “perfetta espressione della pazzia corrente”. Eppure si era subito preso la briga, assieme a Karl Marx, di redigere una “critica della più recente filosofia tedesca nei suoi rappresentanti Feuerbach, Bauer e Stirner, e del socialismo tedesco nei suoi vari profeti” – questa la didascalia che accompagnava il titolo dell’opera, L’ideologia tedesca –, dedicando, piuttosto significativamente, quasi quattro quinti del libro a Stirner, lì ribattezzato con il nome di San Max e associato a San Bruno (Bauer) in un lungo capitolo intitolato Il concilio di Lipsia.

Marx ed Engels non mancano certo d’ironia e nel ricondurre al vecchio carro astratto dell’idealismo, oltre che Feuerbach e Bauer, anche un nemico giurato di tale impostazione filosofica come Stirner, si dilettano nell’attribuirgli divertenti titoli ecclesiastici e spiritosi soprannomi. Ecco dunque il santo scrittore, il buon padre della chiesa tedesca, il beato Max e Jacques le bonhomme, Sancio Panza o il caballero dalla tristissima figura alle prese con la condanna marxiana lungo una dettagliata analisi critica de L’Unico tesa a demolirne ogni singolo paragrafo, ogni singola frase, e in diversi casi ogni singola parola.

Stupisce il fatto di tanto accanimento e resta la sensazione che all’ombra del sarcasmo con cui Stirner viene bistrattato si nasconda in realtà una forte preoccupazione nei confronti della sua filosofia. Sorge dunque spontaneo il dubbio che il filosofo Giorgio Penzo ha espresso in diverse occasioni per cui “si può forse pensare che nel leggere L’Unico e la sua proprietà Marx ed Engels abbiano avuto subito coscienza delle doti geniali di Stirner e che abbiano intuito che si trattava di un avversario pericoloso per quanto riguardava la problematica sociale. Forse per questo – conclude Penzo – Marx ed Engels cercarono in San Max di relegare il più possibile il pensiero di Stirner nell’ambito di un filosofare idealistico vuoto e fumoso che doveva ormai essere del tutto superato”.

Alle stesse conclusioni era giunto molti anni prima lo storico delle idee Henri Arvon, il quale faceva notare come nel periodo precedente il 1848 era con gli argomenti forniti da L’Unico che si lottava contro il socialismo ed è per questo molto probabile che Marx avesse visto nel suo autore un nemico da eliminare. In nessun altro modo sarebbero comprensibili toni così violenti e ridicolizzanti come quelli impiegati nell’Ideologia tedesca se non con il disperato tentativo di mettere a tacere idee piuttosto scomode. L’opera di Marx ed Engels rimarrà però ostaggio della critica roditrice dei topi per quasi un secolo e solo nel 1932 vedrà la luce. Per la legge della nemesi storica gli auspici che avevano animato l’impegno di Marx ed Engels non saranno esauditi e, anzi, si riveleranno controproducenti. Come rileva sempre Henri Arvon, “L’ideologia tedesca, che nelle intenzioni di Marx avrebbe dovuto mostrare l’inconsistenza della filosofia stirneriana, costituisce, al contrario, la testimonianza irrecusabile del suo valore storico”.

A prescindere dalla polemica marxiana, resta il fatto che se di ricezione filosofica de L’Unico si può parlare, questa avvenne esclusivamente nel ristretto circolo della sinistra hegeliana al quale Stirner apparteneva e nel quale si era formato, e avvenne solo per un breve periodo, dal momento che già a partire dal 1848 l’opera pare dimenticata. La sua rinascita porta la data del 1898 e corrisponde all’anno in cui lo scrittore e attivista John Henry Mackay, sulle tracce di Stirner da diverso tempo, ne pubblica una bio-agiografia all’insegna dell’anarchismo, facendone il primo teorico dell’individualismo anarchico e dando così avvio alla lettura fortemente politicizzata dell’opera cui si faceva più sopra riferimento.

Lettura che “ne ipoteca fortemente l’avvenire”, per dirla ancora con Arvon, il quale non dubita invece nel porre Stirner alle origini di una delle correnti più significative della filosofia contemporanea, quella dell’esistenzialismo, accennando, in conclusione al suo testo, un accostamento con Kierkegaard già intrapreso da Martin Buber ne La domanda rivolta al singolo del 1936 e invitando ad approfondire tale dimensione esistenziale del pensiero stirneriano. L’invito sarà appunto raccolto da Penzo in un testo del 1971 fin dal titolo programmatico: Max Stirner. La rivolta esistenziale, nel quale l’autore non nega la natura anarchica del pensare stirneriano, ma sostiene che “si è di fronte a un anarchismo tutto particolare, definibile come un anarchismo della ragione”. Secondo Penzo, infatti, Stirner tematizza una nuova concezione esistenziale dell’essere che si precisa nella forma dell’egoismo, qui inteso come condizione umana dell’Io in relazione alla morte di ogni pensare idealistico-universale. Si tratterebbe in fondo della problematica della morte di Dio – sia pure celato sotto le mentite spoglie dell’Uomo feuerbachiano – e del conseguente confronto con il Nulla. Tematiche che, a partire da sensibilità squisitamente esistenziali, aprirebbero il varco alla terribile verità del nichilismo. Ed è su questo terreno ermeneutico, difatti, che Camus riconosce in Stirner il precursore del nichilismo nietzscheano. Come già accennato, d’altronde, la figura dell’Übermensch è stata spesso accostata a quella dell’Unico, e sono diversi, effettivamente, i punti di contatto tra il pensiero stirneriano e quello di Nietzsche, tanto che, stando alla testimonianza dell’amica Ida Overback, lo stesso Nietzsche se ne sarebbe preoccupato temendo l’accusa di plagio. Vano, dunque, il tentativo della sorella Elisabeth teso a negare qualsivoglia debito filosofico di Friedrich nei confronti di Stirner se si prende in considerazione anche la testimonianza dello storico tedesco Adolf Baumgartner, che afferma di aver letto L’Unico su indicazione del suo maestro Nietzsche, il quale avrebbe poi accompagnato il consiglio al giudizio per cui l’opera di Stirner “è quanto di più audace e consequenziale sia stato pensato dopo Hobbes”.

[…]

Bisognerà allora cominciare col domandarsi cosa realmente vi sia scritto in questo libro – vero e proprio corpus delicti – che ha suscitato così tante reazioni contrastanti; quale ne sia il messaggio contenuto, quali le intenzioni.

E bisognerà di conseguenza chiedersi chi si cela dietro il nome di Max Stirner, chi veramente sia stato. Forse un giovane hegeliano troppo audace? Un profeta dell’anarchismo? Un teorico del sindacalismo? Un borghese individualista? Un violento apologeta del terrorismo? Un cultore della forza e un precursore del fascismo? Un filosofo esistenzialista? Un nichilista? Un semplice provocatore? Un folle?

Ma soprattutto bisognerà domandarsi chi è questo suo Unico, questo Egoista, questo Proprietario di cui si parla. Una nuova categoria dell’umano? Una figura del futuro? Addirittura un “mostro inumano”?

Sono, queste, solo alcune delle domande cui si tenterà una risposta, pur con la consapevolezza dell’impossibilità di giungere a soluzioni certe né tanto meno definitive del pensare stirneriano, per sua natura refrattario e ostile a ogni sistematizzazione.

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Dal situazionismo di Agaragar alla teoria della complessità. Intervista a Mario De Paoli https://www.carmillaonline.com/2023/05/30/dal-situazionismo-di-agaragar-alla-teoria-della-complessita-intervista-a-mario-de-paoli/ Tue, 30 May 2023 20:00:45 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77233 di Marc Tibaldi

Della rivista Agaragar, diretta dal filosofo Mario Perniola, dal 1970 al 1972, uscirono 5 numeri, 3 per Silva Editore e 2 per Arcana Editrice (nel 2020 sono stati ripubblicati da PGreco). Agaragar è stata una rivista nata dall’incontro, con il movimento situazionista, in particolare con Guy Debord, con cui Perniola aveva instaurato un rapporto di amicizia e un confronto. Negli anni ’60, Perniola era entrato in contatto in Francia con il movimento studentesco e con le ultime propaggini del surrealismo, diventando uno dei primi a far approdare in Italia [...]]]> di Marc Tibaldi

Della rivista Agaragar, diretta dal filosofo Mario Perniola, dal 1970 al 1972, uscirono 5 numeri, 3 per Silva Editore e 2 per Arcana Editrice (nel 2020 sono stati ripubblicati da PGreco). Agaragar è stata una rivista nata dall’incontro, con il movimento situazionista, in particolare con Guy Debord, con cui Perniola aveva instaurato un rapporto di amicizia e un confronto. Negli anni ’60, Perniola era entrato in contatto in Francia con il movimento studentesco e con le ultime propaggini del surrealismo, diventando uno dei primi a far approdare in Italia le tesi del movimento situazionista proprio su Agaragar. Il pensiero che Perniola elabora in quegli anni resterà nelle sue riflessioni con l’attenzione a rilevare le contraddizioni e la complessità della società dello spettacolo. Co-fondatore di Agaragar, assieme a Perniola, fu Mario De Paoli che, dopo la fine della rivista, ha continuato la sua ricerca sviluppando – in una serie di pubblicazioni – una originale teoria della complessità che tiene assieme l’analisi dell’evoluzione dei processi sociali e l’analisi della dinamica dei processi psichici. La sua ricerca merita di essere conosciuta, per questo siamo andati a intervistarlo. De Paoli, nato a Dolo, Venezia, nel 1940, vive a Padova, città dove si è laureato prima in chimica e poi in fisica e dove ha insegnato al liceo scientifico Eugenio Curiel.

Ci racconta innanzitutto come ha conosciuto Mario Perniola e come è nata la rivista Agaragar?
Ci conoscemmo durante il servizio militare, a Padova, fine anni ’60. Avevamo da poco terminato gli studi universitari, scientifici io e filosofici lui, nonostante le diverse formazioni c’era una sensibilità culturale in comune e dopo aver letto un mio studio (che sarà pubblicato sul terzo numero della rivista con il titolo: “Economia commerciale e linguaggio razionale: denaro e logos”), mi propose di partecipare all’elaborazione di Agaragar. Lui in quegli anni stava elaborando gli studi che confluiranno poi in L’alienazione artistica, che ritengo sia ancora uno dei suoi libri migliori. Nel primo anno eravamo solo noi due in redazione, lui si occupava anche dei rapporti con l’editore Silva. Con Perniola avevo punti in comune e alcune diversità. Lui partiva dalla questione dell’alienazione artistica, in cui considera la separazione di una realtà senza significato nell’economia politica e di un significato senza realtà nell’arte. Questa separazione si è accentuata nel Rinascimento con la separazione tra arte e artigianato. Separazione che è significativa per l’inizio della frattura tra produzione materiale e produzione immateriale. Separazione decisiva per capire che il capitalismo ha agito non solo a livello della produzione materiale, ma anche a livello linguistico/immateriale. Era importante considerare lo sviluppo del capitalismo a livello di controllo della produzione materiale ma anche nella produzione immateriale: nella letteratura, nei processi psichici, nella scienza. Bisogna ricordare che Perniola su Agaragar porta anche una critica al situazionismo. I situazionisti consideravano solo un lato della separazione tra realtà e significato, non riconducevano alla realtà il significato dei processi linguistici, bisognava invece ricomporre questi due aspetti.

Perniola, in Del terrorismo come una delle belle arti (Mimesis, 2014), uno dei suoi ultimi libri, dedica un capitolo all’avventura di Agaragar, e racconta anche di un vostro incontro con Debord. Aveva già letto i situazionisti prima di conoscere Perniola?
No. Conoscevo bene il pensiero della Scuola di Francoforte. Nelle mie riflessioni sul nesso fra capitalismo commerciale e linguaggio razionale avevo in mente Adorno e Horkheimer che, in Dialettica dell’illuminismo, descrivono Ulisse come il primo ‘Illuminista’ che usa il linguaggio per avere un vantaggio.
Andammo a Bruxelles a conoscere Guy Debord e Raoul Vaneigem. Debord non ci accolse in modo molto affabile. Ci portò a giocare a calcetto. Graziella, la simpaticissima moglie di Perniola, di nascosto continuava a fare degli sberleffi a Debord, sostenendo che era antipatico e borioso. Molto meglio andarono le cose con Vaneigem, molto simpatico. Ricordo in particolare una discussione in una birreria in cui gli feci notare che “l’immaginazione al potere” era quella del capitalismo che controllava la produzione di informazione.

Negli anni in cui progettavate la rivista, c’erano almeno altre due persone in Italia che seguivano da vicino il situazionismo, si tratta di Giorgio Agamben e Gianni-Emilio Simonetti. Avevate rapporti con loro?
Simonetti non l’ho mai conosciuto. Agamben era amico di Perniola, ricordo che andammo a fargli visita in una sua tenuta, vicino a Roma. Agamben insistette perché provassi a montare un cavallo che diceva mansueto e che invece mi coinvolse in un galoppo sfrenato. Durante il mio soggiorno nella casa romana dei Perniola, in occasione del mio scritto L’educazione come processo produttivo, appesi un poster che raffigurava la Lupa Capitolina con uno dei gemelli che sputava il latte, e vi apposi sotto la scritta “bambini di tutto il mondo unitevi”. Una mattina Graziella, la simpaticissima moglie di Mario, mi fece credere che il Perniola aveva sognato che lui era Marx e io ero Engels. Racconto questi aneddoti perché evidenziano i détournement giocosi del gruppo.
Nel primo anno eravamo solo noi due in redazione, Perniola si occupava anche dei rapporti con l’editore Silva. La collaborazione tra di noi non è continuata oltre i primi anni ’70 ma, ma nonostante i nostri percorsi culturali abbiano avuto una divergenza di interessi, filosofici lui, scientifici io, questo non ha intaccato la nostra amicizia e nel corso degli anni, abbiamo continuato a sentirci, scambiandoci alcuni dei libri che pubblicavamo.

Come venne accolta Agaragar nel dibattito ideologico di quegli anni? Suscitò discussioni?
Il dibattito culturale, il confronto e la critica erano molto serrati negli anni ’70 perché proprio in quelli anni si profilava un cambiamento di paradigma nel modo di produzione del capitale (la transizione dal fordismo al toyotismo iniziò nel 1976). Ma, mentre il capitale finanziario combinava in una nuova sintesi produzione materiale e produzione immateriale, i vari movimenti di sinistra rimanevano divisi fra loro, oscillando fra gli estremi dell’operaismo e del situazionismo. Agaragar proponeva una ‘sintesi sociale’ alternativa a quella proposta dal capitale. La rivista fu accolta con un certo entusiasmo, ma fu anche fraintesa. Per fare un esempio: Giuseppe Sertoli, redattore di Nuova Corrente (che in quegli anni era un’importante rivista di letteratura e filosofia. n.d.r.), mentre si dichiarava in perfetto accordo con gli scritti di Perniola, criticava aspramente i miei scritti sul primo numero della rivista. Perniola ed io gli rispondemmo con una lettera di quattro pagine in cui affermavamo l’importanza della nostra ricerca di una nuova sintesi sociale. Ritenevamo, inoltre, che fosse necessaria un’analisi storico-critica del rapporto fra scienza e capitale. Nel 1972 (all’epoca della guerra del Vietnam) partecipai ad un convegno internazionale di storia della scienza in cui diversi fisici, fra i quali Paul Dirac, prendevano atto di ‘una massiccia soggezione della scienza al capitale’, iniziata con il Progetto Manhattan per la costruzione della bomba nucleare.

In Agagar lei ha impostato la critica del materialismo dialettico di Marx, che non considera il carattere genetico-strutturale dei processi psico-linguistici e la sintesi sociale costituita dall’evoluzione parallela di strutture economiche e strutture linguistiche.
Si. In L’educazione come processo produttivo (Agaragar n.2, 1970) mi sono posto il problema della genesi sociale. Data la forte dipendenza dalle cure parentali e una rimarchevole capacità di apprendere tramite l’esperienza, l’evoluzione biologica della specie uomo si estende in un’evoluzione sociale mediata da un processo educativo. Un sistema di segni che media socialmente la relazione uomo – natura diviene così un ‘codice genetico’ di specifiche società umane intese come ‘specie semiotiche’. Un’ ipotesi simile, del prolungamento dell’evoluzione biologica nell’evoluzione sociale, veniva poi formulata dal biologo evoluzionista Stephen Jay Gould nel saggio Ontogeny and Phylogeny (Belknap Press of Harvard University Press, 1977). In Economia commerciale e linguaggio razionale: denaro e logos (Agaragar n.3, 1971) mi sono poi posto il problema della sintesi sociale considerando l’evoluzione parallela ‘isomorfa’ di determinazioni formali della politica economica e del linguaggio razionale nella società greca classica. Una correlazione simile fra linguaggio ed economia nella polis greca era stata evidenziata dal filosofo Sohn-Rethel In Lavoro intellettuale e lavoro manuale: per la teoria della sintesi sociale (Feltrinelli, 1977), ma allora non conoscevo le sue ricerche, non erano ancora state tradotte.

Dopo aver collaborato con Perniola, come è continuata la sua ricerca?
Dal 1973 al 2005 ho insegnato matematica e fisica al Liceo scientifico Eugenio Curiel di Padova, dove sono stato promotore dell’introduzione della storia della scienza nella didattica e fra gli organizzatori e i relatori del Progetto Ipazia per la promozione della cultura scientifica nei licei. In quel periodo ho scritto i saggi Rivoluzioni parallele isomorfe. Copernico, Ariosto e Josquin de Prez (pubblicato poi da Aracne nel 2015), in cui evidenzio la sintesi sociale fra gli ambiti economico, cosmologico, letterario e musicale all’ epoca della costituzione dello Stato politico moderno e Modelli dinamici dell’evoluzione della civiltà urbana (pubblicato poi da Aracne nel 2022), in cui considero la genesi sociale del capitalismo. Nel 2018 ho scritto poi un saggio conclusivo dal titolo Capitale finanziario e populismo. La scienza nell’ evoluzione del capitale (Aracne, 2020), in cui considero l’evoluzione parallela di economia politica e scienza nelle tre fasi fondamentali dell’evoluzione del capitale. 

Parallelamente, assieme allo psichiatra e psicoanalista Alessandro Pesavento, ha sviluppato una teoria dei modelli di processi psicolinguistici.
Sì, dal 1987 al 2001 ho collaborato con Pesavento allo studio delle successioni di ‘stati dell’Io’ nelle narrazioni oniriche di un paziente in analisi. Abbiamo pubblicato assieme Un modello probabilistico del processo onirico e la sua applicazione ai sogni prodotti in analisi (Bollati Boringhieri, 1992), poi La signora del piano di sopra. Struttura semantica di un percorso narrativo onirico (Aracne, 2013). Una prima formulazione del secondo saggio era stata proposta ad un convegno di psicoanalisi tenutosi a Trieste nel 1999. Dal 2001 al 2020 mi sono dedicato allo studio delle neuroscienze e all’ applicazione alle reti neurali della teoria della biforcazione dei punti critici di sistemi non-lineari aperti in non-equilibrio. Ho elaborato un modello delle reti neurali corticali coinvolte nella dinamica del Sé: Self’s Splitting and Self-Other Identification. A phase transition model, che ho esteso poi ad un modello pubblicato in un saggio dal titolo Brain Dynamics for Goal-Directed Social Navigation. A non-linear statistical model of consciousness (Aracne, 2021).

Mi piacerebbe che ci approfondisse la presentazione delle tesi articolate in Capitale finanziario e populismo. La scienza nell’ evoluzione del capitale.
Questo saggio si propone una riconsiderazione critica delle fasi dell’evoluzione del capitalismo, e della scienza ad esso associata, nell’ epoca in cui questo sembra ormai giunto ad una fase ‘terminale’ della sua evoluzione, con il predominio sull’intero ciclo dell’economia e con uno sfruttamento esaustivo delle risorse naturali, oltre che umane, difficilmente sostenibile a livello di ecosistema. Verso la fine del XX secolo, è avvenuta una transizione dal modo di produzione fordista del capitale monopolistico al modo di produzione toyotista del capitale finanziario delle multinazionali. Due classi di fenomeni sono associate a tale transizione.

Quali sono queste due classi?
Una prima classe, evidenziata da Marco Revelli nel saggio Economia e modello sociale nel passaggio tra fordismo e toyotismo, in Appuntamenti di fine secolo (manifestolibri, 1995), comprende: una forte competizione fra capitalisti, dovuta all’ esaurimento delle risorse naturali e alla saturazione dei mercati, cui consegue una permanente imprevedibilità dei mercati; il predominio della speculazione del capitale finanziario (liquido) sull’ investimento del capitale industriale (fisso) e di un’economia multinazionale sulla politica nazionale, con conseguente crisi della politica; e infine l’asservimento della scienza al capitale e un uso di tecnologie sofisticate per il controllo globale dell’informazione cui corrisponde la parcellizzazione e precarizzazione delle capacità produttive umane (e un aumento delle diseguaglianze sociali). Una seconda classe, solo in parte evidenziata da Byung-Chul Han, in Psicopolitica (Nottetempo, 2014), comprende: la disgregazione dei vincoli sociali tradizionali e lo sfruttamento intensivo della libertà di scelta individuale allo scopo di aumentare la produzione e lo scambio di informazione a livello globale; un’estensione dalla produzione materiale alla produzione immateriale con conseguente alienazione nell’informazione del significato delle merci; e infine la costituzione di un nuovo asse delle opposizioni [populismo – neoliberalismo] che si combina con il vecchio asse [destra – sinistra] dei poli politici nel comporre il quadrato delle opposizioni di un nuova logica in cui, più che il valore di verità degli enunciati, è essenziale l’informazione comunicata da questi. Inoltre, nella prima parte del saggio, oltre ad analizzare il nesso fra queste due importanti classi di fenomeni psico-sociali, propongo: un modello matematico che evidenzia una transizione al caos nel caso della valorizzazione del capitale in ambiente con risorse limitate e un modello logico che evidenzia il carattere informazionale del quadrato delle opposizioni dei poli politici.

Nella seconda parte del saggio viene proposto un superamento della critica marxiana dell’economia politica.
Questa è adeguata all’analisi della produzione materiale del capitale industriale, ma non all’analisi della produzione immateriale del capitale finanziario, che sfrutta le capacità umane di comunicazione e di consumo oltre che di produzione. Marx non considera tale sintesi sociale e il fatto che l’alienazione nell’ informazione del significato connesso al valore d’ uso richiede una ridefinizione del valore di scambio. Per far ciò è necessario integrare il rovesciamento della dialettica hegeliana con una critica della teoria kantiana della conoscenza e risalire all’origine storica della politica e delle determinazioni formali dell’economia.

Lei formula l’ipotesi che la logica della politica e le determinazioni formali di valore d’ uso e di valore di scambio si siano formate all’ interno di una confederazione di città-stato greche, con lo sviluppo della proprietà privata della terra e con lo scambio commerciale, mediato dalla moneta di conio, dei prodotti in eccedenza ottenuti con la divisione del lavoro agricolo.
Sì, scopo della politica nella costituzione della polis era garantire per legge (logos), l’incorruttibilità della moneta di conio e l’inalienabilità della proprietà privata e stabilire con un’argomentazione logica la verità della proposizione “il soggetto gode / non gode di una certa proprietà” in base a un principio di non contraddizione. Ma compito della politica era anche, secondo Aristotele, fare in modo che il ciclo Merce-Denaro-Merce, i cui limiti sono fissati dal nesso fra produzione e consumo, prevalga sul rovesciamento nel ciclo Denaro-Merce-Denaro’ del capitale commerciale, in cui l’accumulazione di plusvalore consiste nel comperare merci nei luoghi in cui sono comuni per venderle a prezzo più alto nei luoghi in cui sono rare. Ciò dimostra che Aristotele aveva chiara la distinzione fra il valore d’uso di una merce per il consumatore e il valore di scambio di una merce per il mercante.

In questo libro sostiene anche che nell’ evoluzione del capitalismo si possono distinguere tre fasi.
Sì. Nella fase della proprietà privata fondiaria e del capitalismo commerciale, si ha il predominio della politica sull’economia, la separazione del consumatore dal produttore con la divisione del lavoro agricolo e il predominio del consumatore che definisce il valore d’ uso della merce (mentre il valore di scambio è dato dalla sua rarità). Con lo sviluppo del capitalismo industriale si ha un equilibrio fra potere politico e potere economico, la divisione del lavoro nella fabbrica e la determinazione del valore di scambio come lavoro accumulato. Invece nella fase del capitalismo finanziario si ha il predominio dell’economia sulla politica, una produzione insieme immateriale e materiale, la connessione fra significato e valore d’uso della merce e la determinazione del valore di scambio come informazione accumulata. Claude Shannon introdusse nel 1949 una misura probabilistica dell’informazione contenuta in un messaggio sulla base del numero di scelte fra alternative necessarie ad eliminarne l’incertezza: essendo la formula dell’incertezza eguale a quella dell’entropia, la determinazione soggettiva di incertezza e quella oggettiva di entropia vennero equiparate fra loro. Nel lavoro si ha, in particolare, un trasferimento di energia a bassa entropia con la produzione materiale di informazione. L’informazione è quindi un’estensione del lavoro alla produzione immateriale.

In un passaggio finale parla dell’entropia ambientale e dell’incertezza sociale che caratterizzano questo momento storico…
L’evoluzione della civiltà urbana consiste nell’auto-organizzazione di sistemi sociali sempre più complessi con lo sviluppo delle capacità umane di produzione e di comunicazione. Tale evoluzione è caratterizzata, da un lato, da un aumento progressivo dell’informazione incorporata da un ristretto gruppo sociale che domina l’intera società, dall’ altro da un aumento progressivo dell’entropia e dell’incertezza diffuse, rispettivamente, nell’ambiente e nel resto della società, dato lo sfruttamento sempre più intensivo sia delle risorse naturali che delle capacità umane. Nell’ evoluzione della civiltà urbana si possono distinguere tre grandi ere in cui si alternano, con un periodo di circa 900 anni, il predominio delle civiltà occidentali e quello delle civiltà orientali. Lo sviluppo del capitalismo e della scienza, che caratterizza l’evoluzione della civiltà occidentale, è alla base del suo predominio a partire dal XVI secolo. Nella seconda parte del saggio viene evidenziata la corrispondenza biunivoca di determinazioni formali dell’economia politica e della scienza, nelle tre fasi di evoluzione parallela del capitalismo e della scienza, evidenziando il progressivo asservimento della scienza al capitale.

L’analisi di queste forme di potere l’ha portata anche a individuare e/o proporre nuove possibilità di confronto, conflitto, cambiamento?
Penso che la concezione di una decrescita felice e l’opposizione del sovranismo della destra populista al globalismo neoliberale – come l’opposizione politica dei proprietari fondiari della polis greca al capitalismo commerciale – siano reazionarie in quanto pongono un limite allo sviluppo delle capacità umane di produzione e di comunicazione. Nel Rinascimento Pico della Mirandola affermava che l’uomo ha la straordinaria capacità di produrre le più grandi innovazioni e le peggiori efferatezze. Purtroppo l’evoluzione del capitalismo ha preso una brutta piega. Si tratta di cambiare indirizzo e, da un lato, ridurre al minimo l’aumento di incertezza distribuendo all’ intera comunità la ricchezza di informazione accumulata da un ristretto gruppo dominante, dall’ altro ridurre al minimo l’aumento di entropia dell’ambiente. I movimenti artistico-letterari della sinistra che, come il situazionismo, ‘narrano’ di mondi possibili alternativi, non considerano il fatto che un asservimento della scienza è alla base del potere del capitale. “L’immaginazione al potere” è possibile solo con il détournement della produzione scientifico-tecnologica per metterla al sevizio dell’intera comunità e con una nuova sintesi sociale fra narrazione e produzione che realizzi mondi possibili alternativi a quelli proposti dal capitale.

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Il babau fascista e la (solita) tiritera antifascista https://www.carmillaonline.com/2022/09/21/il-babau-fascista-e-la-tiritera-antifascista/ Wed, 21 Sep 2022 20:00:42 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73779 di Sandro Moiso

«Fin da molti anni addietro, noi affermammo senza esitazione che non si doveva ravvisare il nemico ed il pericolo numero uno nel fascismo o peggio ancora nell’uomo Mussolini, ma che il male più grave sarebbe stato rappresentato dall’antifascismo che il fascismo stesso, con le sue infamie e nefandezze, avrebbe provocato; antifascismo che avrebbe dato vita storica al velenoso mostro del grande blocco comprendente tutte le gradazioni dello sfruttamento capitalistico e dei suoi beneficiari, dai grandi plutocrati, giù giù fino alle schiere ridicole dei mezzi-borghesi, intellettuali e laici». (Amadeo Bordiga, [...]]]> di Sandro Moiso

«Fin da molti anni addietro, noi affermammo senza esitazione che non si doveva ravvisare il nemico ed il pericolo numero uno nel fascismo o peggio ancora nell’uomo Mussolini, ma che il male più grave sarebbe stato rappresentato dall’antifascismo che il fascismo stesso, con le sue infamie e nefandezze, avrebbe provocato; antifascismo che avrebbe dato vita storica al velenoso mostro del grande blocco comprendente tutte le gradazioni dello sfruttamento capitalistico e dei suoi beneficiari, dai grandi plutocrati, giù giù fino alle schiere ridicole dei mezzi-borghesi, intellettuali e laici». (Amadeo Bordiga, intervista a cura di Edek Osser – estate 1970)

A pochi giorni di distanza dalla “fatidica” data del 25 settembre, è difficile dire quanti saranno gli elettori che si presenteranno, convinti e con la tessera elettorale in pugno, ai nastri di partenza dell’ennesima e gaglioffa tornata elettorale.
A giudicare dai risultati degli ultimi anni, pochi. Molto pochi. Considerato soprattutto il fatto che, nell’attuale competizione, a farla da padrone sono stati più i nomi e le poltrone “garantite” dei candidati che non i programmi. Ma se anche così non fosse, vale comunque la pena di sottolineare come l’uso dei termini “fascismo” e “antifascismo” abbia ancora una volta caratterizzato la propaganda di una sinistra sempre più esangue e asservita alle esigenze del capitale nazionale e internazionale.

L’attuale farsa elettorale, infatti, vede le sinistre, più o meno parlamentari di ogni grado e risma, ricorrere ancora una volta all’espediente narrativo, già troppe volte visto in scena sia sui palcoscenici istituzionali più importanti che nei teatrini politici più scadenti, secondo il quale l’elettore “di sinistra” dovrebbe accorrere alla chiamata alle armi per difendere nell’urna la “democrazia” e la costituzione dall’ennesimo e vile assalto “fascista”. Trama semplice, priva di alcuna complessità interpretativa, in cui i buoni stanno, o devono stare, tutti dalla parte del “centro-sinistra” o al massimo di tutti quei partiti ancora non apertamente schierati con il terribile “centro-destra”.

A parte la qualità della compagnia che certo non fa rimpiangere quella del centro-destra, rimanendo nello schema interpretativo proposto dai media e dai rappresentanti dello schieramento “autenticamente” democratico, il primo pericolo sarebbe infatti presentato dal rischio di una revisione o riscrittura della carta costituzionale.

Su questo argometo, tralasciando il tema delle visite “agostane” di Giorgia Meloni al capo dello Stato rivelate dal “Fatto Quotidiano” del 10 settembre scorso, non occorre neppure ricorrere alle armi della critica proposte dalla Sinistra Comunista per smontare il grido di dolore che si leva dal perbenismo centrosinistrese. Basta, si pensi un po’, quanto è già stato scritto su un quotidiano tutt’altro che estremista come «il manifesto».

Le vicende delle «riforme costituzionali» ci dicono che l’attacco alla Costituzione non è venuto solo dalle destre ma anche dai partiti di centrosinistra, non è più vero dunque che il centrosinistra difende la Costituzione e le destre ne vogliono la distruzione. Centrosinistra e centrodestra sono stati protagonisti per vent’anni di tentativi, falliti, di modificare in pejus la Carta costituzionale del 1948 […] ai tentativi falliti si sono affiancati quelli riusciti a modificare la Costituzione. Eccone l’elenco: revisione del Titolo V (attuata dal governo Amato), dell’articolo 8 (votata dal Pd guidato da Bersani), degli articoli 56 e 57 per la riduzione del numero dei parlamentari (voluta dai 5S con il sostegno del Pd). Può essere punto di riferimento per la difesa della costituzione il pd, l’artefice principale delle sue manomissioni?1.

Non solo ma, entrando più nel merito delle questioni attuali, nello stesso articolo si aggiunge che se

la barbara Meloni si fa garante della scelta atlantica soprattutto per quanto riguarda il sostegno armato all’Ucraina, anche Letta è schierato con la Nato sostenendone le politiche militari, e il voto sul Trattato di adesione della Svezia e della Finlandia ha visto il Pd e il centrodestra votare insieme a favore […] Dunque la lesione dell’art.11, che ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, è compiuta sia dalla barbara Meloni sia dal progressista e democratico Letta. E il Pd ha in mano la società di produzione di armamenti Leonardo, guidata da Alessandro Profumo e da altri suoi iscritti, ch e propongono politiche aggressive di difesa e potenziamento dello strumento militare2.

E concludendo poi ancora che se

la barbara Meloni vuole il semipresidenzialismo alla francese […] si prenda la proposta di legge costituzionale AC224 e si troverà scritto che «la presente proposta di legge costituzionale si prefigge di superare il previsto stallo del sistema dei partiti chiudendo la transizione italiana e prendendo come riferimento il modello francese nella sua integralità (sistema elettorale e forma di governo». Dunque la barbara Meloni vuole il semipresidenzialismo alla francese che anche il democratico e progressista Ceccanti3, con altri del Pd vuole… 4.

Ora, tralasciando le quisquilie di ordine formale e costituzionale, considerato che qualsiasi carta costituzionale non è certo destinata all’eternità poiché al cambiamento dell’ordine sociale e politico deve per forza corrispondere un cambiamento delle leggi “fondamentali” che lo ispirano5, proviamo a considerare la questione fascismo/antifascismo da un più ampio punto di vista.

Non è affatto vero che il fascismo ci sia perché manca un governo capace di reprimerlo. E’ una turlupinatura far credere che la formazione di un governo di tale natura, e in genere lo sviluppo del rapporto tra l’azione dello Stato e quello del fascismo, possano dipendere dall’andamento delle cose parlamentari.
[…] Il governo forte e il fascismo forte sono per il proletariato uguali negli effetti: rappresentano il maximum della fregatura.
Poche delucidazioni a queste nostre asserzioni, contrapposte al gioco nauseante della «sinistra» politica che si elabora nei contatti osceni di Montecitorio, e alla quale rinnoviamo di tutto cuore la dichiarazione antica che essa ci fa mille volte più schifo di tutti i reazionismi, i clericalismi, i nazional-fascismi d’altra volta e di adesso.
Lo Stato borghese – la cui macchina effettiva non è nel parlamento ma nella burocrazia, nella polizia, nell’esercito, nella magistratura – non è affatto mortificato di essere scavalcato dall’azione selvaggia delle bande fasciste. Non si può essere contrari ad una cosa che si è preparata e che si sostiene: burocrazia, polizia, esercito, magistratura, sono per il fascismo, loro naturale alleato, indipendentemente dalla combinazione di pagliacci in feluca che reggono il potere.
Per eliminare il fascismo non è necessario un governo più forte dell’attuale. Basterebbe che l’apparato statale cessasse di sostenerlo con la sua forza […]
Noi comunisti non siamo così fessi da chiedere un “governo forte”. Se pensassimo che quello che chiediamo può essere conseguito, chiederemmo un governo veramente debole, che ci garantisse l’assenza dello Stato e della sua formidabile organizzazione dal duello tra bianchi e rossi6.

Il contesto della citazione è quello drammatico della guerra civile italiana, precedente alla marcia su Roma e alla presa del potere fascista, ma non per questo quelle parole non possono rinviare al dibattito fasullo di oggi. Dibattito in cui la solita sinistra liberal-democratica non ha neppure il coraggio di chiedere, seppur retoricamente, un’azione forte del governo contro il fascismo, ma soltanto ai rappresentanti dello stesso di cambiare il simbolo elettorale oppure di dichiararsi diversi da quel che sono.

Certo per la “sinistra” attuale, in particolare per il Pd, è facile chiedere agli avversari ciò che ha già fatto in casa propria, ripudiando qualsiasi riferimento alla lotta di classe, ma per la borghesia capitalistica, nazionale e internazionale, reazionaria o conservatrice, non lo è altrettanto. In fin dei conti la borghesia e il capitale non possono ripudiare se stessi e la propria forma Stato. Garante della proprietà privata e dello sfruttamento del lavoro salariato e sottopagato.

Una volta il blocco di sinistra si contrapponeva a quello della destra borghese perché il secondo manteneva l’ordine con mezzi coercitivi, e il primo si proponeva di mantenerlo con mezzi liberali. Adesso l’epoca dei mezzi liberali è finita, e il programma delle sinistre è quello di mantenere l’ordine con più “energia” della destra. Questa pillola dovrebbe essere fatta inghiottire ai lavoratori col pretesto che l’ordine è perturbato dai “reazionari” e che l’energia del governo l’assaggerebbero gli squadristi di Mussolini. Siccome il proletariato ha il compito di spezzarlo questo vostro maledetto ordine, per costruire il suo sulle rovine di esso, il suo peggior nemico è chi si propone di mantenerlo con maggior energia7.

Oggi, forse, la richiesta dello Stato forte, che pur non manca nel panorama attuale grazie alle politiche di progressiva concentrazione del potere nelle mani di tecnici mai eletti dai cittadini, è più sottilmente esposta, adombrandosi di manovre economiche, piani di ripresa e resilienza, di accordi sovranazionali che, apparentemente, sembrano spingere sullo sfondo il discorso dell’azione “forte” dello Stato “nazionale”. Nascondendo dietro alla questione dei “diritti” «un passo analogo a quello del neoliberismo che assorbe le spinte libertarie degli anni Sessanta e Settanta per ribadire l’ordine capitalistico. Il pensiero dominante diventa pensiero unico assimilando ciò che gli si oppone. Colonizzando completamente l’immaginario.»8

Un immaginario in cui il diritto individuale sopravanza qualsiasi esigenza di liberazione generale della classe e, conseguentemente, della specie. In cui l’“Io” idealizzato sottomette le esigenze collettive e in cui l’idea del “privato” distrugge qualsiasi esigenza comunitaria. Aprendo ulteriormente le porte, per converso, anche in certe sgangherate versioni dell’estrema sinistra, a tutte quelle rivendicazioni, tipiche del fascismo e delle destre tendenti a inserire/soddisfare l’individuo, emarginato e impoverito, negli schemi della Nazione “sovrana”, della Patria, della Razza, della Proprietà “privata” e della Famiglia, patriarcale e indissolubile.

Non è certo pertanto nella pania dei “diritti” oppure in quella delle rivendicazioni a carattere nazionalistico che si può individuare lo strumento più efficace per combattere un fascismo di facciata che nasconde la profonda aderenza al Fascismo vero di gran parte dei partiti politici italiani e della loro forma Stato. Ereditata quasi integralmente dalla mancata reale “sconfitta” del Fascismo storico. Grazie, soprattutto, alle politiche messe in atto del CLN, tese più a impedire la svolta rivoluzionaria e anticapitalista che una parte della Resistenza portava con sé, più che a rifondare lo Stato repubblicano su nuove basi (e d’altra parte come si sarebbe potuto farlo senza negarne radicalmente il modo di produzione sul quale si fondava?). Anche se occorre, a questo punto, fare un salto indietro, fino al 1924.

Prima di tutto: l’origine del fascismo.
Ho ricordato che il movimento fascista è per la sua origine storica collegato ad una parte di quei gruppi che invocarono l’intervento italiano nella guerra mondiale.[…] Questo gruppo si era completamente identificato con la politica della concordia nazionale e dell’intervento militare […]
La crisi governativa in Italia è stata caratterizzata da qualcuno nel modo seguente: il fascismo rappresenta la negazione politica del periodo durante il quale predominava da noi una politica borghese liberale e democratica di sinistra. Esso è la forma più aspra di reazione contro la politica di conces­sione attuata da Giolitti ecc. nel dopoguerra. Noi siamo invece dell’avviso che fra questi due periodi esista un legame dialettico: che l’atteggiamento originario della borghesia italiana durante la crisi in cui il dopoguerra precipitò lo Stato, non fu se non la naturale preparazione del fascismo.
[…] Siamo così giunti ad un punto in cui fascismo e democrazia si incontrano. Il fascismo ripete in sostanza il vecchio giuoco dei partiti borghesi di sinistra e della socialdemocrazia, cioè chiama il proletariato alla tregua civile.[…]
A base di tutto ciò sta ovviamente lo sfruttamento dell’ideologia nazionalistica e patriottica. Non si tratta di qualche cosa di completamente nuovo. Durante la guerra, nell’interesse nazionale, la formula della sottomissione di tutti gli interessi particolari all’interesse generale dell’intero paese era già stata ampiamente utilizzata.
Il fascismo riprende dunque un antico programma della politica borghese, ma questo programma appare in una forma che in un certo senso riecheggia il programma della socialdemocrazia e che d’altra parte contiene qualcosa di veramente nuovo […]
Il fascismo vorrebbe conciliare e fare tacere tutti i conflitti economici e sociali all’interno della società. Ma questa non è che l’apparenza esterna. In realtà, esso cerca di realizzare l’unità all’interno della borghesia, una coalizione fra gli strati superiori delle classi possidenti in cui esso appiani i contrasti singoli fra gli interessi dei diversi gruppi della borghesia e delle diverse aziende capitalistiche.
[…] Ma, in tal modo, si irretisce in una contraddizione insolubile, perché è estremamente difficile attuare una politica unitaria della classe borghese finché le organizzazioni economiche dispongono di una completa libertà di sviluppo e finché vige una completa libertà di concorrenza fra i singoli gruppi di imprenditori.
[…] Ma, nell’insieme, il suo programma sociale non è null’altro che il vecchio programma di menzogne democratiche, che rappresenta solo un’arma ideologica per il mantenimento del dominio della borghesia.
Il fascismo è molto rapidamente – prima ancora della presa del potere – divenuto “parlamentare”; ha governato per un anno e mezzo senza sciogliere la vecchia Camera che in grande maggioranza era composta di non fascisti e, in parte addirittura di antifascisti. Con la flessibilità che è una caratteristica dei politici borghesi questa Camera si è affrettata a mettersi a disposizione di Mussolini per legalizzare la sua posizione e concedergli tutti i voti di fiducia che a lui piacque di chiedere. Lo stesso primo gabinetto Mussolini – ed egli, nei suoi “discorsi di sinistra”, vi ritorna sempre – non fu costituito su basi puramente fasciste, ma abbracciò rappresentanti dei più importanti fra gli altri partiti borghesi: dal partito di Giolitti, dei Popolari, della sinistra democratica. Si trattava, dunque, di un governo di coalizione. Ecco cosa ha partorito il cosiddetto colpo di Stato! Un partito che nella Camera contava 35 deputati ha preso il potere e ha occupato la grande maggioranza dei posti di ministro e sottosegretario9.

A partire da queste prime considerazioni, è chiaro che anche l’antifascismo di cui troppo spesso si parla, soprattutto in tempi di elezioni, può assumere forme e contenuti diversi, quasi sempre solo di facciata, niente affatto conciliabili tra di loro.

Il proletariato è antifascista in base alla sua coscienza di classe; esso vede nella lotta contro il fascismo una poderosa battaglia destinata a capovolgere radicalmente la situazione e a sostituire la dittatura della rivoluzione alla dittatura del fascismo. Il proletariato vuole la sua vendetta, non nel senso banale e sentimentale della parola; vuole la sua vendetta in senso storico.
Il proletariato rivoluzionario capisce per istinto che al fatto dell’aumento e del predominio delle forze della reazione si deve rispondere col fatto della controffensiva delle forze di opposizione; il proletariato sente che solo attraverso un nuovo periodo di dure lotte e – in caso di vittoria – attraverso la dittatura proletaria lo stato di fatto potrà essere radicalmente cambiato. Il proletariato aspetta questo momento per restituire all’avversario di classe, con un’energia decuplicata dalle esperienze, i colpi che oggi è costretto a subire.
L’antifascismo dei ceti medi ha un carattere meno attivo. Si tratta, è vero, di una forte e sincera opposizione, ma alla base di questa opposizione è un orientamento pacifista: si vorrebbe con tutto il cuore ristabilire in Italia una vita politica normale, con piena libertà di opinione e discussione… ma senza colpi di manganello, senza impiego della violenza. Tutto deve tornare alla normalità, sia i fascisti che i comunisti devono avere il diritto di professare le loro convinzioni. È questa l’illusione dei ceti medi, che aspirano ad un certo equilibrio delle forze e della libertà democratica.
Anche nella borghesia in senso stretto regnano oggi dei dubbi sull’opportunità del movimento fascista. Si nutrono delle preoccupazioni, di cui i due citati organi di stampa (“Corriere della Sera” e “La Stampa” – NdR) sono, fino a un certo punto, i portavoce. Essi si chiedono: è questo il metodo giusto? Non è esagerato? Nell’interesse dei nostri scopi di classe noi abbiamo creato un certo apparato che doveva rispondere ad alcune esigenze. Ma non andrà esso oltre le funzioni che gli attribuivamo e gli scopi che ci prefiggiamo? Non sarà costretto a far più di quanto è bene? Gli strati più intelligenti della borghesia italiana sono per una revisione del fascismo e dei suoi scantonamenti reazionari, per timore che questi portino necessariamente ad una esplosione rivoluzionaria. Naturalmente, è nell’interesse espresso dalla borghesia che questi strati della classe dominante conducano nella stampa una campagna contro il fascismo per ricondurlo sul terreno della legalità, per farne un’arma più sicura e flessibile dello sfruttamento della classe operaia10.

Continuando poi con le seguenti considerazioni, svolte a seguito dell’assassinio di Giacomo Matteotti:

l’opposizione borghese considera l’intera questione come un fatto giudiziario, come una questione di morale politica […] Per noi, al contrario, si tratta di una questione politica e storica, di una questione di lotta di classe […] Bisogna dichiarare apertamente che solo l’azione rivoluzionaria del proletariato può liquidare una situazione simile; una situazione che […] non può più essere sanata con puri provvedimenti giudiziari, col ristabilimento filisteo della legge e dell’ordine. A tale scopo è invece urgente la distruzione dell’ordine esistente, un capovolgimento completo che solo il proletariato può condurre a termine.
[…] All’ordine del giorno è anche la questione del giudizio del fascismo italiano da parte della opinione pubblica internazionale, della campagna di propaganda condotta contro di esso dai paesi civili. Si crede addirittura di vedere nell’indignazione morale della borghesia degli altri paesi un mezzo per liquidare il movimento fascista.
I comunisti e i rivoluzionari non possono abbandonarsi a questa illusione sulla sensibilità democratica e morale della borghesia degli altri paesi. Anche là dove oggi si presentano ancora tendenze pacifistiche e di sinistra, domani il fascismo sarà usato senza scrupoli come metodo di lotta di classe. Noi sappiamo che il capitale internazionale può solo rallegrarsi delle imprese del fascismo in Italia, del terrore che esso esercita laggiù contro operai e contadini.
Per la lotta contro il fascismo […] si tratta di una questione di lotta di classe. Noi non ci rivolgiamo ai partiti democratici degli altri paesi, alle associazioni di idioti e di ipocriti come la Lega per i diritti dell’uomo, perché non vogliamo fare sorgere l’illusione che si tratti per essi di qualche cosa di sostanzialmente diverso dal fascismo, o che la borghesia degli altri paesi non sia in grado di preparare alla sua classe operaia le stesse persecuzioni e di compiere le stesse atrocità che il fascismo in Italia11.

E’ un chiaro richiamo alla necessità della lotta quello che il rappresentante del PCd’I espone nella sua relazione sul Fascismo e sui modi per combatterlo, che anticipa di vent’anni le modalità espresse poi dalla spontanea Resistenza degli oppressi e dei militari tornati dai fronti bellici. Come ad esempio esprimeva benissimo Nuto Revelli, nel suo diario della campagna di Russia12: «Cialtroni! Più nessuno crede alla vostre falsità, ci fate schifo: così la pensano i superstiti dell’immensa tragedia che avete voluto. Le vostre tronfie parole vuote non sono che l’ultimo insulto ai nostri morti. Raccontatela a chi la pensa come voi: chi ha fatto la ritirata (di Russia – NdR) non crede più ai gradi e vi dice: Mai tardi…a farvi fuori!»13

Certo, la lotta è possibile solo con la partecipazione delle masse. La gran massa del proletariato sa molto bene che la questione non può essere risolta con l’offensiva di una avanguardia eroica. Questa è una concezione ingenua […] Non è così facile fare la rivoluzione!
Noi siamo assolutamente convinti dell’impossibilità di intraprendere la lotta con qualche centinaio o qualche migliaio di comunisti armati. Il P.C. d’Italia è l’ultimo ad abbandonarsi a simili illusioni. Siamo fermamente convinti della necessità inderogabile di attirare nella lotta le grandi masse. Ma l’armamento è un problema che può essere risolto solo con mezzi rivoluzionari […] Ma dobbiamo liquidare l’illusione che una manovra qualsiasi ci metta un giorno in condizione d’impadronirci dell’apparato tecnico e delle armi della borghesia, cioè di legare le mani ai nostri avversari prima che passiamo all’attacco contro di essi.
Combattere questa illusione che spinge il proletariato alla pigrizia in senso rivoluzionario non è terrorismo […] Noi non diciamo affatto che siamo dei comunisti “eletti” e che vogliamo sconvolgere l’equilibrio sociale con l’azione di una piccola minoranza. Al contrario, vogliamo conquistare la direzione delle masse proletarie, vogliamo l’unità di azione del proletariato; ma vogliamo anche utilizzare le esperienze del proletariato italiano che insegnano che delle lotte sotto la direzione di un partito non consolidato – anche se di massa – o di una coalizione improvvisata di partiti portano necessariamente alla sconfitta. Vogliamo la lotta comune delle masse lavoratrici nelle città e nella campagna, ma vogliamo la direzione di questa lotta da parte di uno stato maggiore con una linea politica chiara, cioè del partito comunista.
Questo il problema che ci sta di fronte14.

Ieri come oggi il soggetto antagonista non può affidarsi alle promesse elettoralistiche e alle chimere parlamentariste per sconfiggere il suo avversario, sia che si nasconda sotto le spoglie di Giorgia Meloni che di Letta, Salvini, Renzi, Calenda, Berlusconi, Di Maio o altri ancora. Compresi i «sinistri» che accampano ancora motivi tipici del Fascismo e del Nazionalismo, quali Sovranità e Nazione, in un paese in cui più che la difesa dei confini sarebbe necessario farla finita una volte per tutte con il capitale e i suoi scherani. In divisa militare o in abito grigio da parlamentare che siano.

Strategia perdente, quella dell’attuale “antifascismo” da elezioni, che spinge i giovani a doversi accontentare del piagnisteo ipocrita di “Repubblica” del 21 settembre sulle manganellate distribuite a Palermo dalle forze del dis/ordine sui contestatori del comizio di Giorgia Meloni, dimenticando però che proprio quel giornale rappresenta una delle voci più autoritarie nei confronti dei movimenti reali. Com il suo direttore, Maurizio Molinari ha ben dimostrato sempre nei confronti del Movimento NoTav, definito terrorista dallo stesso.

Mentre, solo per fare un esempio, il fatto che al sorgere di un movimento dal basso e concreto nelle istanze, come quello rappresentato nel Regno Unito da «Don’t Pay» che ha raccolto in poco tempo più di centomila aderenti, che potrebbero diventare un milione, intorno a una richiesta fondamentale, ovvero «la riduzione delle bollette energetiche a un livello accessibile», il governo “conservatore” di Liz Truss ha dovuto rispondere con un provvedimento del valore compreso tra i 150 e i 200 miliardi di sterline indirizzato al contenimento del caro-bollette per i prossimi 24 mesi.

Anche se tale provvedimento si è reso necessario prima di tutto per fornire un aiuto alle aziende, è chiaro che il potenziale pericolo rappresentata dal movimento, sul piano della lotta di classe, ha costituito uno dei fattori chiave per una svolta in tal senso. Considerato anche, come ha affermato Salvatore Toscano su «L’indipendente», che: «L’iniziativa, come si legge sul sito, ricalca un’idea realizzata nel Regno Unito alla fine dello scorso millennio, quando 17 milioni di persone si rifiutarono di pagare la Poll Tax, contribuendo alla caduta del governo e all’inversione delle sue misure più dure».

Insomma, la lotta concreta dal basso è l’unica che paga e, talvolta, può essere addirittura sufficiente che il suo spettro si aggiri per l’Europa15.


  1. Franco Rosso, La Costituzione non è difesa dal partito di Letta, «il manifesto», martedì 9 agosto 2022, p.15  

  2. F. Rosso, art. cit.  

  3. Cui Fratoianni ha lasciato il seggio di Pisa – NdA  

  4. ivi  

  5. Per fare solo un esempio, quale dovrebbe essere la concezione della proprietà privata, del lavoro, dell’organizzazione socio-politica in una situazione in cui una rivoluzione radicale e proletaria prendesse il sopravvento? Potrebbe ancora basarsi sui principi liberali oppure dovrebbe affermarne, come pensa l’estensore di queste note, altri? Magari assolutamente diversi e contrari a quelli attualmente in vigore?  

  6. A. Bordiga, Del governo, «Il Comunista», 2 dicembre 1921  

  7. A. Bordiga, art. cit.  

  8. Fabio Ciabatti, Il ciclo di Eymerich, una narrativa popolare che inquieta e non consola /2, «Carmilla on line», 23 agosto 2022  

  9. Rapporto di Bordiga sul fascismo al V Congresso dell’Internazionale comunista (Ventitreesima seduta, 2 luglio 1924)  

  10. Rapporto di Bordiga sul fascismo al V Congresso dell’Internazionale comunista, cit.  

  11. Ivi  

  12. N. Revelli, Mai tardi, Einaudi, Torino 1967 – prima edizione Panfilo editore, Cuneo 1946  

  13. N. Revelli, op. cit., p. 210  

  14. Rapporto di Bordiga sul fascismo al V Congresso dell’Internazionale comunista, cit.  

  15. “Il Sole 24 Ore” del 10 settembre 2022 rivela che dal Rapporto Coop 2022 emerge che un italiano su tre entro Natale potrebbe non riuscire più a coprire le spese per le utenze di luce e gas, mentre il 57% degli italiani si sarebbe già dichiarato in difficoltà nel pagare l’affitto.  

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L’eroe, la volontà e il nulla https://www.carmillaonline.com/2021/06/23/la-volonta-e-il-nulla/ Wed, 23 Jun 2021 21:00:43 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=66669 di Sandro Moiso

Victoria Ocampo, 338171 T. E. (Lawrence d’Arabia), Edizioni Settecolori, Milano 2021, pp. 112, 16,00 euro

Ricordo di aver visto per la prima volta il film Lawrence d’Arabia di David Lean all’età di dieci anni nel 1963. Ho ancora ben presente il contesto della sala cinematografica, grande e strapiena, in cui veniva proiettato in prima visione. Fumo di sigaretta, spettatori seduti ovunque, sulle scale oppure in piedi lungo le pareti. Doveva certamente trattarsi di Natale oppure Capodanno, poiché quelle erano le uniche date in cui era possibile andare in prima visione [...]]]> di Sandro Moiso

Victoria Ocampo, 338171 T. E. (Lawrence d’Arabia), Edizioni Settecolori, Milano 2021, pp. 112, 16,00 euro

Ricordo di aver visto per la prima volta il film Lawrence d’Arabia di David Lean all’età di dieci anni nel 1963. Ho ancora ben presente il contesto della sala cinematografica, grande e strapiena, in cui veniva proiettato in prima visione. Fumo di sigaretta, spettatori seduti ovunque, sulle scale oppure in piedi lungo le pareti. Doveva certamente trattarsi di Natale oppure Capodanno, poiché quelle erano le uniche date in cui era possibile andare in prima visione con i miei famigliari.

Quel film mi è rimasto dentro, insieme al suo protagonista splendidamente interpretato in chiave problematica da Peter O’Toole, ed è forse l’opera cinematografica che ho visto più volte in vita mia, insieme a Il Mucchio Selvaggio di Sam Peckinpah, altro film poi non così distante dai contenuti del primo. Per questi motivi, ancora oggi, se qualcuno mi chiedesse a bruciapelo qual è il mio film preferito non avrei dubbi a rispondere che si tratta proprio di quello.

El Aurens, detto alla moda araba, non mi è rimasto inciso nella mente e nel cuore soltanto per le sue scene epiche e i panorami grandiosi oppure per le figure gigantesche e gigionesche dei capi tribù arabi interpretati da Anthony Quinn e Omar Sharif.
No, fin da allora a segnarmi fu l’immagine dell’eroe sconfitto dalla Storia e dai giochi imperiali che usciva da quelle vicende, e da quelle geopolitiche di cui era stato artefice, con un banale, ma forse ricercato, incidente motociclistico. Negli anni le vicende dell’eroe nietzchiano, che al termine di una continua ricerca della prova suprema e dell’atto ultimo e definitivo si ritrova imbrogliato, usato ed emarginato dai grigi esecutori delle burocrazie imperiali e degli interessi economici legati al petrolio, mi hanno fatto riflettere sulla vanità degli sforzi individuali e delle volontà, fosse anche delle migliori ed eroiche, nei confronti della Storia e dei suoi tellurici movimenti di cui contano soprattutto, più di quelli in superficie e violenti ma brevi, quelli sotterranei e lenti ma inarrestabili.

Il tenente colonnello Thomas Edward Lawrence (1888 – 1935) fu archeologo, ufficiale dei servizi segreti britannici e scrittore. Conosciuto con lo pseudonimo di Lawrence d’Arabia, è ancora oggi celebrato come uno dei capi della rivolta araba durante la prima guerra mondiale.
Lawrence fu infatti un paladino del nazionalismo arabo ed è ricordato come uno dei più controversi e discussi protagonisti dell’insurrezione delle tribù arabe contro la dominazione ottomana a inizio del Novecento nella zona compresa fra l’Higiaz e la Transgiordania.
Nel 1922, tormentato e disilluso, dopo aver visto la diplomazia europea trasformare in beffa il suo trionfo militare, T.E. Lawrence si arruolò nella RAF come semplice aviere sotto il falso nome di Ross, mantenendo un rigoroso segreto sulla sua vera identità. Morì, in circostanze non ancora del tutto chiarite, a causa di un incidente motociclistico all’età di 47 anni.

Tutto questo per dire che il testo di Victoria Ocampo, pubblicato originariamente in Argentina nel 1942, poi in Francia e Gran Bretagna nel 1947 e oggi in Italia per la prima volta da una casa editrice la cui linea editoriale non è certamente prossima a quella espressa dalla redazione di Carmilla, permette al lettore di affrontare, da un punto di vista che ne sottolinea la ferrea volontà, i caratteri di un uomo che, alla fine di un travagliato ed esemplare percorso, finì col fare i conti con quel precipitare verso il nulla che sembra costituire, insieme al tema tipicamente novecentesco dell’annichilimento dell’individuo in quanto artefice del proprio ed altrui destino, l’ultima vera essenza dell’esperienza individuale moderna.

Che poi tale estrema esperienza sia stata cercata e raggiunta volontariamente oppure come conseguenza della sconfitta della volontà individuale è cosa su cui varrebbe la pena di soffermarsi ancora, poiché anche la condizione di distacco dalle cose del mondo, suggerita e dichiarata dalle filosofie orientali (la Ocampo parla del dharma di Thomas Edward Lawrence), potrebbe rivelarsi null’altro che la constatazione e l’accettazione di una condizione insuperabile dal punto di vista del singolo individuo.

E’ un’instancabile lotta contro l’io “odioso” Lawrence che l’”altro da sé” T.E. conduce per gran parte della vita, secondo lo sguardo dell’autrice. Un confronto che diventa particolarmente evidente nelle pagine del testo più importante e rivelatore della personalità di Lawrence, I sette pilastri della saggezza, da cui sarebbe poi stata tratta anche la sceneggiatura del film di David Lean.

Una ricerca sistematica di allontanamento dal proprio Io che nell’assunzione di diversi alias nel corso della seconda fase della sua vita (tra cui quelli di T. E. Smith, T. E. Shaw e John Hume Ross) rivela la netta volontà di scomparire dalle pagine dell’album di famiglia dell’impero britannico.

Un personaggio estremamente contraddittorio interpretato da una scrittrice che lo è stata altrettanto: argentina di nascita che per lungo tempo adottò la cultura e la lingua francese come patria intellettuale e di espressione, mentre le sue origini aristocratiche e il fatto di essere una nota oppositrice del governo di Juan Perón fra il 1946 e il 1955 (motivo per cui fu imprigionata nel 1953), la identificarono per un orientamento culturale conservatore ed elitario, anche se le sue relazioni personali e la sua attività di editrice la mantennero in contatto con numerosi scrittori dalla differente impronta ideologica. Probabilmente il suo ruolo più importante fu quello, a partire dal 1931, di fondatrice della rivista “Sur”, che avrebbe pubblicato scrittori argentini, come Jorge Luis Borges, Adolfo Bioy Casares, Ernesto Sábato e Julio Cortázar, e contribuito alla diffusione presso il pubblico argentino degli scritti di autori stranieri, soprattutto francesi, inglesi e statunitensi.

Spesso al centro delle scene mondane e letterarie, in patria e all’estero, Victoria Ocampo (1890 – 1979) fu, come il suo eroe, di cui disse: «Sono immersa in Lawrence. Lo amo. Respiro… Il mio sangue circola bene quando lo leggo. Lo ammiro e sono felice che sia esistito», affascinata e attratta dal nulla. Il nulla di quel deserto senza confini che aveva circondato le azioni dell’inglese minuto destinato a diventare, più che un gigante, una figura prometeica della politica mediorientale del primo ventennio del XX° secolo, fin da subito indirizzato alla sconfitta nonostante i successi iniziali.

Una vita, quella di Lawrence, caratterizzata, nelle testimonianze di tutti coloro che lo conobbero e che sono largamente riportate nel testo, dal tentativo di superare i limiti fisici della corporeità per mezzo di pratiche ascetiche (attività fisica destinata a sopportare le condizioni climatiche e militari più estreme, astinenza sessuale e alimentare), in nome dell’affermazione di un’individualità che, apparentemente, intendeva liberarsi anche dai limiti anagrafici imposti dal nome (da qui il numero di matricola riportato dal titolo), ma che fallì, nonostante tutto nel suo tentativo di librarsi al di sopra della Storia e della materialità delle cose e dei fatti umani.

Quando Lawrence parla dei giovani inglesi che hanno combattuto al suo fianco e di cui si sente felice di essere compatriota, si indigna che vengano sacrificati non per vincere la guerra, ma affinché l’Inghilterra possa disporre del grano, del riso e del petrolio della Mesopotamia.
Vincere il nemico era necessario. Lo fecero dice, Lawrence. Ma la guerra vinta non significava per lui grano, riso e petrolio. Si vanta, come sua massima gloria, di aver risparmiato, in trenta battaglie, il sangue dei suoi. «Tutte le province soggette all’Impero non valevano per me un giovane inglese morto»1.

E’ il Lawrence del “Nulla è scritto”, frase che caratterizza la scena centrale del film di David Lean, quando il protagonista torna a sfidare l’”incudine di Allah” (la parte più arida del deserto del Negev) nella parte più calda del giorno per salvare un beduino disperso durante la marcia notturna.
Scena destinata a segnare anche il climax del film e il destino dell’azione di Lawrence poiché, per impedire la dissoluzione della sua armata composta da differenti tribù, il cui obiettivo è quello di cogliere di sorpresa e alle spalle la guarnigione ottomana di Aqaba, sarà poi costretto ad uccidere quello stesso uomo che aveva salvato; affinché il suo sangue non ricada sulle mani, già offese, di un clan diverso da quello a cui apparteneva e impedendo così l’inizio una faida distruttiva e senza fine.

E’ sicuramente un episodio simbolico ancor più che reale, ma serve perfettamente a cogliere l’impotenza dell’individuo, anche della personalità più forte e decisa, davanti ai casi della Storia e delle uraniche potenze che la agitano, sia che queste appartengano al cielo oppure a quelle della politica e delle forze economiche materiali.

Certamente, però, l’intera narrazione delle imprese del nostro risentiva dell'”orientalismo”, colonialista e tutto sommato razzista, di cui parlava Edward Said2 a proposito di un’immagine dei popoli arabi e/o coloniali che li vedeva destinati ad essere guidati e risvegliati dai rappresentanti di una società più “moderna e avanzata”: quella europea per l’appunto. Così mentre tra il novembre del 1915 e il marzo dell’anno seguente aveva già preso corpo il trattato Sykes-Picot, un accordo segreto tra i governi del Regno Unito e della Francia, che definiva le rispettive sfere di influenza nel Medio Oriente (o Asia Minore come allora ancora veniva definito) in seguito alla sconfitta dell’impero ottomano nella prima guerra mondiale, ratificato nel maggio del 1916, Lawrence poteva ancora perseguire paternalisticamente i propri obiettivi, così come sottolinea la Ocampo poco dopo l’affermazione precedentemente ripotata: “Che si riprometteva dunque? A che mirava vestito da arabo tra gli arabi e da inglese tra gli inglesi? «Se ho restituito all’Oriente [ci dice] un po’ di rispetto di sé stesso, uno scopo, degli ideali […] io ho, fino a un certo punto, reso quelle genti adeguate al nuovo ‘commonwealth’ in cui le razze dominanti dimenticheranno le loro azioni brutali e in cui i bianchi, i rossi, i gialli, i marroni e i neri si metteranno in piedi fianco a fianco ponendosi senza pregiudizi al servizio del mondo»”3.

Ma era anche cosciente del fatto che il suo paternalismo di stampo colonialista avrebbe dovuto, per forza di cose, fare ancore i conti con la politica reale dell’imperialismo e del colonialismo:

Il suo ostinato desiderio che gli arabi, uniti e liberi, potessero far rinascere la loro civiltà, come una nota necessaria tra le altre, si accentuava a mano a mano che progrediva la campagna nel deserto. E agli arabi egli aveva promesso in nome dell’Inghilterra proprio la libertà. Gli arabi non si sarebbero battuti per passare dalle mani dei turchi a quelle degli inglesi o dei francesi, e Lawrence ne era consapevole. Sapeva anche che la solidità delle promesse del suo governo era in dubbio e contava sul prestigio delle vittorie arabe per esigerne lui stesso il mantenimento.
Un poco alla volta le cose si ingarbugliarono. Lawrence era lacerato tra la fedeltà ai suoi capi, alla sua patria e la fedeltà ai capi arabi, agli arabi che avevano creduto alla sua parola e nella sua persona e che per questo si erano fatti uccidere. Non poteva probabilmente parlare apertamente del suo conflitto interiore né agli uni né agli altri. Nel suo trentesimo anno, prigioniero di questo dilemma, e prima di entrare vittorioso a Damasco, Lawrence era già disgustato di una gloria che gli sembrava fondata sull’inganno […] «Gli arabi mi credevano; Allenby, Clayton [suoi superiori] si fidavano di me, la mia guardia del corpo [composta di arabi] moriva per me. Io cominciavo a chiedermi se ogni fama fosse fondata come la mia su un inganno»4.

La volontà, l’ideale, l’inganno e il nulla finivano a quel punto col coincidere e definire l’unico spazio di azione possibile per l’eroe, dall’Ulisse omerico e dantesco fino all’agente dei servizi britannici destinato ad agire nel Medio Oriente del primo conflitto mondiale. Come lo stesso Lawrence ebbe a scrivere nei Sette pilastri della saggezza:

Tutti gli uomini sognano, ma non nello stesso modo. Coloro che sognano di notte nei ripostigli polverosi della loro mente, scoprono, al risveglio, la vanità di quelle immagini; ma sono quelli che sognano di giorno sono uomini pericolosi, perché può darsi che recitino il loro sogno ad occhi aperti, per attuarlo. Fu ciò che io feci. Intendevo creare una Nazione nuova, ristabilire un’influenza decaduta, dare a venti milioni di Semiti la base sulla quale costruire un ispirato palazzo di sogni per il loro pensiero nazionale. Uno scopo così alto fece appello alla loro insita nobiltà di sentimenti, e li indisse ad assumersi una generosa parte nella vicenda. Ma, quando vincemmo, fui accusato di aver messo in pericolo i profitti inglesi sui petroli della Mesopotamia, e d’aver rovinato la politica coloniale francese nel Levante5.

Le ricerche storiche successive hanno teso, quasi tutte, a sminuire il ruolo di guida e demiurgo che Lawrence tese ad attribuirsi o che gli fu attribuito dai primi biografi, riducendolo spesso, come afferma Nemi D’Agostino in una nota aggiunta nel 1974 alla sua opera più famosa, ad eroe mancato, il cui sogno romantico rimaneva di stampo conservatore, mentre la sua campagna, a parte il successo conseguito con la presa di Aqaba, registrò una serie di insuccessi, neutralizzati soltanto dall’avanzata inglese nel Sinai e in Palestina, la quale ultima permise infine agli arabi la vittoria politica dell’ingresso a Damasco6.

Sicuramente, però, l’attrazione ideale esercitato dall’avventuriero inglese sull’autrice argentina portò quest’ultima a considerazioni dal carattere psicologico, filosofico e letterario, ben diverse rispetto a quelle fin qui esposte.

“Forse il suo torto fu di crogiolarsi nel rifiuto. Ma possiamo chiamare torto ciò che senza dubbio fu il suo dharma? Come quella di Arjuna sul campo di battaglia, la sua anima era sgomenta. Niente poteva dissipare l’ansia che la paralizzava. Come Arjuna, Lawrence non desiderava più né vittoria, né regalità, né voluttà. Era un abitante delle grandi pianure. Ed è in questa regione, popolata di assenze, che ha avuto luogo il nostro incontro”7.

Anche se tutto ciò non toglie nulla a un libro che può essere tranquillamnete consigliato a chi ha subito almeno una volta il fascino dell’avventuriero inglese e del deserto, anche interiore, che ha sempre accompagnato la sua immagine.


  1. Victoria Ocampo, 338171 T. E., Edizioni Settecolori, Milano 2021, p. 48  

  2. Edward Said, Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente, Feltrinelli, Milano 2002  

  3. V. Ocampo, op.cit., pp. 48-49  

  4. Op. cit., pp. 49-50  

  5. T. E. Lawrence, I sette pilastri della saggezza, Bompiani, Milano 2002 (XXI edizione), p. 15  

  6. Nemi D’Amico, Nota (gennaio 1974) in T.E. Lawrence, op.cit., pp. 799-812  

  7. V. Ocampo, op.cit., pp. 18 -19  

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Divenire ciò che non siamo stati ancora https://www.carmillaonline.com/2018/10/24/divenire-cio-che-non-siamo-stati-ancora/ Wed, 24 Oct 2018 21:00:43 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=49208 Neil Novello, Giorgio Cesarano. L’oracolo senza enigma, prefazione di G. Marelli, Castelvecchi, Roma 2017, pp. 190, € 22,00

[A cinquant’anni dal ’68 e a più di quaranta dalla scomparsa di Giorgio Cesarano, le sue riflessioni, che hanno animato una grande varietà di iniziativa all’interno della critica radicale italiana tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, si rivelano ancora stimolanti e di grande attualità. Qui di seguito si riproduce un estratto dalla Prefazione di Gianfranco Marelli al testo di Neil Novello, il quale ha anche curato, sempre per Castelvecchi, la riedizione dei Diari del Sessantotto dello stesso Cesarano [...]]]> Neil Novello, Giorgio Cesarano. L’oracolo senza enigma, prefazione di G. Marelli, Castelvecchi, Roma 2017, pp. 190, € 22,00

[A cinquant’anni dal ’68 e a più di quaranta dalla scomparsa di Giorgio Cesarano, le sue riflessioni, che hanno animato una grande varietà di iniziativa all’interno della critica radicale italiana tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, si rivelano ancora stimolanti e di grande attualità. Qui di seguito si riproduce un estratto dalla Prefazione di Gianfranco Marelli al testo di Neil Novello, il quale ha anche curato, sempre per Castelvecchi, la riedizione dei Diari del Sessantotto dello stesso Cesarano (qui). S.M.]

Un aspetto focale del lavoro di Neil Novello consiste nel dar voce all’aforisma pindariano – Γένοιο οἷος ἔσσι, Diventa ciò che sei! – al fine di trovare un minimo comune denominatore all’intera opera cesaraniana e al contempo tracciare il profilo umano dell’autore stesso, deciso da sempre a condurre la “vera guerra” contro la sopravvivenza degli uomini mercificati dal sistema capitalistico per diventare ciò che si è, così da «emanciparsi non dal sistema, ma emanciparsi nel sistema per emanciparsi dal sé o dall’io ancora ignoto, tradurre la non-vita in vissuto reale, fare della vissutezza oltre la preistoria la storia di una ritrovata compiutezza ontologica, qualcosa che sia il compimento di un riconquistato “diritto alla vita”». Progetto, però, che può realmente concretizzarsi se concepiamo la necessità di «smarrire le tracce del sentiero finora battuto, deviare in direzione di un altrove individuale rinunciando, obliando l’essere-per nel nome dell’essere-sé, la persona ritornata individuo. Non è però uno slancio metafisico questo di Cesarano – puntualizza Novello – il momento individuale è tale in quanto piattaforma di un reale movimento collettivo, il viatico «verso una comunità umana». Già, perché il concetto di “comunità umana” diverrà fondamentale negli ultimi studi di Cesarano, debitore in parte delle riflessioni condotte in quegli stessi anni da Jacques Camatte, direttore della rivista «Invariance», sull’importanza in Marx della Gemeinwesen, quale adempimento storico del comunismo non nello Stato attraverso la presa del potere, ma nella liberazione dell’individuo comunitario; così come fu stimolato dalle riflessioni di Raul Vaneigem e di Guy Debord sulla necessità di ripensare i termini di rivoluzione e lotta di classe riferendosi alla critica della vita quotidiana, al desiderio quale principio trasformatore della realtà, al rifiuto di tutte le costrizione per la liberazione totale della creatività spontanea del “proletariato”.
Non essendoci, pertanto, più in palio la conquista del potere per mezzo della lotta di classe, la rivoluzione non potrà che essere condotta attraverso una lotta biologica volta alla conquista di sé come comunità umana; rivoluzione che permetterà di passare dalla preistoria del non vissuto alla storia della vera natura umana, la totalità organica naturante [Gemeinwesen], attraverso la completa realizzazione di sé nella società degli individui. Giustamente, Neil Novello in tal circostanza non può non notare le tracce seguite da Cesarano nel ripercorrere a modo suo il pensiero di Debord e di Vaneigem. Infatti, così come ne «La società dello spettacolo» si afferma che “il soggetto della storia non può essere che il vivente producente se stesso, che si fa signore e padrone del suo mondo che è la storia”, nel pensiero di Cesarano «è abolita l’idea di oggettivazione della conquista storica, non però la più autenticamente rivoluzionaria conquista di sé a sé e alla storia, una conquista della soggettività de-capitalizzata»; allo stesso modo nella sensazione manifestata da Cesarano di trovarsi ormai «in un luogo dell’anima tra il non più del mondo-capitale e il non ancora del mondo-soggettività» riecheggia il concetto di intermondo espresso da Vaneigem nel “Trattato di saper vivere”, quando afferma che “l’intermondo è il terreno incolto della soggettività, il luogo in cui i residui del potere e la sua erosione si mescolano alla volontà di vivere”. Assonanza di analisi che inducono Cesarano a scavare in profondità per portare alla luce la radice del problema gnoseologico: il perché ci sono? Domanda che l’analisi di Novello sostiene invece sia un’affermazione, anzi la constatazione crudele «dell’esserci come prodotto: l’inorganicità senza essere della specie umana»; di sicuro una riflessione sulle condizioni esistenziali di una mancanza di senso che il “dover essere” persona sociale risveglia nel desiderio di “saper essere” altro: un individuo indiviso, non dimidiato dalla langue della cultura del potere.
Stabilito dunque che non si può essere, poiché il capitale obbliga alla sopravvivenza, ad una vita ridotta alla mera funzione di autoaffermazione di sé come persona/merce, il “programma” rivoluzionario non può che lottare per un ritorno ad essere in quanto corpo dotato di senso che si riappropria del senso del corpo non più assoggettato alla produzione/riproduzione del capitale. Un rompere lo specchio che riflette la non-vita, o come poeticamente Cesarano scriverà in «Manuale di sopravvivenza» (l’ultimo saggio pubblicato dalla Dedalo nella primavera del 1974) un vedersi introspettivamente per confortarsi in uno “sguardo che non accetterà in eterno di riflettersi” nella persona sociale in cui l’Io [l’Io che pensa] è “l’ego quale centro economico” [l’Io che si pensa]. Del resto, non certo accidentalmente l’incipit della «Critica dell’utopia capitale», pubblicata postuma nel 1978 e nella sua forma di appunti programmatici, pone subito al centro della riflessione l’Io, affermando che “Il pensiero che si pensa è il riflesso del ripiegamento dell’essere, […] il primo istante della valorizzazione dell’io come ente astratto dell’essere quale attività”. Si evince così predisposta la volontà radicale di riportare la passione, il desiderio di amarsi, al fuoco propulsore della rivoluzione biologica che brucia l’orgasmo di un’“insurrezione erotica” della vita contro l’oppressione che cristallizza la sopravvivenza in un’unica possibilità di esistere nella totalità reificata della non-vita. La volontà del desiderio diviene dunque una passione radicale che non può essere riassorbita dal bisogno compulsivo di possedere l’oggetto che la pubblicità invita a consumare come un bene indispensabile, in quanto la passione «non è desiderio di oggettivarsi in un oggetto materiale, non è neppure la cosalità del soggettivo. È ciò che resta dopo la cancellazione della totalità reificata». Solo in questo modo il desiderio non si degrada in bisogno (appagandosi degli oggetti posti da capitale), ma si trasforma in passione desiderante di essere l’uomo che non è mai stato ancora. Ne consegue che l’uomo è da farsi, dal momento che – scrive Cesarano nel «Manuale di sopravvivenza» – “l’origine dell’uomo non è alle spalle, ma dinnanzi agli uomini. L’origine della specie è il fine della rivoluzione biologica”.

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