infermieri – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 18 May 2024 21:17:27 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.25 Economia di guerra / 2: ancora sulla centralità del lavoro e del necessario conflitto che l’accompagna https://www.carmillaonline.com/2020/04/20/economia-di-guerra-2-ancora-sulla-centralita-del-lavoro-e-del-necessario-conflitto-che-laccompagna/ Mon, 20 Apr 2020 21:01:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=59487 di Sandro Moiso

Il lampo del virus illumina l’ora più chiara. Smaschera il mondo in maschera.

Viviamo giorni di confusione, ma anche di grande chiarezza. Il balletto del tutti contro tutti che si svolge a livello politico (nazionale e locale), scientifico (con il dilagare degli esperti e delle task force) e mediatico dovrebbe aver già da tempo aperto gli occhi dei cittadini e dei lavoratori. Date di riapertura diffuse come se ciò non avesse conseguenze sull’andamento del contagio e da quest’ultimo non dovessero dipendere, ottimismo sparso a piene mani su un picco che dovrebbe assomigliare a un altipiano (per il [...]]]> di Sandro Moiso

Il lampo del virus illumina l’ora più chiara.
Smaschera il mondo in maschera
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Viviamo giorni di confusione, ma anche di grande chiarezza.
Il balletto del tutti contro tutti che si svolge a livello politico (nazionale e locale), scientifico (con il dilagare degli esperti e delle task force) e mediatico dovrebbe aver già da tempo aperto gli occhi dei cittadini e dei lavoratori. Date di riapertura diffuse come se ciò non avesse conseguenze sull’andamento del contagio e da quest’ultimo non dovessero dipendere, ottimismo sparso a piene mani su un picco che dovrebbe assomigliare a un altipiano (per il tramite di ingegnose acrobazie linguistiche, geomorfologiche e statistiche), dati di una autentica strage a livello sanitario che i partiti istituzionali si rimpallano, con minacce di inchieste e commissariamenti, tra Destra e Sinistra come in una partita di volley ball, noiosissima e già vista centinaia di volte. Una guerra tra rane, topi e scarafaggi che, se fosse ancora vivo Giacomo Leopardi, sarebbe degna soltanto di un nuova “Batracomiomachia”.

In questo autentico bailamme, che sembra soltanto peggiorare di giorno in giorno, sono però ancora troppi coloro che, pur animati dalle migliori intenzioni, affrontano le questioni legate all’attuale pandemia in ordine sparso. Rincorrendo il momento, chiedendosi quando si potrà ricominciare ad agire, senza chiedersi su cosa si potrebbe davvero incidere, scambiando un problema per il “problema”, anteponendo l’idea dell’azione allo studio delle azioni necessarie, contrapponendo l’individuale al sociale oppure scambiando per sociale ciò che in sostanza è individuale. In una girandola di iniziative che tutto fanno tranne che fornire prospettive concrete per un’uscita dall’attuale catastrofe che, occorre ancora una volta dirlo, non è né naturale né umanitaria, ma derivata direttamente dalle “leggi” di funzionamento del modo di produzione capitalistico. Come afferma Frank M. Snowden, storico americano della medicina, nel suo Epidemics and Society: non è vero che le malattie infettive “siano eventi casuali che capricciosamente e senza avvertimento affliggono le società”. Piuttosto è vero che “ogni società produce le sue vulnerabilità specifiche. Studiarle significa capirne strutture sociali, standard di vita, priorità politiche”1

Gli elementi che potrebbero aiutare a definire il campo per un intervento immediato, concreto e condivisibile a livello di massa sono già molti. Sono compresi nelle parole, nelle promesse fasulle e nei provvedimenti che i governi e i loro padroni, nazionali e internazionali, stanno esplicitando, come si affermava all’inizio, sotto gli occhi di tutti. Una lunga sequenza di leggi, prevaricazioni, distruzioni e violenze che costituiscono la trama della più lunga crime story mai raccontata.
Ancora una volta è inutile, infatti, cercare l’ordito nascosto o segreto della realtà, basta saperla osservare e ascoltare, oppure semplicemente leggere, following the money.

Ad esempio, nella “Convenzione in tema di anticipazione sociale in favore dei lavoratori destinatari dei trattamenti di integrazione al reddito di cui agli Artt. da 19 a 22 del DL N. 18/2020” concordata il 30 marzo 2020 a Roma, alla presenza del Ministro del lavoro e delle politiche sociali tra Associazione Bancaria Italiana (ABI), l’ Alleanza delle Cooperative Italiane, tutte le maggiori associazioni imprenditoriali e confederazioni sindacali.

Il tema è sostanzialmente quello della cassa integrazione ordinaria o in deroga. Provvedimenti da sempre destinati a ricadere economicamente sulle spalle dello Stato, degli imprenditori e dell’INPS, ma che grazie a questo accordo, in piena crisi economica (di cui la pandemia da coronavirus costituisce un’aggravante ma non l’unica origine), potrebbe ricadere direttamente sulle spalle dei lavoratori che la vorranno o dovranno richiederla.

Se già la cassa integrazione comporta sempre e comunque un costo per i lavoratori, consistendo mediamente in un 80% del salario, a partire da questo accordo la stessa si trasforma in una sorta di prestito che viene accordato ai lavoratori in attesa che sia l’INPS a ripianarlo e a provvedere ai successivi pagamenti, ma il cui costo iniziale ricadrà interamente sui dipendenti coinvolti, a differenza della cassa integrazione comunemente intesa che prevede, in caso di ritardo delle prestazioni dell’INPS, che il costo iniziale ricada sugli oneri delle imprese che, di fatto, sono costrette ad anticipare per qualche mese gli stipendi parziali pagati dall’ente previdenziale.
Come si può leggere nel testo della Convenzione, invece:

Al fine di fruire dell’anticipazione oggetto della presente Convenzione, i/le lavoratori/trici […] dovranno presentare la domanda ad una delle Banche che ne danno applicazione […]
Il/la lavoratore/trice e/o il datore di lavoro informeranno tempestivamente la Banca interessata circa l’esito della domanda di trattamento di integrazione salariale per l’emergenza Covid-19.
In caso di mancato accoglimento della richiesta di integrazione salariale […] qualora non sia intervenuto il pagamento da parte dell’INPS, la Banca potrà richiedere l’importo dell’intero debito relativo all’anticipazione al/la lavoratore/trice che provvederà ad estinguerlo entro trenta giorni dalla richiesta.
Nei casi della anticipazione del trattamento di integrazione salariale da parte della Banca, quest’ultima, in caso di inadempimento del lavoratore, […] comunicherà al datore di lavoro il saldo a debito del conto corrente dedicato.
In tal caso, a fronte dell’inadempimento del lavoratore, il datore di lavoro verserà su tale conto corrente gli emolumenti spettanti al lavoratore, anche a titolo di TFR o sue anticipazioni, fino alla concorrenza del debito. Il lavoratore darà preventiva autorizzazione al proprio datore di lavoro […] in via prioritaria rispetto a qualsiasi altro vincolo eventualmente già presente evitando che sia il datore di lavoro a dover regolare i criteri di prevalenza tra i diversi impegni presenti, nei limiti delle disposizioni di legge2.

La Convenzione con le banche non è un inedito, è già stata usata nel 2008/2009 e se la pratica di cassa non va in porto l’impresa è comunque obbligata a pagare le mensilità al lavoratore, che può così restituire gli anticipi versati dalla banca. La Convenzione è un accordo astratto, ma agli sportelli (persino di due filiali diverse dello stesso gruppo) possono nascere piccoli ricatti o fraintendimenti che il lavoratore, di solito inesperto, può non saper gestire – tipo l’obbligo di aprire una posizione permanente in quella banca, al di là del conto corrente e a termine della Convenzione. Inoltre:

“«L’accordo con l’Abi parla di un’istruttoria di merito creditizio nei confronti del lavoratore. Ma questa previsione rischia di essere un problema per chi ha un finanziamento in corso e magari non sia riuscito a pagare qualche rata di credito al consumo», spiega Roberto Cunsolo, consigliere dell’Ordine nazionale dei commercialisti. Tanto basta, infatti, per essere segnalati alla Centrale rischi finanziari (Crif) e di conseguenza vedersi rifiutare l’anticipo degli ammortizzatori.
L’argomento non è da poco visto che il governo nei provvedimenti adottati finora non ha previsto lo stop alle rate per i piccoli prestiti.” (qui)

Fermiamoci qui. E’ chiaro però che, in questo modo, la cassa integrazione ordinaria o in deroga si trasforma in nient’altro che in un prestito ai lavoratori/trici, che gli stessi sottoscriveranno con le banche, liberando quasi del tutto i datori di lavoro da qualsiasi responsabilità economica in merito. Un sistema perfetto di sfruttamento circolare del lavoro dipendente. Soprattutto nel caso della cassa in deroga per la quale viene del tutto esclusa la possibilità che questa possa essere anticipata dal datore di lavoro.
L’anticipo è sui conti dei lavoratori e, se qualcosa va storto, i padroni possono detrarre le cifre per il ripianamento del debito direttamente dai salari (senza neanche il limite del quinto dello stipendio). In questo modo il lavoratore diventa il garante ultimo della politica economica d’emergenza. Il lavoro è il fideiussore generale di riserva, la banca l’intermediario, l’impresa fa la ritenuta alla fonte per conto del sistema bancario di governo. L’accordo, inoltre, non prevede il vincolo di non licenziare, come indirettamente confermato dal silenzio sindacale in proposito. Così il salario è eventuale, ma se c’è, il padrone può versarlo ai suoi finanziatori.

In un contesto in cui si prevede che siano più di 11 milioni i lavoratori che dovranno far ricorso alla cassa integrazione (o ai bonus) e in un panorama in cui le imprese con meno di 10 dipendenti, ovvero quelle ritenute maggiormente a rischio, costituiscono l’82,4% (col 22,6% dei dipendenti complessivi) delle imprese manifatturiere, il 96,2% (con il 66% dei dipendenti) delle imprese edili e il 96,6% (con il 52,3%) di quelle legate ai servizi, commercio all’ingrosso e al dettaglio3 i tempi della Cig saranno già più lunghi di almeno 10-15 giorni. Mentre, per la complessità delle operazioni richieste in modalità diversa per ogni istituto bancario, i lavoratori meno esperti di strumenti informatici, considerato che le banche escludono la possibilità di una ‘consulenza’ sindacale a soccorso degli stessi, rischieranno di essere tra gli ultimi ad essere pagati, vista anche la precedenza che sia le banche che l’Inps accorderanno agli aiuti per le aziende.

Più che lo sdegno per lo strumento in questione, andrebbe rimarcato l’eterno ineliminabile ruolo delle banche. Dal Q.E., all’Ape, alla Cassa: tutto deve passare dalle banche, che tra l’altro in questa fase non hanno assolutamente uomini e mezzi per svolgere il ruolo “burocratico” che lo Stato gli appalta – oltre al costo economico e sociale che questo parassitismo bancario comporta. Questa pletora di ammortizzatori (Cigo, Cig, Naspi, Bonus autonomi, Reddito Gigino di Maio, contributi comunali) di cui alla fine non ci si capisce più nulla, costituisce però il risultato della mancanza di uno strumento di reddito generale e universale. Così, sia a livello sindacale che prefettizio, inizia a crescere l’allarme per il clima da insorgenza sociale ed economica che sembra nascere spontaneamente, soprattutto in città come Torino dove le code davanti al Monte dei pegni si allungano ormai di giorno in giorno (qui).

Ma occorre fare ancora qui alcune osservazioni di carattere generale.
La prima, naturalmente, è quella riguardante il fatto che tale provvedimento conferma la tendenza generale alla completa finanziarizzazione di ogni attività o provvedimento un tempo compresi in ciò che veniva definito welfare state. Che si tratti di sanità, di lavoro o di previdenza (con tutti gli addentellati del caso: cassa integrazione, pensioni, etc.) il costo oggi non solo non deve più essere sostenuto dalla finanza e dall’intervento pubblico, ma deve anche costituire motivo di realizzazione di interessi per chi si sostituisce, anche solo momentaneamente, allo Stato e alle sue agenzie in veste di ufficiale pagatore. Insomma, in soldoni le banche non muovono un dito se non ne ricavano una qualche forma di profitto.

La seconda, non meno importante, è che le casse dello Stato si avviano ad essere sostanzialmente vuote. Anni di ruberie, rapine politico-mafiose autorizzate, prebende, investimenti fantasma o in grandi opere inutili e dannose mai terminate (e interminabili), premi a consorterie politiche di ogni tendenza e genere, profitti e prestiti garantiti a imprese e banche too big to fail, tasse mai pagate e attività svolte in nero hanno letteralmente prosciugato la casse dello Stato e dell’INPS. La quale ultima, nata come Istituto di previdenza sociale per i lavoratori, ha dovuto sempre più farsi carico anche delle pensioni e dei trattamenti di fine servizio milionari di manager e dirigenti, privati e pubblici, oltre che diventare il tappabuchi per i periodi di sospensine dell’attività produttiva programmati dalle grandi aziende (come la Fiat).
Impressione generale confermata dallo slittamento in avanti continuo della data di presentazione dei provvedimenti economici governativi resi necessari dalla crisi.

Lo Stato sociale ha un costo sicuramente elevato che è andato crescendo nel tempo, ma non tutto è stato dissipato, come vorrebbe far credere una narrazione tossica e di parte, a causa delle pensioni un tempo calcolate su una età media più bassa e una vita lavorativa che veniva calcolata su un numero di anni inferiore a quelli attualmente necessari. Né si tratta soltanto di truffe rappresentate dai falsi invalidi, che pur ci sono state ma non tali da determinare l’attuale situazione di difficoltà.
Certo l’innalzamento dell’età media della vita ha comportato un prolungamento inaspettato dei pagamenti pensionistici e delle spese assistenziali per la terza età, ma troppo spesso ci si dimentica di sottolineare come proprio nel settore dell’assistenza alla stessa e in quello della Sanità non sia mai stato messo in pratica alcun tipo di controllo e di calmiere dei prezzi. Contribuendo così a fare dell’assistenza sanitaria e agli anziani un autentico Far West dove tutto è concesso, in termini di guadagno e profitto privato, e dove nessuna attività, o quasi, è svolta avendo come primo obiettivo quello della salute e del benessere dei cittadini.

Le tanto venerate privatizzazioni, concesse tanto da destra che da sinistra4, hanno dimostrato, proprio nel cuore dell”eccellenza’ sanitaria lombarda, la loro reale efficienza. Soprattutto nelle RSA, ovvero nelle residenze per anziani, sempre più costose (per lo Stato e per i cittadini) e meno protette dal punto di vista sanitario.
Residenze per anziani che sono diventate, in tutta Europa, uno dei settori più interessanti di investimento per le società finanziarie a caccia di nuovi territori in cui poter praticare le proprie scorrerie, garantendo profitti annui anche del 6-7% e trasformandosi, almeno fino all’esplodere della pandemia, in uno dei settori in cui si attendevano i maggiori investimenti nei prossimi anni. Fino a 15-20 miliardi di euro entro il 2035.
Basti pensare che in Lombardia l’84% delle RSA, che nel loro insieme rappresentano un affare da 1,4 miliardi di euro, è privato. Un affare che coinvolge 8.000 strutture e 262.000 persone censite dallo Spi-CGIL soltanto per il 2018 in tutt’Italia5.

«È un settore a metà tra l’immobiliare e l’infrastrutturale, che rappresenta un ottimo modo per diversificare e proteggere i portafogli, soprattutto nei momenti di ciclo economico debole», ha affermato in un recente convegno Giuseppe Oriani, ceo per l’Europa di Savills Investment Management. Ma che cosa attira gli investitori? In primo luogo, si tratta di un investimento a basso rischio, che si traduce in una sostenibilità dei canoni su un arco temporale medio lungo. «A questo, concorre il fatto che nel sistema italiano, così come in quello francese o tedesco, solo una parte delle rette di degenza è a libero mercato, ma una quota consistente è coperta dal pubblico, nel nostro caso dalle Regioni. Questo è un elemento di garanzia per chi investe», spiega Pio De Gregorio, responsabile Industry trend & benchmarking analysis di Ubi Banca, che ha redatto un accurato studio sul settore.
Naturalmente fanno gola i rendimenti medi lordi, stimati in un range compreso tra il 6% il 7,5%. La dinamica demografica è legata a doppio filo a questa classe di investimento. Infatti, a seconda degli scenari che si verificheranno, e dunque della necessità di posti letto in Rsa, si parla di investimenti in nuove strutture per 15 miliardi di euro entro il 2035, secondo l’ottica più conservativa, o fino a 23 miliardi secondo lo scenario più generoso. L’Italia ha ancora un forte gap da recuperare. In Germania ci sono oltre 12mila strutture per circa 876mila posti letto, in Francia 10.500 strutture e 720mila posti letto, in Spagna rispettivamente circa 5.400 e 373mila.6

Quello delle RSA, alla luce dei decessi ricollegabili alla mancata prevenzione sanitaria in occasione dell’attuale pandemia, sembra essere un esempio piuttosto efficace per dimostrare concretamente come salute, assistenza e finanza non possano collimare nei loro obiettivi ultimi7.
L’assalto finanziario ad ogni aspetto del sociale infatti non rappresenta soltanto una riduzione della spesa dello Stato nel settore dei servizi ai cittadini, ma un vero rovesciamento di questi ultimi che si trasformano in un autentico settore di investimento protetto per il capitale finanziario sempre più alla ricerca di aree garantite in cui essere “parcheggiato” con una resa maggiore di quella fornita dall’investimento produttivo.

La strategia messa in atto da anni nei confronti della spesa pubblica e del suo taglio, si rivela dunque sempre di più per quello che di fatto è: fornire la possibilità di continuare ad investire speculativamente senza rischiare che l’enorme bolla finanziaria che si è venuta a creare negli anni (con scarsa o nulla base nell’economia reale) finisca con l’esplodere.
Questo può tranquillamente farci affermare che proprio per tale motivo i paperoneschi fantastiliardi promessi dal governo di Totò e Peppino per fronteggiare la crisi non esistono. Non esistono nelle casse del governo e non esistono nemmeno nelle casse delle banche. Le quali ultime avendo investito cifre da capogiro in titoli gonfiati, se non in veri e propri junk bond, oppure in titoli di Stato per impedire l’aumento dello spread e degli interessi pagati oggi non hanno disponibile tutta la liquidità richiesta dal governo per finanziare le imprese in crisi.

Interessante, da questo punto di vista, può rivelarsi la posizione assunta dall’AD di Intesa San Paolo, Carlo Messina, che, nei giorni scorsi, ha dichiarato che se la banca farà la sua parte mettendo a disposizione 50 miliardi di crediti, anche gli imprenditori che hanno spostato i loro investimenti e le loro ricchezze all’estero dovrebbero fare altrettanto facendoli rientrare in Italia8. La globalizzazione si incrina quindi, proprio ai suoi vertici, di fronte a una crisi che, al di là delle vacue dichiarazioni di Conte e Gualtieri, non troverà nei finanziamenti europei la sponda troppo a lungo strombazzata. Né i 1500, né i 400 miliardi ma, per ora e al massimo, i 37 messi a disposizione dal ferreo fondo salva stati (MES).

Da qui due conseguenze immediate e tutte due da consumarsi sulla pelle dei lavoratori: la prima è la riapertura di tutte le aziende che ne hanno fatto richiesta in deroga9 in cambio del mancato aiuto promesso su così larga scala (certo qualcosa ci sarà, ma non nella misura attesa da gran parte del mondo imprenditoriale), mentre la seconda (che non sarà comunque l’ultima) è compresa nell’accordo di cui abbiamo parlato all’inizio di questo intervento.

Non vedere in questo accordo una forma di liberalizzazione dei contratti di lavoro destinata a durare ben oltre l’emergenza sarebbe da imbecilli e non denunciarlo semplicemente criminale.
Ecco allora serviti gli snodi su cui articolare la nuova protesta sociale, non sull’idealità o l’ideologia o su un solidarismo più di marca cattolica che rivoluzionaria, ma sulla salda concretezza costituita dall’impossibilità di far coincidere gli interessi dei lavoratori con quelli dello Stato e del capitale, soprattutto nei periodi di crisi. Si tratti dei lavoratori dell’industria, si tratti dei lavoratori e degli operatori della sanità, si tratti ancora dei lavoratori dei servizi pubblici e privati e della scuola, la crisi ha tolto la maschera alla controparte. E’ ora di smettere di considerare il lavoro dipendente un privilegio o una fortuna, anche là dove sembrava garantito. E’ venuta l’ora di riportarlo al centro del conflitto e dell’attenzione antagonista.

In questi giorni il Fondo Monetario Internazionale ha dichiarato che siamo davanti ad una crisi peggiore di quella del 1929, dalla quale, occorre sempre ricordarlo, si uscì soltanto con il secondo macello imperialista mondiale; sorto ed esploso non per un insanabile conflitto tra democrazia e autoritarismo, ma soltanto per ridefinire i confini delle aree di influenza economica e politica nel e sul mercato mondiale. Il Financial Times si è spinto a dichiarare in prima pagina (15 aprile) che questa sarà la peggiore crisi economica degli ultimi 300 anni. Ma è stato il quotidiano dei vescovi italiani, Avvenire, a giungere ad una sintesi storica più adeguata, dichiarando che:

Una volta che l’emergenza sanitaria dettata dalla pandemia sarà sotto controllo, il rischio è che si apra una delle più grandi fasi di stagnazione economica degli ultimi secoli e con essa una ristrutturazione dei sitemi politici di riferimento. Il pericolo è di ritrovarsi in una nuova «grande crisi generale» paragonabile a quella che gli storici definiscono la «crisi generale del XVII secolo», quando la seconda ondata pandemica di peste fu accompagnata da un profondo cambiamento degli assetti politici ed economici […] La conseguenza è che dobbiamo attenderci non solo della povertà la più grave recessione economica degli ultimi secoli, con un crollo inimmaginabile della capacità produttiva e un aumento mai registrato e delle disuguaglianze a livello globale, ma anche lo stravolgimento dell’ordine esistente. Già all’indomani della grande crisi del 2008, infatti, l’ordine internazionale liberale ha cominciato a dare segni di cedimento strutturale.10

Mai come in quest’occasione la salvaguardia della salute e delle garanzie sul lavoro sono state coincidenti; mai come in questo momento lotta sindacale e lotta politica (intesa nel suo senso più ampio di ridefinizione delle necessità sociali e del modo di governarle) si sono avvicinate nelle loro finalità; mai come oggi la lotta per la ripartizione della ricchezza prodotta è stata tanto importante per ridefinire i modi della sua creazione, delle sue finalità e della difesa dell’ambiente. E della salvaguardia della specie umana.

Soprattutto in un contesto in cui la sostanziale confusione sui dati epidemiologici, la chiacchiera politica, la propaganda mediatica e le continue e contraddittorie illazioni di presunti esperti quali Roberto Burioni e Ilaria Capua (nomi che valgono soltanto come esempio considerato che l’elenco potrebbe continuare a lungo) non hanno fatto altro che coprire di parole inutili e pietose la sostanziale scelta dell’immunità di gregge come unica strategia da applicare nei confronti dell’epidemia, pur senza averlo mai dichiarato pubblicamente.

Lontani dalla memoria storica della Chiesa, che ha motivo di mantenerla non per ragioni di cambiamento e sovvertimento dell’ordine esistente, ma al contrario per la necessità di conservare i suoi apparati e la sua funzione11, i tecnici del dream team di Vittorio Colao già insistono per rendere obbligatorio lo smart working, il telelavoro, per le grandi aziende e ovunque sia possibile. Mentre alcuni lavoratori e alcune lavoratrici possono vedere in questa “modernizzazione” una forma di flessibilità che potrebbe andare incontro alle loro esigenze personali e famigliari, è inevitabile osservare come tale ristrutturazione del lavoro white collar sia destinata a promuovere un’ulteriore parcellizzazione dello stesso e un’atomizzazione dei suoi esecutori che, ben presto, dovranno fare i conti con una totale privatizzazione dei loro contratti e con una tendenza inarrestabile alla creazione di lavoratori “autonomi” (in realtà dipendenti) assolutamente non più garantiti sia sui tempi di lavoro che sulle retribuzioni. Come già ben sanno molti lavoratori precari.

Sarebbe poi da affrontare il tema della ristrutturazione del lavoro nel comparto sanità, dove è evidente che dietro agli untuosi elogi agli “eroi che ci difendono in prima linea” si cela una totale ristrutturazione peggiorativa delle condizioni di lavoro dei medici (qui) e di tutto il personale sanitario12, già da tempo iniziata con le privatizzazioni messe in atto nel settore. Non solo in Lombardia, caso più eclatante, ma in tutta Italia e da ogni governo nazionale o locale.

Nella scuola anche non ci sarà da scherzare. Anche qui il telelavoro di queste settimane, le lezioni a distanza e le riunioni fiume per via telematica, non costituiranno altro che un ulteriore aumento dei carichi di lavoro dei docenti, una riduzione delle risorse disponibili (che bisogno ci sarà di pagare i corsi di recupero, se gli insegnanti saranno obbligati a tenere delle lezioni da casa al pomeriggio?) e se le classi saranno ridotte di numero sarà solo per sdoppiarle su un lavoro che potrebbe svolgersi sia di mattina che pomeriggio, con un aumento dell’orario settimanale dei docenti non accompagnato da un’adeguata retribuzione. Non a caso già si parla di un nuovo contratto e di nuove assunzioni che certo non sarebbero minimamente adeguate a coprire un raddoppio delle cattedre.

Del lavoro in fabbrica, nei cantieri, nella distribuzione e nel commercio abbiamo già indirettamente parlato anche negli articoli precedenti. Ma se da un lato su ogni lavoratore di questi settori, come anche di quelli citati prima, graverà la spada di Damocle del licenziamento e della disoccupazione, è chiaro che su tutti i lavoratori e le lavoratrici peseranno fin da subito l’aumento dei ritmi, l’inasprimento delle turnazioni, la probabile riduzione delle retribuzioni per permettere alle aziende, grandi e piccole, di superare ‘insieme’ il difficile momento. Lo ha sintetizzato benissimo il presidente degli industriali vicentini, Luciano Vescovi, quando ha affermato: “Si tratta di trovare un percorso italiano per tamponare l’emergenza e aiutare il sistema, ma è molto complicato in uno Stato privo di soldi. Bisogna dirlo chiaramente: bisogna tornare a lavorare, e tirare la cinghia per un po’” (qui). Mentre lo stesso presidente del consiglio Conte ha già preannunciato che, con la prossima riapertura, si lavorerà sette giorni su sette.

D’altra parte l’elezione di Carlo Bonomi alla presidenza di Confindustria e l’immediata proposta di anticipare ufficialmente la riapertura produttiva del settore auto (che significa, in realtà, praticamente tutta la metalmeccanica) e di quello della moda (tessile e non solo: cuoio. chimica, etc.) mostrano chiaramente come tutte le decisioni della politca siano completamente assuefatte, a Destra come a Sinistra, agli ordini provenienti dai “padroni del vapore” e dagli investitori. In fin dei conti, nella pletora di tecnici arruolati di giorno in giorno per svolgere le funzioni che dovrebbero essere specifiche del Governo e del Parlamento, i veri specialisti sono loro: gli imprenditori. Che, però, non ancora soddisfatti dagli omini di pezza posti al governo o nel parlamento, si spingono già a chiedere la presenza di un nuovo de Gaulle13.

Non tenere conto di ciò, chiudersi nello specifico o nel proprio orticello, scimmiottando gli orridi specialisti ed esperti come i 17 membri della super-commissione varata dal governo in questi giorni, sarebbe semplicemente perdente e conservatore.
In tutto il mondo, a partire dagli Stati Uniti i lavoratori di tutti i settori hanno capito che la lotta contro la crisi da coronavirus coincide con la lotta contro il virus del capitale (qui).
Ma ciò che fa paura, forse, è proprio il fatto che nelle crisi sistemiche tutti i nodi sono destinati a venire al pettine e non ci sia più spazio per le incertezze e i tentennamenti.
Stiamo dunque ben attenti a non perdere questa occasione, a partire proprio dalle assemblee, dalle discussioni e dalle eclatanti contraddizioni che si svilupperanno sui posti di lavoro. Non abbiamo bisogno di inventarci spazi, ma di riconquistare quelli che ci sono e conosciamo già.
In fin dei conti, se già gli “esperti”, i media e l’economia ci dicono che “fa brutto”, anche noi avremo prima o poi il diritto di sbroccare, no?14

N.B.
Questo lungo articolo, la cui responsabilità per i contenuti e gli eventuali errori ricade interamente sull’autore, non sarebbe stato possibile senza i consigli, le critiche e le considerazioni espresse da Luca B., Giovanni I., Maurizio P., Gioacchino T. e Cosetta F.


  1. F.M.Snowden, Epidemics and Society. From the Black Death to the Present, New Haven- London 2019, Yale University Press, p.7  

  2. Convenzione in tema di anticipazione sociale in favore dei lavoratori destinatari dei trattamenti di integrazione al reddito di cui agli Artt. da 19 a 22 del DL N. 18/2020  

  3. Dati Istat riferiti al 2016  

  4. Resta qui da ricordare sempre il vademecum prodiano per la “proficua collaborazione “ tra Stato e mercato: Romano Prodi, Il capitalismo ben temperato, il Mulino 1995  

  5. R. Galullo e A. Mincuzzi, Residenze per anziani, affare da 1,4 miliardi in Lombardia. L’84% delle Rsa è privato,il Sole 24ore, 8 aprile 2020  

  6. Adriano Lovera, Residenze per anziani, mercato in crescita costante, il Sole 24ore, 14 ottobre 2019  

  7. In Italia, Spagna, Francia, Belgio e Irlanda la metà dei decessi da Covid-19 è avvenuta nelle residenze pr anziani (qui)  

  8. A. Greco, Intervista a Carlo Messina, la Repubblica, 7 aprile 2020  

  9. Facendo sì che il lockdown promesso e strombazzato non sia mai neppure lontanamente esistito per la maggioranza dei lavoratori, come si può osservare anche solo dai dati dell’ISTAT (qui); fatto evidente che soltanto da qualche giorno il Viminale e alcuni quotidiani fingono invece di scoprire 

  10. Raul Caruso, Dopo la pandemia si rischia una crisi degli assetti globali, Avvenire 14 aprile 2020  

  11. Anche quando per bocca di Papa Francesco avanza la richiesta di un salario universale per i lavoratori più poveri (qui)  

  12. Come spiega molto bene l’intervista ad un’infermiera contenuta qui  

  13. Carlo Andrea Finotto, Virus e rischio baratro. Perché all’Italia servirebbe un nuovo de Gaulle, il sole 24ore, 18 aprile 2020  

  14. Sia ‘far brutto’ che ‘sbroccare’ sono due possibili traduzioni in italiano dell’americano ‘breaking bad’  

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Sull’epidemia delle emergenze /fase 3: poi fu la volta delle fabbriche e della classe operaia… https://www.carmillaonline.com/2020/03/14/sullepidemia-delle-emergenze-fase-3-poi-fu-la-volta-della-fabbrica-e-della-classe-operaia/ Sat, 14 Mar 2020 22:00:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=58620 di Sandro Moiso, Jack Orlando e Maurice Chevalier

«Vediamo tutti quegli attori e cantanti che in tv o sui social, belli come il sole, invitano sorridendo la gente a restare a casa. Ma un operaio come fa? […] noi ci sentiamo in trappola e ci chiediamo: perché io sono qui?» (un operaio brianzolo a «Repubblica»)

Già perché siamo qui? In fabbrica, chiusi in casa, in quarantena oppure in ospedali che stanno per scoppiare ? E’ quello che molti iniziano a chiedersi, come in un romanzo di Stephen King oppure in un’ennesima [...]]]> di Sandro Moiso, Jack Orlando e Maurice Chevalier

«Vediamo tutti quegli attori e cantanti che in tv o sui social, belli come il sole, invitano sorridendo la gente a restare a casa. Ma un operaio come fa? […] noi ci sentiamo in trappola e ci chiediamo: perché io sono qui?» (un operaio brianzolo a «Repubblica»)

Già perché siamo qui? In fabbrica, chiusi in casa, in quarantena oppure in ospedali che stanno per scoppiare ? E’ quello che molti iniziano a chiedersi, come in un romanzo di Stephen King oppure in un’ennesima serie prequel o sequel di “The Walking Dead”.

Conosciamo intanto l’unica risposta certa che il governo degli ominicchi e dei quaquaraquà sembra voler e saper fornire: poteri di polizia dati per decreto all’esercito che pattuglia le strade e ulteriori misure restrittive per tutti i cittadini, perché «dopo l’emergenza sanitaria e quella economica, il governo teme possa scoppiare anche quella della sicurezza pubblica, come successo nelle carceri. Dunque è necessario prepararsi in tempo, e cominciare a pensare a piani d’azione per le foze dell’ordine e, nel caso, per l’esercito. La rivolta delle carceri è stato solo un antipasto di quello che potrebbe accadere in caso di diffusione incontrollata dell’agente patogeno. Nelle regioni, il timore è che un’escalation dell’epidemia crei disordini. Negli ospedali, nei supermercati, nelle piazze. “Bisogna essere pronti ovunque e cercare di coinvolgere maggiormente i militari- spiega una voce autorevole di Palazzo Chigi- Senza allarmare la popolazione, ma senza farsi trovare impreparati per l’ennesima volta”». Come si afferma in un articolo di Emiliano Fittipaldi e Giovanni Tizian, In che Stato siamo, sull’Espresso n° 12 del 15 marzo 2020.

Per quanto ci riguarda lo avevamo già annunciato dieci giorni or sono e confermato mercoledì scorso: tolte le minime e necessarie prebende, repressione e militarizzazione sarebbero state le uniche dimostrazioni di forza che un governo spaventato dalle proprie responsabilità, dalle possibili conseguenze elettorali e in apparente perenne crisi di identità avrebbe dato. Prima alle rivolte nelle carceri italiane ed ora alle proteste spontanee dei lavoratori, soprattutto delle fabbriche metalmeccaniche, del Nord e del Sud. Inevitabili tutte, sia le proteste e le rivolte che le risposte date. E vedremo subito perché.

Poco è bastato perché le odiose caratteristiche di classe della nostra società, che in altri momenti potevano essere più o meno nascoste dietro i paraventi formali della democrazia rappresentativa e televisiva, del cicalare mediatico e inconcludente per natura, oppure del rito del consumo di merci inutili elevato a unica ragione di vita e metodicamente eseguito ogni fine settimana in quegli autentici lager della psiche che continuiamo a chiamare centri commerciali, venissero alla luce tutte insieme. Nella maniera più chiara e lampante possibile.

Lo Stato e gli imprenditori, individualmente o attraverso le loro associazioni, hanno gettato la maschera. Senza pensarci due volte. Ce lo hanno detto in faccia, ciò che Marx ed Engels affermavano già quasi duecento anni or sono nel Manifesto del Partito Comunista: «il potere statale moderno non è che un comitato che amministra gli affari comuni di tutta la classe borghese» (21 febbraio 1848). E’ il difensore e il promotore di quegli interessi. In pace come in guerra oppure durante un’epidemia. E in alcuni di questi frangenti non può più nasconderlo.

Gli operai, invece, pur digiuni di teoria, negli stessi momenti, vedono adesso sulla propria pelle che la favoletta della comunanza degli interessi nazionali o del “bene comune” non è altro che tale. Lo comprendono sulla loro pelle e su quella dei loro famigliari e, anche se è vero che in taluni frangenti possono essere stati sviati dal loro interesse primario da vaghe promesse inerenti il lavoro, i mutui e il benessere condiviso, non possono far altro che reagire. Viene ora alla luce la totale alterità dei loro interessi rispetto a quelli dei datori di lavoro e del capitale nel suo insieme.

Si chiama classe contro classe, lotta di classe oppure guerra di classe. Non occorre dichiararla, esiste nei fatti. Quotidianamente, anche se sono i momenti apicali della catastrofe sociale a rivelarne l’esistenza, senza possibilità di compromesso. Una guerra senza quartiere che viene combattuta subdolamente per anni dalla classe al potere e dai suoi meschini rappresentanti politici in una situazione di normalità, ma che rivela tutta la sua urgenza e ferocia, con la discesa in campo di tutti gli apparati repressivi e militari necessari, nel momento in cui gli attori inconsci (gli oppressi e i lavoratori), pungolati all’estremo da paura e frustrazione, diventano coscienti del gioco e del ruolo reale di carne da macello che sono costretti a svolgere dai fatti concreti e drammatici che li coinvolgono, senza più alcun paravento istituzionale o retorico.

E’ esattamente quello che è avvenuto e sta avvenendo in questi giorni.
Il governo ha fatto finta di chiudere tutto, ma di fronte alle richieste delle singole categorie ha ceduto, su quasi tutta la linea. Se questo avesse significato soltanto che rimanevano misteriosamente aperte attività come quelle delle profumerie, dei ferramenta, delle lavanderie o altro, ciò avrebbe significato ben poco. Al massimo l’impossibilità del governo di mostrare lo stesso pugno di ferro che ha così generosamente distribuito tra i carcerati in rivolta.

Il problema vero, scusate l’artificio retorico poiché già tutti come lettori lo avete pensato e compreso, è stato causato dal fatto che di fronte alle proteste, agli scioperi spontanei e anche all’assenteismo (fino al 40%) che si sono manifestati nelle fabbriche di fronte all’obbligo del continuare la produzione, anche in assenza parziale o totale di qualsiasi provvedimento che tutelasse la salute dei lavoratori, Conte e il suo governo hanno appoggiato in toto le richieste di Confindustria. Aggiungendo il danno a ciò che già di per sé era ridicolo.

Dalla Lombardia a tutta la regione padana, giù fino all’Ilva di Taranto i lavoratori hanno compreso automaticamente che lo scambio lavoro/salario contro salute non era più accettabile. Così come non può più essere accettabile un’etica lavorista che mette la produttività e la coscienza del proprio ruolo produttivo avanti a qualsiasi altra esigenza. Quell’etica del lavoro di stampo calvinista (con cui stanno facendo,ad esempio, i conti i lavoratori transfrontalieri italiani impiegati in Svizzera) che denuncia come una sorta di peccato ogni forma di assenza dal lavoro stesso.

Insieme agli scioperi, diffusi e numerosi su tutto il territorio nazionale, a saltare agli occhi sono i numeri delle assenze dalle fabbriche. Per malattia o altro. Rivelando così che la fuga, la diserzione, l’assenteismo sono la prima manifestazione della rivolta individuale contro l’oppressione e la condanna contenute implicitamente nelle costrizioni per i soldati in guerra e per gli operai obbligati a lavorare durante un’epidemia che può avere conseguenze mortali o comunque molto gravi per interi nuclei famigliari. Sono, al contrario di quanto il lavorismo spesso denuncia e pur nel loro piccolo, gesti audaci, micro-resistenze, autentici prodromi del rifiuto collettivo e meglio organizzato che verrà.

Ma procediamo con ordine vediamo di ripercorrere insieme le ultime giornate e le loro conseguenze.
La diffusione del virus covid19 nei luoghi di lavoro, dalle piccole imprese alle medie e grandi fabbriche sino ai cantieri edili, riflette il clima del paese e procede, tra la propaganda di guerra dei media che da un lato porta ad appiattirsi sull’unità e la fedeltà allo Stato, e un negazionismo che sottovaluta la portata del virus (caratterizzato da ‘tanto non capita a me’ o ‘è come una semplice influenza’).

Questa situazione, nei luoghi di produzione e lavoro, investe una classe operaia e un mondo della produzione segnato da anni di sconfitte, di diminuzione salariale e soprattutto dal ricatto del mantenimento del ‘posto’, della paura di trovarsi disoccupati o con un reddito di molto ridotto.
Il sindacato confederale (la triplice) cerca come sempre un punto di incontro con Confindustria e governo basato sul fornire i DPI e garantire le misure di sicurezza nei luoghi di lavoro.
Col passare dei giorni e l’aggravarsi della situazione, inizia a girar voce di colleghi colpiti dalla malattia (dati che molte aziende nascondono), la prima risposta generale si manifesta con un aumento delle ore di mutua che nei giorni che precedono gli scioperi, su dichiarazione di confindustria e dei sindacati confederali, viene stimata al livello di un 30-40% di “assenteismo”.

I giorni che precedono la giornata degli scioperi del giovedì 12 marzo, tranne qualche lodevole iniziativa come quella dei S.I. Cobas dell’11 marzo a Pomigliano alla FCA Auto, vedono prevalere nelle aziende un clima di confusione, paura, rabbia e di attesa. Ci si aspetta molto dall’imminente decreto che viene emanato nella notte dell’11 marzo e annunciato alla nazione dal discorso di Conte. Tutti pensano che verranno chiusi tutti i posti di lavoro tranne quelli riguardanti i servizi essenziali. Le misure del decreto, in realtà, prevedono la chiusura di negozi ecc. ma escludono completamente la chiusura dei luoghi di produzione, affidando alle singole imprese la scelta o meno del fermo e richiamando ad un generico rispetto delle norme di sicurezza.
Appare chiaro che, dopo giorni di scontri interni a Confindustria e nella CGIL tra FIOM e CGIL, vince ancora una volta la logica che antepone il profitto alla salute.

Il discorso di Conte si rivela quindi, in un bagno di realismo capitalista, un vero e proprio schiaffo alla classe operaia dei settori produttivi. Come al tempo delle guerre mondiali del secolo scorso, ancora una volta i proletari sono carne da macello.
Il provvedimento, nei fatti privilegia la continuità della produzione senza imporre alle aziende il rispetto preciso delle norme di sicurezza in una sorta di autoregolamentazione e di conseguenza non si capisce come norme rigide vengano applicate sui territori per quanto riguarda il commercio e la mobilità delle persone mentre ciò non vale per le imprese.
La mattina del 12 marzo, senza dichiarazione di sciopero alcuna da parte dei sindacati confederali, inizia con fermate all’interno delle fabbriche e uscite di massa dalle stesse, con scioperi spontanei, con picchetti e presidi sostenuti dai delegati interni -pur stando a distanza di un metro l’uno dall’altro- che coinvolgono l’intero paese, in particolare Liguria, Piemonte, Lombardia ed Emilia Romagna.

A Genova si attiva lo sciopero dei portuali, a Mantova la Cornegliani si ferma, mentre i S.I. Cobas proclamano lo sciopero provinciale a Modena, scioperi anche alla Valeo di Mondovì, alla Whirlpool di Caltanissetta, alla MTM, IKK, Dierre, Trivium ad Asti, Vercelli e Cuneo, solo per citarne alcuni.
Sono coinvolti tutti settori dalla produzione alla logistica, finanche alcune sigle dei riders, il cui fermo del lavoro coincide con l’assenza totale di salario.
La parola d’ordine in tutti i luoghi di lavoro è chiara: chiusura totale.
Come la lotta dei detenuti dei giorni prima assumeva indulto e amnistia quali parole d’ordine, quella della classe operaia è chiusura assoluta.
Sia in un caso che nell’altro il sindacalismo e le associazioni riformiste del carcere cercano di spostare la questione sulle condizioni di salute necessarie per rimanere al ‘gabbio’ della galera e della fabbrica.

Pur all’interno delle contraddizioni del fronte confederale con la Fiom che dà copertura agli scioperi e chiede la chiusura, ma poi nelle parole della segreteria generale dichiara “nelle aziende ‘a norma’ lavoreremo, in quelle che continueranno a fare resistenza proseguiremo a fare gli scioperi e a non lavorare” dividendo così il fronte operaio, assistiamo ancora una volta all’ergersi della parola ‘lavoro’ al di sopra di tutto. Questo si nota bene anche in in un volantone, distribuito ai lavoratori dalla FILLEA CGIL (edili), che ricorda: “ … che il lavoratore non può assentarsi immotivatamente dal lavoro, non presentarsi sul luogo del lavoro in mancanza di provvedimenti dell’Autorità Pubblica per la mera preoccupazione di contrarre il virus e senz’altra motivazione rappresenta una fattispecie di assenza ingiustificata sanzionabile disciplinarmente…” una vera e propria intimidazione mascherata da informazione.

La giornata dello sciopero coincide peraltro col non poter più nascondere da parte delle aziende i moltissimi casi di contagio, come è successo al cantiere del tunnel del Frejus che ha cercato per alcuni giorni di tacere la presenza di due possibili contagiati con lo scopo di non perdere un appalto. Il cantiere è stato poi chiuso dopo la ‘scoperta’ di una verità nota a tutti e cioè che ivi non si poteva lavorare in sicurezza (distanze ecc.).
La situazione del contagio sui posti di lavoro diventa un bollettino di guerra: dalla Pirelli di Settimo Torinese, dove l’operaio ricoverato non è certamente un anziano eppure si trova in terapia intensiva, all’operaio della SITAF in terapia intensiva, alla LEAR di Grugliasco, all’Amazon di Torrazza Piemonte, alla Piaggio, alla FIAT di Rivalta, ecc.
I sindacati confederali, invece di lanciare l’unica parola d’ordine possibile – sciopero generale fino alla chiusura degli stabilimenti e cantieri-, aprono tavoli formali e informali tesi a fermare la conflittualità operaia e a trovare mediazioni tutte interne a confindustria, governo e burocrazie sindacali. Nella realtà è un balletto di aziende che chiudono per pochi giorni in modo autonomo con la scusa di sanificare gli ambienti.

Il risultato dei vari tavoli sarà a tutti evidente dopo l’incontro in video conferenza del 13 marzo tra governo e parti sociali che raggiungerà l’obiettivo centrale di prendere tempo e tenere tutti al lavoro con un decreto che continua ad essere rinviato e con proposte come la distribuzione di guanti e mascherine a tutti, ammesso e non concesso che venga poi realmente attuata. Si capisce benissimo, per chi conosce i luoghi della produzione, come dalle mense agli spogliatoi, alle macchinette del caffè, al posizionamento dei macchinari si sia tutti schiacciati, ed è praticamente impossibile mantenere il metro di distanza di sicurezza.
Come è evidente, se la ‘soluzione’ fossero le mascherine e i guanti non si capisce come mai siano stati chiusi piccoli esercizi di paese in cui è fattibilissimo entrare una persona alla volta e non le fabbriche.

Lo capiscono gli operai delle maggiori aziende di Torino, dove i fermi produttivi nelle aziende metalmeccaniche (Meccanica di Mirafiori, Mopar, Denso, Teksid, MAU, Maserati, Thales Alenia Space, Carrozzeria di Mirafiori soltanto per citarne alcune) arrivano a coinvolgere dodicimila lavoratori in un giorno. Crescono le preoccupazioni per il numero dei contagiati nelle fabbriche e aumenta il numero di coloro che incrociano le braccia, in una spirale che sembra, soprattutto sul fronte della lotta, inarrestabile.

Nella mattina del 14 marzo la beffa è compiuta, sindacati confederali e governo firmano un protocollo che conferma come il tema si affronterà azienda per azienda e la chiusura sarà contemplata solo per adeguare i luoghi alle norme di sicurezza sanitaria. Invece che unire e generalizzare la lotta dei lavoratori, le confederazioni sindacali li isolano impresa per impresa e delegano la difesa della salute ai rappresentanti della sicurezza (RLS). Mentre nel decreto è prevista l’ulteriore beffa dei 100 euro in busta paga per chi è costretto a lavorare1.
Si dovrà attendere lunedì, alla riapertura dei posti di lavoro, per vedere quale sarà la risposta concreta dei lavoratori, se vi sarà un aumento di quello che i padroni e burocrazie sindacali chiamano ‘assenteismo’, se si ripartirà con scioperi e fermate o se il trucchetto del ‘garantire la salute pur lavorando’ col ricatto del posto di lavoro, prevarrà su paura, rabbia e ribellione che possono rimettere in discussione la passività conflittuale di questi ultimi decenni.

Siamo di parte, è vero e lo dichiariamo apertamente poiché il compito di chi vuole mettere in discussione il capitalismo è evidente: soffiare sul fuoco.
E proprio per questo motivo ci teniamo a sottolineare ancora alcune cose. Ad esempio le motivazioni addotte per tener aperti gli stabilimenti. Come quelle del presidente di Confindustria Lombardia, Marco Bonometti: «Di fronte alla crescente emergenza del Coronavirus è indispensabile la necessità di tenere aperte le aziende. Le imprese lombarde, fortemente orientate a continuare a garantire la continuità aziendale, si impegnano a rafforzare le proprie misure di prevenzione e contenimento dell’epidemia in linea con le indicazioni dell’ISS»2. Peccato che siano proprio i due poli industriali della regione, Brescia e Bergamo, a veder crescere in maniera esponenziale il numero dei contagiati. Di cui sarebbe ora di fornire i dati non per fasce di età, ma per categorie lavorative e sociali (lavoratori dipendenti, pensionati, disoccupati, casalinghe, lavoratori autonomi, studenti, etc.) per poter avere un quadro più preciso della situazione reale, fuori e dentro i luoghi di lavoro. Le stesse zone in cui, mentre scriviamo, la produzione manifatturiera si ferma con una adesione che raggiunge i picchi del 100% di adesione agli scioperi e si si fa più veemente la protesta degli infermieri, lasciati sempre più spesso senza tamponi e senza protezioni a fare turni massacranti esposti al contagio3 proprio e degli altri e dove oggi ha perso la vita un altro operatore sanitario per il virus.

Altri rappresentanti di singole aziende si sono espressi invece così: «No a chiusure temporanee di natura volontaria e facoltativa. Andrebbero a generare scompensi e disparità. Le nostre aziende stanno già subendo contraccolpi economici e continuando così a singhiozzo ne andremmo a subire non di meno»4. La ferrea logica dell’interesse individuale, travestito dal solito o tutti o nessuno (destinato a sfociare quasi sempre nel nessuno). Accompagnate, queste ultime riflessioni, da ciò che sta davvero al centro degli interessi degli imprenditori e che non riguarda la salute collettiva, ma l’export, come afferma in un’intervista il presidente di Apindustria, Douglas Sivieri: «I dati ci confermano una tendenza negativa che già avevamo osservato nel 2019 (3,7% in meno rispetto al 2018). Saranno però dati che rimpiangeremo e credo che chiunque, in questi momenti, metterebbe la firma per avere i numeri del 2019 a fine 2020»5.
Cogito ergo sum: meglio l’aumento percentuale dei contagiati e dei morti, piuttosto che un’ulteriore diminuzione percentuale dell’export. Difficile però convincere i lavoratori con questi discorsi.

Ecco allora la chiamata nazionale alle armi, proprio come un tempo. Si moltiplicano gli inviti a cantare dai balconi l’Inno di Mameli e Bella ciao oppure a recitare preghiere sul tetto del duomo di Milano, così come ha fatto nei giorni scorsi l’arcivescovo di Milano, per una bela Madunina che, a quanto pare, può andar bene sia per invocazioni di carattere medievale che per i cori nazionalpopolari.
Poi è arrivato l’ineguagliabile Tito Boeri, con la sua perorazione per Quei lavoratori al fronte6, in cui ancora una volta chiede l’abolizione di quota 100 (la sua bestia nera), l’abbassamento dei salari dei dipendenti delle compagnie aeree (come se queste non stessero già chiudendo per conto loro, per le cattive amministrazioni che si sono succedute negli anni e certo non soltanto a causa degli stipendi dei dipendenti) e altre amenità retoriche del genere, inserite in un clima di guerra che ci deve abituare a quel che verrà: il grande sacrificio comune.

Adesso, dopo l’esplosione delle carceri, con l’avanzare dell’insubordinazione nei luoghi di lavoro, la richiesta sempre più pressante di ulteriori misure poliziesche da parte di quei settori di Stato più reazionari, l’insofferenza che pare aumentare assieme alle multe per violazione della quarantena, non resta che vedere dove e quando tutta questa conflittualità, per ora latente e compressa, troverà il suo canale di sfogo saldando micro-resistenze individuali, rifiuto collettivo, e intolleranza a questa condizione perenne di miseria, in un unico grande fuoco.

A più di cento anni di distanza la vera questione è ancora quella posta da Rosa Luxemburg: socializzazione o barbarie.
Noi siamo ancora per la prima, contro questa barbarie travestita da progresso e sviluppo.
Ma questa volta non saremo più noi a pagare.


  1. Annalisa Cuzzocrea, Cento euro per chi resta al lavoro, la Repubblica 15 marzo 2020  

  2. Massimo Lanzini, Chiudere o no? Cresce l’elenco delle fabbriche che si fermano, Giornale di Brescia, giovedì12 marzo 2020  

  3. Infermieri, monta la protesta: «Non siamo carne da macello» – la Repubblica, 14 marzo 2020  

  4. M. Lanzini, cit.  

  5. Giornale di Brescia, giovedì 12 marzo 2019  

  6. la Repubblica, sabato 14 marzo 2020  

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