Internazionale Lettrista – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 LUDD ovvero dell’insurrezione permanente https://www.carmillaonline.com/2018/07/26/ludd-ovvero-dellinsurrezione-permanente/ Wed, 25 Jul 2018 22:01:27 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=47303 di Sandro Moiso

La critica radicale in Italia. LUDD 1967-1970, con una Introduzione e una memoria di Paolo Ranieri e una ricostruzione storico-politica a cura di Leonardo Lippolis, NAUTILUS, Torino 2018, pp. 570, € 25,00

In questi giorni bui, in cui di fronte al riproporsi di un governo reazionario e razzista l’antagonismo sociale non sembra saper far altro che riproporre modelli di azione politica e di organizzazione ripescati pari pari dai vecchi Fronti popolari e dalla peggiore tradizione catto-comunista e stalinista, questo primo volume del progetto destinato a ripercorrere le vicende della critica radicale italiana dalla fine degli anni Sessanta [...]]]> di Sandro Moiso

La critica radicale in Italia. LUDD 1967-1970, con una Introduzione e una memoria di Paolo Ranieri e una ricostruzione storico-politica a cura di Leonardo Lippolis, NAUTILUS, Torino 2018, pp. 570, € 25,00

In questi giorni bui, in cui di fronte al riproporsi di un governo reazionario e razzista l’antagonismo sociale non sembra saper far altro che riproporre modelli di azione politica e di organizzazione ripescati pari pari dai vecchi Fronti popolari e dalla peggiore tradizione catto-comunista e stalinista, questo primo volume del progetto destinato a ripercorrere le vicende della critica radicale italiana dalla fine degli anni Sessanta alla fine degli anni Settanta costituisce un’autentica boccata d’aria pura. Un po’ come aprire una finestra di un appartamento situato al centro di una grigia e inquinata metropoli per scoprire, inaspettatamente, che questa si affaccia su un magnifico paesaggio montano di nevi eterne, dirupi scoscesi e boschi verdissimi e selvaggi.

Le edizioni Nautilus che fin dai loro inizi pubblicano e ripubblicano testi di quel pensiero radicale che ha avuto nel Situazionismo una delle sue massime espressioni ma che, prima di tutto, affonda le sue radici nella insorgenza giovanile e proletaria che ha contraddistinto da sempre e, in particolare, fin dal secondo dopoguerra la “naturale” reazione di classe rivoluzionaria sia al capitalismo occidentale che al suo mostruoso alter ego rappresentato dal cosiddetto “socialismo reale”, con questo volume iniziano un’operazione che più che d’archivio pare essere più di riscoperta (per i lettori più giovani) e rivendicazione di un pensiero e di una pratica che dell’insorgenza continua contro ogni forma di potere costituito e ogni formulazione teorica tesa alla conservazione dell’esistente hanno fatto la propria ragione d’essere.

I due volumi che sono annunciati per il prosieguo dell’opera si occuperanno successivamente dei testi, giornali, bollettini e volantini prodotti all’interno del Comontismo, di Puzz, Insurrezione e Azione Rivoluzionaria e si intitoleranno Comontismo 1971-1974 e Insurrezione 1975-1981 e andranno ad affiancarsi ai due testi già precedentemente editi che raccoglievano tutti i numeri della rivista prodotta dall’Internazionale Situazionista1 e tutti i bollettini pubblicati dalla precedente Internazionale lettrista.2

Se, però, l’esperienza dell’Internazionale Situazionista è stata in qualche modo parzialmente digerita dal sistema mediatico e politico attuale, ben diversamente potrà avvenire per una produzione testuale e, lo ripeto ancora una volta, per una pratica militante che fin dagli esordi furono tacciate sia dal PCI che dai gruppuscoli nati alla sua sinistra (in primis l’orrido Movimento Studentesco di Mario Capanna) come provocatorie, irresponsabili e, in alcuni casi, “fasciste”.

Anche se l’opera non intende affatto costituire una celebrazione di pratiche e militanti come Giorgio Cesarano, Riccardo D’Este, Eddie Ginosa, Gianfranco Faina, Mario Perniola e molti altri ancora, senza dimenticare la vicinanza con Danilo Montaldi, poiché come afferma Paolo Ranieri nella sua introduzione:

“E’ ora, infatti, di dire basta alla moltiplicazione incessante e interessata di manifestazioni “in memoria”. Come il Primo Maggio […] ideato per essere l’appuntamento annuale con quel vagheggiato sciopero generale che spostava la presenza potenziale dell’insurrezione possibile insieme con l’assenza di rivoluzione attuale: da quando, con l’iterazione e la corrosione del tempo passato e il sequestro della produzione di memoria da parte delle istituzioni, ci si è scordati di questo, si è definitivamente degradato in una sorta di Pentecoste, rito lagnoso di una neo-religione per schiavi, aspiranti schiavi e liberti, meritevole di essere fuggito come la peste […] E lo stesso si può affermare senza esitazioni per il 25 aprile, il 12 dicembre, il 14 luglio […] ciascuno con le precise specificità che gli valgono un posto in questo martirologio della laica religione della disfatta, celebrata senza posa e senza vergogna dai voltagabbana incartapecoriti dalla nostalgia e dai militanti del conformismo”.3

Come si può ben comprendere fin da queste poche righe, che danno la cifra esatta del discorso anti-retorico e di rottura che la critica radicale italiana ha portato avanti fin dai suoi albori, non vi è possibilità di mediazione, di reciproco seppur parziale coinvolgimento e neppure di pace armata tra una miserabile concezione della politica di “sinistra” che ha fatto della sconfitta e della collaborazione di classe la sua terra d’adozione ed una visione che dell’iniziativa rivoluzionaria ed insurrezionale dal basso, proletaria e giovanile, ha fatto la sua ragione di esistere.

Continua, anzi anticipa, poi ancora Ranieri:

“Non possiamo nascondere a noi stessi che operazioni-memoria come la presente – intese a isolare una vicenda del passato raccogliendone i documenti in un’edizione che, elaborata dai superstiti stessi, aspira a mostrarsi critica, completa, definitiva, TOMBALE – rappresentano uno dei mille espedienti che l’universo delle merci adotta per frenare la propria inarrestabile entropia”.4

Sì, perché è proprio l’universo mercantile, con la rapida diffusione della sua capacità di affascinare e addomesticare l’immaginario proletario e sociale, l’altro obiettivo della critica radicale che, però, non intende semplicemente destrutturarne le basi e i principi ma, molto più semplicemente, distruggerlo insieme ai rapporti sociali e di produzione che lo alimentano. La necessità potrebbe rivelarsi essere proprio quella, già enunciata da De Sade, che l’insurrezione debba costituire la condizione permanente di ogni repubblica.

La sintetica ricostruzione storica della formazione, a Genova, prima del Circolo Rosa Luxemburg e poi di LUDD – Consigli proletari fatta da Leonardo Lippolis permette al lettore-militante di riscoprire le origini di tali formulazioni ed ipotesi non solo a partire dalle occupazioni studentesche delle Facoltà universitarie fin dal 1967, che impressero una spinta decisiva in quella direzione, ma fin dalle insurrezioni operaie e proletarie di Berlino Est nel 1953, dell’Ungheria nel 1956 e nelle rivolte italiane del luglio del 1960 e di Piazza Statuto nel 1962 a Torino.

Insieme alle interpretazioni che sorgevano dalle riletture dell’esperienza rivoluzionaria sulle pagine di “Socialisme ou Barbarie”, nei primi numeri dei “Quaderni Rossi” e successivamente dell’Internazionale Situazionista si evidenziava però sempre il fatto di come l’insorgenza proletaria fosse una costante, dalla Comune di Parigi in poi e allo stesso tempo come le trame “partitiche” finissero sempre con l’ingabbiare e limitare l’espressione del desiderio di rivoluzione e superamento dell’esistente compreso all’interno dell’esperienza dei Consigli.

Anche se proprio la scelta del nome del gruppo di cui sono raccolti principalmente i materiali in questo primo volume, LUDD, rinvia ad esperienze precedenti ed egualmente radicali. E’ proprio sulla tracci dell’interpretazione data dallo storico inglese Edward P. Thompson, nella sua opera più importante,5 del luddismo che si forma la convinzione che la rivolta spontanea del lavoratori delle campagne inglesi contro l’introduzione delle macchine fosse tutt’altro che una forma primitiva, arretrata e tutto sommato conservatrice di lotta di classe. Negando così un’interpretazione “progressista” del capitalismo che nelle sue conseguenze ha finito col trasformare i partiti “socialisti” o “comunisti” che la sostenevano in strumenti di conservazione politica, economica e sociale. Insomma i proletari inglesi dell’epoca delle guerre napoleoniche erano già più avanti di coloro, ad esempio i cartisti, che si sarebbero poi fatti loro portavoce e rappresentanti come tutta la deriva tradunionista, socialdemocratica e infine stalinista che ne sarebbe poi conseguita.

E’ proprio per questo motivo che i fondatori del movimento andarono progressivamente allontanandosi da quella componente operaistica di cui avevano inizialmente condiviso una parte del cammino. E che contribuì ad allontanare alcuni di loro anche da Raniero Panzieri che, proprio a proposito della rivolta di Piazza Statuto, in un primo momento aveva commentato la giovanile rivolta operaia come “quattro meridionali che tirano le pietre”. Questa memoria, contenuta nella ricostruzione di Lippolis, mi fa ha fatto tornare in mente che fu proprio in occasione di quella rivolta, e degli atteggiamenti assunti nei suoi confronti da Pajetta e dal PCI, che due proletari come Sante Notarnicola e Giuseppe Cavallero decisero di stracciare la tessera del Partito. Mentre esponenti dell’operaismo come Antonio Negri e Mario Tronti decidevano in quegli stessi anni di praticare una forma di entrismo nello stesso. Come dire che l’istinto proletario batte la riflessione filosofica 1 a 0.

“La Lega operai-studenti, che rivendicava l’eredità dei Consigli operai, insisteva invece sulla necessità di trovare nuovi canali di insubordinazione, non necessariamente legati alla fabbrica, rigettando l’impostazione gerarchica e centralizzatrice leninista. La Lega operai-studenti negava ogni valore alla lotta rivendicativa di natura economica a scapito di una critica radicale del lavoro salariato, bollato come inumano e assurdo […] «La critica rivoluzionaria – recita il significativo passaggio di un manifesto del gruppo – deve interessarsi di tutti gli aspetti della vita. Denunciare la disintegrazione delle comunità, la disumanizzazione dei rapporti umani, il contenuto e i metodi dell’educazione capitalistica, la mostruosità delle città moderne» (I 14 punti della Lega degli operai e degli studenti)”.6

I documenti riportati in più di trecento pagine sono innumerevoli ed interessanti: dai testi prodotti dalla Lega degli operai e degli studenti che si andò formando nella cerchia di militanti del Circolo Rosa Luxemburg a quelli prodotti dal Comitato d’azione di Lettere fino ai tre bollettini prodotti da LUDD e all’Appello al proletariato infantile contro l’infantilismo borghese passando per il testo di critica ai gruppuscoli scritto da Jean Barrot: Sull’ideologia ultrasinsitra.

Non costituiscono però tutto il materiale raccolto nel sito Nel Vento, nato a partire da un progetto contenuto nel preambolo a Psicopatologia del non vissuto quotidiano di Piero Coppo nel settembre del 2006. In cui si affermava:

“Dalla metà degli anni ’60 si è sviluppato in Italia un movimento che, sotto diversi nomi e sfumature differenti, ha condotto una battaglia teorico-pratica per l’affermazione di una rivoluzione che, nella propria concezione, non poteva che avere come base la critica della vita quotidiana. Precursori dei tempi, questi gruppi inquadrarono la questione della rivoluzione in termini anti-ideologici fuori e contro il militantismo caratteristico di quegli anni e del decennio successivo.
Le donne e gli uomini che si unirono in questi gruppi sono stati i primi e gli unici a porre come criterio, per cogliere il senso di un vissuto rivoluzionario diversi concetti che oggi sembrano evidenti […] Il Progetto Critica Radicale è di raccogliere e pubblicare i materiali prodotti dai gruppi e dagli individui che si sono riconosciuti in quelle idee”.

Idee, non dimentichiamolo mai, che non si espressero in spazi angusti o in eburnee ed intellettualistiche torri, ma sempre direttamente sul fronte del cambiamento esistenziale e politico, giorno per giorno nelle lotte e in una pratica che vedeva nel PRESENTE e non in un lontano passato oppure in un altro ancor più lontano futuro la possibilità di realizzare il cambiamento sociale necessario alla piena realizzazione dell’essere umano. Sia come singolo individuo, sia come specie.

Indispensabili, a parere di chi scrive, ancora oggi, nonostante alcune iperboli linguistiche ed alcune ammaccature dovute al trascorrere del tempo, per una discussione ed una pratica sociale e politica che non voglia rimanere chiusa all’interno della rappresentazione spettacolare dei valori borghesi travestiti da antagonismo e delle merci ideologiche che ne derivano.


  1. Internazionale Situazionista 1958-1969, Nautilus, Torino 1994  

  2. Potlatch. Bollettino dell’Internazionale lettrista 1954-57, Nautilus, Torino 1999  

  3. Paolo Ranieri, CRITICA RADICALE. GLI ANNI DI LUDD 1967-1970. Introduzione in La critica radicale in Italia, pag. 7  

  4. P. Ranieri, op.cit. pag. 5  

  5. Edward P. Thompson, Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra, il Saggiatore, Milano 1969  

  6. Leonardo Lippolis, L’occupazione definitiva del nostro tempo, in La critica radicale in Italia, pag. 35  

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L’Internazionale Situazionista: merce, desiderio e rivoluzione https://www.carmillaonline.com/2017/07/17/linternazionale-situazionista-merce-desiderio-rivoluzione/ Mon, 17 Jul 2017 21:00:32 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=39328 di Sandro Moiso

Gianfranco Marelli, L’AMARA VITTORIA DEL SITUAZIONISMO. Storia critica dell’Internationale Situationniste 1957- 1972, Mimesis Edizioni 2017, pp.456, € 26,00

A sessant’anni esatti dalla Conferenza di Cosio d’Arroscia (Imperia) del 28 luglio 1957 che ne stabilì di fatto la nascita, l’Internazionale Situazionista continua a costituire una sorta di oggetto volante non identificato della teoria politica e della critica radicale dell’arte, della cultura e della società capitalistica avanzata.

Anche se il suo equipaggio, nel corso dei suoi quindici anni di vita, comprese complessivamente non più di 70 persone (di cui soltanto sette donne), “Navigare sul mare della storia del situazionismo [...]]]> di Sandro Moiso

Gianfranco Marelli, L’AMARA VITTORIA DEL SITUAZIONISMO. Storia critica dell’Internationale Situationniste 1957- 1972, Mimesis Edizioni 2017, pp.456, € 26,00

A sessant’anni esatti dalla Conferenza di Cosio d’Arroscia (Imperia) del 28 luglio 1957 che ne stabilì di fatto la nascita, l’Internazionale Situazionista continua a costituire una sorta di oggetto volante non identificato della teoria politica e della critica radicale dell’arte, della cultura e della società capitalistica avanzata.

Anche se il suo equipaggio, nel corso dei suoi quindici anni di vita, comprese complessivamente non più di 70 persone (di cui soltanto sette donne), “Navigare sul mare della storia del situazionismo non è certo facile” come afferma Gianfranco Marelli al termine del suo lungo, dettagliato, appassionato e sofferto studio di quello che può essere ancora definito come uno dei movimenti più radicali della seconda metà del ‘900 e forse l’unico le cui principali formulazioni possano ancora costituire, almeno in parte, un’eredità immarcescibile per l’azione sociale antagonista nel secolo in cui siamo entrati, quasi senza accorgercene, ormai da un ventennio.

Gianfranco Marelli si occupa dell’argomento da più di venti anni e l’attuale pubblicazione di Mimesis costituisce la ristampa, ampliata e arricchita (72 note a piè di pagina e 50 pagine in più rispetto alla precedente) del testo pubblicato per la prima volta nel 1996 dalle Edizioni BFS di Pisa.
Nel corso degli anni Marelli ha pubblicato sull’argomento “L’ultima internazionale. I situazionisti oltre l’arte e la politica” (Bollati Boringhieri 2000) e “Una bibita mescolata alla sete” (BFS Edizioni 2015). Inoltre ha curato, per il secondo volume de “L’altronovecento. Comunismo eretico e pensiero critico” (Jaca Book 2011), la voce “L’Internazionale Situazionista” ed ha sviluppato la sua riflessione sulla stessa attraverso una grande varietà di saggi e contributi pubblicati in volumi collettanei e su riviste, sia cartacee che online.

A darci la cifra della passione dell’autore per l’argomento basterebbero le poche parole poste al termine del Prologo, quando ricordando lo smarrimento provato in seguito alla notizia del suicidio di Guy Debord, che del movimento era stato il profeta e il leader indiscusso, mentre si trovava a Parigi con la speranza (vana?) di incontrarlo, scrive: “Improvvisamente il tempo, a Parigi, era cambiato. Faceva freddo e da allora non smise più”.

Ma la passione di Marelli si lega pure ad una grande lucidità che, a differenza di altri tardivi o antichi estimatori dell’Internationale Situationniste, gli permette di analizzare quanto è rimasto di vivo e quanto invece è stato riassorbito dalle logiche del potere e dalla società capitalistica di quella, pur vivacissima, esperienza. Come lui stesso ha affermato; “L’amara sconfitta del situazionismo e il bisogno di evitare la noia di un REFRAIN pro-situazionista sono concetti tutt’ora validi. Si tratta di ANDARE OLTRE. Come, del resto, avrebbe voluto lo stesso Guy Debord.

L’esperienza situazionista era nata dai fermenti dell’arte d’avanguardia successiva al secondo conflitto mondiale e dalle teorie critiche che, già dalla seconda metà degli anni ’40 del Novecento, avevano aggredito violentemente sia le passate esperienze surrealiste e dadaiste che l’urbanistica razionalizzante di Le Corbusier e la banalità della vita quotidiana, ridotta a sopravvivenza e a trionfo dell’ordine economico e sociale borghese, che i riti del consumo e le stesse strutture urbanistiche finivano con l’esaltare.

Un percorso che dal Lettrismo di Isidore Isou passerà, tramite rotture, separazioni ed espulsioni che ne caratterizzeranno sempre il cammino fino alla dissoluzione formale, attraverso la successiva Internazionale Lettrista (in cui sarà già preminente la figura di Debord), il movimento COBRA e il Movimento Internazionale per una Bauhaus Immaginista. Sarebbero stati questi tre movimenti, inizialmente separati, ad incontrarsi con altri artisti nel Primo Congresso Mondiale degli Artisti Liberi, tenutosi ad Alba dal 2 all’8 settembre 1956, e a porre le basi per la Conferenza del 1957 da in cui l’Internationale Situationniste sarebbe poi nata.

E’ una storia di correnti artistiche e urbanistiche radicali e di uomini, spesso di singoli individui, quella che caratterizza le origini del Situazionismo. E questo aspetto viene sottolineato dall’autore che, al contempo però, rifiuta di ricostruire le singole vicende individuali per dare più spazio invece alle formulazioni teoriche prodotte e ai risultati raggiunti dall’insieme dei suoi componenti (spesso momentanei).

Certo non mancano le figure di rilievo nella ricostruzione di Marelli. Dallo stesso e onnipresente Debord a Pinot Gallizio, dall’olandese Constant, a Raoul Vaneigem, Asger Jorn, Gianfranco Sanguineti e molti altri che occuperebbero qui, in una recensione, troppo spazio se fossero tutti elencati. Ma come ha scritto Marelli in altro contesto: ”La tendenza a raccontare non più LE PERSONE CHE FANNO STORIA (ce ne sono, fidatevi) ma LA STORIA DELLE PERSONE, ha impresso alla memorialista un carattere confidenziale, da fotoromanzo, che esaspera l’intimità personale fino a farla USCIRE DA SÉ IN UN’ESTASI ESPLICATIVA DEL TUTTO COLLETTIVO, così da “finalmente comprendere come i fatti andarono per davvero”. La problematica va trattata GENTILMENTE, sostenendone l’importanza, evidenziandone la particolarità, cogliendone le ambiguità, ma senza mai scadere nell’OLEZZO DI LENZUOLA STROPICCIATE”.1

Il personalismo delle vicende narrate conta per quanto ha potuto influire sul percorso e le rotture in seno al movimento e non certo per stuzzicare il voyeurismo del lettore. In fin dei conti l’”ultima” Internazionale era nata in un ambiente artistico ed intellettuale ristretto in cui le mire e le aspirazioni personali, anche se travestite in alcuni casi da critica radicale, finirono spesso col determinare quelle rotture e dimissioni di cui si è precedentemente parlato ancor più che le vicende del contesto socio-politiche circostante.

Vicende storiche e politiche che, però, non furono mai estranee alle vicende del Movimento. Basti pensare che le tre fasi più significative della storia dello stesso incrociarono fatti e vicende estremamente significative per il successivo sviluppo dei movimenti rivoluzionari.

Il 1956 con la rivolta d’Ungheria e la crisi “formale” dello Stalinismo corrispose a quel Primo Congresso Mondiale degli Artisti Liberi che vide i partecipanti esprimersi, in alcuni casi, contro gli apparati burocratici e senescenti dei partiti presunti proletari e a favore di una visione consiliarista della lotta politica.

Il 1968 con l’insurrezione generalizzata degli studenti e dei giovani prima e di una parte significativa del mondo operaio poi, che vide il trionfo delle teorie situazioniste sulla necessità di fare la rivoluzione a partire dal rovesciamento delle strutture della vita quotidiana e dal rifiuto della mercificazione di ogni attività umana.

Gli anni compresi tra l’inizio dei Settanta e il 1977, periodo in cui il Situazionismo si sgretolò organizzativamente proprio nel momento in cui le sue idee sembravano diffondersi sempre più attraverso i mille rivoli e le mille formulazioni dei movimenti di rivolta che avevano, in alcuni casi, superato le divisioni causate dalle camarille politiche e sindacali falsamente di sinistra. Troppo spesso falsamente estremiste.

E’ un ben strano destino quello che vede il Situazionismo agonizzare proprio nel periodo in cui le sue critiche più audaci agli ambienti “militanti” dell’estremismo parolaio sembravano aver maggiormente attecchito a livello di massa . Ma anche quello fu solo un momento nel lungo cammino della liberazione della specie visto il rapido riformarsi delle sette e delle burocrazie (spesso clandestine) proprio all’apice di quei movimenti. Il quotidiano tornava in cantina e le “organizzazioni” in quanto partiti o gruppi armati riprendevano il sopravvento.

Ora, anche se nel testo l’attenzione per il “fallimento” degli ideali situazionisti e dei loro rappresentanti occupa un discreto spazio (si pensi soltanto all’aggettivo “amara” che accompagna la parola “vittoria” nel titolo), vale forse la pena qui di sottolineare almeno alcuni degli elementi che caratterizzano ciò che l’autore definisce come L’oro situazionista, ovvero l’eredità che Vaneigem sintetizzò così ironicamente: “tutto quello che noi abbiamo detto sull’arte, il proletariato, la vita quotidiana, l’urbanismo lo spettacolo [che] si trova ripreso ovunque, tranne l’essenziale”.2

In mezzo ai tanti credo valga la pena di riprenderne almeno quattro, i primi due già presenti nel Rapport sur la construction des situations e sur les conditions de l’organisation et de l’action de la tendance situationniste internationale, scritto da Debord nel maggio del ’57 e stampato a Bruxelles nel giugno, in vista della Conferenza di unificazione del luglio successivo.

1) La Borghesia in fase di liquidazione

All’epoca una critica delle difficoltà della borghesia e del capitalismo di mantenere in vita i propri valori attraverso una cultura, un’arte e scelte politiche ormai superate, anche e proprio quando volevano presentarsi come “moderne”. Un concetto che superava in qualche modo e allo stesso tempo arricchiva la concezione marxista della crisi del capitalismo inteso come mero fatto economico e che coinvolgeva nella sua critica sia i paesi del “capitalismo avanzato” che quelli del “socialismo reale”. Una concezione che oggi, a sessant’anni di distanza, non mostra solo la sua utilità sul piano della critica culturale ma, e soprattutto, nel momento in cui gli strumenti di rappresentanza del potere politico borghese (i parlamenti, i governi e gli stati nazionali) sembrano aver perso qualsiasi valore effettivo. Trasformandosi soltanto in mere ed appassite funzioni del capitale finanziario sovranazionale. Liquidati definitivamente non dalla rivoluzione proletaria, ma dalla globalizzazione che ha dimostrato l’inutilità dei confini e delle separazioni nazionalistiche.

2) Far retrocedere dappertutto l’infelicità

Contro l’idea di felicità borghese, fin dagli inizi il situazionismo rivendicò l’enorme potenziale di scoperta di nuovi desideri e reali motivi di felicità insita nelle lotte e nelle rivolte. Nel détournement dei significati e nella costruzione di situazioni soggettive, e molto meglio se collettive, tese a ribaltare e ad utilizzare differentemente gli spazi della vita quotidiana, architettonici, urbani e psichici. La felicità connessa agli ideali borghesi e piccolo-borghesi non può rappresentare altro che la base reale dell’infelicità collettiva, soprattutto laddove l’alienazione umana legata al lavoro e al consumo (in tutti i suoi multiformi aspetti) viene mascherata da normalità o ancor peggio da “realizzazione soggettiva”. E’ chiaro quindi che la felicità vera può realizzasi soltanto nel momento in cui la lotta contro il modo di produzione capitalistico non si limita al mero fatto o rivendicazione di carattere economico-riformistico, ma trasforma l’ambiente sociale e le mentalità che ne sono il prodotto, rifiutandone in primo luogo la mercificazione. Una rivoluzione in permanenza dello stile di vita e dell’organizzazione culturale (intendendo qui il termine cultura nel suo senso più ampio di norme, conoscenze, abitudini, etiche ed estetiche) più che una monolitica rivoluzione politica è quella che si può intravedere nella proposta situazionista fin dalle origini. Proposta messa collettivamente ed inconsciamente in atto da tutti movimenti autenticamente rivoluzionari (dalla Comune a quelli del maggio ’68 e degli anni successivi). Una rivoluzione che vive e cresce nelle lotte, ma che è soffocata dai partiti e dagli Stati, anche quando si definiscono proletari o indipendenti.

3) La proletarizzazione del mondo

Secondo la concezione situazionista “la società del benessere, nel cercare di integrare il proletariato ai valori dominanti, aveva ampliato il proprio dominio sulla vita trasferendo all’esterno dei rapporti di produzione le condizioni di alienazione/separazione che la produzione della merce aveva da tempo sussunto nel lavoro, e che ora il consumo della merce prodotta replicava fedelmente nel tempo libero. Per i situazionisti, quindi, la stessa definizione di proletariato, non era più delimitata dall’attività lavorativa compiuta nel sistema produttivo capitalistico, ma riguardava ormai l’intera vita degli individui che era espropriata e sfruttata (al fine di riprodurla come merce) all’interno dei processi di valorizzazione e scambio della merce; ogni individuo espropriato della propria vita – vale a dire, ormai privo della possibilità di controllarla e guidarla oltre gli imperativi economici dettati dalla produzione e dal consumo capitalistico – era dunque un proletario, e la cosiddetta società del benessere non solo (come invece sostenevano i sociologi di «Arguments») non aveva migliorato, superandola, la condizione proletaria dei ceti subalterni, ma addirittura aveva proletarizzato l’intera società.[…] l’Internationale Situationniste osservava che il processo di proletarizzazione della società concerneva non soltanto il diffondersi di questa divisione nel mondo produttivo, ma ben più l’affermarsi di un sistema economico che creava condizioni di alienazione/separazione del vissuto quotidiano, quali fattori di dominio totalizzante compiuto dalla merce nel mondo.3 La proletarizzazione completa dei paesi a capitalismo avanzata passa dunque attraverso il consumo (di merce, tempo libero, spettacolo) più che attraverso il bisogno e torna a trasformare il proletariato in classe deprivata (oggi anche del potere di consumare) pronta a lavorare in qualsiasi condizione e per qualsiasi salario.

4) La società dello spettacolo

Resta per molti questo l’assunto fondamentale della teoria situazionista, magistralmente esposta nel testo di Guy Debord dallo stesso titolo. Ciò che più conta in esso, e che spesso non è colto a fondo, è il fatto che tale spettacolarizzazione della realtà sociale non tocca soltanto la fascinazione esercitata dalla merce o l’azione giaculatoria ed ossessiva esercitata dai media in tutti i campi ma, e soprattutto, l’immagine e il ruolo del proletariato all’interno della società.
La nozione di spettacolo – adottata dai situazionisti per definire la società contemporanea e il suo sistema di dominio diffuso (nei regimi capitalisti), e concentrato (nei regimi totalitari) – concretizzò il concetto per cui «tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione»; di modo che l’alienazione/separazione degli individui dalla propria vita quotidiana espresse nello stesso tempo il risultato e il progetto del modo di produzione della merce nel mondo, divenuto il mondo della merce. Lo spettacolo – vale a dire «il riflesso fedele della produzione delle cose, e l’oggettivazione infedele dei produttori» – divenne quindi la chiave interpretativa della realtà contemporanea che consentì ai situazionisti di elaborare una teoria critica della vita quotidiana quale cartina di tornasole per rilevare la necessità del proletariato di assurgere a classe della coscienza; classe della coscienza delle proprie condizioni di alienazione, separazione, prodotte dalla società dello spettacolo e perpetuate grazie – soprattutto – ai suoi rappresentanti di classe, il partito e il sindacato. Il processo di estraniazione rifletteva così la condizione proletaria sia nei confronti del sistema di dominio, sia nei confronti del sistema ad esso antagonista, rappresentato dalle istanze “rivoluzionarie” dell’ideologia marx-leninista, che specularmente separavano il proletariato dalla propria coscienza per divenirne i padroni della sua coscienza; rappresentato dal partito-guida, il proletariato era così alla mercé dei “rivoluzionari di professione”, il cui compito non era l’abolizione del proletariato in quanto classe del capitale, ma l’affermazione del proprio potere di classe burocratica sul proletariato. Ecco perché, a parere dei situazionisti, la critica ai regimi comunisti non poteva essere una critica che si limitava a correggere gli errori compiuti dal partito nella gestione dello stato, ma doveva essere una critica che individuava nel partito, nello stato i medesimi processi di alienazione/separazione che il proletariato subiva nella società capitalista, perché speculari – anche se in negativo – alla stessa rappresentazione spettacolare del proletariato che doveva essere combattuta sia nei paesi capitalisti, sia nei paesi «socialisti».4

Alla fine i fili si riannodano tutti: critica del quotidiano, dell’estraniazione, del lavoro coatto, della merce e della reificazione dell’esistenza, in un quadro in cui “La necessità di «reinventare la rivoluzione» divenne per l’Internationale Situationniste il criterio prioritario per riconoscere le forze agenti che avrebbero trasformato il mondo, riconoscendosi, di conseguenza, nella pratica radicale delle loro azioni. I fenomeni che nelle società industrialmente avanzate raffiguravano il rifiuto ai valori della produzione e del consumo, così come la disaffezione nei confronti delle forme rappresentative della politica (il partito, il sindacato, lo stato) furono assunti dai situazionisti come conferma delle proprie ipotesi teoriche, anzi come realizzazioni pratiche delle idee elaborate. Il «rifiuto del lavoro», che gli strati marginali e giovanili nella metà degli anni ’60 – soprattutto negli Stati Uniti e nei paesi anglosassoni – manifestavano come forma di contestazione radicale al sistema, catturò l’interesse dei situazionisti al punto che essi vi videro una conferma parziale (in quanto non ancora organizzata) delle possibilità di superamento rivoluzionario delle condizioni economiche attuali.5.

Forse alcuni di questi assunti sembrerebbero giovare al capitalismo odierno, eppure, eppure…
Nonostante i transfughi, nonostante i fallimenti, nonostante tutto ciò che ha potuto essere riassorbito e riciclato dal modo di produzione dominante, e che Marelli segnala con lucidità a tratti spietata, un po’ di oro è rimasto e proprio questo libro può aiutarci a riscoprirlo per trarne l’essenziale.

Il recensore si scusa in anticipo per i limiti imposti dallo spazio di una recensione, ma il testo di Marelli resta indispensabile ancora oggi e sarà anche compito del lettore individuare e magari utilizzare ancora nel presente, apparentemente così lontano e contemporaneamente così simile al mondo in cui l’Internationale Situationniste ebbe modo di sparare le proprie bordate e di affermarsi come strumento fondamentale della critica radicale, oltre a quelli fin qui accennati, molti altri temi ancora utili per demolire le mitologie più perniciose e stridenti dell’esistente e della sua pretesa e fasulla modernità.


  1. Valga come esempio, per tutti, il recente testo di Donatella Alfonso, Un’imprevedibile situazione. Arte, vino, ribellione nasce il Situazionismo, il melangolo, Genova 2017. Un libro che sembra considerare la fondazione dell’I.S. un incidente casuale durante un’allegra bisboccia, il cui capo era solito fin dal mattino bersi almeno un litro di vino. Narrando così che, in uno sperduto e spopolato paesino dell’entroterra savonese, improvvisamente le cantine furono prese d’assalto da uno sparuto manipolo di situazionisti. Magari sbagliando anche la data e fissando la Conferenza nel luglio del 1958 invece che del 1957!  

  2. cit. in Marelli, pp.423-424  

  3. Marelli, pp. 404–405  

  4. Marelli, pp. 404-405  

  5. Marelli, pag. 405  

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Vita di un naufragatore: Guy Debord https://www.carmillaonline.com/2016/03/13/vita-di-un-naufragatore-guy-debord/ Sat, 12 Mar 2016 23:01:59 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=28977 di Gianfranco Marelli*

guy-debord Jean-Marie Apostolidès, DEBORD. Le naufrageur, Flammarion, Paris 2015, p.592

Le biografie, si sa, sono appannaggio di illustri personaggi, e Guy Debord (1931 – 1994) – nel suo piccolo – ne ha meritata ben più d’una, anzi cinque. Quasi sempre, però, più che vere e proprie biografie sono state dei panegirici – unica eccezione quella di Christophe Boursellier, Vie et mort de Guy Debord (1999) – ad uso e consumo della sterminata orda di “pro-situs”, vale a dire i fans, i tifosi, gli imitatori delle gesta di quella che è stata da molti considerata l’ultima avanguardia politico/artistica della [...]]]> di Gianfranco Marelli*

guy-debord Jean-Marie Apostolidès, DEBORD. Le naufrageur, Flammarion, Paris 2015, p.592

Le biografie, si sa, sono appannaggio di illustri personaggi, e Guy Debord (1931 – 1994) – nel suo piccolo – ne ha meritata ben più d’una, anzi cinque. Quasi sempre, però, più che vere e proprie biografie sono state dei panegirici – unica eccezione quella di Christophe Boursellier, Vie et mort de Guy Debord (1999) – ad uso e consumo della sterminata orda di “pro-situs”, vale a dire i fans, i tifosi, gli imitatori delle gesta di quella che è stata da molti considerata l’ultima avanguardia politico/artistica della seconda metà del secolo scorso.

L’imponente lavoro di Jean-Marie Apostolidès – professore di letteratura francese all’università di Stanford, da sempre studioso appassionato del concetto di “spettacolo” e delle sue implicazioni politiche con la storia sociale , nonché autore di un precedente studio sul situazionista parigino (Les tombeaux de Guy Debord) – è tutto tranne che un monumento innalzato alla gloria e al coraggio di colui che comunemente viene considerato il profeta del Maggio francese, il “cardinale di Retz” della rivolta situazionista, l’intellettuale colto e raffinato che ha saputo interpretare meglio di qualunque altro la società del secondo dopoguerra, le sue contraddizioni ideologiche apparentemente antagoniste fra capitalismo diffuso (le democrazie occidentali) e capitalismo concentrato (l’Urss e gli stati ad essa satelliti), e le sue possibilità tecnologiche capaci di un radicale superamento dello stato di cose presenti.

Lo si comprende subito leggendo il sostantivo che accompagna il titolo dell’opera: Le naufrageur, traducibile soltanto con una proposizione relativa esplicita: chi provoca il naufragio. Debord, il “naufragatore”: colui che, di fronte a una tempesta di mare, volutamente con false indicazioni convince i passeggeri a dirigersi tutti da un lato mettendo in pericolo la stabilità dell’imbarcazione al punto da provocare il suo rovesciamento. Che dire di una simile impresa? Perfidia dell’autore del libro, o cinismo del suo protagonista principale?

In verità, dovremmo essere avvezzi ad un’interpretazione di tal fatta. Dopotutto lo stesso Debord ci ha abituati a considerarlo e raffigurarlo fra «i naufrageur che non scrivono il loro nome se non sull’acqua», come possiamo leggere nella sceneggiatura del suo ultimo film, In giro imus nocte et consumimur igni, proprio nei frames in cui racconta di sé e della sua amicizia con il situazionista Ivan Chtcheglov (alias Gilles Ivain, a cui per altro si deve uno dei primi studi psicogeografici di Parigi che consentiranno a Debord di precisare meglio il concetto, fondamentale per il pensiero situazionista, di “deriva”).

Pertanto se l’autore della “Società dello spettacolo” è un naufrageur, è per sua scelta. Del resto, uno dei suoi più cari e intimi amici, Asger Jorn, ne disegnò la celebre icona, quando di lui scrisse che se non può non essere conosciuto che come il Male, Debord è tuttavia mal connu. Ecco: il libro di Apostolidés toglie il velo maligno che avvolge la figura di Debord, ma non procede al fine di denigrarne l’immagine che il personaggio medesimo si è creato, quasi che l’intera sua opera non abbia avuto altro motivo se non quello di inventarsi quale mito maligno e pestifero che attacca dalle fondamenta la società dello spettacolo e trascina con sé nella lotta sino all’annientamento i suoi fedeli seguaci.

No, nel tratteggiare l’ “io-mitologico” che Debord inscenò nel corso dell’intera vita – sognando, di volta in volta, di poter essere un grande criminale à la Lacenaire, un imperatore folle come Nerone, un capo banda al pari di Fu Manchu, un agitatore rivoluzionario (naturalmente, lui stesso), un generale con l’acume di Clausewitz – Apostolidès minuziosamente ricompone i pezzi dello specchio in cui il parigino amava rimirarsi, offrendone un’immagine complessa, tutt’altro che monolitica, sicura di sé, delle sue idee, del suo destino; anzi, presentandocelo come un sognatore che insegue il suo sogno mitico fino alle estreme conseguenze, ne tratteggia i lineamenti di «un uomo fragile, più abile a dissimulare le proprie debolezze che a correggere i propri difetti».

Cosa rimane del “noto” situazionista? Molto di più di quanto siamo stati abituati a leggere, soprattutto il suo lato umano, troppo umano, se volessimo soltanto soffermarci all’aspetto che forse solleticherà il conoscere i gusti sessuali di Debord, delle sue mogli, delle sue amanti (e amanti delle mogli), e delle ambigue figure misogine partecipanti ai giochini erotici nelle vesti di marsupial (a voi scoprirlo con la lettura del libro). Ma non solo questo.

Debord – così come lo ricostruisce Apostolidés, basandosi anche su un’ampia documentazione inedita depositata presso l’Università di Yale – è soprattutto un homme de groupe, la cui singolarità s’incarna nell’azione collettiva, quasi che abbia bisogno di affermare un’esistenza collettiva per poter vivere la propria individualità. Ecco spiegarsi, fin da piccolo, l’esigenza di appartenere ad un insieme per ergersi suo protagonista indiscusso; in questa dialettica fra singolare e plurale si snoda la sua storia personale e quella dei gruppi che lo hanno visto artefice principale, ad incominciare dal gruppo familiare eteroclito, alla banda di giovinastri scapestrati, per poi passare al movimento situazionista, trasformato in una setta religiosa con tanto di dogmi e disciplina, che una volta dissoltasi verrà ricomposta in una nuova identità, l’orda pro-situs, le cui caratteristiche esacerberanno ancor più l’assoluta obbedienza ai voleri del capo, pena la morte civile nell’olimpo dei rivoluzionari.

Di questa ciclopica biografia, frutto di «quarant’anni di letture, dieci anni di ricerche, e tre anni di stesura», non si può certo sostenere che la figura di Guy Debord si staglierà nitida e maestosa come alcuni pretendono che sia, ed altri hanno cercato in tutti modi che fosse, vantando di esser stati stretti collaboratori del situazionista parigino. Non crediamo, però, che il compito prefissatosi dall’autore sia stato di distruggere l’immagine dell’individuo che più di ogni altro ha fatto della sua opera l’immagine di se stesso; piuttosto riteniamo che lo studio di Jean-Marie Apostolidès abbia messo in pratica quanto l’Internazionale lettrista, a firma anche di Guy Debord, scrisse nel 1952: «Crediamo che l’esercizio più urgente della libertà è la distruzione degli idoli, soprattutto quando loro stessi ci spronano alla libertà».
C’è riuscito, non c’è che dire.

*Gianfranco Marelli è l’autore di: L’amara vittoria del situazionismo, BFS 1996; L’ultima Internazionale. I situazionisti oltre l’arte e la politica. Bollati Boringhieri 2000; della voce Internazionale Situazionista nel secondo volume di L’Altronovecento. Il sistema e i movimenti [Europa 1945 – 1989] ( a cura di Pier Paolo Poggio), Jaca Book 2011 e di Una bibita mescolata alla sete, BFS 2015

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