Indesit – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 02 Sep 2025 21:55:15 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Disastro colposo https://www.carmillaonline.com/2014/11/12/disastro-colposo/ Tue, 11 Nov 2014 23:01:03 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=18631 di Sandro Moiso

debito 1Paolo Ferrero, La truffa del debito pubblico, DeriveApprodi 2014, pp.156, € 12,00

E’ un libro concreto quello di Paolo Ferrero. Un libro di fatti, dati, cifre. Almeno per l’80% del suo contenuto. Un testo dove, sinteticamente ed efficacemente, si ripercorrono le tappe del disastro del debito pubblico italiano dai primi anni ottanta ad oggi. Un testo in cui il punto fermo è dato dalla manovra di trasferimento di una quota importante di ricchezza sociale prodotta dai servizi sociali, e quindi dalle tasche dei lavoratori e della maggioranza dei cittadini, alle banche ed alla finanza. Italiana e straniera.

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di Sandro Moiso

debito 1Paolo Ferrero, La truffa del debito pubblico, DeriveApprodi 2014, pp.156, € 12,00

E’ un libro concreto quello di Paolo Ferrero. Un libro di fatti, dati, cifre. Almeno per l’80% del suo contenuto.
Un testo dove, sinteticamente ed efficacemente, si ripercorrono le tappe del disastro del debito pubblico italiano dai primi anni ottanta ad oggi.
Un testo in cui il punto fermo è dato dalla manovra di trasferimento di una quota importante di ricchezza sociale prodotta dai servizi sociali, e quindi dalle tasche dei lavoratori e della maggioranza dei cittadini, alle banche ed alla finanza. Italiana e straniera.

Un percorso segnato da una serie di rapine e truffe ai danni dei lavoratori che sono sempre state segnate dalla scusa della necessità e che hanno abituato, nell’arco di trent’anni, le vecchie e le nuove generazioni a ragionare in termini di debito, spread, necessità. In termini di colpa e di spreco.
Favorendo l’abbandono di qualsiasi capacità critica generale al modo di produzione capitalistico, di qualsiasi visione olistica della società moderna. Dove il particulare di Guicciardini trionfa ancora sul generale di Machiavelli. O, se preferite, di Marx.

Un percorso che inizia nel 1981 con il divorzio tra Banca d’Italia e Ministero del Tesoro, voluto dall’allora Ministro del Tesoro Beniamino Andreatta e controfirmato dall’allora Governatore dell’Istituto Carlo Azeglio Ciampi. Manovra che liberava l’Istituto dal precedente obbligo di acquistare i titoli del tesoro, emessi con un tasso di interesse stabilito dallo Stato ed inferiore al tasso di inflazione, rimasti eventualmente invenduti e lasciava quindi i titoli “liberi” di fluttuare nel mercato finanziario. Liberi perciò di vedere crescere il tasso di interesse pagato dallo stato sugli stessi per favorire gli appetiti della speculazione finanziaria.

Questa è, forse, la prima chiave di lettura per comprendere la travolgente crescita del debito pubblico italiano che, pur vedendo sempre in attivo il bilancio tra PIL e spesa ordinaria per i servizi forniti dallo Stato, ha visto questo crescere dal 58,9% nel suo rapporto col PIL nel 1982 al 110,2% del 1994 e poi ancora al 133,8% previsto per il 2014-2015 (forse fin troppo ottimisticamente avendo già raggiunto il 132,7% nel 2013).

Dal 1981 dunque lo Stato italiano si “costringe” ad andare dagli usurai per finanziare il proprio debito che, detto soltanto di passaggio, avrebbe successivamente mediamente rappresentato un costo molto inferiore ed una percentuale molto inferiore del PIl se non fosse stato costantemente e mostruosamente accresciuto dall’aumento degli interessi pagati sui titoli.

Su una scala temporale più ampia, riportata con una tabella a pagina 17 del testo, si può anche notare come il rapporto tra debito pubblico e PIL italiano passi dal 38% circa del 1960 al 120% del 1992. Con un passaggio al 60% circa alla fine degli anni settanta (dovuto evidentemente alle conquiste sociali ottenute dal ciclo di lotta degli anni sessanta e settanta) per poi raddoppiare a partire proprio dal 1981 a seguito della “libera” fluttuazione dei titoli sul mercato dei capitali.

Anche se tra il 1994 e il 2008 il debito è tornato a decrescere fino al 100%, dal 2008, anno della crisi, è tornato a crescere fino ai dati attuali nonostante l’opera costante di tagli della spesa (scuola, sanità, pensioni) messa in atto almeno fin dalla riforma Dini del 1995. E proprio su questo ritorno della crescita del debito si è giunti in Parlamento, nel 2011, all’approvazione dell’inserimento del pareggio di bilancio in Costituzione con il parere favorevole di tutti, ripeto tutti, i partiti dell’arco costituzionale con 464 parlamentari favorevoli e 11 astenuti su 475 (nessun contrario naturalmente).

Ma tornando alla prima chiave di lettura, si può vedere, come afferma lo stesso Ferrero, che: “il debito pubblico ha cominciato a crescere su se stesso, a gonfiarsi per il solo fatto di pagare tassi di interesse da usura” (pag. 22). Proprio perché, non determinandone più il prezzo, lo Stato si obbligava a pagare un interesse alto determinato dall’avidità dei calcoli dei partecipanti all’asta. Così quell’aumento dello spread, quel differenziale di interesse tra i titoli italiani e tedeschi con cui si aprono e chiudono tutti i notiziari televisivi, che ha abituato i cittadini e i lavoratori a vedere nelle spese a loro favore una colpa, una sorta di vero e proprio peccato originale è, in realtà, frutto di una strategia ben pianificata di rapina ai danni degli stessi e di progressivo abbassamento del costo del lavoro (anche differito).

Truffa che, come dice ancora Ferrero: “cominciata con la lira, è continuata con l’euro e la Bce” (pag. 33). Ma che non ha costituito l’unico fattore di impoverimento dei lavoratori a vantaggio del capitale finanziario e degli imprenditori. Infatti il 10 luglio 1992 il governo Amato diede vita ad una manovra correttiva da 30.000 miliardi di vecchie lire (poco meno di 15 miliardi di euro attuali). In un clima tesissimo, in cui alla fortissima speculazione finanziaria in atto si era aggiunto, il 19 luglio, l’attentato di via D’Amelio a Palermo (per caso vi ricorda qualcosa?), il governo abolì la scala mobile, che fino a quel punto aveva garantito ai lavoratori l’adeguamento automatico dei salari al costo della vita. Con un’intesa firmata con i tre sindacati confederali, Cgil , Cisl e Uil La sera del 31 luglio.

Non bastava: “il 13 settembre Amato svalutò la lira del 20-25%. Non essendoci più la scala mobile la svalutazione si scaricò interamente sugli stipendi dei lavoratori, riducendo progressivamente il potere d’acquisto dei salari. Nell’autunno poi […] Amato inaugurò la serie delle finanziarie (così si chiamava allora la legge di stabilità) «lacrime e sangue». Venne così varata la manovra da 93.000 miliardi di lire, pari al 5,8% del PIL, la più importante correzione dei conti mai realizzata fino ad allora (43.500 miliardi di tagli, 42.500 di nuove entrate , 7000 di dismissioni) […] Il costo della svalutazione venne quindi pagato dai lavoratori in termini di riduzione del salario reale, mentre i vantaggi dati dalla svalutazione alle esportazioni finirono totalmente in tasca ai padroni, che aumentarono significativamente i margini di profitto” (pag.39)

Non a caso Ferrero, come il sottoscritto, non è affatto convinto che l’uscita dall’euro, così come indicato da 5 Stelle, Lega e anche qualche area dell’antagonismo sociale, potrebbe contribuire a risollevare le condizioni dei lavoratori e dei cittadini italiani. Anzi, proprio questa proposta dimostra come ormai anche l’opposizione sia di fatto “programmata” ovvero coerente con la mentalità imperante basata sull’accettazione dello spread e della riduzione della spesa sociale come punto di non ritorno (in cui voci come capitale, saggio di profitto, lotta di classe, crisi capitalistica, plusvalore e sfruttamento sono ormai messe all’indice). Infatti chi oggi si sforza di dimostrare che per gli Italiani l’Euro è una moneta straniera, dovrebbe avere l’onestà di ricordare, come fa lo stesso Ferrero, che a partire dal 1981 “già la lira era una moneta straniera” per i lavoratori.

Ma la marcia non si arresta qui.
Nell’anno successivo, il 1993, il 23 luglio, il sindacato firmò l’accordo sulla concertazione che inchiodava le richieste salariali all’inflazione programmata, che era sempre più bassa di quella reale. In questo si stabilì che l’abbassamento salariale ottenuto nel 1992 non sarebbe più stato recuperato e sarebbe proseguito negli anni. Nel ’94, infine, il ministro del primo governo Berlusconi, Lamberto Dini formulò una controriforma delle pensioni che scatenò un’ondata di contestazioni e contribuì alla caduta del governo. L’anno successivo però, con il pieno appoggio dell’allora Partito Democratico, Dini divenne premier e scodellò la sua zuppa: introdusse il sistema contributivo nel calcolo delle pensioni e pose le condizioni per costruire un sistema basato su pensioni da fame per tutti coloro che nel 1995 avevano meno di 18 anni di contributi pensionistici” (pag. 41). Agganciandolo, lo ricordo qui per gli effetti che potrebbe avere nei prossimi anni in un trend di PIL negativo, alla crescita del prodotto nazionale lordo per l’eventuale rivalutazione dell’importo percepito.

Tra stangata di Amato e «riforma delle pensioni» di Dini, avvenne una pesantissima riduzione della spesa sociale e quindi della spesa pubblica: il bilancio dello Stato consolidò l’avanzo primario e il deficit continuò a prodursi ogni anno, unicamente a causa degli interssi usurai pagati dallo Stato agli speculatori […] La morale della fiaba è quindi la seguente: nel 1981 il governo italiano decide di far esplodere il Debito pubblico trasferendo risorse alla speculazione nazionale e internazionale. Questo produce due effetti: uno economico e uno politico.
Quello economico è che gli alti tassi di interesse arricchiscono i ricchi, gli speculatori e le grandi aziende che, in quegli anni, guadagnavano di più dagli investimenti in Bot che dalle attività industriali propriamente dette […] Quello politico è che il gonfiarsi del debito pubblico diventa il principale strumento utilizzato dai governi per giustificare la necessità del taglio della spesa pubblica
” (pp. 41-44).

E’ chiaro che tutto ciò che è avvenuto poi dall’esplodere della crisi nel 2008 non è altro che la conseguenza, economica (riduzione dei consumi) e politica (accelerazione dei processi autoritari di controllo della spesa e delle leggi fondamentali) di ciò che fin da allora era stato impostato. Compresa la crescita illusoria di quell’italietta del popolo dei Bot che ha visto in Berlusconi la sua vera rappresentazione politica, ma che non teneva conto che la maggior parte dei profitti della speculazione sui titoli non finiva nelle tasche dei piccoli e piccolissimi risparmiatori ma in quelle delle mafie finanziarie, politiche, imprenditoriali e criminali. Non a caso furono quelli gli anni in cui ogni tanto qualche imprenditore del Nord veniva arrestato mentre cercava di abbreviare i tempi del ciclo di rotazione del capitale attraverso il finanziamento del traffico di droga.

Ferrero sottolinea bene tutto ciò e si spinge anche oltre, fino ai pericoli per le democrazie e le condizioni dei lavoratori rappresentato dalla possibile e ormai prossima firma del TTIP (Transatlantic Trade Investment Partnership), un accordo destinato alla costruzione di un mercato unico per merci, investimenti e servizi tra Europa e Nord America. Con aspetti molto simili al NAFTA (North American Free Trade Agreement) e le cui conseguenze sul piano internazionale sono ormai ben anticipate dall’attuale scontro politico, economico e militare per e sull’Ucraina.

Un libro concreto come si diceva all’inizio, lontano dalle fumisterie ideologiche nella lettura della crisi e delle sue origini ed è proprio per questo che lascia perplessi, molto, quel 20% che prima ho lasciato in disparte e che tratta delle possibili ricette per affrontarla.

Cita Seneca in apertura, e non solo, l’autore: “Non esiste vento favorevole per il marinaio che non sa dove andare”. E’ vero e dovrebbe essere un assunto fondamentale per chiunque oggi voglia ancora cimentarsi con i problemi posti dalla crisi del capitalismo, dalla lotta di classe e dagli strumenti per uscire verso una società finalmente affrancata dalla schiavitù salariale.
Ma qui entra anche in gioco il fatto che Paolo Ferrero si trovi ad essere l’attuale segretario di Rifondazione Comunista e che, pertanto, non sappia rinunciare agli schemi parlamentari e riformistici in cui si è formato ed è cresciuto.

Tornare a suggerire la possibilità di cambiare i trattati europei o la ripresa di una spesa statale di tipo keynesiano dimentica, infatti, due fattori di non poco conto.
Il primo, e meno importante, è che la spesa keynesiana ha continuato ad esserci, solo che si è indirizzata verso una specie di keynesismo alla rovescia indirizzato alle attività bancarie, come ben dimostra Vincenzo Ruggiero in un suo recente testo,1 poiché compito del keynesismo non è mai stato quello di migliorare le condizioni dei lavoratori ma solamente quello di mantenere in vita il capitale nei momenti di sua maggiore difficoltà.

Il secondo fattore è di ordine storico e politico e dimostra, come il pensiero rivoluzionario ha sempre sostenuto, la fallacità delle ipotesi riformistiche e sindacaliste nella conduzione della lotta di classe sul lungo periodo. Basta guardare alle date riportate fedelmente da Ferrero: l’offensiva sferrata dal capitale contro il lavoro, sotto forma di politiche neo-liberiste (reganiane, tatceriane o semplicemente italiane che si vogliano) inizia proprio all’apice di quel ciclo rivendicativo di lotte che avevano caratterizzato gli anni sessanta e settanta. Ma anche nel momento in cui gli effetti della caduta tendenziale del saggio di profitto, della crisi petrolifera e del ciclo vittorioso delle lotte anti-coloniali (dal Vietnam all’Africa) cominciavano a far sentire pesantemente i loro effetti sulle tasche degli imprenditori e dei finanzieri.

Se fino a qualche anno prima gli operai avevano potuto inneggiare alla lotta di classe e all’internazionalismo pur riportando a casa vittorie salariali e di garanzia di spesa in servizi da parte dello Stato che avevano la loro origine anche nei sovra-profitti realizzati nello sfruttamento del Terzo Mondo, dopo il 1975 non sarebbe più stato così.
Non si può spingere indietro l’orologio della storia, non si può tornare a quell’epoca e la cronaca di ogni giorno ce lo ricorda con dovizia di mezzi.

La grande imprenditoria italiana, come ben dimostrano i casi della FIAT o della Indesit, ha di fatto scelto di mollare gli ormeggi ovvero di non investire più in Italia (né altrove) nel settore industriale. Si è scoperta “finanziaria”, sperando così di aumentare i propri profitti attraverso i giochi spericolati sul mercato azionario e finanziario suggeriti dalla maggiori banche. Con i risultati disastrosi che possiamo ben vedere nelle cronache economiche di ogni giorno.

Un’imprenditoria che ha dimenticato anche la lezione liberale di Adam Smith che sosteneva che è soltanto il lavoro a creare la ricchezza (idea da cui Marx trasse il suo rovesciamento teorico e politico dei meccanismi dell’accumulazione e dello sfruttamento capitalistico) e che si è convinta che sia la speculazione selvaggia sui titoli a creare ciò di cui avrebbe più bisogno: plusvalore, ricchezza reale.
Poiché il film “Prendi i soldi e scappa” era già stato realizzato da Woody Allen, a partire dagli anni ottanta la “grande” borghesia italiana ha messo in scena la commedia “Disinvesti, svendi e scappa” ed è facile credere che non abbia alcuna intenzione di tornare sui propri passi, così come sembrano implorare i sindacati confederali e tutta la sinistra istituzionalista.

Il capitale occidentale ruba ai suoi cittadini per due motivi precisi: mantenere i propri profitti e ridurre i costi del lavoro a livelli cinesi, indiani, turchi o peggio. Si potrebbe dire, parafrasando lo stesso Ferrero: ”E’ la concorrenza bellezza!”. Ma la risposta non può essere costituita dal rimpianto di ciò che è stato e non sarà più. Piuttosto il movimento di classe, riprendendo la sua autonomia dovrà approfittare delle nuove condizioni venutesi a creare.

Sì, perché, alla faccia delle sparate dell’attuale presidente del consiglio e del suo ministro del lavoro, la vera contraddizione del modo di produzione capitalistico è stata, è e sarà sempre quella tra capitale e lavoro. E quella contraddizione è diventata oggi, in Europa, insanabile.
Quindi, se da un lato occorrerà ritornare all’analisi della crisi e delle ristrutturazioni sociali ed economiche come risultato della caduta tendenziale del saggio di profitto, insita come un baco divoratore nel modo di produzione capitalistico, dall’altro occorrerà aver ben chiaro che nel momento stesso in cui il capitale oltre a trovar dei limiti nelle sue stesse leggi li trova anche nei suoi confini e nei parlamenti nazionali o, ancora negli stessi partiti istituzionali, non dovrà essere il movimento antagonista o la lotta di classe a rivendicare, come alla fine sembra fare lo stesso Ferrero, un ennesimo ritorno al passato.

La sola azione parlamentare, non accompagnata dalla lotta di classe, ha dimostrato la sua inutilità per i lavoratori; le nazioni li hanno oppressi e traditi mettendoli gli uni contro gli altri e l’Europa unita non si è rivelata quella un tempo auspicata da Altiero Spinelli o dallo stesso Lev Trotskij.2 Rivendicarli ancora come strumenti potrebbe rivelarsi anti-storico, riducendo il ciclo delle lotte di classe ad una sorta di gioco dell’oca in cui i movimenti continuano andare avanti e indietro tra le stesse caselle.

Partiti riformisti e sindacati confederali (tutti!) hanno contribuito a rafforzare più che a combattere il capitalismo. Consociativismo e concertazione hanno ingabbiato i lavoratori per decenni, riportandoli alle attuali condizioni ottocentesche di lavoro e sfruttamento. Ancora una volta viene alla mente Leopardi. “Qui mira e qui ti specchia / secol superbo e sciocco, / che il calle insino allora / dal risorto pensier segnato innanti / abbandonasti, e volti addietro i passi, / del ritornar ti vanti, / e procedere il chiami”.3

Ma qui occorre che mi fermi per non trascendere i limiti della recensione, limitandomi a ribadire che il testo risulta essere, comunque, una lettura stimolante e utile per la riflessione politica attuale, anche in contraddizione con le tesi finali esposte dall’autore.


  1. Vincenzo Ruggiero, I crimini dell’economia, Feltrinelli 2013, pp. 252, euro 20,00  

  2. vedasi “Sull’opportunità della parola d’ordine Stati Uniti d’Europa” in L.D. Trockij, Europa e America, Celuc Libri, Milano 1980  

  3. Giacomo Leopardi, La ginestra o il fiore del deserto, vv. 52-58  

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La Regina del bianco. Una parabola (in tre atti) per il capitalismo italiano https://www.carmillaonline.com/2013/11/27/litalia-bianco-parabola-il-capitalismo-nostrano/ Wed, 27 Nov 2013 00:00:16 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=10997 di Sandro Moiso

discarica-abusivaE’ di questi giorni (19 novembre) la notizia della rottura delle trattative tra proprietà e sindacati sul destino di 1.400 lavoratori della Indesit, con l’apertura della procedura di mobilità, per gli stessi, da parte dell’azienda. In sé la notizia non rappresenterebbe una grossa novità, in un paese in cui chiusura di aziende, mobilità e cassa integrazione per i lavoratori e licenziamenti sono ormai all’ordine del giorno.

Ma, in questo caso, vale la pena di soffermarsi sul caso Indesit perché esso può ben rappresentare una sorta di modello per ciò che da anni, su queste pagine, si va denunciando [...]]]> di Sandro Moiso

discarica-abusivaE’ di questi giorni (19 novembre) la notizia della rottura delle trattative tra proprietà e sindacati sul destino di 1.400 lavoratori della Indesit, con l’apertura della procedura di mobilità, per gli stessi, da parte dell’azienda. In sé la notizia non rappresenterebbe una grossa novità, in un paese in cui chiusura di aziende, mobilità e cassa integrazione per i lavoratori e licenziamenti sono ormai all’ordine del giorno.

Ma, in questo caso, vale la pena di soffermarsi sul caso Indesit perché esso può ben rappresentare una sorta di modello per ciò che da anni, su queste pagine, si va denunciando ovvero la mentalità da autentico capitalismo da rapina (mordi fin che puoi e, poi, fuggi) che contraddistingue la classe dirigente italiana con la sua scarsa propensione agli investimenti produttivi, la sua attitudine alla fuga dalle responsabilità gestionali e dalle alleanze industriali e, per finire in bellezza, la sua assoluta mancanza di attenzione, per dirla ancora con un eufemismo, per il territorio e i cittadini che vi risiedono.

Atto I
L’Indesit, la Regina del bianco, la principale azienda produttrice di elettrodomestici in Italia, ha una storia piuttosto lunga. Fondata nel 1930 nelle Marche, a Fabriano, come Industrie Merloni, da Aristide Merloni, l’azienda si dedica inizialmente alla produzione di bilance, per arrivare agli inizi degli anni ‘50 ad avere una quota di mercato del 40% nel comparto. Pochi anni dopo è avviata la produzione di bombole per il gas liquido e di scaldabagno. Progressivamente entra nella produzione di elettrodomestici, e nel 1960 crea il marchio Ariston.

E questo cosa c’entra con i temi soliti di Carmilla? Cos’è una pubblicità indiretta, forse? Mugugnerà già qualche lettore, ma, c’è sempre un ma, state attenti: il settore degli elettrodomestici è uno dei settori trainanti del boom economico degli anni sessanta, insieme a quello dell’auto. Quindi stiamo parlando del cuore del capitalismo industriale italiano degli anni sessanta, settanta e successivi.
Infatti nel 1975 la Merloni viene riorganizzata in tre aziende autonome:
• Merloni Elettrodomestici S.p.A., la divisione elettrodomestici, dal 2005 Indesit Company
• Merloni Termosanitari S.p.A., la divisione termoidraulica, poi Ariston Thermo Group
• Antonio Merloni S.p.A., la divisione meccanica

La Merloni Elettrodomestici diviene rapidamente la più grossa azienda nazionale del settore e acquisisce varie società e marchi come Indesit, Scholtés e Hotpoint. L’azienda è specializzata nella produzione e commercializzazione di lavabiancheria, asciugabiancheria, lavasciuga, lavastoviglie, frigoriferi, congelatori, forni e piani cottura , mantenendo negli anni la struttura proprietaria famigliare tipica del capitalismo italiano.

Indesit Company diventa il primo produttore in Italia e terzo produttore in Europa per quote di mercato (rispettivamente 25% e 11%), mentre la Antonio Merloni S.p.A, specializzatasi nella produzione di frigoriferi, congelatori, lavastoviglie, lavatrici e asciugatrici, per conto terzi e con il marchio Ardo, nonostante avesse assorbito nel 2000 l’azienda svedese Asko, produttrice di elettrodomestici, e leader nella distribuzione del settore in Nord Europa, nel 2008 viene travolta dalla crisi, che porta alla chiusura di due stabilimenti, e al procedimento di amministrazione straordinaria perché dichiarata insolvente avendo debiti per 543,3 milioni di euro. Così, dal 2010, si sarebbe fatta avanti per l’acquisizione dell’impresa, la China Machi Holdings Group, holding finanziaria cinese anche se, nel settembre del 2011, viene approvata la vendita dell’intero perimetro industriale all’imprenditore Giovanni Porcarelli, titolare della QS Group di Cerreto d’Esi, che avrebbe dovuto riassumere 700 dei circa 2300 dipendenti. Tra le principali attività della nuova società ci sarebbero lo stampaggio di materie plastiche e metalliche nonché la produzione di elettrodomestici di nicchia o professionali.

Atto II
Oggi però, come si diceva all’inizio, è la Indesit Company ad essere in crisi. A gestirne le possibili soluzioni è stata chiamata, guarda caso, la Goldman Sachs International e l’opinione più diffusa è che la famiglia Merloni finirà per cedere il controllo del gruppo, magari restandone azionista. E anche in questo caso si sta verificando se esistono le condizioni per chiudere l’operazione con l’entrata nel capitale di un socio cinese.

I cinesi sono riusciti infatti, negli ultimi anni, a conquistare quote importanti di mercato nel settore degli elettrodomestici bianchi, a livello internazionale, mettendo in discussione la leadership della Bosch Siemens (Germania), Electrolux (Svezia), Whirlpool (U.S.A.) e dei produttori italiani. E hanno, inoltre, una disponibilità di capitali liquidi molto elevata derivante da una crescita annuale che continua ad essere, nonostante la crisi economica internazionale, intorno alle due cifre percentuali del Pil.

Mentre, a detta degli esperti, il destino dell’industria del bianco italiana sembra essere ormai segnato: “non siamo riusciti a creare un campione nazionale per la difficoltà, tipica degli imprenditori italiani, di dare spazio ad iniziative comuni o alleanze. Alla fine prevalgono sempre logiche di campanile, la propensione a difendere ad ogni costo e contro ogni evidenza la propria autonomia, rivalità radicate nel tempo e incomprensioni reciproche che hanno impedito di fare gli accordi necessari. Ma da soli era impossibile farcela. E infatti è andata proprio così.1

In attesa dell’entrata trionfale dei cinesi nella produzione di elettrodomestici “italiani” c’è da registrare anche la ventilata chiusura di quattro stabilimenti italiani della svedese Electrolux e il loro, più che probabile, trasferimento in Polonia. “Il motivo è molto semplice: il costo del lavoro in Polonia è meno della metà di quello italiano […] E infatti l’industria polacca, ma anche quella cinese e turca, sta conquistando quote di mercato sempre più importanti, per tutti Indesit è una preda perfetta; il marchio è prestigioso, le posizioni di mercato in Europa sono importanti, il controllo di una sola famiglia non è più sufficiente a tener botta. I nuovi protagonisti, soprattutto cinesi come l’Haier group, hanno dimensioni difficili da contrastare che, tra l’altro, permettono investimenti massicci in ricerca e sviluppo2

Siamo alle solite: pochi o scarsi investimenti e “necessità” di abbassare il costo del lavoro contraddistinguono, da molto tempo ormai, il capitalismo italiano come l’accordo mancato alla Indesit, tra l’altro, prevedeva: “L’azienda marchigiana, per venire incontro alle esigenze dei suoi lavoratori aveva aumentato gli investimenti da 70 a 83 milioni, riportando a Fabriano la produzione dei forni oggi realizzata in Spagna e a Caserta quella dei frigoriferi attualmente delocalizzata in Turchia. Ma anche il sacrificio chiesto ai lavoratori non era di poca cosa, perché ai dipendenti si chiedeva di rinunciare a parte dello stipendio per attivare le misure straordinarie previste, e continuare a lavorare tutti, ma a singhiozzo. Inoltre i due stabilimenti nelle Marche e i due siti nel casertano dovevano essere accorpati per minimizzare anche i costi di logistica3

Atto III
Ma un particolare mancava ancora per completare il quadro: quello dei rifiuti tossici e dei rapporti con la criminalità organizzata. “Vittorio Merloni è stato presidente di Confindustria tra il 1980 e il 1984, anno in cui è diventato pure Cavaliere del Lavoro; oggi è membro del Consiglio per le relazioni tra Italia e Stati Uniti e siede nel cda della Telecom. – ma come “L’Espresso” e RE Inchieste hanno però rivelato, nonostante le smentite dell’azienda – la Indesit è anche l’unica grande azienda individuata «con certezza», si legge in una riga nell’ultima relazione della commissione parlamentare sui rifiuti del febbraio 2013, «come produttore dei rifiuti avvantaggiato dall’opera del cartello criminale» dei casalesi”.

Il documento trovato è devastante: la polizia criminale scrive che nel periodo 1994-1996 (gli anni d’oro del traffico illecito di monnezza, ndr) era «in essere nel settore della raccolta e smaltimento dei rifiuti prodotti, verosimilmente anche tossico-nocivi data la natura stessa della produzione di questa struttura industriale, un rapporto esclusivo tra Chianese e i “manager” della Indesit Merloni».
Al telefono con l’avvocato considerato l’inventore dell’ecomafia e proprietario della discarica Resit ci sono «Ghirarducci» ed «Esposito», «probabilmente alti dirigenti della Indesit» (mai individuati né indagati, così come non risulta indagato nessuno dei dirigenti del gruppo che oggi si chiama Indesit Company) che avrebbero sfruttato i rapporti d’affari con il broker del gruppo criminale per far scomparire a poco prezzo gli scarti delle fabbriche dei Merloni.[…] Nella vicenda tragica della Terra dei Fuochi c’è sempre stato un convitato di pietra: dopo 25 anni di sversamenti illeciti le inchieste della magistratura (“Adelphi” e “Cassiopea” su tutte) hanno individuato in parte le responsabilità dei camorristi, ma nessuna luce è stata mai accesa sulle aziende che pagavano i clan. «Sono aziende del Nord, anche di altri paesi europei», hanno ripetuti i pentiti Carmine Schiavone e Gaetano Vassallo, senza fare nomi. Spesso le intercettazioni hanno registrato le voci dei mediatori del Centro e del Nord Italia, ma non sono mai state effettuate indagini esaustive sui clienti “finali” dei broker: gli industriali del Nord non incontravano mai gli emissari del casalesi. E, di fatto, l’hanno fatta franca.[…] La Criminalpol aveva sospetti pesanti, ma tutta l’attività di indagine è finita in una bolla di sapone. I dirigenti intercettati dell’Indesit non sono mai stati indagati, e neppure interrogati. E se le ipotesi investigative d’allora avessero avuto una rilevanza penale, oggi rischierebbero di essere prescritti. Roberto Mancini, l’ispettore che seguì le indagini, ora lotta contro il cancro: «Non è stato facile portare avanti l’indagine, ho avuto mille ostacoli» ricorda. Peccato: perché il sistema criminale messo in piedi dai Casalesi che ha avvelenato falde e terreni e avvantaggiato molte aziende del Nord si sarebbe forse potuto scoprire vent’anni fa. In troppi hanno ostacolato la ricerca della verità
.”4.

La quadratura del cerchio di classe si conclude qui. La vicenda Merloni/Indesit deve insegnare, ancora una volta, che questo capitalismo e questa classe dirigente non hanno più né autorità né, tanto meno, alcuna dignità o merito. Hanno svenduto il lavoro e la salute dei cittadini così come gli asset proprietari delle loro miserabili aziende.
uraganousa Oggi in Italia la lotta di classe deve unire lavoro e ambiente, come già sta facendo, e dovrà quindi sempre più svilupparsi sul territorio, unendo tra di loro realtà diverse, apparentemente, per esigenze e origini, ma unite dal comune denominatore della difesa dei bisogni primari. Inoltre pone all’ordine del giorno parole d’ordine che non prevedano la semplice richiesta o difesa di posti di lavoro, perché ciò può essere accontentato ormai solo attraverso la realizzazione di condizioni di lavoro e di salario sempre peggiori. Oggi si pone già la necessità del ribaltamento sociale in nome della specie e dell’ambiente in cui vive e con cui convive. Tutto il resto appartiene ormai al passato. E, come tale, è morto e sepolto.

L’ora più buia è sempre quella prima dell’alba” (David Crosby)


  1. Riccardo Monti in Fabio Tamburini, Faro cinese su Indesit. Il fronte orientale va all’attacco, Corriere della sera, inserto Economia, del 18 novembre 2013, pag. 11 

  2. F. Tamburini, art. cit. 

  3. Sara Bennewitz, Indesit apre alla mobilità, La Repubblica, 19 novembre 2013,edizione on line 

  4. Luca Ferrari, Emiliano Fittipaldi e Giovanni Tizian, Rifiuti tossici in Campania. Spunta l’Indesit dei Merloni, L’Espresso, edizione on line, 22 novembre 2013 

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