Ingmar Bergman – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Scorci di apocalisse nel cinema di Tarkovskij https://www.carmillaonline.com/2023/08/16/scorci-di-apocalisse-nel-cinema-di-tarkovskij/ Wed, 16 Aug 2023 20:00:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78601 di Paolo Lago

Spesso, nel cinema di Tarkovskij, si spalancano come baratri degli scorci di apocalisse che lasciano intravedere lembi di distruzione e di autodistruzione dell’umanità. Le immagini e i suoni, in tali occasioni, riescono ad aprire dei varchi verso territori indistinti, segnati da un disastro e da un annichilimento emergenti come un flusso magmatico che si spande in sonorità dalle connotazioni oniriche ed inquietanti. È lo spettro della guerra, e di conseguenza un annientamento pressoché totale dell’umanità, a rappresentare, in diverse occasioni, una possibile caduta nel vuoto di un’apocalisse annunciata.

Pensiamo a [...]]]> di Paolo Lago

Spesso, nel cinema di Tarkovskij, si spalancano come baratri degli scorci di apocalisse che lasciano intravedere lembi di distruzione e di autodistruzione dell’umanità. Le immagini e i suoni, in tali occasioni, riescono ad aprire dei varchi verso territori indistinti, segnati da un disastro e da un annichilimento emergenti come un flusso magmatico che si spande in sonorità dalle connotazioni oniriche ed inquietanti. È lo spettro della guerra, e di conseguenza un annientamento pressoché totale dell’umanità, a rappresentare, in diverse occasioni, una possibile caduta nel vuoto di un’apocalisse annunciata.

Pensiamo a Lo specchio (Zerkalo, 1974), in cui dietro le ambigue e vampiresche parvenze dell’arte di Leonardo da Vinci si celano baratri che spalancano orrori. Una vera e propria esplosione, anche musicale, accompagna in questo film l’improvvisa apparizione dell’immagine del leonardesco ritratto di Ginevra Benci dietro al quale si cela l’orrore della guerra che ha inghiottito nelle sue spire di morte il personaggio del padre. D’altra parte, lo spettro della guerra compare sullo schermo anche sotto la forma di immagini di repertorio che mostrano i soldati dell’Armata Rossa che avanzano nel fango trascinandosi dietro armi e cannoni, strumenti di morte che decreteranno il loro stesso annientamento. Sempre in un contesto di immaginario di guerra compare anche l’inquietante ricordo della fanciulla dai capelli rossi: il protagonista, infatti, rammemora i momenti in cui da ragazzo, in tempo di guerra, era costretto ad esercitarsi col fucile. Nella campagna invernale, fra gli alberi, a un certo punto vede una ragazza segnata da una ferita sanguinante alle labbra, terribile e affascinante apparizione vampiresca. Nel contempo, ecco riemergere di nuovo la presenza inquietante dell’arte sotto le vesti dei Cacciatori nella neve di Pieter Brueghel il Vecchio. La macchina da presa, allora, si esibisce in una carrellata ravvicinata sul quadro mentre in sottofondo sentiamo una musica tagliente dagli accenti metallici che quasi connota il paesaggio del dipinto, i personaggi, gli alberi e gli uccelli presenti in esso come i possibili messi di un’apocalisse incipiente.

In Stalker (1979), l’orrore di una possibile apocalisse compare nella volontà del personaggio dello scienziato di distruggere la Stanza, il luogo della Zona (un territorio misterioso forse provocato dal passaggio di extraterrestri; il film è infatti lontanamente ispirato al romanzo di fantascienza dei fratelli Strugackij, Picnic sul ciglio della strada) dove possono essere esauditi tutti i desideri, mediante un piccolo ordigno nucleare. Nell’immagine dello scienziato che vuole distruggere un luogo onirico e misterioso intravediamo l’orrore di Tarkovskij per una scienza e una tecnologia che appaiono come le basi di una “civiltà che minaccia di distruggere l’umanità” (secondo le parole dell’autore), come leggiamo nel “piccolo dizionario tarkovskijano” posto all’inizio del “Castoro” dedicato al regista1. Di fronte all’insondabile e all’inesplicabile, al mistero forse giunto da altri mondi, l’essere umano tecnologico, l’uomo a una dimensione di marcusiana memoria non conosce altro che la distruzione, spinto verso una irrefrenabile volontà di annientare l’altro da sé. Ciò che non si conosce, che non si comprende – sembra voler affermare il regista – deve essere distrutto. D’altra parte, scorci di distruzione operata dall’industrializzazione e dall’inquinamento indiscriminato sono presenti ovunque nel mondo ‘normale’, al di fuori della Zona. Se quest’ultima, infatti, nell’immaginaria trasposizione tarkovskjiana del romanzo dei fratelli Strugackij, era connotata da un ambiente naturale quasi intatto, sfolgorante di intricata vegetazione, il mondo fuori della Zona è squallidamente rappreso in ambienti spogli e tetri, come il bar in cui si ritrovano i personaggi all’inizio e alla fine del viaggio, o in lande malinconiche e fangose percorse da jeep militari e da soldati armati, emblema dello spettro di un pervasivo controllo e di una guerra che si trovano sempre in agguato. Al di fuori della Zona vi è un mondo squallido e inesorabilmente perduto nei suoi ritmi di quotidianità scontata e allucinante: basti guardare la sequenza in cui lo stalker porta sulle spalle la sua bambina che non riesce a camminare perché nata con una malformazione congenita. Lo sfondo è una grigia periferia industriale, solcata da nebbie e da ciminiere, da tetri treni merci, da fabbriche e industrie che inquinano e devastano l’ambiente. Lo squallore e la devastazione che aleggiano ogni dove sono rimarcati da una musica sinistra e tagliente che accompagna come un lugubre requiem l’incedere peregrino dello stalker.

In Nostalghia (1983), l’orrore si cela ancora una volta dietro la forza dirompente dell’arte. Il protagonista Gorçakov, un poeta sovietico giunto in Italia per seguire le orme di un musicista russo del ‘700, rifiuta infatti di recarsi a vedere la Madonna del Parto di Piero della Francesca, emblema di quell’arte italiana che contemporaneamente affascinava e inquietava il regista. Secondo un aneddoto riportato da Francesco M. Cataluccio, infatti, il regista, agli Uffizi, riusciva a vedere soltanto le prime sale, la pittura sacra medievale, mentre doveva fermarsi all’inizio della pittura rinascimentale2. La Madonna del Parto irrompe sulla scena quasi come la Ginevra Benci ne Lo specchio, trasmettendo al protagonista orrore ed angoscia. Ma gli scorci di apocalisse, in Nostalghia, affiorano soprattutto nei momenti in cui il poeta si incontra con Domenico, un ex internato che appartiene al mondo ‘acquatico’ della follia e della ‘disragione’, per utilizzare un termine foucaultiano ricalcato sul francese “déraison”. Secondo lo studioso francese, infatti, “la follia è l’esterno liquido e grondante della rocciosa ragione”3. Egli emerge da un lungo internamento in manicomio ed è attratto dall’acqua, dalle pozze, dagli anfratti acquorei e dalla pioggia che penetra ogni dove nella sua casa, dalla vasca termale della piazza del paese di Bagno Vignoni, luogo al giorno d’oggi oggetto di una folle gentrification e turisticizzazione e che nel film possiamo contemplare ancora silente ed intatto, immerso nei suoi ritmi antichi e medievaleggianti. Il suo internamento manicomiale segue un altro lungo, stavolta volontario, internamento durante il quale aveva tenuta segregata in casa la sua famiglia per sette anni per proteggerla dalla “fine del mondo”, un’apocalisse che sarebbe stata provocata probabilmente da quella “rocciosa ragione” alla quale egli si oppone. Ecco che nella casa del ‘folle’ Domenico si fronteggiano il poeta ed il pazzo, il primo intrappolato nella sua lancinante nostalgia, il secondo impietrito da un’angoscia provocata da un profondo orrore per la ragione in tutti i suoi aspetti, mentre un suono meccanico e ossessionante si fa largo sullo sfondo sonoro come un vitreo ed evanescente fantasma.

Domenico, però, non appare esclusivamente imprigionato nelle dinamiche intime e ‘private’ di una solitaria angoscia ma si fa latore di una possibile via di fuga dall’universo carcerario della follia nel quale era stato relegato da un sistema basato su una presunta ‘normalità’. A Roma, sul Campidoglio, il personaggio organizza una manifestazione alla quale partecipano – sembra – molti altri ‘folli’ come lui, presumibilmente degli ex internati usciti dagli ospedali psichiatrici tra fine anni settanta e inizio anni ottanta (il film è del 1983) in seguito alla legge Basaglia. Domenico grida ai folli ormai liberi – parafrasando una frase di René Char – di esercitare la loro “legittima stranezza”: per scongiurare una catastrofe, una guerra nucleare, forse l’avvento di nuovi campi di sterminio di massa – dice Domenico – è necessario tornare uniti, è necessario che i cosiddetti ‘normali’ si mescolino ai cosiddetti ‘pazzi’, ai ‘diversi’. Pensiamo a come suona significativo l’appello del folle Domenico oggi che sono trascorsi anni in cui sono scoppiate guerre (e ancora scoppiano e sono in corso), in diverse parti del mondo (un mondo – bisogna dire – preda del distruttivo meccanismo capitalistico), a causa dell’odio di matrice etnica, a causa dell’incapacità di non riconoscere come simile il proprio ‘vicino di casa’, abitante di un territorio confinante. I ‘folli’, allora, non sono ‘folli’ ma sono forse gli unici capaci di riconoscere un fratello, un amico, un vicino anche in ciò e in chi appare come totalmente diverso. Se i normali e i folli non si rimescoleranno – dice Domenico – il mondo si autodistruggerà perché è giunto ormai già sull’orlo della catastrofe.

Una catastrofe che, alla fine, avviene davvero in Sacrificio (Offret / Sacrificatio, 1986), testamento cinematografico di Tarkovskij, in cui il protagonista Alexander, interpretato da Erland Josephson, lo stesso attore che impersonava Domenico, muovendosi lungo il baratro dell’apocalisse, verrà internato in manicomio per aver dato fuoco alla sua casa nel tentativo di salvare non soltanto la propria famiglia come Domenico, ma l’umanità intera. Nel giorno del suo compleanno, giunge infatti la notizia dello scoppio di una guerra nucleare che molto probabilmente condurrà all’estinzione totale dell’umanità. Anche Alexander, come Domenico, si oppone alla “rocciosa ragione” e, ergendosi a difensore dei valori umani e naturali (nel film è presente una forte impronta ecologista), riuscirà a scongiurare la distruzione e l’apocalisse mediante il rituale del fuoco. Anche in Sacrificio è l’arte rinascimentale, rappresentata ancora una volta da Leonardo, ad aprire squarci di inquietudine. L’autore, secondo l’aneddoto sopra ricordato, agli Uffizi riusciva a vedere soltanto l’arte medievale mentre il Rinascimento per la prima volta liberava la strada alla “rocciosa ragione”, rappresentata dalla tecnica, dalla precisione, dal mercantilismo e dagli scambi commerciali che si stavano sempre più diffondendo nell’intera Europa, per non parlare degli incontri con i ‘diversi’ al massimo grado, gli abitatori delle nuove terre dove era approdato il conquistatore europeo. Se pensiamo alla frase pronunciata dal personaggio di Harry Lime (Orson Welles) ne Il terzo uomo (The Third Man, 1949) di Carol Reed, l’arte di Leonardo appare inserita in una curiosa – parafrasando Adorno e Horkheimer – “dialettica del Rinascimento”: “In Italia, sotto i Borgia, per trent’anni hanno avuto guerra, terrore, omicidio, strage ma hanno prodotto Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera, con cinquecento anni di amore fraterno, democrazia e pace cos’hanno prodotto? L’orologio a cucù”. Leonardo da Vinci apparirebbe quindi, dialetticamente, come l’altra faccia della guerra, del terrore e dell’omicidio. È L’adorazione dei magi, in Sacrificio, a introdurre lo scenario d’apocalisse; si tratta di un quadro, tra l’altro, menzionato dallo stesso regista nei suoi diari come particolare conduttore di una personale e distruttiva sindrome di Stendhal4. La riproduzione del quadro presente nella casa di Alexander, su cui si muove lentamente la macchina da presa inquadrandola attraverso una sottile membrana vitrea (il vetro della cornice o la superficie della finestra), in modo che appaia come visto ‘dall’esterno’, appare quasi come l’estremo lembo di una terra di nessuno nella quale possono avvenire inenarrabili catastrofi.

Nelle inquadrature iniziali vediamo il personaggio annaffiare un albero secco in compagnia del suo bambino ed esibirsi in un monologo-dialogo con quest’ultimo (simile, per certi aspetti a quello di Domenico) sulla necessità di una comunanza dell’uomo con i suoi simili e, soprattutto, con la natura. Così leggiamo in un racconto dal titolo Sacrificio che riprende diverse frasi e momenti del film (ma che non si può considerare una sceneggiatura): “La prima cosa che l’uomo ha provato nel momento in cui si è sentito un uomo è stata la paura. Aveva paura di tutto – delle belve, della tempesta e del buio. Ma, invece di imparare a vivere con la natura, a condividere con lei la sua sorte, a esserle amico, l’uomo ha preferito difendersi”5. Come già notato, il cinema del regista russo dispiega, in certi momenti, l’apertura a una comunanza con la natura e l’ambiente che possiede alcuni aspetti di matrice ecologista che non sono stati ancora indagati a fondo. Sempre nella parte iniziale del film, in una sequenza onirica che appare ad Alexander, vediamo una strada in preda al disfacimento e un’automobile rovesciata, mentre gruppi di persone si muovono disordinatamente, in fuga. Su un giornale abbandonato per strada è forse possibile leggere la parola “Černobil”, con un probabile riferimento al disastro alla centrale nucleare sovietica avvenuto appunto nel 1986, anno di uscita del film. L’apocalisse affiora dal magma di una “rocciosa ragione” che, illuministicamente, allontana sempre di più l’uomo dalla natura, poiché quest’ultimo si percepisce come un corpo estraneo sia alla natura che all’ambiente i quali vengono progressivamente trasformati in strumenti d’uso e di consumo, fino all’attuale sistema di produzione capitalistico. Anche dall’allontanamento dell’uomo dalla natura emergono le catastrofi, come la guerra nucleare che avviene nel film. Nel momento in cui la televisione, prima di spegnersi del tutto, annuncia l’inizio del conflitto, i personaggi, nel salotto di casa che molto ricorda certi interni ‘teatrali’ di Bergman (tra l’altro il film è stato girato in Svezia), assumono una posa granitica, preda di una ragione che sì è rocciosa ma che anche può trasformare in pietra, può rendere gli esseri umani tetri automi e burattini della paura e dell’angoscia. Nel contempo, il suono di sottofondo assume connotazioni devastanti: sentiamo infatti i rumori dei motori di cacciabombardieri in assetto di guerra che sfrecciano provocando sommovimenti tellurici che ad altro non preludono se non ad un’autodistruzione della società umana.

Di fronte a questa pietrificazione, a quest’orrore annichilente provocato dall’uomo, il personaggio oppone il movimento incessante del fuoco, un fuoco immerso in catartiche volute che distruggono quella stessa casa abitata dall’angoscia e dalla paura, dall’orrore del passato e del presente, da lembi di lancinanti ricordi. Il personaggio effettua in bicicletta un percorso sinuoso e serpentino nelle nordiche e nebbiose lande per recarsi dalla ‘strega’ Maria e scongiurare la catastrofe, come suggerito dal postino Otto. Alexander in bicicletta si muove in bilico su quegli stessi scorci di apocalisse, mentre in sottofondo risuonano cupe sirene di navi, e giunge alfine a compiere un atto erotico con la ‘strega’ che appare come un salvifico ricongiungimento con la natura. Dall’eros al fuoco: è il fuoco a espandersi e a levarsi in alto come in molti film di Tarkovskij. È la catarsi che avviene, una salvezza da un’apocalisse che comunque resta sempre in agguato, coi suoi borborigmi ctonii. E Alexander alfine si consegna alla mostruosa disragione e quindi agli abissi della follia e dell’internamento scegliendo per sempre il silenzio, unica risposta che una società basata sul controllo e sulla punizione può offrire a chi ha danzato sui baratri dell’apocalisse, dell’autodistruzione dell’umanità e, muto, annichilito dalla silente prigionia, adesso non può neppure riferirne l’orrore.


  1. Cfr. T. Masoni, P. Vecchi, Andrej Tarkovskij, Il Castoro Cinema, Milano, 1997, p. 7. 

  2. Cfr. F. M. Cataluccio, Tarkovskij e l’Occidente, il Il fuoco, l’acqua, l’ombra. Andrej Tarkovskij: il cinema tra poesia e profezia, a cura di P. Zamperini, La Casa Usher, Firenze, 1989, pp. 34-35. 

  3. Cfr. M. Foucault, L’acqua e la follia, trad. it. in Archivio Foucault. Interventi, colloqui, interviste, vol. 1, a cura di J. Revel, Feltrinelli, Milano, 1996 p. 74. 

  4. Cfr. A. Tarkovskij, Diari. Martirologio, a cura di A. A. Tarkovskij, Edizioni della Meridiana, Firenze, 2002, p. 274. 

  5. A. Tarkovskij, Racconti cinematografici, Garzanti, Milano, 1994, p. 279. 

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“Dante”: un viaggio senza orrore https://www.carmillaonline.com/2022/10/27/dante-un-viaggio-senza-orrore/ Thu, 27 Oct 2022 20:00:44 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=74543 di Paolo Lago

Dante, il nuovo film di Pupi Avati, è costruito sulla struttura del viaggio, quello compiuto da Giovanni Boccaccio (Sergio Castellitto) per incontrare, a Ravenna, l’unica figlia di Dante rimasta in vita, suor Beatrice. Il film, che si ispira al Trattatello in laude di Dante, scritto da Boccaccio, alterna i momenti del viaggio a dei flashback in cui vediamo spaccati della vita del poeta, appartenenti soprattutto al periodo della sua giovinezza. Quello compiuto dal personaggio di Boccaccio assomiglia, per certi aspetti, al “viaggio dell’eroe” come è descritto da Chris Vogler nel [...]]]> di Paolo Lago

Dante, il nuovo film di Pupi Avati, è costruito sulla struttura del viaggio, quello compiuto da Giovanni Boccaccio (Sergio Castellitto) per incontrare, a Ravenna, l’unica figlia di Dante rimasta in vita, suor Beatrice. Il film, che si ispira al Trattatello in laude di Dante, scritto da Boccaccio, alterna i momenti del viaggio a dei flashback in cui vediamo spaccati della vita del poeta, appartenenti soprattutto al periodo della sua giovinezza. Quello compiuto dal personaggio di Boccaccio assomiglia, per certi aspetti, al “viaggio dell’eroe” come è descritto da Chris Vogler nel suo manuale di sceneggiatura intitolato appunto “Il viaggio dell’eroe”. Come scrive Luca Cangianti nel saggio “Il viaggio dell’eroe e la coscienza di classe”, Vogler “afferma che il protagonista, l’eroe per l’appunto, è spinto a intraprendere un’avventura che lo strappa alla realtà quotidiana, portandolo alle soglie di un mondo straordinario nel quale dovrà superare prove mortali nel tentativo di sconfiggere il nemico. Tuttavia «gli eroi non si limitano a visitare il regno dei morti per poi tornare a casa. Ne escono trasformati»” (su Carmilla).

Il cinema di Pupi Avati già in passato ci aveva offerto degli intrecci basati sul viaggio di un personaggio che si reca in un luogo lontano e misterioso per poi essere avvolto da risvolti orrorifici e inquietanti. Questo luogo è spesso rappresentato da quel lembo di pianura padana che si confonde con le acque del Po fino a formare un territorio nebbioso ed ambiguo, attraversato dall’acqua e circonfuso di oscure leggende legate a uno spettrale passato. Basti ricordare La casa dalle finestre che ridono (1976), in cui Stefano, un giovane restauratore (interpretato da Lino Capolicchio), deve recarsi in un paesino sperduto della bassa ferrarese per riportare alla luce un macabro affresco. Macabri e putrescenti sono anche gli scenari che lo avvolgono: vecchie ville patrizie, campagne desolate, oggetti artistici e d’antiquariato che sembrano emergere da arcaici passati palpitanti di orrore. In Zeder (1983), invece, è un altro Stefano (Gabriele Lavia), uno scrittore che, incuriosito dalle leggende circolanti intorno ai fantomatici “terreni k”, i quali costituirebbero una porta verso l’aldilà, si reca al Lido di Spina, in un territorio anch’esso ambiguo ed acquatico. Non si può, poi, non ricordare il più recente Il signor Diavolo (2019), che narra il viaggio del giovane funzionario Furio Momentè da Roma a Venezia e, successivamente, a Lio Piccolo, un paesino della laguna veneta dove, al pari degli altri personaggi, verrà avvolto da una dimensione d’orrore.

Il movimento del viaggio avviene da un luogo conosciuto e familiare, connotato dalla razionalità, verso uno spazio liminale, segnato dal misterioso incontro fra la terra e l’acqua (la bassa ferrarese, la laguna veneta, il Delta del Po). Territori arcaici e intrisi di superstizione che avvolgono nelle loro spire gli “eroi” che si mettono in cammino circonfondendoli di un’ambigua atmosfera onirica e perturbante. Anche Boccaccio, come i due Stefano e Furio, si mette in viaggio verso quella parte di pianura padana che lambisce lagune e Delta del Po, stavolta declinata nella romagnola Ravenna, luogo in cui Dante si spense nel 1321. Tra l’altro, il “sommo poeta” morì proprio per aver contratto delle febbri malariche al ritorno da un’ambasceria a Venezia, mentre attraversava le paludose Valli di Comacchio. Ed è proprio verso quel territorio segnato dall’incontro tra terra e acqua ma anche dalle tracce eterne dell’arte che il personaggio di Boccaccio si dirige, non senza aver fatto testamento prima di partire. Boccaccio parte da Firenze, dalla natia e familiare Toscana, per intraprendere un viaggio in cui ogni tappa rappresenta un momento per ricordare squarci della vita di Dante, di quel “sommo poeta” che egli considera come il proprio padre e maestro.

Allora, all’interno del film, forse in maniera eccessivamente didascalica, in diversi momenti scaturisce la recitazione in voce fuori campo di alcuni versi di Dante mentre successivamente incontriamo un riferimento alla vicenda di Paolo e Francesca, vicenda che il poeta, da soldato, avrebbe ascoltato seduto intorno a un fuoco. La stessa Beatrice appare nelle vesti di una “dama senza pietà” quando – in un momento onirico in cui il tema del “cuore mangiato” sembra filtrato attraverso la lettura di La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica di Mario Praz – la donna fatale è impegnata a divorargli letteralmente il cuore (un momento sinceramente un po’ splatter, l’unico a riecheggiare certe atmosfere sanguinarie dei film precedenti). Rispetto alle sequenze che mostrano spaccati della vita di Dante, assai più convincente risulta la narrazione incentrata sul viaggio di Boccaccio. Un viaggio che, a differenza degli altri precedentemente ricordati, non possiede il timbro dell’orrore. Il protagonista, adesso, non compie un movimento verso insondabili e cupi misteri, verso macabre e demoniache magioni; il suo impervio cammino, disseminato di tappe (monasteri o umili case), si rivolge adesso verso il desiderio di conoscenza, verso l’ultima testimonianza vivente del poeta e scrittore che considera come suo maestro. Il Boccaccio che Avati ci dipinge appare quasi come l’antesignano del moderno biografo che ricerca ossessivamente luoghi e persone frequentati dal personaggio del quale si accinge a scrivere. Se uno squarcio d’orrore è presente nel peregrinare del protagonista, esso è rappresentato dalla cupa bambola che egli reca con sé per donarla alla figlia, bambola che era stata un dono di nozze per Beatrice e che adesso rappresenta solo una tetra reliquia, un volto ed un corpo inerte, perduto in una marmorea immobilità perturbante.

D’altra parte, il movimento compiuto da Boccaccio si innesta su uno sfondo profondamente corporeo (quasi come la cupa peregrinazione dei personaggi de Il settimo sigillo di Bergman), in un affresco rigoroso della società dell’epoca e delle sue piaghe sociali. Il personaggio scende fra le sepolture degli appestati, in cui i corpi sono illuminati dal fuoco di torce che si espandono in caravaggeschi bagliori e percorre i baratri di ambienti segnati dalla povertà e dall’emarginazione. Lo stesso corpo del personaggio appare segnato dalla malattia e il suo incedere è spesso stanco e affannato, circonfuso di una stanchezza che si ripercuote in ogni suo gesto e in ogni suo movimento. E la meta di questo viaggio di un corpo malato sarà il luogo ove un altro corpo malato, quello di Dante, ha finalmente trovato riposo: Ravenna, la pineta di Classe, la chiesa di Sant’Apollinare, in cui il poeta si sdraiava estasiato ad ammirare gli affreschi. All’orrore degli altri film, nel finale, si sostituisce una dimensione onirica che scaturisce dal racconto della figlia del poeta, incontrata nel convento, ma di nascosto e di notte. Una dimensione che racchiude in sé tutta la forza di un immaginario poetico e letterario legato alla figura di Dante che il protagonista Giovanni Boccaccio, come un’alchimia, è riuscito magicamente a creare.

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Treni d’estate https://www.carmillaonline.com/2022/08/01/treni-destate/ Mon, 01 Aug 2022 21:00:57 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73200 di Paolo Lago

Ho sempre amato i treni fermi nelle stazioni, d’estate. Soprattutto i treni a lunga percorrenza, quegli Intercity bianchi un po’ vecchi, col sole disegnato sopra. Ho sempre pensato che se ne andassero in luoghi caldi, più caldi ancora di dove stavo io, posti dove il sole picchiava come un forsennato. Verso sud, verso meridioni infuocati per andare a fermarsi in altre stazioncine di paese, magari in altre ere, e addormentarsi sotto pensiline di legno e intravedere scaglie di mare, tremule, vicine, troppo vicine alla via ferrata, lembi di mare che [...]]]> di Paolo Lago

Ho sempre amato i treni fermi nelle stazioni, d’estate. Soprattutto i treni a lunga percorrenza, quegli Intercity bianchi un po’ vecchi, col sole disegnato sopra. Ho sempre pensato che se ne andassero in luoghi caldi, più caldi ancora di dove stavo io, posti dove il sole picchiava come un forsennato. Verso sud, verso meridioni infuocati per andare a fermarsi in altre stazioncine di paese, magari in altre ere, e addormentarsi sotto pensiline di legno e intravedere scaglie di mare, tremule, vicine, troppo vicine alla via ferrata, lembi di mare che forse si possono quasi toccare dal finestrino. Poi quei treni, chissà, avrebbero continuato la loro corsa dentro ventri di traghetto, pance di balene di ferro che li avrebbero portati su isole antiche. E allora fra fumi di zone industriali, un caldo soffocante di motori e di macchine, si imbarcheranno per ritrovarsi in sponde di lievi sogni, fra templi di dei, e marinai scuri che bevono birre ghiacciate li lasceranno uscire da quelle pance di ferro. E viaggeranno ancora, fra cespugli e mirti divini, fra sterpaglie al sole, campagne dorate dove forse il gattopardesco don Fabrizio Salina passò con la sua carrozza impolverata. Il tetto di quei treni sarà allora mitragliato dal sole, quello stesso disegnato sulle loro fiancate, e si fermeranno di nuovo, in altri capolinea, in altre stazioni perdute, per essere guardati da altri vagabondi di sogni. E poi faranno ritorno nella stazione della mia città, e ancora li guarderò e mi racconteranno di queste terre lontane, d’olivi e d’olivastri, di vini dai forti sapori, di signori e di strenui lavoratori, di pomeriggi perduti forse nel dolore, di mari omerici dal colore di vino.

Ma i treni fermi nelle stazioni mi raccontano che se ne possono andare da tutte le parti, in tutte le direzioni, non solo in quel Sud evocato dal sole che è dipinto sulle loro bianche carrozze. Se ne possono andare a Est, verso lembi di territori magici e onirici. L’est, dove i nostri amori sognati da fanciulli si perdettero fra giochi di legno e pupazzi, fra automi gentili e foreste infinite e castelli e stagioni passate a contemplare autunni rossastri. Non potrò mai dimenticare l’Orient Express che vidi una volta fermo alla stazione di Venezia. Nero e funereo, elegante e terribile, un gentile mostro addormentato che avrebbe raggiunto orienti incantati. Chissà, forse verso Istanbul e mercati orientali, verso città incantate da canti al tramonto, da torri arabe, da mercanti in abiti lunghi che percorrono in sandali empori infiniti, sulle strade di porti, là dove si perde la terra dentro al mare fino in fondo al niente e poi ritorna terra e non è più Occidente. Ma se ne possono andare anche verso altri orienti, quelli di orrori e vampiri, verso transilvanie immaginarie piene di leggende e di mostri. E allora quei treni eleganti possono essere quelli che accolsero Jonathan Harker, il razionalista inglese che non sapeva a cosa sarebbe andato incontro. Seduto in quella elegante carrozza, accarezzato da nuovi tramonti fra le montagne che correvano verso di lui come cavalli impazziti, annotava sul suo diario usi, costumi e tetre leggende di lande inesplorate, verso locande ignote ove osti con barbe fluenti lo avrebbero accolto, offrendo pietanze piccanti e invernali, e vini robusti perduti in inverni che non hanno più nome. E in quel treno forse Harker sognava il vampiro, un elegante signore intrappolato fra coltri e specchi e quadri silenti di volti mostruosi, di mostri eleganti, antenati iridescenti e spettrali nelle notti di sangue. E fra i velluti di quelle eleganti poltrone del treno che correva a est, forse lo stesso vampiro si era seduto, abbandonato al viaggio devastatore. Ma i treni che vanno a est mi evocano anche i venti di Trieste: uscire dal treno e ritrovarsi nella stazione solcata da bore incredibili, venti di tempesta che ti lambiscono mentre cerchi, afferrandoti, un caffè dove forse un letterato passò, fra poltrone eleganti e poesie che risuonano come voci afone in quei saloni.

E se ne possono andare anche a Nord. E allora quei treni fermi nel caldo della mia stazione, piano piano, si trasformano, mutano aspetto, diventano qualcos’altro. Valicano pianure e attraversano montagne e magari si ritrovano in una Germania piovosa, che si vede scorrere dal finestrino bagnato e percorrono luoghi dal passato mostruoso e alla mente, forse, ritorna quel treno d’orrore diretto verso Cassandra Crossing. Ma anche altri orrori più nostri, più italici, treni sventrati da bombe, e persone uccise da bombe nelle stazioni fra i Settanta e gli Ottanta e, prima ancora, devastati dalla guerra, come in quell’estate violenta del ’43 narrata da Valerio Zurlini, in cui Jean-Louis Trintignant e Eleonora Rossi Drago si salvarono a stento da un treno bombardato nella pianura padana devastata dai nazisti. Solcano quindi territori dalla lingua grinzosa e geometrica, con parole che si intravedono stanche da cuccette nel buio, mentre altissimi inservienti si aggirano come ombre nel corridoio portando tazze di un caffè lunghissimo e imbevibile. A nord, là dove le nuvole coprono il sole e ti lasciano incantato fra aurati frammenti d’oricalchi, là dove i tetti delle case sono fatte di stucchi d’oro, rosa e blu, in città fra canali lambiti da tetri porti. Là ove vagabondi marini intrappolati in dolori se ne vanno vagando, silenti nelle brume delle loro città, fra porti sconosciuti e grigi cantieri. E di nuovo, forse, anche là a nord i treni entrano in traghetti più grandi, con chiglie forse rompighiaccio per i mesi invernali e navigano verso città turrite e colorate, fra i loro canali, fra i loro fantasmi. E se scendi da quei treni senti aria di spettri, un’aria fredda che ti sbalza in un’altra dimensione, molto, molto diversa dalla tua stazioncina immersa nel caldo soffocante. E il treno si è trasformato in un mostro gentile: da solare trabiccolo dipinto di bianco è diventato un convoglio bluastro, con le carrozze dipinte di scuri colori e con le scritte in lingue sconosciute. Un tetro treno scuro e grigio, sui cui vetri appoggiare una stupefatta mano, imbambolata di fronte a paesaggi stranieri e ordigni di morte, come nel Silenzio di Bergman. E fra cieli blu ti ritrovi, ad attraversare vicoli stretti fra muri dipinti, fra lampade antiche, fra fantasmi di pianto innamorati di crudeli vampire del Nord. E una lacrima, forse, riesci a catturarla anche tu, mentre silente cammini su cinquecenteschi tappeti di pietra.

E poi c’è l’Ovest, ah, verso quegli aperti venti oceanici, verso quei malinconici canti di emigranti perduti. Forse quel treno fermo, allora, si potrebbe trasformare in un treno di notte per Lisbona, un treno che attraversa notturni Pirenei, covi di banditi e di arcane bestie inani, per arrivare a una Spagna solare, a una “concha” sul mare e da lì proseguire in una notte infinita, verso l’Oceano, valicando le sierre e le piane roventi, fra occhi di lupi stanchi che rincorrono un treno estivo mutatosi in stella, macchina abnorme dal cervello d’aria condizionata. E allora ti ritrovi a Oporto, dopo una notte passata a sedere vicino a un ragazzo silenzioso, che mai disse parola, con un orologio dei colori della squadra della sua città, Oporto appunto. E il primo incontro con quel magico Portogallo di poeti è lui, il ragazzo silente con l’orologio della sua squadra del cuore. Ah, e poi l’Oceano, i ponti, le cantine, il vino che sale misterioso dai canali, i sentori di città vecchia, di malandrini alle finestre che ti guardano bieco, di donne di malaffare dalle pelli sudate, scosciate sui balconcini mentre uomini dagli sguardi aguzzi maneggiano arditi pugnali agli angoli dei vicoli. Ah, e poi Lisbona e il canto di Pessoa, quel desiderio di essere tutti e tutto, di essere strada che piega verso il golfo silente, verso il Douro delle anime perse. Lo stesso viaggio che percorse quel Felix Krull inventato da Thomas Mann, diretto verso sognanti piroscafi inesistenti, mai presi, mai partiti alla volta di nuovi mondi azzurri come gli occhi di un amore appena intravisto.

Così tante storie mi ha raccontato quel treno fermo nella calura estiva, nella stazione della mia città! Fermo, come morto, su un binario morto ma presto vivo, pronto a nuove metamorfosi, a audaci trasformazioni verso i quattro angoli di mondo. Quante storie mi ha raccontato! Mi ha salvato mentre camminavo silente, mi ha aiutato a riprendermi quei sogni lasciati sul marciapiede. E quanti sogni mi racconterai, treno fermo d’estate, quando nella notte ti ascolterò correre in un suono smorzato e lontano, meraviglioso e indistinto come il dormiveglia. Ma poi il tuo fischio divoratore di terre mi racconterà un’altra storia e, treno notturno, scenderemo nei gorghi della memoria.

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Cinquanta sfumature di Sade (II) (Nightmare Abbey 17/II) https://www.carmillaonline.com/2021/08/17/cinquanta-sfumature-di-sade-ii-nightmare-abbey-17-ii/ Tue, 17 Aug 2021 20:38:19 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=67720 di Franco Pezzini

(Qui la prima parte)

Lo spazio di una donna speciale

Alberto Brodesco, Sguardo, corpo, violenza. Sade e il cinema, pp. 368, € 24, Mimesis, Sesto San Giovanni MI 2014.

Claudia Salvatori, L’amica divina, pp. 510, € 15, isenzatregua, Riva del Garda TN 2021.

Dopo la prima parte introduttiva, la ricca, esemplare monografia di Alberto Brodesco (Sguardo, corpo, violenza. Sade e il cinema, Mimesis, 2014) passa ad affrontare nella seconda “Gli spazi del cinema sadiano”, cioè il castello (in particolare Silling, “spazio centripeto che spinge i [...]]]> di Franco Pezzini

(Qui la prima parte)

Lo spazio di una donna speciale

Alberto Brodesco, Sguardo, corpo, violenza. Sade e il cinema, pp. 368, € 24, Mimesis, Sesto San Giovanni MI 2014.

Claudia Salvatori, L’amica divina, pp. 510, € 15, isenzatregua, Riva del Garda TN 2021.

Dopo la prima parte introduttiva, la ricca, esemplare monografia di Alberto Brodesco (Sguardo, corpo, violenza. Sade e il cinema, Mimesis, 2014) passa ad affrontare nella seconda “Gli spazi del cinema sadiano”, cioè il castello (in particolare Silling, “spazio centripeto che spinge i suoi abitanti, vittime o carnefici, a un’obbligata, totale adesione”), le prigioni (la Bastiglia e altre), il manicomio (Charenton), il teatro, e in ultimo il viaggio (come “insegna Roland Barthes, si viaggia infatti solo per rinchiudersi: il viaggio serve come transizione, come tendina, costituisce il pretesto per spostarsi da una scena all’altra, da un luogo chiuso all’altro”).

Premettendo con A. Le Brun che “Non è una filosofia, né un discorso e ancora meno una scrittura che Sade ha inventato ma uno spazio”, Brodesco conduce la riflessione sugli spazi con lo sguardo a singole opere:

 

La logica romanzesca con cui vengono costruiti gli edifici di Sade è quella dell’organizzazione del racconto, di una tassonomia delle passioni, non quella di una disposizione equilibrata degli spazi. Entrando nei luoghi sadiani viene meno ogni interesse per la verosimiglianza: si abbandona la realtà per avventurarsi nel suo “cuore sepolto”, un mondo oscuro fatto di pietra e di vuoto.

La condizione, il prerequisito perché gli spazi architettonici (o, in seconda battuta, naturali) siano ritenuti confortevoli e ospitali dai signori sadiani è la loro chiusura e inaccessibilità. La sovranità del libertino è basata sull’isolamento. Sade, che lo teorizza, definisce questo stato con un neologismo: “Isolisme”. Tale condizione è ontologica, rappresenta una “tesi filosofica”, il “motto stoico dei libertini”, una “promessa di piacere”, il “nocciolo dell’impolitica sadiana” e della sua “antropologia negativa”. L’isolamento risponde alla situazione esistenziale più autentica per l’uomo sovrano (l’uomo integrale, l’Unico), che ha bisogno di segregare il proprio godimento per portarlo al grado massimo di intensità. Gli spazi geografici e architettonici di cui egli va in cerca sono studiati per assecondare questa esigenza.

Nei romanzi di Sade compaiono così case qualificate come deserte, lontane, impenetrabili, impraticabili, inabbordabili, isolate, ritirate, segrete, separate, solitarie… La geografia è occupata da castelli, fortezze, padiglioni, conventi, monasteri; gabinetti, cripte, celle, cellule, loculi, nicchie, cappelle, camere, ridotti, cantine; isole, sotterranei, buchi… A essi si aggiungono, come spazi per l’intimità, l’alcova, il bordello, il boudoir, il bagno… I luoghi in cui Sade ambienta le sue storie si inseriscono in buona parte nella definizione di istituzioni totali proposta da Erwin Goffman. Tutta la giornata dei protagonisti, tutte le loro attività – lavoro, svago, mangiare, fottere… – si svolgono all’interno di un’unità di spazio che garantisce la continuità del vivere libertino.

 

Nell’ambito delle sue riflessioni sul tema della follia, Michel Foucault sottolinea come la detenzione continua di Sade influisca sulle sue storie, ambientate in gran parte in luoghi da cui non si può fuggire. Nata dall’internamento e nell’internamento, “tutta l’opera di Sade è ispirata dalle immagini della Fortezza, della Cella, del Sotterraneo, del Convento, dell’Isola inaccessibile, che formano così il luogo naturale della sragione. Non è un caso neppure se tutta la letteratura fantastica di follia e d’orrore che è contemporanea all’opera di Sade, si situa nei luoghi dell’internamento”, come corrente più o meno sotterranea presente in tutto il primo gotico. Per Foucault “l’apparizione del sadismo […] come fenomeno storico (e non come tendenza sempre presente nelle manifestazioni dell’eros) coincide precisamente con il momento in cui la sragione viene rinchiusa”. Le fortezze nate per internare, al fine di bloccare il virus della sragione e impedire il contagio della società, escludendo dal vivere sociale di chi ne era colpito, “hanno svolto un ruolo culturale del tutto opposto” perché il “contesto […], come una pentola a pressione, ne alimenta la forza” (legittimo domandarci per inciso, in rapporto a un altro tipo di virus e a lockdown lungamente protratti, quali sviluppi culturali sia lecito attendersi).

 

La nostra filmografia dimostra che ragionare sulla presenza cinematografica di Sade equivale a percorrere i luoghi che la contengono, esplorare gli ambienti invalicabili in cui i film trovano il loro contesto. Gli spazi occupati dai film a tematica sadiana non sono soltanto funzionali al racconto ma mettono a fuoco alcune delle questioni chiave poste dalla figura di Sade nel suo rapporto con il tema dello sguardo e della visione. Per analizzare le pellicole prescelte ci è sembrato quindi utile – più che affrontarle da un punto di vista autoriale, osservando capitolo dopo capitolo come la figura di Sade venga presa in considerazione dai singoli registi – utilizzare le cornici offerte da questi posti. L’accostamento di pellicole diverse accomunate dall’inserimento del racconto nel medesimo spazio permette di circoscrivere le domande affrontate sinora sui temi della riflessività, della mise en abyme, del voyeurismo, della protezione dello sguardo e della sua chiusura.

 

Il tema del castello – topos gotico, luogo chiuso delle Centoventi giornate di Sodoma e vera e propria “macchina ottica”, “gigantesco occhio mentale” tra le cui mura “l’immaginazione più estrema può rimbombare libera” – viene affrontato al filtro di due film diversissimi, il provocatorio L’âge d’or, 1930, di quel Luis Buñuel che costella la propria filmografia di riferimenti a Sade (pensiamo solo al diffuso interesse per il Marchese di surrealisti e relativi fiancheggiatori), e il Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini, 1975, contestato da tutto un filone di critica su Sade (sulla base delle riflessioni degli apologeti Bataille, Pauvert e Annie Le Brun) per l’abbinamento – giudicato indebito (contra un altro filone: Queneau, Adorno, Horkheimer, Simone De Beauvoir, Éric Marty) – tra Sade e il fascismo. Entrambi i film susciteranno comunque scandali e censure anche da un fronte assai meno filologico.

Le prigioni sono affrontate guardando, prevalentemente, prima a Marquis di Henri Xhonneux, 1989, cosceneggiato dal geniale Roland Topor: gli attori recitano con maschere animali mosse in animatronics (ma non mancano sequenze di pura animazione in stop-motion, e “il Marchese” prigioniero alla Bastiglia dialoga con il proprio pene che si picca di dargli consigli di stile, e che alla fine si autonomizzerà scendendo surrealmente in piazza coi rivoluzionari assieme a Juliette, una mucca-prostituta). Si passa poi a Sade – Segui l’istinto di Benoît Jacquot, 2000, che riprende e romanza la storia di Sade che sfugge alla ghigliottina, ma dall’internamento è costretto a vedere e sentire gli effluvi delle spaventose fosse comuni dei giustiziati. Si torna però anche alla breve, raggelante apparizione di Sade ne La via lattea di Buñuel, 1969, e ad altri cenni nell’opera del regista a evocare le prigioni psicologiche delle convenzioni borghesi.

 

La successiva sezione riguarda lo spazio del manicomio, a partire dal quell’istituto di Charenton dove si giocano all’epoca di Sade – lì ricoverato dal 1803 al 1814, anno della morte – pagine memorabili nella storia del rapporto con la follia, attraverso l’opera degli illuminati medici Philippe Pinel e Jean-Étienne Dominique Esquirol. Qui i film di riferimento sono il Marat/Sade di Peter Brook, 1966, dalla pièce di Peter Weiss (1964) con tre

 

piani che si stratificano: tre piani di identificazione degli attori in scena: attori che interpretano un attore (alienato) che interpreta un personaggio storico; tre livelli temporali: il presente filmico (1966), quello di Charenton (1808) e quello dell’assassinio di Marat (1793); e tre piani spaziali: i Pinewood Studios dove è girato il film ricreano il bagno del manicomio adattato a teatro, sulla scena del quale viene a sua volta rievocato il bagno di casa Marat

e Sade è al centro, a mediare, tra tutti questi piani; Šilení aka Lunacy, di Jan Švankmajer, 2005, che ibrida alla vicenda sadiana suggestioni di Poe (in particolare da “Il sistema del dott. Catrame e del prof. Piuma”), con spezzoni in stop-motion; e Quills, la penna dello scandalo di Philip Kaufman, 2000, con le sue libertà un po’ troppo gridate dalla storia reale, a dispetto di straordinari interpreti.

Lo spazio successivo è quello del teatro, ambito che nella sua opera – benché importante a livello biografico e teorico (“Niente procura al libertino un piacere più grande della teatralizzazione del godimento”) – quanto a valore dei testi viene di solito maltrattato dalla critica. I film che capitalizzano la suggestione del teatro sono, nell’ordine qui proposto, De Sade di Cy Endfield, 1969, sceneggiato dal brillante Richard Matheson, con l’enorme John Huston nei panni dell’abate De Sade e tuttavia, quanto a esito, goffamente romanticheggiante, benché suggestivo per la scelta di portare la vita del Marchese su un palcoscenico; il meno nobile Marquis de Sade di Gwyneth Gibby, 1996, citato di sfuggita; il raffinato Madame de Sade (Markisinnan de Sade o La Marquise de Sade) di Ingmar Bergman, 1992, versione di teatro filmato sulla base del dramma in tre atti scritto da Yukio Mishima (1965), dove il protagonista resta evocato in absentia; Akutoku no sakae di Akio Jissoji, 1988, storia di un regista teatrale chiamato il Marchese (che alla fine, poco originalmente, si presenterà come de Sade), che inscena una versione teatrale di Juliette facendola recitare a una compagnia di criminali; il disturbante Eugénie de Franval di Louis Skorecki, 1975, tratto dall’omonima novella sadiana, girato completamente in una sola stanza d’appartamento, in undici inquadrature.

Infine per il viaggio e il suo citato rapporto col rinchiudersi, il riferimento è al “viaggio nella perversione” di Jesús Franco (il “regista che mostra con maggior insistenza il movimento dei personaggi sadiani” e anzi l’unico che ha realmente valorizzato il tema del viaggio, per esempio quello picaresco di Justine) attraverso una serie di pellicole.

 

Anche per quanto riguarda il palinsesto sadiano i film di Franco sono il frutto di un compromesso: si assiste a continui incroci tra simbolismi ingenui e intuizioni surrealiste, costrizioni di budget e manifestazioni di libertà espressiva, ligi didascalismi e voli pindarici, letture banalizzanti del testo di Sade e lucide illuminazioni interpretative. Gli spunti sadiani vengono utilizzati in modo da poterne trarre il massimo possibile di visibilità, fino a sfondare le porte dell’hardcore. Questo desiderio di visione (e godimento) si scontrerà, nei modi che approfondiremo, con il problema generale dei limiti della rappresentazione e, in seconda battuta, con quello più specifico dei limiti della rappresentazione pornografica. Il cinema sadiano di Franco, pur proponendosi come intrattenimento nutrito di intenzioni giocosamente erotiche (la posizione spettatoriale proposta è certamente di tipo ludico), manifesterà la sua incapacità di mostrare una sessualità sadica davvero gioiosa (come talvolta accade nella scrittura di Sade, ad esempio nella Filosofia nel boudoir) e sarà, volontariamente o meno, costretto a ripiegare, al di là del principio di piacere, in direzione della pulsione di morte.

La selezione dei film ai fini del nostro studio è motivata in base a un ordine di ragioni: l’esplicito adattamento di romanzi o racconti; il riferimento dichiarato a Sade nei titoli di testa; la presenza diegetica di Sade o dei suoi libri. Talvolta, più che un singolo testo, è un gruppo di film a completare e motivare adeguatamente il riferimento a una matrice sadiana.

 

Brodesco fornisce un lungo elenco di titoli franchiani che in questi tre sensi si richiamano a Franco, e poi passa a sintetizzarli in cinque filoni:

 

1) Il filone “Justine”: una ragazza sconta le sfortunate conseguenze della sua innocenza: De Sade’s Justine;

2) Il filone “Eugenie”: il racconto di un incesto tra un padre e una figlia: Eugénie;

3) Il filone “La filosofia nel boudoir”: la storia dell’iniziazione di una ragazza alla perversione: Eugenie… The Story of her Journey into Perversion e Cocktail spécial;

4) Il filone “Bressac”: complotto di famiglia in una casa isolata: Sinfonia erotica e Gemidos de placer;

5) Il filone “Filosofia nel boudoir con Bressac”, che somma i due precedenti: Plaisir à trois e Eugenie, historia de una perversión.

Come abbiamo visto riassumendone brevemente le trame, rimane tuttavia una certa sovrapposizione tra i cinque filoni. L’unico adattamento vero e proprio è infatti De Sade’s Justine, mentre gli altri sembrano piuttosto comporre un mélange o puzzle sadiano: diversi frammenti estratti dai romanzi (circostanze, nomi, percorsi…) vengono incollati insieme per fabbricare non tanto una narrazione, ma un collage visivo di spunti narrativi.

 

Il punto di partenza è ovviamente Marquis De Sade’s Justine, 1969, versione carnevalizzata o decaffeinata – così qualcuno si è espresso – del romanzo sadiano. “Ma l’atteggiamento parodico e in parte iconoclasta con cui Franco tratta il suo autore preferito è sicuramente volontario. Franco testimonia di esser stato costretto a ‘modificare tutta la storia e convertirla in una specie di Walt Disney’ da una serie di circostanze produttive, in particolare dall’imposizione dell’attrice protagonista” Romina Power. La cui recitazione fastidiosamente ingenua, tuttavia (si può concordare con Brodesco) calza perfettamente al profilo al personaggio. Mentre molto adatto e convincente è Klaus Kinski nel ruolo di Sade, incarcerato e ossesso dai suoi fantasmi che spurgano in tutto il film.

 

Il tristissimo Eugénie (in Italia, De Sade 2000), 1970-1973, che riprende spunti da L’occhio che uccide (Michael Powell, 1960) e da Lolita (Stanley Kubrick, 1962), brilla di luce livida per la presenza, nel ruolo della giovane eponima in rapporto incestuoso col padre (Paul Müller), di una malinconica e bellissima Soledad Miranda, che l’uomo coinvolge in una serie di omicidi. Brodesco prende poi in esame altri titoli della produzione franchiana, notando come anche il disinvolto regista abbia dovuto ammettere un’impossibilità a portare fedelmente sullo schermo i connotati estremi di Sade. Ciononostante il peso degli scritti del Marchese e soprattutto i relativi temi per l’horrotica del regista spagnolo restano fondamentali.

 

La pornografia possiede una sua grammatica per rendere eccitanti le riprese del sesso. Franco non la rispetta e si trova quindi costretto di volta in volta a improvvisare, a seguire la velocità dell’istinto, a fronteggiare, in un letterale corpo a corpo, la difficoltà a riprodurre cinematograficamente il desiderio.

Questa incapacità di fermare il desiderio è tanto teorica quanto pratica. Per tentare di tamponare l’insoddisfazione di chi guarda, la strategia che Franco mette in campo si basa su quattro elementi (che riprendiamo da Du Mesnildot): spostamento, descrizione, voyeurismo, passività […]

 

con l’uso dello zoom come “erezione visiva tesa verso il sesso femminile”, ma con un mix di “attrazione artistica e panico psicologico” (come lo definisce Carlos Aguilar), sorta di “reazione ai limiti del rappresentabile”. “Dopo migliaia di inquadrature dirette, il sesso femminile rimane dunque la Medusa castrante teorizzata da Freud”, e nei film di Franco troviamo spesso donne assassine o castranti. La filmografia a fine volume completa analiticamente la ricca panoramica.

La terza parte dell’opera, “Il cinema sadiano e la mediasfera contemporanea”, si sviluppa dal caso di scuola della presenza di Salò su YouTube – film intero ma anche spezzoni, video sul tema e videorecensioni, spesso molto banalizzanti, e commenti del pubblico – per passare al rapporto tra panorama audiovisivo contemporaneo e riflessi teorici del cinema sadiano (rapporti tra pornografia e tortura, sorveglianza e voyeurismo, eccetera).

 

L’odierna ipesessualizzazione del corpo violato fa […] affiorare alla superficie della mediasfera alcuni dettagli (e solo alcuni) della sovranità sadiana [nel senso: “Se fa del male agli altri, che voluttà! Se gli altri gli fanno del male, che godimento!”]. Mario Perniola ritrova degli elementi dell’attualità di Sade nel “delighful horror”, nell’armonizzazione di polarità opposte quali piacere e dolore, desiderio e paura, sublime e abietto. La vera ombra sadiana sul panorama contemporaneo si estenderebbe così non tanto in relazione a ciò che viene definito “sadismo”, ovvero “il piacere di vedere soffrire gli altri”, quanto nei territori audiovisivi dove vige la “ricerca di una certa sensualità nell’atto di violenza”.

[…] Se Luis Buñuel (insieme alla maggioranza dei cineasti che lavorano su Sade) sfrutta il potenziale trasgressivo e liberante di Sade, Pasolini ricopia le parole scritte nelle 120 giornate sopra i rotocalchi di attualità per dimostrare che un incubo è divenuto realtà, che la fantasia romanzesca corrisponde alla frenetica disponibilità (di corpi, di merci, di corpi mercificati) off erta dalla società dei consumi.

La concentrazione riflessiva, lo sforzo di immaginazione, l’immersione nella materialità dei corpi, il confronto con l’osceno cui costringe la figura di Sade svolge dunque la funzione, più che di una cartina di tornasole, di una galleria degli echi, che non può far altro che restituire amplificato ogni personale interrogativo e tormento.

 

Le Conclusioni (prima di filmografia e bibliografia) vertono insomma sullo stallo della rappresentazione e sull’insemplificabile problematicità dei riferimenti a Sade.

Il testo di Brodesco offre, insieme a un’estrema ricchezza di analisi, una griglia di riflessioni preziose. E di estremo rilievo pare il suo discorso sullo spazio e gli spazi, cui merita tornare:

 

Lo spazio per lo sguardo si spalanca nel momento stesso della sua interdizione. Il luogo chiuso sadiano eccita il voyeurismo del lettore e poi dello spettatore attraverso le pratiche di infrazione della segretezza che il testo gli offre. Il film lo invita a sentirsi parte di un scena (un retroscena) che non dovrebbe essere a disposizione del suo sguardo. La sua visione diviene quella di chi ha accesso a uno spazio proibito. Basta questo a stabilire una complicità su cui lo spettatore sarà costretto a interrogarsi, anche per motivo della struttura riflessiva di molti dei film a tematica sadiana. Alcuni registi vorranno ribadire questa complicità, assecondarla; altri denunciarla; altri porla in tutta la sua crudezza davanti ai nostri occhi. Sono ragionamenti che, in ogni caso, ci portano sempre a fermarci sulla soglia della visione, indecisi tra il dentro e il fuori, il guardare e il non guardare.

E sugli spazi sadiani merita meditare leggendo un recente, affascinante romanzo di Claudia Salvatori, L’amica divina (isenzatregua, 2021 – volume molto elegante anche come oggetto, grafica e carta). Tra narrazione e palcoscenico (ai capitoli sono alternati flashback in chiave teatrale) vengono qui narrati gli ultimi trentadue giorni “di libertà (e forse di felicità)” di Sade – appena evaso una prima volta –, prima del lungo internamento tra carcere e manicomio. È il 1778, siamo a La Coste in Provenza al castello dei Sade. Donatien ha trentasette anni (“ma ne dimostrava ventisette, o meno ancora”), un burrascoso passato e un rapporto complesso con la potentissima e dispotica famiglia della moglie: e la storia riguarda il suo dialogo, che diventa rapporto sempre più profondo ed esclusivo, con Milli, cioè Marie-Dorothée de Rousset (1744-1784), “amica d’infanzia colta e letterata, forse il più importante fra i suoi amori giovanili, la sola donna capace di mantenersi rispetto a lui su un piano di parità, oltre a essergli complementare nel destino personale di libertà e solitudine” (così l’autrice, nella Nota introduttiva). Di Donatien, Milli diverrà insostituibile confidente e amante, in un rapporto non privo di tensioni e scambi anche durissimi ma di straordinaria ricchezza umana. “Quello che avviene fra loro è in parte dedotto dalla loro corrispondenza posteriore e in parte frutto della mia immaginazione”, con qualche licenza rispetto alla ricostruzione storica più diffusa che vede il rapporto tra Milli e Donatien come puramente platonico. Scrive l’autrice:

 

Questo romanzo può essere letto come un esempio del mio metodo di lavoro. Commissionato come romance erotico, non ha poi trovato la strada per le librerie: ma non è questo l’importante.

Come in ogni lavoro commissionato, sono intervenuta a modo mio, innestando altri stili e contenuti. Ho intercalato la narrazione di una serie cronologica di giornate a intermezzi teatrali che orecchiano quelli messi in scena da Sade giovane nel suo castello di La Coste. Così, del romance, il libro non conserva più che una goccia di profumo.

Benché l’approccio sia quello del romanzo erotico (o meglio storico-erotico, sulla base di lunghe letture dei romanzi e della saggistica sul Marchese, cui Salvatori dedica anche lo splendido saggio finale “Questa donna unica nel suo genere: la Juliette di Sade”), L’amica divina offre del protagonista un ritratto ampio, profondo e complesso, in nulla cedendo alle banalizzazioni della vulgata. Circondato da donne – la moglie Renée-Pélagie, l’ingombrante suocera Presidentessa di Montreuil, la seducente cognata canonichessa Anne-Prospère de Launay, inservienti come la fedele e procace Gothon, per non parlare di tutte le donne della sua infanzia – Donatien non ha mai incontrato una interlocutrice come Milli: più giovane di lui e non appartenente all’aristocrazia, ma come lui profondamente appassionata di scrittura, colta e di scintillante intelligenza, combattiva e non scevra da impennate d’orgoglio, comprensiva per perspicacia e non per buonismo, dotata di un senso etico ma non moralista e pronta ad affrontare esperienze che altre rifiuterebbero, razionale ma capace di seguirlo nei suoi mondi fantastici, dotata all’occorrenza di un buon approccio pratico…

Lui ha capito quanto lei sia stata ferita e umiliata nell’infanzia:

 

“È stata vostra madre a soffocarvi? Ha preferito gli altri suoi figli? Vi ha trattato come il cucciolo malriuscito del suo ventre? Ci sono molti modi per uccidere qualcuno. L’ho visto fare infinite volte. Una coppa di veleno offerta amorevolmente. ‘Bellezza e grazia vengono dalla natura. Se una donna non le possiede conviene mille volte che si faccia amare coltivando modestia, dolcezza e virtù’. Mia moglie è stata distrutta in questo modo da sua madre […] Non vi hanno battuta con le verghe o mutilata, ma è come se l’avessero fatto. Con le frasi congegnate per marchiare a fuoco una creatura. Le frasi più innocue che contengono gli insulti più atroci. Hanno ritorto tutte le vostre qualità contro di voi, come strumenti di punizione. […] E siccome pensate e leggete, e minacciate la volgare stupidità dei borghesi del vostro villaggio, siete diventata un’eccentrica da additarsi per strada.”

“Una preziosa ridicola. Una strampalata un po’ tocca. È questo che dicono di me”.

“E voi lo avete creduto”. Il marchese le passò una mano sul volto. Non una carezza, ma come se volesse toglierle una maschera.

[…] Milli sarebbe caduta in ginocchio per ringraziarlo a mani giunte. Una lacrima scese sulla sua guancia. Lui la raccolse.

“Come potete conoscere tutto questo?” gli chiese.

 

Per quanto più giovane e disposta al ruolo di discepola e collaboratrice nell’attività di scrittura, di depositaria dei ricordi, pensieri e sentimenti di lui (“So bene che non si possono raccontare certe cose alle donne allevate in buone famiglie, ma voi siete filosofa, Sapete sopportare la verità”), Milli non è prona alla volontà dell’interlocutore e gli tiene testa intellettualmente e caratterialmente. Donatien è bizzoso e sa essere irritante e inopportuno nel parlare, ma insieme è umanissimo e sensibile: cresciuto senza l’amore dei genitori, tormentato da problemi fisici che gli rendono penoso l’amplesso, fondamentalmente non capito dagli altri che gli ruotano intorno (a parte qualche valletto suo partner sessuale, di relativa cultura e buon senso), si trova demonizzato da tutto un mondo circostante che in lui cerca il lupo mannaro come cattivo esempio da colpire. Amareggiato dalla lontananza di un suo grande amore italiano, il bel medico Giuseppe Iberti di Roma – finito in carcere a Castel Sant’Angelo per aver copiato per Donatien documenti su casi torbidi dell’Inquisizione –, Sade è anzitutto stupito dalla personalità di Milli e dal tipo di rapporto che si evolve tra loro: “la Sainte” – come la chiama lui – non solo gli risponde a tono, ma prende a inseguirlo con tenacia e devozione (che diventano amore) fin negli inferni della sua interiorità. Così Donatien:

 

“Ho visto il ritratto che mi state facendo; lo avete lasciato in vista nel salone. Non si dipingono ritratti così, se non si ama molto qualcuno. Si vede dal fatto che nelle linee, in tutto quello che esprime, ci sono io ma ci siete soprattutto voi. È la vostra immagine nella mia. Non so esprimerlo bene… e di solito non sono le parole a mancarmi.”

 

[…]

 

“Di tutte le bestie umane di sesso femminile che scrivono fra i due poli, voi siete quella che scrive più divinamente, la più intelligente e la più amabile. Vorrei gridarlo ai quattro venti”.

La fece volteggiare, e lei si mise a ridere per il sollievo e la gioia. La vertigine le procurò una leggera nausea.

Lui si fermò, sedendosi sulla panchina ma tenendola sulle ginocchia.

“Spezzerò le mie lance per voi” disse.

“Come un cavaliere per la sua dama?”

“No, come Don Chisciotte per Dulcinea”.

Milli fece una smorfia di finta desolazione.

“Dulcinea!”

“Oggi è di moda così, tesoro. Le donne girano con una padella e gli uomini con piccoli mulini a vento sui cappelli”.

Risero di nuovo, e lei gli circondò il collo con le braccia.

Caro signor de Sade, delizia del mio intelletto, scrivete come un angelo. Sono vostra. Farò tutto quello che vorrete.

Stava per dirglielo, ma fu lui a dirlo per primo.

“Solo per il modo in cui avete riempito voluttuosamente quelle pagine, potete chiedermi tutto quello che volete”.

“Ma io voglio…”

“…sì?”

“Voglio rimanere qui sulle vostre ginocchia, con le braccia intorno a voi, e sussurrarvi nell’orecchio dolci parole, sperando che non facciate il sordo, e farvi comprendere che la mia anima può espandersi all’infinito e desidera che la vostra si espanda nella mia”.

“Non so se ho un’anima, ma quale che sia fatela pure espandere nella vostra, se accettate il rischio”.

 

[…]

 

“Dov’eri in tutti questi anni, Milli?”

“Sono sempre stata qui. Ma c’era troppa gente che voleva divertirsi con te”.

 

[…]

 

“Io non potrò mai lasciarti, perché sono te”.

Il marchese scosse la testa. Volubilmente, scoppiò a ridere.

“Tu sei me? Impossibile. Io sono unico”.

“Unico? E come giustificheresti una simile pretesa?”

“Si è unici facendo cose che non fa nessun altro”.

Sì, signor del Sade, hai ragione a crederti unico. Non ci sei che tu al mondo, a non volere che la tua amante ti dica: ‘sono te’. Io vorrei che tu lo dicessi a me cento, mille volte al giorno.

 

[…]

 

La solitudine e la convivenza avevano fatto crescere quello che già esisteva fra loro, e non era accaduto che quello che doveva accadere. Si erano cercati, studiati, esplorati da sempre, e il fuoco aveva acceso la miccia. […] Le aveva aperto la mente, oltre alle vie del piacere.

 

Il risultato è un rapporto esclusivo, profondo, passionale, fondato certo su una complessa alchimia iniziale, su una dialettica anche vivace, ma tale da spiazzare e coinvolgere il grande Spiazzatore: un rapporto da cui entrambi usciranno più profondi, imparando la fiducia reciproca e con il sapore di qualcosa che assomiglia maggiormente alla felicità – fino a tentare, stavolta nel modo più ordinario, di avere un figlio assieme. Senza troppa convinzione (da parte di lui) e comunque troppo tardi, perché i fatti stanno già precipitando.

La scrittura dell’autrice è come sempre di grande eleganza, i personaggi sono trattati con intelligenza e sottigliezza. Ovvio, il testo è molto esplicito, la sessualità in scena anche molto cruda – per un pubblico adulto, si legge nelle indicazioni di vendita –, le finestre sui lati in ombra della personalità di Sade debitamente dischiuse (come sulle sue camere segrete, dal contenuto non esattamente tranquillizzante): il Marchese non è ancora l’abbrutito autore delle 120 giornate di Sodoma e di altri scritti debitori della lunga carcerazione, ma come ovvio la storia d’amore in scena presenta alcune peculiarità legate al protagonista, le sue oscenità e “pratiche rivoltanti”, l’ombra di altre donne e la presenza sessuale dei valletti. Che però non escludono, tra scontri verbali e idilli, la vertigine di una relazione unica e di una speciale tenerezza con l’amica divina protagonista.

Tutto verrà interrotto da una brutale manovra di polizia dell’ispettore Marais, volto bigotto e invidioso di un Ordine i cui connotati purtroppo conosciamo: per Sade inizia una lunghissima carcerazione, undici anni tra Vincennes e la Bastiglia, interrotti da altri undici anni arruolato e poi di nuovo imprigionato dalla rivoluzione (e rischia la ghigliottina per il suo moderatismo, rifiutando come giudice di avallare condanne a morte – chi lo giudica un mostro dovrebbe ricordarlo), quindi gli ultimi tredici internato a Charenton. Milli, che ha fatto tutto il possibile per lui, è morta di tisi ad appena quarant’anni, senza rivederlo. Chi vada a La Coste (oggi Lacoste, occitano La Còsta), a visitare i ruderi del castello tra cui sorge una suggestiva statua di Sade – due braccia conserte unite da un pilone a una testa imparruccata, chiusa in una gabbia – dedichi a Milli un pensiero.

 

Affascinante, nel romanzo, anche e specificamente il rapporto con la dimensione degli spazi di cui parlava Brodesco: il castello a tratti claustrofobico (La Coste ispirerà Silling), la prigione da cui Donatien è evaso e che incombe – come il manicomio – sul suo futuro, il teatro che permette di rileggere il suo passato.

Che Milli e Donatien fossero legati da un rapporto sessuale o invece soltanto platonico ai nostri fini importa poco. Esistono affetti, saldati in contesti diversi, che per profondità sappiamo saranno per sempre: come fu il loro, poi tragicamente separati da distanze e muraglie. Per quanto amiamo le parole, pretendere di uniformare con un nome di specie questo tipo di legami, quasi Linneo tassonomizzasse anche lì, è spesso abbastanza inutile. L’autrice ne offre una lettura romanzesca – o, se si preferisce, mitica, nel senso di portare a galla in modo emblematico e paradigmatico i nodi di un rapporto d’amore – che tuttavia non perderebbe valore a una diversa lettura dei fatti. Quel dialogo intensissimo ci fu, e molto dello scambio epistolare torna qui sceneggiato negli scambi tra i personaggi. Riporta sempre l’autrice:

 

Mi piacerebbe che dalla mia storia trasparissero gli elementi meno riconoscibili dell’anima sadiana, opposti alla cupezza e pesantezza che gli attribuiscono i suoi scandalizzati detrattori: l’umorismo, il profondo senso di giustizia, la verità, e quella specie di magia che percorre tutta la sua scrittura, da qualunque parte la si legga.

E mi piacerebbe che le mie parole, pur narrando di grandi sfortune e sofferenze, avessero il brio festoso di una musica d’epoca.

 

Obiettivi che la qualità di scrittura di Claudia Salvatori ha senz’altro permesso di raggiungere.

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Il reale nelle/delle immagini. La simulazione incarnata https://www.carmillaonline.com/2016/02/01/reale-nelledelle-immagini-la-simulazione-incarnata/ Mon, 01 Feb 2016 22:30:28 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=27595 di Gioacchino Toni

schermo empaticoVittorio Gallese, Michele Guerra, Lo schermo empatico. Cinema e neuroscienze, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2015, 318 pagine, € 25,00

Il saggio, scritto da un neuroscienziato ed un teorico del cinema, indaga la relazione che lega lo spettatore alle immagini cinematografiche, il tipo di rapporto intersoggettivo che si instaura tra gli spettatori ed i mondi possibili della finzione prodotti dal cinema. Le neuroscienze hanno da tempo evidenziato quanto l’intelligenza umana sia legata alla corporeità degli individui e come quest’ultima si realizzi pienamente attraverso l’esperienza. Il corpo ha un ruolo [...]]]> di Gioacchino Toni

schermo empaticoVittorio Gallese, Michele Guerra, Lo schermo empatico. Cinema e neuroscienze, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2015, 318 pagine, € 25,00

Il saggio, scritto da un neuroscienziato ed un teorico del cinema, indaga la relazione che lega lo spettatore alle immagini cinematografiche, il tipo di rapporto intersoggettivo che si instaura tra gli spettatori ed i mondi possibili della finzione prodotti dal cinema. Le neuroscienze hanno da tempo evidenziato quanto l’intelligenza umana sia legata alla corporeità degli individui e come quest’ultima si realizzi pienamente attraverso l’esperienza. Il corpo ha un ruolo centrale nelle pratiche di simulazione che gli individui mettono in campo tanto nella vita quotidiana, quanto nelle esperienze estetiche e mediate. La risonanza motoria che il linguaggio cinematografico è capace di generare nello spettatore è un tema scarsamente affrontato dagli studi sul cinema, in questo saggio viene proposto un approccio al cinema caratterizzato come “estetica sperimentale”, intendendo con estetica la percezione multimodale del mondo attraverso il corpo.

Forti dell’idea che le neuroscienze possano contribuire a comprendere il funzionamento del cinema ed il suo rapporto con gli spettatori, gli autori si propongono di articolare un nuovo modello di percezione e dell’iniziale comprensione del mondo da essa generata che possa essere applicato tanto all’esperienza della vita reale, quanto a quella del mondo della finzione cinematografica. Da ciò la definizione della teoria della “simulazione incarnata” (embodied simulation) che, sostengono gli autori, costituisce un «meccanismo di funzionamento di base del sistema cervello-corpo dei primati, uomo incluso» (p. 15). Grazie a ciò, affermano Gallese e Guerra, risulta possibile instaurare una relazione diretta non-linguistica con lo spazio, gli oggetti, le azioni e le sensazioni altrui attraverso l’attivazione di rappresentazioni sensori-motorie e viscero-motorie del cervello del fruitore. Una delle ipotesi del saggio ritiene che tale meccanismo sia coinvolto nella generazione delle capacità immaginative umane. «La simulazione incarnata […] costruisce sulle evidenze neurofisiologiche un modello integrato ed empiricamente fondato della relazione con le immagini e coi film», tale teoria tenta di chiarire «importanti aspetti della costruzione del film, della sua ricezione e della sua specificità estetica» (p. 15).

Gli autori intendono ricavare dalle neuroscienze un contributo alla percezione delle immagini e costruzione delle relazioni tra individuo e realtà e tra individuo ed altri suoi simili. L’approccio neuroscientifico al cinema proposto dal saggio sottolinea la volontà di dialogare con altri approcci e discipline ed intende darsi come obiettivo «il sapere coniugare in maniera proficua la dimensione esperienziale e in prima persona con la ricerca dei sottostanti processi e meccanismi sub-personali espressi dal cervello e dai neuroni che lo compongono» (p. 16).

Gallese e Guerra sono convinti che vedere il mondo significa sempre anche guardarlo per capirlo; «l’esperienza visiva del mondo è il risultato di processi di integrazione multimodale, di cui il sistema motorio è un attore principale» (p. 16). L’integrazione multimodale di ciò che viene percepito avviene sulla base delle potenzialità d’azione (intenzionali) espresse dal corpo (inserito in un mondo abitato da simili). Attraverso la simulazione incarnata si costruiscono le rappresentazioni non verbali dello spazio e ci si rapporta in modo altrettanto non verbale alle cose ed agli altri esseri umani. La simulazione incarnata descrive, da un punto di vista funzionale, meccanismi neurali che mettono l’individuo in risonanza col mondo dando luogo ad una relazione dialettica tra corpo e mente, soggetto ed oggetto, io e tu. I due studiosi sottolineano che, pur avendo tratti in comune con l’empatia, la simulazione incarnata non può essere identificata con essa avendo un’applicazione assai più diversificata e vasta. Nel saggio viene delineato anche il concetto di “simulazione liberata”, una particolare espressione della simulazione incarnata che consente di comprendere meglio «la particolarità e insularità estetica dell’esperienza della […] finzione narrativa cinematografica» (p. 17), mostrando affinità e differenze rispetto all’esperienza di ciò che viene definito “mondo reale”.

Il saggio inizia (Primo capitolo) definendo le basi epistemologiche e neuroscientifiche poi applicate nei capitoli seguenti, di seguito (Secondo capitolo) vengono esaminate le forme della soggettività dispiegate dal cinema, indagando come esso abbia tentato di «creare una sovrapposizione credibile tra lo sguardo della macchina da presa ed il punto di vista dello spettatore, delegando alla macchina la responsabilità di simulare l’immanenza di un corpo umano entro lo spazio dell’inquadratura» (p. 18). Successivamente (Terzo capitolo) vengono analizzati i diversi movimenti di macchina ed i tipi di risonanza motoria che questi inducono nel pubblico e (Quarto capitolo) vengono indagati i diversi tipi di montaggio analizzandone le ricadute sullo spettatore. Nell’ultima parte del testo (Quinto capitolo) si riflette sul primo piano e sulla texture dell’immagine cinematografica ed, infine, (Sesto capitolo) si ragiona sul cinema del futuro a partire dalle tecnologie che ne rivoluzioneranno le capacità di coinvolgimento.

Uno dei due studiosi, Vittorio Gallese, ha fatto parte del gruppo che nei primi anni ’90 ha individuato i “neuroni specchio” e da tale ricerca è emerso come si attivino i medesimi neuroni nel presiedere e controllare un movimento tanto in chi lo compie, quanto in chi lo guarda compiere. Ciò ha evidentemente aperto numerose riflessioni circa le modalità di apprendimento e l’empatia.
Dal punto di vista cinematografico, l’obiettivo di ogni regista è, per certi versi, quello di coinvolgere lo spettatore sino a portarlo “dentro” al film. Lo spettatore, pur seduto in poltrona al cinema, quando osserva un film è capace di “simularsi in azione” all’interno di quello spazio bidimensionale che è lo schermo. A partire dalla teoria della simulazione incarnata, legata alla scoperta dei neuroni specchio, gli studiosi tentano di capire in che modo il cinema favorisca tale tipo di immedesimazione.

notorius_keyTra i diversi esempi riportati dal saggio, vale la pena soffermarsi su una sequenza di Notorius (di Alfred Hitchcock, 1946), realizzata attraverso un movimento di macchina che riflette l’immedesimazione dello spettatore. Si tratta della sequenza in cui la protagonista, Alicia, interpretata da Ingrid Bergman, deve rubare la chiave al marito per accedere alla cantina in cui si trovano alcune pericolose bottiglie di uranio. Hitchcock avverte lo spettatore dei pericoli che la donna corre mostrando l’ombra dell’uomo oltre la vicina porta del bagno socchiusa. Il regista inglese è un maestro nel giocare con la suspense dello spettatore (vero obiettivo del film, essendo la trama narrata in realtà molto esile e pretestuosa) ed in questa scena decide di ricorre ad un movimento di macchina che è una “falsa soggettiva” cioè, ad un certo punto, la macchina da presa inizia a muoversi in avanti attraverso un «movimento complesso, che piega lievemente verso sinistra e man mano che procede si abbassa verso la superficie del tavolo fino a enfatizzare il dettaglio del mazzo di chiavi. Proprio nel momento in cui il mazzo è, per così dire, a portata di mano, un taglio di montaggio ci mostra Alicia, in figura intera, ancora ferma sulla soglia della stanza» (p. 95). Lo spettatore carica quel movimento di un significato corporeo, cioè “si muove” convinto che la protagonista si stia avvicinando al tavolo, poi il regista mette a fuoco le chiavi stimolando nello spettatore la simulazione del gesto dell’afferrare, cioè attivando quei neuroni canonici che stimolano tale tipo di funzione. In quel momento lo spettatore ritiene che la missione della donna sia andata a buon fine, che le chiavi siano ormai state prese, mentre, improvvisamente, scopre che la donna è restata ferma sulla soglia. Tale forma di proiezione dello spettatore all’interno dello spazio del film, fino alle chiavi, è stata solo una forma di simulazione, dunque il film, giocando con la capacità proiettiva dello spettatore, lo ha portato a muoversi in quello spazio, perché, fino a quel momento, ad essersi mosso è lo spettatore cinematografico, mentre a non averlo fatto è la protagonista che restata ferma.

«La simulazione motoria ci ha a tal punto trascinati nel vivo della sequenza che quando Hitchcock ci mette di fronte all’irrealtà di quel movimento (che è stato soltanto una proiezione mentale del personaggio, e nostra) siamo come frustrati: Alicia non si è affatto avvicinata alle chiavi, è ancora ferma sulla soglia, lo scarico di tensione che si era consumato nel momento del dettaglio sul mazzo di chiavi viene annullato, e la suspense rilanciata con potenza ancora maggiore» (p. 98).

silence of the lamb 01Nell’indagare come i diversi tipi di montaggio abbiano ricadute sullo spettatore, tra gli altri, il saggio ricostruisce la celebre sequenza tratta da Il silenzio degli innocenti (The Silence of the Lambs, di Jonathan Demme, 1991) in cui gli agenti, credendo di aver individuato il luogo in cui si nasconde il serial killer, finiscono con il fare irruzione nell’abitazione sbagliata mentre, altrove, nel medesimo momento, l’agente Sterling, interpretata da Jodie Foster, si trova, sola, alla porta del pericoloso assassino. Il film mostra alternativamente l’esterno dell’abitazione del serial killer, ove la polizia sta circondando la casa, e l’interno ove l’uomo tiene prigioniera la nuova vittima.

silence of the lamb 2La sequenza si protrae facendo credere all’osservatore che si tratti del medesimo luogo ed al suonare del campanello da parte di un agente sotto copertura (si finge un fiorista che deve consegnare un pacco) l’uomo si appresta, dopo essersi ricomposto, ad aprire la porta e, solo in quel momento, si apprende che si tratta di due luoghi differenti: la polizia fa irruzione in un’abitazione disabitata mentre il serial killer, altrove, apre la porta alla solitaria Sterling che indaga autonomamente. In questo caso, scrivono gli autori del saggio, «la suspense non è gestita attraverso movimenti di macchina particolari, o attraverso pratiche di sovrapposizione di sguardi, ma si fonda su un impiego magistrale e ingannevole del cosiddetto montaggio continuo, prendendo in contropiede la piena fiducia che lo spettatore ripone in questa diffusissima tecnica narrativa. Il montaggio continuo caratterizza la stragrande maggioranza dei film, dei video […] questa tecnica […] si è dimostrata nel tempo la più capace di farci accedere con naturalezza alla dimensione della finzione narrativa» (p. 175).

Secondo Gallese e Guerra tali modalità narrative intendono creare sequenze di inquadrature che agli occhi dello spettatore devono essere percepite come “oggettive”, capaci di rendere intelligibili i rapporti di intersoggettività e le situazioni in cui si vengono a trovare i personaggi e quando tale “oggettività” viene meno, ciò viene esplicitato da un cambio di prospettiva, come nel caso delle inquadrature in soggettiva. Neuroscienziati e psicologi della visione hanno recentemente osservato come «le convenzioni formali su cui si fonda questo tipo di montaggio (che viene etichettato come “hollywoodiano”, ma è diffuso in tutte le produzioni) sono compatibili con le dinamiche naturali dell’attenzione e delle nostre aspettative sulla continuità di spazio, tempo e azione e i modi in cui siamo in grado di soprassedere alle differenze tra i film e la realtà ci offrono un’ottima prospettiva di studio anche su come utilizziamo quotidianamente i medesimi processi fisici e cognitivi impiegati al cinema nel percepire la continuità del mondo reale» (pp. 175-176)

Il film, sappiamo, è costruito attraverso una concatenazione di immagini raccordate il più delle volte attraverso un montaggio continuo. In un film hollywoodiano contemporaneo si trovano circa un migliaio di diverse inquadrature, nel caso di un film d’azione possono tranquillamente essere anche il doppio. L’unità spazio-temporale e causale tra le diverse sequenze viene percepita tale nonostante il flusso percettivo sia in realtà dato da una lunga successione discontinua di immagini. Si tenga presente, sottolineano gli autori, che le immagini che raggiungono i nostri occhi sono continuamente interrotte dall’abbassarsi delle palpebre che interrompono per circa 150 millisecondi il flusso visivo dieci/quindi volte al minuto, dunque da ogni minuto di visione della realtà vengono a mancare 1,5 – 2,2 secondi di immagini. Inoltre, ogni minuto, i nostri occhi compiono tra i 2 ed i 5 movimenti saccadici (rapidi movimenti degli occhi eseguiti per portare la zona di interesse a coincidere con la fovea) che determinano un momento di cecità della medesima lunghezza di quello indotto dagli ammiccamenti. Da tale punto di vista, sostengono gli autori, occorre dire che la visione della realtà e la visione di un film hanno in comune una condizione di discontinuità. Il montaggio ha pertanto saputo trarre vantaggio dalla natura della visione sfruttandone le caratteristiche al fine di potenziare il senso di continuità che consente allo spettatore di immergersi nella narrazione cinematografica.
Diversi studi empirici hanno dimostrato che una narrazione per immagini che sfrutta il montaggio continuo viene compresa facilmente anche da chi non ha avuto contatti precedenti con il linguaggio cinematografico. Inoltre, altre ricerche hanno dimostrato che durante la visione di un film lo spettatore adatta ammiccamenti e movimenti saccadici a quanto sta osservando sullo schermo; gli intervalli fisiologici dell’occhio tendono a concentrarsi maggiormente nei momenti in cui l’attenzione per quanto viene proiettato diminuisce (es. durante un’interruzione tra un evento e l’altro). Quando il taglio del montaggio coincide con i momenti di ridotta attenzione, questo viene meno percepito dal pubblico. «L’efficacia delle tecniche di montaggio continuo dipende moltissimo dalla tipologia di immagini che si succedono prima e dopo il taglio» (p. 195).
Nella normale visione quotidiana i momenti di pausa visiva o di movimento degli occhi non compromettono l’esperienza soggettiva dell’individuo di una visione continua e coerente col mondo e ciò è dovuto alla capacità di anticipare l’esistenza, la localizzazione spaziale e i contenuti di ciò che si osserva grazie alle precedenti esperienze visive. Il montaggio continuo si basa sul rapporto tra anticipazione predittiva di ciò che verrà visto successivamente e percezione continua degli eventi narrati. Nel cinema si parla a proposito di ciò di “regola dei 180°”, cioè lo spazio in cui si filma deve essere pensato come diviso a metà da un asse ai cui antipodi prendono posto la macchina da presa e lo spazio profilmico (spazio ove si svolge l’azione da riprendere). Quando il montaggio non rispetta la “regola dei 180°” (“scavalcamento di campo”) viene fortemente notato dal pubblico; l’infrazione della regola determinerebbe un montaggio discontinuo in cui l’inquadratura successiva al taglio è ripresa da una posizione della macchina da presa che oltrepassa la linea dell’asse. Gli autori sottolineano come uno scavalcamento di campo comporti un’inversione speculare di quanto ripreso prima del taglio e lo spettatore si trova a sperimentare un’inversione della prospettiva egocentrica, perciò, «la seconda inquadratura montata violando la regola dei 180° non rappresenta soltanto un’incongruenza da un punto di vista visivo, ma si caratterizza anche per una profonda incongruenza sensori-motoria, causando una temporanea sospensione della simulazione incarnata mediante cui ci immergiamo nella scena [favorendo così] la focalizzazione della nostra attenzione sul taglio più che sul contenuto dell’azione filmata» (pp. 197-198). La dissonanza percettiva causata dall’assistere ad una sequenza montata violando al regola dei 180° viola le «aspettative sensori-motorie generate dalla nostra esperienza di interazione corporea e fattuale col mondo [ed interferisce] con il funzionamento dei meccanismi cerebrali che normalmente presiedono alla nostra produzione di azioni e alla loro osservazione quando eseguite da altri» (p. 198).

bergman002A partire dall’incipit di Persona (di Ingmar Bergman, 1966) Gallese e Guerra analizzano la valenza tattile e apatica determinata dalla visione di volti, mani, corpi od oggetti in primo piano, riprodotti decisamente fuori scala. L’opera del regista svedese rappresenta sicuramente uno dei film maggiormente legati all’espressività fisica del corpo, mostrato soprattutto attraverso il volto e le mani, e della materialità degli oggetti e della natura. Con tale opera Bergman «riesce a fare della visione il centro espressivo della psicologia dei personaggi e della loro ambigua ricezione da parte degli spettatori, incastonando il tutto in una riflessione metacinematografica sul rapporto tra realtà e rappresentazione, tra ruolo pubblico (di attrice, di infermiera, di madre mancata) e indefinibile identità personale, tra narrazione esplicita di sé e la sottotraccia delle pulsioni e delle memorie implicite che ne scindono la coerenza e ne modificano l’equilibrio, tra dialogo e monologo» (p. 211).

L’ipotesi che intendono verificare i due studiosi è che «il primo piano esalti le qualità riguardanti il dettaglio anatomico, la tessitura, trama e consistenza fisico-materiale dell’immagine, in modo da privilegiare una risonanza tattile e aptica da parte dello spettatore nei confronti delle stesse immagini, grazie all’evocazione potenziata della simulazione incarnata» (p. 217)

L’identificazione immersiva e la partecipazione da essa generata rispetto alle immagini cinematografiche passa attraverso una risonanza motoria con movimenti, azioni ed espressioni dei diversi personaggi, che non richiederebbe il ricorso all’ingrandimento dell’immagine. Il primo piano invece, sostengono gli studiosi, «esalta e focalizza la visione dello spettatore sugli aspetti più materici degli oggetti ripresi, siano essi volti, mani, paesaggi o costruzioni e oggetti prodotti dalla mano umana» (p. 217). A suffragare tale ipotesi concorrono alcune recenti scoperte relative alla «neurofisiologia del sistema somatosensoriale che ne hanno messo in luce la natura multimodale: […] il sistema corticale che mappa le sensazioni tattili, infatti, non si attiva solo quando esprimiamo un contatto sul nostro corpo, ma anche quando lo vediamo esperire a qualcun altro» (p. 217).

Lo schermo empatico si rivela un valido contributo al dibattito circa il nuovo il rapporto tra immagini e reale che, ormai da qualche tempo, viene indagato da diverse angolature. Il fatto che le modalità di fruire le immagini audiovisive siano per molti versi analoghe alle modalità con cui si fruisce il mondo reale offre spunti di riflessione importanti anche al fine di comprendere meglio quello che sembra essere ormai una sorta di groviglio inestricabile in cui risulta sempre più complicato discernere tra reale e finzionale. Il saggio si chiude in un interessante riflessione sul cinema del futuro a partire dalle tecnologie che ne rivoluzioneranno le capacità di coinvolgimento dello spettatore.

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Barricate di carta. La critica cinematografica conflittuale attorno al ’68 https://www.carmillaonline.com/2015/11/20/barricate-di-carta-la-critica-cinematografica-conflittuale-attorno-al-68/ Thu, 19 Nov 2015 23:01:13 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=25697 di Gioacchino Toni

barricate_di_cartaGianni Volpi, Alfredo Rossi e Jacopo Chessa (a cura di), Barricate di carta. “Cinema&Film”, “Ombre Rosse”, due riviste intorno al ’68, Mimesis, Milano – Udine, 2013, 340 pagine, € 24,00

Barricate di Carta ricostruisce la storia di due riviste, “Cinema&Film” ed “Ombre Rosse”, che nascono, come ricorda Alfredo Rossi, in quel clima culturale dell’Italia degli anni ’60 attraversato da pubblicazioni come “Nuovi Argomenti”, “Aut-Aut”, “Quaderni piacentini”, “Nuova Corrente”, “Ideologie” ecc. “Cinema&Film” ed “Ombre rosse” sono riviste di critica cinematografica nate dal rifiuto di intendere la critica come un mestiere. [...]]]> di Gioacchino Toni

barricate_di_cartaGianni Volpi, Alfredo Rossi e Jacopo Chessa (a cura di), Barricate di carta. “Cinema&Film”, “Ombre Rosse”, due riviste intorno al ’68, Mimesis, Milano – Udine, 2013, 340 pagine, € 24,00

Barricate di Carta ricostruisce la storia di due riviste, “Cinema&Film” ed “Ombre Rosse”, che nascono, come ricorda Alfredo Rossi, in quel clima culturale dell’Italia degli anni ’60 attraversato da pubblicazioni come “Nuovi Argomenti”, “Aut-Aut”, “Quaderni piacentini”, “Nuova Corrente”, “Ideologie” ecc.
“Cinema&Film” ed “Ombre rosse” sono riviste di critica cinematografica nate dal rifiuto di intendere la critica come un mestiere. Il primo numero della pubblicazione romana “Cinema&Film” è dell’autunno-inverno 1966 e, sin da subito, è palese come i giovani critici intendano: applicare al cinema un approccio linguistico strutturalista; analizzare soltanto i film che desiderano supportare; porsi a difesa di un “cinema altro” ed, in alcuni casi,  passare dall’atto della critica scritta a quello del “misurarsi con la realtà del costruire immagini e immaginario, del fare insomma cinema con e nei film”. La pubblicazione della rivista romana termina all’inizio degli anni ’70. “Ombre rosse” nasce, invece, a Torino nel 1967 con una forte connotazione politica che ha come riferimenti le lotte studentesche ed operaie del periodo. In questo caso il film viene esplicitamente concepito come “prodotto ideologico dell’industria culturale” ed oltre a trattate le opere supportate vengono affrontati anche i film che si intendono contestare da posizioni ideologiche ben precise. Ad inizio anni ’70 la rivista torinese si trasforma divenendo una testata politico-militante.

C&Fn1Secondo Alfredo Rossi risulta interessante confrontare le modalità contemporanee di “pensare il cinema” con “quell’assunzione di moralità leggendaria, talvolta derisoria ma tumultuosa e vera” di “Cinema&Film” e di “Ombre rosse” e, da tale confronto, emerge in tutta evidenza lo “scollamento tra il pensare-cinema, il dire-cinema” di allora e “l’odierno parlare-cinema e consumare-cinema”. Ad essere scomparsa, continua Rossi, è “l’urgenza del giudicare in un ambito dichiarato di posizionamento ideologico, selettivo, rabbioso, talvolta euforico, comunque innovativo, un fenomeno complesso come quello del cinema”. A tutto ciò sembra essersi sostituito “un appiattimento benevolente, in funzione accademica, neutra, di tipo storicistico o di gusto, nel render conto di un reale, vecchio e nuovo, di nessun interesse”. Non vi è traccia nell’attualità di quel voler “essere di parte” presente nelle due riviste degli anni ’60.
La critica cinematografica portata avanti dalle due testate, pur derivata dall’amore per il cinema ed i film, finisce spesso per parlare anche di altro, ricorrendo all’oggetto film “come segno o sintomo di altro”, studiandone “il meccanismo specifico di effetto di credenza, di prodotto industriale, in senso marxista e adorniano, per superare, appunto, la relazione acritica d’oggetto”. Ormai, sostiene Rossi, si è compiuto quel “tragitto di accreditamento culturale e artistico del cinema nel suo tutto, attraverso un processo di sussunzione estetica cui consegue che il film venga, comunque, sublimato in valore-cinema, appartenendo tecnicamente a quella universitas, e come tale speso nella catena di mercato delle idee, in un circuito che va dall’asseveratore dei valori, il critico, al consumatore finale, lo spettatore cinefilo, anello ultimo e debole del nuovo infantilismo del vedere”. Oggigiorno ha conquistato la scena “l’ideologia del film come valore per il solo fatto di essere, di esistere quale cosa cinematografica, e di poter esser catalogabile come tale in un tessuto ideologico e immaginario appagato”.

Emiliano Morreale, nel suo intervento, ricorda come le due riviste nascano quando è ormai finita la Nouvelle Vague francese, Hollywood mostra di patire la crisi economica e l’esordio in Italia di Bellocchio e Bertolucci, più che aprire un ciclo, sembra chiudere una stagione. Morreale invita i lettori più giovani, che non hanno vissuto il clima degli anni ’60 in cui si è data l’esperienza delle due testate, a notare quanto all’epoca si vedesse nel cinema davvero una possibilità di crescita umana ed uno strumento di miglioramento sociale.

Jacopo Chessa puntualizza come con l’espressione “critica militante”, in Italia, venga designato quell’ambito di critica “non accademica e nemmeno quotidianista” che, prestando particolare attenzione alla produzione contemporanea, privilegia l’approfondimento alla divulgazione. In generale il fatto di esercitare una critica militante non vuole per forza di cose dire essere militanti dal punto di vista politico ma, sostiene Chessa, a partire dalla fine degli anni ’60, la maggior parte della critica militante è militante anche politicamente. “Se il PCI aveva una sua cultura ufficiale, dei cineasti da sostenere, delle riviste dove farlo e una casa di produzione di riferimento, l’Unitelefilm, i militanti alla sua sinistra erano obbligati a inventare un nuovo approccio e un nuovo linguaggio che fossero, realmente, ‘rivoluzionari’”.
Le riviste “Ombre rosse” e “Cinema&Film” si trovano innanzitutto a dover individuare “quali film sostenere per il loro valore politico”, come vengano trattate le questioni politiche nei film, come affrontare, a livello di critica, tali opere ed, infine, come rapportarsi nei confronti del “cinema militante”. A proposito del rapporto tra critica e militanza, nel n.7-8 del 1969 la redazione di “Cinema&Film” così sintetizza le differenze con “Ombre rosse”: “Noi facciamo una rivista di cinema che, qualche volta, parla incautamente di politica e loro una rivista politica che, spesso, parla di cinema”. “Ombre rosse”, nell’articolo “Cultura al servizio della rivoluzione”, steso a diretto contatto con il movimento studentesco torinese, dichiara sulle sue pagine come il cinema che intende porsi al servizio della rivoluzione debba contribuire a cambiare il mondo.

C&Fn2Con tutte le sue contraddizioni, la cinematografia hollywoodiana è, in genere, supportata da entrambe le riviste. È pur vero che “Cinema&Film” dedica gli approfondimenti ai grandi autori come Rossellini, Godard e Straub o, in diverse occasioni, al “nuovo cinema italiano”, ma, sostiene Chessa, “avendo sempre negli occhi la lezione dei grandi maestri americani” come Hawks, Walsh, Ford, Chaplin, Welles ecc. “Cinema&Film” dedica molto spazio al “New American Cinema”, mentre “Ombre rosse”, pur occupandosi di questo fenomeno, opta, a partire dal quinto numero, per la cinematografia del Terzo mondo, soprattutto latinoamericana, individuando in essa “un modello da imitare nella definizione di un cinema d’intervento che non si rassegni alla piatta illustrazione dei fatti o alla propaganda, sia pure rivoluzionaria”.
“Ombre rosse” si pone come “avanguardia teorica di un cinema politico che si vorrebbe allo stesso tempo militante e rivolto alle masse, alla ricerca di una norma rivoluzionaria”. “Cinema&Film”, come cinema politico, privilegia, invece, “quello che si manifesta come tale sul piano del linguaggio”; ad essere enfatizzata è la rivoluzione formale che si manifesta in alcune pellicole, pertanto il discorso tende ad essere centrato su “eccezioni” al cinema tradizionale portate da autori come Godard, Rocha, Bene ed, in generale, dal “New American Cinema”. La “questione del linguaggio e del suo rapporto con il politico”, sul finire degli anni ’60, è fonte di riflessione e discussione; come conciliare una volontà contenutistica rivoluzionaria con il mantenimento della “lingua dei padroni”, e di “modalità comunicative, figurative, espressive imposte dal capitale”? La ricerca di un cinema diverso sia dal punto di vista linguistico che politico, finisce, inevitabilmente, con la critica del suo processo di produzione. “Cinema&Film”, sostiene Jacopo Chessa, pare più critica nei confronti “del cinema in mano agli ‘autodidatti’, ai collettivi studenteschi o politici che spesso si limitano a registrare delle situazioni”, “Ombre rosse” sembra, invece, aprirsi maggiormente a tali esperienze anche se il conseguimento di “un cinema veramente militante” pare restare più un’ambizione che non un’esperienza realmente conseguita.

L’intervento di Adriano Aprà ricostruisce la nascita della rivista romana a partire dall’uscita di un gruppo di giovani critici da “Filmcritica” e ricorda come il titolo della testata “Cinema&Film” (“C&F” come acronimo), nel suo legare i due termini senza spazi intermedi, corrisponde allo spirito del gruppo che ha dato vita alla rivista: “l’astratto (cinema) non disgiunto dal concreto (film), la teoria strettamente legata alla pratica”. Il comitato direttivo originario risulta composto, oltre che dallo stesso Adriano Aprà, in veste di direttore responsabile, da Luigi Faccini, Luigi Martelli, Maurizio Ponzi, Claudio Rispoli e Stefano Roncoroni. Nel corso della breve vita della rivista, alcuni dei critici della prima ora abbandonano e si aggiungono nuovi collaboratori come Franco Ferrini, Gianni Menon, Piero Spila, Enzo Ungari, Oreste De Fornari, Alfredo Rossi e Paquito Del Bosco.
Per farsi un’idea degli interessi di “Cinema&Film”, Aprà invita a passare in rassegna le immagini pubblicate in copertina e controcopertina: n. 1: Rossellini/Pasolini; n. 2: Chaplin/Godard; n. 3: Bertolucci/Bellocchio; n. 4: Welles/ Ferreri; n. 5-6: Straub-Huillet/Ponzi; n. 7-8: mosaico di nove giovani registi italiani/mosaico di foto tratte dai loro film; n. 9: Chaplin/Bene; n. 10: Hitchcock/Oshima; n. 11-12: Dreyer/Buñuel. Informazioni circa le preferenze dei critici di “C&F” si possono ricavare anche dall’elenco dei cineasti a cui viene chiesto di partecipare alla stesura delle classifiche dei migliori film: Amico, Bargellini, Bellocchio, Bertolucci, Brunatto, Cottafavi, Del Monte, Ferreri, Orsini, Pasolini, Rocha, i Taviani. Inoltre, tra gli altri autori amati dalla rivista romana, Aprà ricorda Ingmar Bergman, John Ford, Jerry Lewis, Michelangelo Antonioni, Eric Rohmer, Stanley Kubrick, Jacques Tati, Claude Chabrol e Glauber Rocha. Diverse anche le interviste pubblicate, tra le tante vale la pena citare quelle a: Dušan Makavejev, Robert Kramer, Ferreri, Jean Rouch, Straub, Bergman, Ponzi, Gianni Amico, Gian Vittorio Baldi, Bertolucci, Olmi, Valentino Orsini, Paolo e Vittorio Taviani, Glauber Rocha, Gustavo Dahl e Carmelo Bene. Se tali elenchi testimoniano la “tendenza cinefila” del gruppo, il racconto di Aprà prosegue nel ricostruire “la tendenza teorica” della rivista. In questo caso la semiologia ha un ruolo importante, sono infatti stati pubblicati testi di Pier Paolo Pasolini, Roland Barthes, Roman Jakobson e Christian Metz, oltre che scritti di (e su) Ejzenštejn, Dziga Vertov, Erwin Panofsky, Emilio Garroni, Theodor W. Adorno, Roger Munier. Adriano Aprà, a proposito della teoria, tiene a sottolineare che, per quanto lo riguarda, è stata intesa come “strumento per l’analisi dei film”, dunque “una teoria immediatamente da applicare alle opere”.
Nel suo intervento, Luigi Faccini, ricorda le riflessioni del gruppo di “C&F” a proposito del linguaggio e dello stile da utilizzare negli articoli al fine di indagare le scelte stilistiche dei cineasti. Ed è proprio a partire dall’analisi delle scelte stilistiche dagli autori che diversi critici iniziano a studiare regia.

ombre-rosse-nr.6Goffredo Fofi, invece, nel ricostruire il clima degli anni ’60, entro cui nascono le due riviste, si riferisce a quel periodo come “l’ultima epoca davvero vitale delle arti, quella della presa di parola di una generazione irrequieta che rifiutava i diktat delle ‘scuole’ consolidate ‘di destra’ o ‘di sinistra’ – in Italia, del corporativismo romano-centrico, dei bavosi residui zavattiniani, degli ottusi ideologismi aristarchiani (e togliattiani), delle tranquille degustazioni borghesi, di un angusto cattolicesimo non scosso, in cinema, dall’’aggiornamento’ conciliare. Una generazione che voleva dire la sua, mettersi in gioco, entrare in lizza. Non solo i registi, anche i critici. Ma mentre i primi si erano mossi per tempo, approfittando del boom e della funzione civile e di massa che il cinema continuava a svolgere, i secondi si dimostravano molto più lenti, i giovani imbarazzati da vecchi invadenti e ricattatori. Fu sulla scia di quel che accadeva a Parigi – e per opera di giovani italiani che la Parigi della Nouvelle Vague e dei ‘Cahiers’ oppure di ‘Positif’ (e di ‘Les Temps Modernes’, ‘Esprit’, ‘Le nouvel observateur’) frequentavano assiduamente, chi direttamente e chi semplicemente divorando le loro pagine – che nacquero ‘Cinema&Film’ e ‘Ombre rosse’”. Fofi sottolinea come entrambe le riviste possono essere definite militanti, seppur pur in maniera diversa: “Cinema&Film” “ancorata al cinema e nella speranza-illusione di creare un movimento di nuovi registi (ne vennero, ma assai deboli) e incidere dal centro del mini-impero cinematografico della capitale, della centralità romana”, mentre “Ombre rosse” la descrive come “inserita in una battaglia culturale di più ampio raggio”, all’interno di un dibattito che vede nell’intervento politico “lo sbocco delle ricerche e tensioni culturali”. Con il ’68 tutto si intensifica e tutto si trova a gravitare attorno ad un movimento che mette “la politica al primo posto”.

Gianni Volpi evidenzia come la visione del ruolo del cinema dei giovani critici di “Ombre rosse”, si trovi, sin da subito, a cercare punti fermi nei francofortesi, nelle avanguardie, in Brecht, nel surrealismo, in Majakovskij, ed in generale nel clima culturale degli anni ’30. L’aspetto critico che sicuramente contraddistingue “Ombre rosse”, non deve sminuire l’attenzione rivolta dalla rivista “ai valori di linguaggio (e ad altri linguaggi: vedi il fumetto con le tavole-recensione disegnate appositamente da Buonfino o Crepax o Ballesta, o il romanzesco dei generi bassi)”.

ombre-rosse-nr.7 Volpi sostiene che le due testate nascono dall’insoddisfazione per la cultura cinematografica dominante e che, in entrambi i casi, il tentativo è quello “di porsi come interlocutori reali di alcuni autori, seppure diversi per ciascuna delle due riviste”, cioè di confrontarsi con chi praticamente realizza film. Tra gli autori amati da “Ombre rosse” ricorda Welles, Buñuel, Lang e Losey, definiti all’epoca come “i grandi della negazione”, capaci di “negare il mondo così com’è” e di “proporre forme e visioni in grado di scavare oltre la superficie”. Poi, ancora, la rivista indaga il cinema di Bresson, “espressione di un cattolicesimo come linguaggio e non come posizione”, alcuni autori della Nouvelle Vague, Rocha, Guerra, Solanas, il “Cinema nôvo” brasiliano, quello latino-americano, il cinema cubano, vietnamita ecc., senza dimenticare l’interesse per il “cinema militante”. Ad essere amati sono anche gli autori della “crisi del sogno americano” come Penn, Cassavetes, Jerry Lewis, poi, più tardi, Kazan e Robert Kramer. A parte i casi di Bellocchio e Ferreri, il cinema italiano, a causa di quella che Volpi definisce la sua “medietà”, viene invece sostanzialmente rifiutato dal gruppo di “Ombre rosse”.

La sezione antologica di Barricate di carta, per quanto concerne gli scritti di “C&F”, riproduce, in maniera parziale o integrale: “Editoriale” n. 1 Testo redazionale – “Godard à part, la bande des autres…” di Luigi Faccini – “Editoriale” n. 2 Testo redazionale – “Riflessione prima sui metalinguaggi critici” di Luigi Faccini; “Due o tre cose su Roberto Rossellini” di Maurizio Ponzi – “Immagine autoritaria e immagine trascendente” di Adriano Aprà – “Editoriale” n. 4 Testo redazionale – “Verso un cinema di risposte?” – “Editoriale” n. 5-6 Testo redazionale – “Cinema con le mani sporche” di Adriano Aprà – “Un totale equilibrio incarnato” di Adriano Aprà – “Editoriale” n. 7-8 Testo redazionale – “Nosferatu ’70: una sinfonia del disordine”di Enzo Ungari – “Appunti su una teoria del film permanente” di Piero Spila – Jack e il principe Hal poi Henry V” di Maurizio Ponzi – “I migliori rivoluzionari del 1968” di Maurizio Ponzi – “Le cadavre exquis del cinema rivoluzionario”di Piero Spila – “Sogni rubati” di Alfredo Rossi – “West by Northwest” di Franco Ferrini – “Introduzione all’arcipelago Hitchcock” di Enzo Ungari – “Editoriale” n. 11-12 Testo redazionale – “Dreyer: artificio, spazio, luce” di Adriano Aprà.
Per quanto concerne, invece, gli scritti di “Ombre rosse”, sono riprodotti, in maniera parziale o integrale: “Way Down East” di Goffredo Fofi – “A film politico giudizio politico” a cura di Paolo Bertetto, Goffredo Fofi, Massimo Negarville, Vittorio Rieser, Gianfranco Torri, Gianni Volpi – “Per una veridica filmografia del verace” di Saverio Esposito – Marco Bellocchio: Vento dell’est. Intervista su La Cina è vicina” a cura di Goffredo Fofi – “La negazione assoluta di Bresson” di Gianni Volpi – “Autunno senza Cheyenne. Ford e Missione in Manciuria” di Piero Arlorio – “Segni di riscontro su una vecchiaia felice” di Goffredo Fofi – “I verdi prati di Oxbridge. ‘incidente di Joseph Losey” di Gianni Volpi – “Ganster Story” di Juan Ballesta – “Cul de sac” di Guido Crepax – “Cultura al servizio della rivoluzione” Testo redazionale – “Godard uno e due. Masculin Féminin, Week-end” di Gianni Volpi e Paolo Bertetto – “Il cinema e il movimento studentesco” di Massimo Negarville – “Il cinema come fucile. Intervista a Fernando Solanas” a cura di Gianni Volpi, Piero Arlorio, Goffredo Fofi e Gianfranco Torri – “La prigione cristiana. Nazarin, La via lattea” si Goffredo Fofi – “Andremo a Thaiti. Dillinger è morto” di Gianni Volpi – “Alla ricerca del positivo” di Goffredo Fofi – “Cronaca del Cronopio: critica e intervento” di Goffredo Fofi.

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