In the flesh – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 01 May 2025 23:18:21 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Nemico (e) immaginario. Da dove diavolo vengono e cosa accidenti sono tutti questi zombi? https://www.carmillaonline.com/2017/03/29/36629/ Tue, 28 Mar 2017 22:01:12 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=36629 di Gioacchino Toni

zombie-handDai ribelli haitiani al Manifesto di Marx ed Engels fino al desiderio di un apocalittico isolamento radicale

«Il morto mostra come saremo; lo zombi ci mostra come siamo, o quantomeno, a seconda se si è più o meno pessimisti, come rischiamo di diventare […] È questo il sogno ultimo del capitalismo: scongiurare l’apocalisse comunista, reintegrare i lavoratori fuoriusciti, assorbirli all’interno del sistema e non doverli neppure nutrire. L’ideale capitalista è avere lavoratori parzialmente morti» Cateno Tempio

«Il desiderio sotteso all’immaginario zombi è […] un desiderio di isolamento radicale, che ha [...]]]> di Gioacchino Toni

zombie-handDai ribelli haitiani al Manifesto di Marx ed Engels fino al desiderio di un apocalittico isolamento radicale

«Il morto mostra come saremo; lo zombi ci mostra come siamo, o quantomeno, a seconda se si è più o meno pessimisti, come rischiamo di diventare […] È questo il sogno ultimo del capitalismo: scongiurare l’apocalisse comunista, reintegrare i lavoratori fuoriusciti, assorbirli all’interno del sistema e non doverli neppure nutrire. L’ideale capitalista è avere lavoratori parzialmente morti» Cateno Tempio

«Il desiderio sotteso all’immaginario zombi è […] un desiderio di isolamento radicale, che ha come presupposto l’apocalisse» Tommaso Ariemma

«la nostra vita è rosa al suo interno dalla (propria) immagine omonima […] quell’immagine presto o tardi ci raggiungerà e […] allora noi saremo solo immagine, cioè non saremo “noi” e nemmeno “saremo”, senza per questo essere un nulla» Rocco Ronchi

Riprendiamo, ancora una volta, il volume AA.VV., Critica dei Morti Viventi (Villaggio Maori Edizioni, 2016) [libro già preso in esame nel corso della serie “Nemico (e) immaginario“] per soffermarci sui alcuni scritti che, in un modo o nell’altro, vanno alla ricerca delle radici dell’immaginario zombi (Cateno Tempio e Tommaso Ariemma) e tentano di definire cosa i living dead siano (Rocco Ronchi).

  • Dalla parte degli zombi

«Lo zombi è una figura endemica della nostra epoca e si è diffuso proprio come l’epidemia che lo vede di solito protagonista: in maniera capillare, in ogni angolo del mondo, cangiante, pervasivo, inquietante, senza lasciare via di scampo» (p. 92). L’epidemia zombi, sappiamo, fa la sua comparsa al cinema nei primi anni Trenta grazie ad Victor Halperin per poi esplodere sui grandi schermi nel 1968 con il primo film-zombi di George Romero ma, sostiene Cateno Tempio nel suo “Dalla parte degli zombi”, si potrebbe affermare che la figura dello zombi sia nata ben prima di assumere i connotati di figura horror propria dell’età contemporanea. «Pare infatti che la dialettica servo-padrone della Fenomenologia hegeliana sia compenetrata di spirito haitiano. La rivoluzione di Haiti fu quasi un corollario di ciò che avevano dimostrato i francesi nel 1789. O forse ne fu un effetto collaterale indesiderato, visto che alla fine si ritorse contro l’impero coloniale francese e a farne le spese fu in qualche modo addirittura Napoleone, che nel 1802 vi aveva mandato un contingente militare guidato dal cognato Leclerc. Gli schiavi neri s’erano ribellati e ambivano all’abolizione della schiavitù e all’indipendenza di Haiti, che finalmente, dopo proteste, manifestazioni e ribellioni a partire sin dal 1790, fu ottenuta nel 1804» (p. 93).

La studiosa americana Susan Buck-Morss (Hegel, Haiti and Universal History, 2009) sostiene che Hegel conoscesse le vicende haitiane e se così stanno davvero le cose «ancor più della rivoluzione francese, il movimento dialettico che ha improntato la storia politica da Hegel in poi trae origine proprio dai fatti di Haiti, ossia dalla rivolta degli schiavi neri contro i padroni bianchi. I servi sono non solo i contadini e i proletari; i servi sono soprattutto gli schiavi veri e propri, sfruttati dalla borghesia rampante dell’Europa che si dilata “spiritualmente” fino a diventare Occidente, in una determinazione concettuale che travalica i confini geografici per comprendere luoghi collocati in ogni parte del globo. Il destino storico-mondiale – temporale – della nostra cultura è questo: l’Occidente è la distensio animi del capitalismo borghese. La dialettica servo-padrone ne è la figurazione più icastica e spietata. Nella battute finali del Manifesto del partito comunista, Marx ed Engels ricalcano la dialettica hegeliana, sostituendo al servo e al padrone rispettivamente la classe oppressa e la classe dominante. Ciò che per Hegel era, diciamo così, un fatto di coscienza individuale, per Marx ed Engels diventa un fatto di coscienza di classe. Ai singoli si sostituiscono le categorie di appartenenza. Ma il meccanismo rimane intatto. Per Hegel, il servo si sottomette per non morire. Tuttavia, non può essere più riconosciuto come “persona” perché nella rinuncia alla propria libertà – a vantaggio del salvare la pelle – non ha raggiunto la verità del riconoscimento della propria persona come autocoscienza autonoma, in quanto sottomessa al padrone. Il servo non è una “persona”: è solamente un non-morto. Il padrone, per contro, finisce con il trovare la verità della propria coscienza autonoma nella coscienza servile, perché è da essa che trae sostentamento e godimento. Così ogni coscienza passa nel suo opposto: il signore si fa non autonomo, quindi servo; quest’ultimo si convertirà nella vera autonomia. Quasi alla fine del Manifesto si assiste a un processo analogo. Alla classe oppressa devono essere assicurate le condizioni di sussistenza. Tuttavia, con il proletariato moderno si assiste al fenomeno per cui esso cade sempre più in basso e diventa sempre più povero. Per questo motivo, secondo Marx ed Engels, la borghesia non può più essere la classe dominante, perché non è in grado di garantire la vita ai propri schiavi, ai proletari. Questi ultimi hanno dovuto provvedere a “nutrire” la classe dominante dei padroni. Ma ora, gli schiavi proletari sono talmente poveri da essere sprofondati in condizioni tali che i padroni si vedono costretti a doverli nutrire anziché essere nutriti da loro. I padroni nutrono i servi. Ossia, i servi, metaforicamente, si nutrono dei padroni» (pp. 94-95).

Sarebbe dunque grazie alla ribellione haitiana degli schiavi che l’Occidente ha iniziato a considerare il servo come un “non morto” che il padrone si trova a dover nutrire. A partire dalla ribellione haitiana, attraverso Hegel, Marx ed Engels, si arriva agli zombi come “non morti” che si nutrono di altri individui. «Lo zombi, dunque, è uno schiavo di tipo particolare che si ribella a una classe dominante di tipo particolare, ossia uno schiavo moderno (nero o proletario) che si ribella alla classe dei padroni bianchi, borghesi e capitalisti. Il concetto di zombi, così come inteso nella cultura occidentale, nasce circa un secolo prima della sua rappresentazione artistica in senso lato. Il rivoluzionario è un non morto» (p. 95).

intheflashDunque, continua Cateno Tempio, nella contemporaneità il comunista è un morto vivente e con la progressiva scomparsa dei partiti comunisti, a partire dal crollo sovietico, il contesto zombi muta e le narrazioni sugli zombi spesso danno l’apocalisse come già avvenuta ed il risultato è la convivenza con i living dead.

Nella serie In the Flesh (ideata da Dominic Mitchell e diretta da Jonny Campbell, 2013-2014) è stata trovata una “cura” per i “risvegliati”, si tratta dunque di scongiurare l’apocalisse/rivoluzione attraverso la reintegrazione dei “parzialmente morti” non soggetti ad invecchiamento ed ormai privi di appetito. «È questo il sogno ultimo del capitalismo: scongiurare l’apocalisse comunista, reintegrare i lavoratori fuoriusciti, assorbirli all’interno del sistema e non doverli neppure nutrire. L’ideale capitalista è avere lavoratori parzialmente morti» (p. 95).

  • Immaginario zombi e desiderio di un apocalittico isolamento radicale

Tommaso Ariemma, nel suo “Archeologia zombi”, parte dalla constatazione che buona parte delle rappresentazioni dei morti viventi non motivano la loro comparsa; essi “ci sono già”. Da dove vengono allora questi zombi? Affermando che essi “ci sono sempre stati” si mette in discussione l’assunto di base che li vuole legati al contemporaneo ed al connubio tecnologia-capitalismo. Indipendentemente dal significato che oggi possiamo dare alla figura dello zombi non è possibile ridurre tale figura esclusivamente a tale connubio; il morto vivente ha una lunga tradizione che, suggerisce lo studioso, non può essere disgiunta dalle origini della cultura filosofica occidentale.

La figura del morto vivente è conosciuta nell’antichità. «Gli antichi filosofi ricercavano una forma di “morte in vita” – ciò che in fin dei conti era la vita contemplativa – distinta, se non addirittura opposta a un’altra forma di “morte in vita”, rappresentata dalla vita quotidiana. Un’analogia fatta dal giovane Aristotele è decisamente istruttiva su questo punto» (p. 36). Al fine di chiarire il rapporto tra anima e corpo Aristotele fa riferimento ad un tipo di tortura praticata dai pirati etruschi che prevedeva che un vivo venisse legato in maniera speculare ad un cadavere in putrefazione. L’individuo ancora in vita veniva alimentato fino a quando la superficie del suo corpo, a causa del contatto coi vermi, diventava indistinguibile da quella del cadavere. I due corpi venivano slegati soltanto quando apparivano anneriti dalla putrefazione e per gli etruschi tale annerimento superficiale segnalava un’esposizione ontologica di un processo di decomposizione già iniziato dall’interno. Il giovane Aristotele, facendo riferimento a tale macabro supplizio, comparava il legame tra l’anima ed il corpo al legame esistente nella tortura etrusca tra corpo vivente e corpo morto. «Per il giovane Aristotele, ancora legato alla filosofia platonica, il corpo vivente non è mai semplicemente vivente. L’anima che si rapporta a tale corpo, inoltre, si trova nella stessa situazione del supplizio etrusco. In fin dei conti, per Aristotele, ogni vivente umano è un morto vivente» (p. 37).

Il pensiero antico, continua Ariemma, ha risposto alla condizione umana con «una vita contemplativa – separata il più possibile dalle perturbazioni offerte dal corpo – che è, a tutti gli effetti, un’altra morte in vita» (p. 37). Nel Fedone di Platone è ravvisabile la ricerca di una vita contemplativa «secondo la quale la morte stessa veniva intesa come una sorta di purificazione dal corpo e quindi gradita» (p. 38). A tale idea il pensiero occidentale si è ispirato per secoli e l’ideale della vita contemplativa «si è spinto al punto da decretare letteralmente una condizione dei “non contemplativi” che non può non ricordare quella degli zombi» (p. 38).

Il filosofo idealista Fichte capovolge il rapporto viventi / morti apparenti: i morti sono i non-idealisti nel loro trascinarsi per il mondo nell’involucro biologico, mentre gli autenticamente viventi sono coloro che si sono ridestati all’idealismo reale. Dunque «la vita contemplativa, l’ideale della conoscenza separata dai disturbi e dai fastidi del corpo, uno stato di morte apparente, “inventa” la morte vivente degli altri, dei non contemplativi, come stato catatonico, inautentico e ferino, proprio di chi non si è convertito alla vita per la teoria» (p. 38). Dunque, secondo Ariemma, l’immaginario degli zombi può essere considerato «il prodotto esasperato ed eccessivo, fantasia horror per eccellenza, proprio dell’ideale di vita che per secoli l’Occidente si è dato» (p. 38).

Il manifestarsi di tale immaginario ha certamente a che fare con gli sviluppi tecnologici tendenti a disincarnare gli esseri umani ma l’origine di tale sviluppo tecnologico, soprattutto nell’ambito del visivo, deriva da quella concezione greca nei confronti della vita.

zone_one_coverL’origine metafisica del fenomeno è ravvisabile secondo lo studioso tanto nel romanzo Zone One (2012) di Colson Whitehead, ove si narra di una pandemia che ha devastato la Terra trasformando gli esseri umani, che nella rappresentazione cinematografica preromeriana di White Zombie (L’isola degli zombies, 1932) di Victor Halperin.

«A completamento delle radici metafisiche della figura dello zombi è mancato, tuttavia, sempre un elemento: finora, infatti, le rappresentazioni che esplicitavano il morto vivente (romanzi, film, serie tv, videogiochi) mancavano di una fantasia spaziale implicita nell’avanzata degli zombi. Cosa desiderano, in realtà, coloro che sfuggono agli zombi? Desiderano un’isola. Un pezzo di terra puro, incontaminato e di difficile accesso per gli zombi. In fin dei conti, l’immaginazione di queste creature non è separabile dall’immaginare isole o posti che fungono da isola» (p. 40). Ebbene, tale esplicitazione è presente in Zone One ed essendo gli zombi «proiezioni negative della vita contemplativa, ne consegue che quest’ultima, così come l’istituzione della metafisica stessa, sono possibili e compresi proprio all’interno di una teoria dell’isola […] Il desiderio sotteso all’immaginario zombi è allora un desiderio di isolamento radicale, che ha come presupposto l’apocalisse» (pp. 40-41).

  • Ma che cosa sono i living dead?

Nello scritto “L’immagine omonima” – che funge da introduzione all’intero volume – Rocco Ronchi più che chiedersi da dove vengono i living dead, cerca di definire cosa essi siano. Secondo lo studioso i living-dead non sono definibili in base alla negazione, essi sono neutri, né vivi né morti, del vivente il dead è l’omonimo. Non essendo né vivo né morto, né umano né non umano, il dead non è identificato da nessuna negazione; del vivente il dead non è il contrario, la sua natura è pienamente affermativa ma quello che afferma è la differenza pura.

I dead sullo schermo sembrano dare immagine a quanto vi è di liminare nell’esperienza umana. Molti dei casi metaforizzati dai living dead sono accomunati dall’affiorare di «una esperienza pura, che non è esperienza di niente e di nessuno e che, non è nemmeno esperienza, almeno nel significato abituale del termine. Quando l’esperienza va in stallo, i dead possono insomma pretendere al titolo di metafora. Non diciamo forse di un uomo molto malato che è divenuto la sua ombra? Di che stiamo parlando se non del morto-vivente che albeggia in lui, ormai divenuto irriconoscibile? Se allora dovessimo rendere intuibile questa esperienza desoggettivizzata che appare in margine ad una vita che declina […] dovremmo immaginarla come un’esperienza ridotta alla sola dimensione del trauma. I dead, del resto, non hanno né corpo né volto ma solo una carne tumefatta e una faccia piagata. La violenza nei loro confronti non è forse legittimata per il fatto che tutta la loro risibile esistenza consiste, dopotutto, nel subire insensatamente dei colpi?» (p. 13).

Il motivo per cui probabilmente i dead ci sono così familiari è forse dovuto al percepire «che la nostra vita è rosa al suo interno dalla (propria) immagine omonima, che quell’immagine presto o tardi ci raggiungerà e che allora noi saremo solo immagine, cioè non saremo “noi” e nemmeno “saremo”, senza per questo essere un nulla. Il cinema ci aspetta al varco, perché già da sempre siamo fatti di cinema, cioè dell’affermazione di una differenza pura. Non è forse questa la ragione per cui gli antichi immaginavano il morire come quel quell’istante in cui l’anima, spirando, si congeda dal corpo trasformandosi in pura immagine? E si trattava di un’immagine solamente omonima, differente per natura dall’originale, un’immagine a cui, dopo l’Ade, solo il cinema ha saputo dare un’immaginaria consistenza» (pp. 13-14).


A questo link le uscite precedenti di Nemico (e) immaginario

 

 

]]>
Nemico (e) immaginario. Il ritorno del mostruoso tra cattiva coscienza coloniale e neocolonialismo https://www.carmillaonline.com/2016/09/20/nemico-e-immaginario-il-ritorno-del-mostruoso-tra-cattiva-coscienza-coloniale-e-neocolonialismo/ Tue, 20 Sep 2016 21:30:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=33294 di Gioacchino Toni

la-hordeNel corso della serie “Nemico (e) immaginario” abbiamo sottolineato come nelle diverse produzioni audiovisive di norma lo zombie non sia identificato come individuo quanto piuttosto come massa indifferenziata esattamente come vengono presentati e trattati i migranti che sbarcano sulle coste europee prontamente  concentrati in spazi di isolamento all’interno o ai confini della “Fortezza Europa”. Nella più recente rappresentazione distopica, ove il carnefice è artefice della disumanizzazione schiavista, la memoria della violenza sembra riemerge materializzandosi in corpi dalla brutale aggressività.

Continuiamo la nostra serie “Nemico (e) [...]]]> di Gioacchino Toni

la-hordeNel corso della serie “Nemico (e) immaginario” abbiamo sottolineato come nelle diverse produzioni audiovisive di norma lo zombie non sia identificato come individuo quanto piuttosto come massa indifferenziata esattamente come vengono presentati e trattati i migranti che sbarcano sulle coste europee prontamente  concentrati in spazi di isolamento all’interno o ai confini della “Fortezza Europa”. Nella più recente rappresentazione distopica, ove il carnefice è artefice della disumanizzazione schiavista, la memoria della violenza sembra riemerge materializzandosi in corpi dalla brutale aggressività.

Continuiamo la nostra serie “Nemico (e) immaginario” ripratendo da una scena del film La notte dei morti viventi (Night of the Living Dead, 1986) di George Romero in cui l’eroe nero viene scambiato per uno zombie ed ucciso dagli uomini bianchi. Si tratta di un errore “del tutto comprensibile”, visto che nella società bianca il nero è uno zombie, è una presenza priva di soggettività. Quello subito dal personaggio nero può dirsi dunque un processo di de-umanizzazione ed a ben guardare è il medesimo processo a cui sono sottoposti i migranti sugli schermi televisivi e fuori da essi.

Nel saggio di Gaia Giuliani, Zombie, alieni e mutanti. Le paure dall’11 settembre a oggi (Le Monnier, 2016), meritoriamente recensito da Luca Cangianti nel suo “I mostri dell’accumulazione originaria”, l’autrice ha, tra le altre cose, particolarmente approfondito il ritorno del mostruoso tra cattiva coscienza coloniale e neocolonialismo. Il «nemico si manifesta come l’Altro e l’Altra esterni, mostrificati, deumanizzati, che si moltiplicano all’infinito, che non cessano mai di attrarre/sbarcare e opprimere l”umanità’ con la propria invadenza o con la propria incontrollabile ‘pazzia’ e/o sete di vendetta. Egli è l’Altro assoluto che ha attraversato le acque per venire a capovolgere una nave già piena, come nel caso dei sopravvissuti al disastro del 3 ottobre 2013 al largo di Lampedusa, o in quello dei pescatori di perle (migranti irregolari cinesi) che muoiono nel totale silenzio mediatico al largo delle coste britanniche […] È l’Altro-assoluto contro cui la società – quella fatta di ‘simili’ per cultura, religione, spirito democratico e, parrebbe conseguirne, appartenenza razziale – si rinsalda e si muove compatta» (pp. 10-11).

La studiosa ricorda come contemporaneamente all’appello alla solidarietà democratica, europea, occidentale, contro l’attacco alla redazione di “Charlie Hebdo” del gennaio 2015, in difesa della libertà d’espressione, nelle società occidentali è stata riadattata «la narrazione dello scontro di civiltà contro i ‘cattivi extraterrestri’ (gli stranieri simmeliani trasformati in potenziali criminali) e lungo il perimetro degli spazi nazionali e comunitari si rafforzano le misure di protezione delle frontiere contro l’immigrazione» (p. 11). Secondo Giuliani è esemplare l’intreccio francese tra “costruzione dell’Altro-assoluto” e “costruzione del Sé nazionale”: un paese dal violento passato coloniale plurisecolare contraddistinto da un’amnesia di Stato a proposito dello schiavismo e dal riprodursi di una narrazione istituzionale di stampo coloniale della “missione civilizzatrice” e del Progresso. Nel saggio, a tal proposito, si ricorda come la legge francese n.2005/158 del 23 febbraio 2005, nell’articolo 4, richieda espressamente che agli studenti della scuola dell’obbligo venga spiegato il «ruolo positivo della colonizzazione francese […] specialmente in Nord Africa».

Convinta dell’idea che il mostruoso rimandi, a maggior ragione oggigiorno, «alla mutazione interna dell’organismo umano e all’incapacità cartesiana di ristabilire il controllo su di essa» (p. 12), Giuliani definisce l’alterità (alieno/a, non-morto/a, mutante, cyborg ecc.) come post-umana. Inoltre, la studiosa definisce neocoloniale il tentativo di ristabilire il controllo su tutto ciò che è mutato, producendo alterità, trasgredendo alle regole della razionalità sovrana.

Nel saggio si ricorda come la narrazione distopica non abbia mancato di soffermarsi sull’ambivalenza della mutazione determinata dalla scienza e dalla tecnologia, a tal proposito si può far riferimento, ad esempio, alla produzione cinematografica di David Cronenberg degli anni Settanta ed Ottanta o, nel decennio successivo, a film come 12 Monkeis (1995) di Terry Gilliam od ancora, nel nuovo millennio, ad opere come I am Legend (2007) di Francis Lawrence, District 9 (2009) di Neill Blomkamp e World War Z (2013) di Marc Forster.

Esiste un’evidente continuità tra il “subumano” proprio del periodo coloniale e schiavista ed il “non-umano” o “post-umano” neocoloniale; in entrambi i casi la sua eliminazione solleva da responsabilità e lo sterminio diventa “naturale” nel suo essere presentato come la “soluzione finale” che permette il ritorno ad un’ontologia di un particolare tipo dell’umano di nuovo al centro dell’universo. Molte narrazioni recenti insistono sul fatto che il non-umano, o post-umano, conviva già con l’umano e tale convivenza, sostiene la studiosa, rimanda «alla codificazione della cosiddetta ‘società multirazziale’ del mondo reale, con le sue divisioni e contraddizioni sociali e culturali» (p. 16).

cover_zombie_alieni_e_mutanti_giulianiRifacendosi ad «una prospettiva genealogica che tende a rintracciare la paura nella storia delle sue rappresentazioni e dei suoi significati a partire dalla modernità, dalla nascita dello Stato nazione e dagli albori del movimento coloniale delle potenze europee verso ovest» (p. 18), il saggio affronta tematiche che vanno dal “ritorno del mostruoso” al “rapporto tra modello multiculturale ed Alterità assoluta” (tra “normalizzazione della diversità” e costruzione di una “diversità inconciliabile”), dalle “fantasie di bianchezza” presenti nelle narrazioni della catastrofe (utopiche e distopiche) alla “cittadinanza emotiva” concentrata «sull’incontro con l’alterità da parte delle diverse incarnazioni (culturali, sociali istituzionali) della ‘norma bianca’ in Europa e nelle ex colonie di popolamento» (p. 19).

Da parte nostra, in questo scritto, ci limiteremo alla questione del “ritorno del mostruoso” – affrontato dall’autrice nel primo capitolo del volume – rimandando per le altre questioni trattate dal denso ed interessante saggio al quadro d’insieme ricostruito nella già citata recensione stesa da Luca Cangianti [su Carmilla].

Giuliani legge alcune figure del cinema di genere horror e dintorni come allegorie della violenza coloniale e del suo ripresentarsi attraverso narrazioni distopiche sotto le sembianze di morti viventi. In generale il mostruoso coincide con la rappresentazione della finis mundi e se tale funzione può essere intesa come componente importante nella costruzione della “comunità antropologica”, nel corso dei secoli, sostiene la studiosa, si è strutturata nei termini dei confini dell’Ecclesia cristiana e, nella modernità, nei termini della separazione cartesiana e rinascimentale tra conoscente e conosciuto. Il satanico, bestializzato dall’iconografica della Scolastica sino a metà del Trecento, viene incorporato nelle leggende dei viaggiatori cinquecenteschi che toccavano i lontani territori del Pacifico, africani, caraibici, amazzonici… fino al Calibano shakespeariano. Ancora a cavallo tra Otto e Novecento Cesare Lombroso colloca proprio a tali latitudini la “barbarie calcificata” inestirpabile, incline al cannibalismo ed in epoca ancora più recente, ricorda Giuliani, sopravvivano tracce di tali “storie antropologiche” utili all’auto-rappresentazione dell’occidente che si vuole civilizzato e civilizzatore, si pensi a tal proposito il film Cannibal Holocaust (1980) di Ruggero Deodato.

In età rinascimentale il cannibalismo (vero o presunto) dei nativi è inteso come prova evidente della loro “bestialità” o sottomissione all’anti-Cristo. La mostruosità del cannibalismo gioca un ruolo importante nella legittimazione del primo colonialismo divenendo “l’estremo male” da combattere in funzione dell’edificazione dell’Utopia. La bestia umana deve essere eliminata o sottomessa «alle leggi della Cristianità, dell’istituzione politica e, infine, del capitale […] La conquista e la realizzazione di nuove società abitate solo dagli elementi migliori (cristiani, bianchi e proprietari) necessitava di un’”accumulazione originaria” nel senso più marxiano del termine, ossia, da un lato, la cannibalizzazione della forza lavoro, il suo addomesticamento mediante lavoro servile o schiavo» (p. 27). Ed è proprio a questo secondo fine «che adempierà la costruzione di un nuovo mostruoso (lo/la schiavo/a ‘negro’, il coolie e il/la migrante ‘bruna’ del Mediterraneo, della Cina e dell’Asia meridionale sovente descritti mediante riferimenti a bestie ed insetti) utile a dividere e governare la forza lavoro mediante statuti (razziali) differenziali» (p. 27).

La donna sin dal Medioevo viene collocata tra le mostruosità per poi divenire nell’epoca del razionalismo settecentesco, dell’imperialismo e della moralità vittoriana, «la diversità assoluta all’interno degli spazi domestici dell’intimità borghese e della sua riproduzione. Diverrà non solo l’oggetto di violenze mediche, culturali e di polizia […] ma la sua diversità diverrà uno dei dispositivi di inferiorizzazione all’interno della comunità coloniale e imperiale della Modernità» (p. 27).

Dunque, continua Giuliani, il mostruoso è il prodotto della cattiva coscienza coloniale che si ripresenta a noi tramite la figura del non-morto, è il Calibano che si ripresenta per vendicarsi dello stigma e della violenza. È la “coscienza nera” che si incarna sottraendosi alla rimozione dell’esperienza coloniale e dello schiavismo, che si ripresenta prendendo a morsi chi ha massacrato in nome del progresso e chi oggi lucra erigendo “confini razzializzati” contro l’umanità migrante. «Questo cannibalismo in lettere e celluloide ribalta il cannibalismo fisico e simbolico dei conquistadores, dei padri pellegrini, degli schiavisti e di chi possedeva le piantagioni, ma anche quello dei ‘capitalisti’ descritti da Marx nel frammento dei Grundrisse del 1858, avidi di sangue – di denaro, di carne da lavoro – come ‘vampiri’» (p. 28).

Già in diversi scritti abbiamo fatto riferimento alla comparsa haitiana della figura dello zombi ed alla nascita di quella “Repubblica nera” incubo degli Stati Uniti segregazionisti. Abbiamo anche visto come le prime pellicole americane che affrontano gli zombie inevitabilmente abbiano a che fare tanto col senso di colpa nei confronti delle sofferenze inflitte agli schiavi, quanto col timore che infondono i neri nella società bianca. Abbiamo anche preso atto di come, tra gli anni ’30 e ’50, attraverso la figura dello zombie, l’immaginario cinematografico americano richiami la questione della “perdita di di volontà e controllo su se stessi”; l’epoca è quella della Depressione, dei conflitti mondiali, della Guerra fredda e della minaccia atomica. Nel corso degli anni ’60, con i movimenti di lotta per i diritti civili, il cannibalismo degli zombie portati sullo schermo da Romero pare legarsi al riscatto dei morti viventi contro la violenza razzista operata dal capitalismo.

I film di Romero «tematizzano il ritorno dei diseredati, dei subalterni e dei reietti della società statunitense sotto forma di zombie cannibali, i quali sono gli unici in grado di svelare […] come ricchezza e consumismo, fondati su violenza e marginalizzazione, non siano altro che realtà fragili, transeunti, ‘grondanti di sangue’» (p. 30). I linving dead romeriani vengono raffigurati come “moltitudine rivoluzionaria”, oscillando tra “massificazione” e “individuazione” e questi, pian piano smettono di essere massa indistinta per divenire “moltitudine di identità”. Se nella produzione romeriana si ricorre alla figura del morto vivente per riflettere sulle contraddizioni e sulle diseguaglianze americane, nelle produzioni più recenti, sostiene Giuliani, non si tratta più tanto di fare i conti con il “lato mostruoso” della società umana ma di “invocare un nuovo inizio”, di fondare un nuovo mondo con ogni mezzo necessario. Il nemico venuto dal passato, “il nuovo Calibano” che ha voce ma non linguaggio, deve essere eliminato attraverso una “guerra fondativa” di esseri superiori. Come esempi di ciò la studiosa cita il film spagnolo REC (2007) di Jaume Balagueró e Paco Plaza, ove l’origine satanista dell’epidemia legittima la “guerra giusta” contro il demone zombie, la saga Resident Evil (2002-2012) di Paul W. S. Anderson, ove la guerra è mossa contro zombie derivati da un’epidemia batteriologica determinata da esperimenti farmaceutici e World War Z (2013) di Marc Forster, ove l’apocalisse zombie porta ad uno “stato di guerra permanente”.

In questo ultimo caso la studiosa evidenzia come a tale “stato di eccezione permanente senza confini” non pare accompagnarsi alcuna critica alla società presente mentre circa la società a venire, il film, sembra indirizzarsi verso fantasie di supremazia eteronormativa di classe (borghese) e di razza (bianca). «Essa appare come lo spettro di quella guerra che il filosofo italiano Carlo Galli ha chiamato ‘globale’, all’alba della Guerra al Terrore di George Bush Jr. In questo quadro la guerra non è più quella tra Stati, come per tutta la Modernità e in particolare, su scala globale, sin dalla prima guerra mondiale: in esso riaffiora l’idea di guerra ‘giusta’ invocata da san Tommaso e dalla cristianità medievale, e successivamente dal colonialismo, contro vecchi e ‘nuovi barbari’» (p. 34).

Nell’età globale la legittimazione della guerra pare poggiarsi sul confronto tra morali decisamente semplificate e, nella visione occidentale, si stabilirebbe così, secondo Galli, una sorta di gerarchia di valore tra la guerra a difesa (o portatrice) di diritti e democrazia mossa da poteri legittimati dall’ordinamento internazionale ed il terrorismo fondato sugli istinti più bassi. A tal proposito Giuliani preferisce rifarsi alla tesi di Tasal Asad (Sull’attentato suicida) sulla linea di continuità che l’inferiorizzazione coloniale del nemico traccia tra modernità e post-modernità. Tale impostazione la si ritrova anche in Judith Butler (Sexual politics, torture and secular time) quando a proposito della “Guerra al Terrore”, soffermandosi sulle torture nei campi di detenzione americani, sostiene che tali pratiche coercitive, violente ed umilianti possono essere considerate l’esplicitazione di una logica già presente “a monte” nella stessa idea di “missione civilizzatrice”.

28daysÈ dunque in tale contesto culturale e geopolitico che si viene a dare una particolare mutazione dello zombie a partire dall’inizio del nuovo millennio: «il mutante è soprattutto un infettato che viene ad essere il pericolo numero uno, incontrollabile attentatore suicida che per contagio trasforma gli altri in terroristi. Di fronte a lui la sovranità statuale si manifesta come totalmente impotente» (p. 35). Il morto vivente di 28 giorni dopo (28 Days Later, 2002) di Danny Boyle rappresenta un’umanità animalizzata regolata dalle leggi del branco e della forza che ha in sé tanto le caratteristiche dei mutanti che della bestia rabbiosa. Tali caratteristiche le ritroviamo nel francese La horde (2009) di Yannick Dahan e Benjamin Rocher, ove più che camminare gli zombie corrono velocemente: il walking dead si è mutato in un running dead.

La natura mutante risignifica la figura del morto vivente quale risultato del dilagare del virus e secondo Peter Dendle (The Zombie Movie Encyclopedia) i timori incarnati da questi nuovi zombie non sono espressione della perdita del sé ma di una sua sovraesposizione. Se le vecchie generazioni di zombi sono contraddistinte dalla mancanza di affettività, dall’irrazionalità, dalla semplificazione e dalla lentezza, ora palesano un’energia senza precedenti.

Secondo Giuliani il nuovo morto vivente incarna anche la figura del pericolo post-11 settembre 2001 e post-massacri vari da Columbine ad Utøya, fino agli episodi più recenti. Si tratta di un pericolo errante ed incontrollabile che proviene dal vicino di casa, dai propri compagni di scuola o di lavoro che improvvisamente palesa una forza ed una violenza inimmaginabili.

La studiosa sottolinea come in queste produzioni si evochi l’idea che a sopravvivere possano essere le figure più adattabili, più avvezze a difendersi, come i giovani, le donne ed i marginali, quasi a palesare «una speranza di un’umanità futura che chiude con i debiti le sperequazioni (di genere, classe, razza) che hanno da sempre infestato la storia dell’Occidente» (p. 41). Non sfugge, però, continua la studiosa, come in diverse produzioni audiovisive recenti questi sopravvissuti, per fondare una nuova società, finiscano col piegarsi nuovamente a regole e consuetudini conservatrici: nel film di Boyle, «Selena smetterà di essere la guerriera autonoma e coraggiosa per divenire (o tornare ad essere) la femmina bisognosa di protezione […] e dispensatrice di cure materne» (p. 41).

Vi sono però alcune importanti differenze tra i due film citati tanto a proposito dell’estensione del contagio che delle cause scatenanti. Da una parte l’insularità britannica del film di Boyle può lasciar pensare che il contagio non si sia propagato “al di fuori” dell’isola mentre diverso è il rapporto tra la Parigi in fiamme di Yannick Dahan e Benjamin Rocher e le sue periferie postcoloniali prive di barriere al contagio. Circa le cause, in 28 giorni dopo l’origine dell’epidemia è palesata nella sperimentazione laboratoriale, mentre La horde sorvola totalmente sulle cause scatenati concentrandosi sulla vita degli umani di fronte alla possibile fine dell’umanità così come conosciuta. Inoltre, se nel film britannico l’umano-rabbioso è mortale, non è un non-morto, nel lungometraggio francese il linving dead rappresentata “l’intramontabilità della catastrofe”.

In comune i due film hanno l’ambientazione urbana e Londra e Parigi rappresentano la metropoli europea centro del potere coloniale in passato e luogo di attrazione per migranti, oltre che di sperimentazione di “pratiche di governabilità”. «La mobilitazione/dislocazione dei corpi secondo le regole del controllo biopolitico e del mercato salta all’arrivo del cannibale la cui corsa frenetica e in gruppo sembra non ammettere barriere di classe, razza e genere. È una marea distruttiva e fagocitante che annulla i dispositivi della segregazione spaziale e della produzione capitalistica incarnate dalle metropoli europee. Lo scenario urbano svuotato dei significati che fondano l’ordine sociale è così la massima espressione del sovvertimento delle regole alla base della società umana come polis» (p. 42).

Come abbiamo visto affrontando il saggio di Federico Boni, American Horror Story. Una cartografia postmoderna del gotico americano (Mimesis, 2016) [su Carmilla], l’ambientazione rurale è tipica del gotico americano, ad essa, sostiene Giuliani, si accompagna una vera e propria disumanizzazione cannibalistica rimandante al conflitto tra la costruzione nordista della nazione e dei suoi “altri-interni”. A tal proposito tra gli studi più interessanti occorre citare, anche se datato, il saggio di Sacvan Bercovitch, The american Jeremiad (1978).

Nella serie britannica Dead Set (2008) ideata da Charlie Brooker, da noi affrontata nuovamente grazie a Federico Boni, The Watching Dead. I media dei morti viventi (Mimesis, 2016) [su Carmilla], la ruralità rimanda all’isolamento, all’impossibilità di controllare e difendere il territorio e, più in generale, nelle produzioni europee, sostiene Giuliani, l’ambiente agreste rinvia alla «costruzione della barbarie-interna in conflitto con l’urbanità ‘civilizzata’» (p. 42). Vale la pena notare come anche in Dead Set, al pari di 28 giorni dopo e La horde, i cannibali corrano veloci ed in questo caso è evidente l’analogia con la velocità di trasmissione televisiva.

Il film 28 settimane dopo (28 Weeks Later, 2007) di Juan Carlos Fresnadillo, sequel del film di Boyle, si concentra sulla questione della “molteplicità” che caratterizza la società londinese, sulla difficoltà di definire una demarcazione netta volta ad escludere il nemico esterno ed a neutralizzare quello interno e sull’immunizzazione della popolazione attraverso la quarantena.

Giuliani segnala come analizzando in sequenza cronologica, i film affrontati – 28 giorni dopo (2002), 28 settimane dopo (2007), Dead Set (2008) e La horde (2009) – è possibile «affermare che la speranza di sopravvivenza infusa dal primo, e tematizzata dal secondo come olocausto del mostruoso, viene drammaticamente distrutta dal terzo e dal quarto, i quali sacrificano progressivamente ogni sogno di sopravvivenza dell’idea di umano – e del suo rapporto tra corpo e mente, vita e morte» (p. 47).

Se in diverse produzioni americane recenti, come World War Z (2013) di Marc Forster, si rintracciano alcune caratteristiche tipiche del cinema di guerra, come ad esempio il palesare una netta dicotomia spaziale, etica e politica tra i contendenti e la possibilità di ripristinare l’ordine internazionale modernamente inteso (meglio se entro la fine del film), nelle produzioni europee come 28 giorni dopo, 28 settimane dopo, Dead Set e La horde, secondo Giuliani, non abbiamo l’eroe unico e non vi è superamento definitivo della crisi.

In World War Z quella che inizialmente sembra una critica ad un uso scriteriato delle tecnologie e della scienza si risolve in un’esaltazione delle capacità del maschio bianco occidentale e della razionalità scientifica e militare. Se si confrontano World War Z e Land of the Dead di Romero, si vede come entrambi «pongono al centro la rottura della geometria spaziale umana – spazzata via da un take over zombie irresistibile, per Romero la rottura con la geometria/gerarchia significa una nuova idea di progresso che […] include il post-umano o ha nel post-umano il proprio attore principale. In WWZ la rottura è solo una sospensione di un ordine sociale e politico che viene subito ristabilito e che vede vincitori ‘i migliori, i più bianchi, i più ricchi, i più tecnologici abitanti dell’Occidente civilizzato’» (p. 48).

In una serie di recenti produzioni audiovisive il vivo si deve riconciliare col non-morto e, riprendendo Michel Foucault, si può dire che il potere di “uccidere” (lo zombie) da parte dello Stato lascia il posto al potere di “lasciarlo vivere” (recluso) ed, infine, al potere di “farlo vivere” riabilitandolo, governando il bios dei post-zombie. Dunque i walking dead subiscono un processo di individualizzazione e soggettivazione, divengono “oggetti governamentali” e «devono vivere, al fine di permettere ai vivi di riconciliarsi col trauma dell’apocalissi. E allo stesso tempo essi divengono nuda (post-)vita – un bios molto particolare – la cui ricodificazione sociale e biologica in quanto ‘membri della società’ dipende da medicine che prima i dottori, poi i famigliari, iniettano nella loro spina dorsale. Lo Stato governa sulla loro costruzione biologico-corticale e così facendo, permette alle persone di ricostruire le proprie comunità» (p. 36). I morti viventi si trasformano da minaccia a manifestazione della mutazione (da umana a post-umana) che ha investito le società contemporanee.

Giuliani vede nelle fantasie di vittoria sul contagio presenti in tanta narrazione distopica contemporanea una volontà di riscatto mossa dal senso di colpa «di chi è stato all’origine contagio di se stesso». Abbiamo visto in altri scritti della serie “Nemico (e) immaginario” come il contagio derivi spesso da interventi umani sulla natura. «È il senso di colpa che produce mostri, come lo era in quelle descrizioni dei tropici di fine Ottocento da parte dei medici australiani che sostenevano che l’uomo bianco là desiderava l’indesiderabile, aspirava a ciò che non sarebbe mai riuscito ad ottenere: la sopravvivenza in un ambiente già, o diventato, ostile. Con la differenza che là la natura non doveva essere violata, e nelle narrazioni distopiche contemporanee è la natura violata che si vendica» (p. 36).

revenants456Nel volume vengono passate in rassegna tre recenti realizzazioni audiovisive – Fido (2006) di Andrew Currie, Les revenantes (2012 – in produzione) ideata da Fabrice Gobert ed In the flesh (2013-1914) scritta da Dominic Mitchell e diretta da Jonny Campbell – che pur nella loro diversità, in un modo o nell’altro, risultano contraddistinte dal grado di precarietà in cui versa un’umanità ormai incapace di governare le conseguenza della guerra e/o della tecnica e del Progresso.

Il film Fido, di produzione americana/canadese, è un horror-comico in cui «la memoria incarnata dalla violenza a cui rimanda la figura dello zombie è quella della schiavitù» (p. 54). Alla fine di una cruenta guerra dell’umanità contro gli zombie una grande azienda realizza un collare in grado di neutralizzare gli istinti aggressivi degli zombie rendendoli mansueti servitori della comunità piccolo-borghese nordamericana. Il film è ambientato tra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60 e questi “zombi addomesticati” sostituiscono quella componente sociale, razziale e di classe maggiormente sfruttata. La nuova figura di schiavo non deve essere riprodotta, non sporca, non mangia ed è ubbidiente al padrone. La tranquilla vita piccolo-borghese della cittadina viene interrotta dall’attacco omicida di cannibali in libertà e la storia «si conclude con il sovvertimento dell’ordine sociale (razziale e di genere) ma non di classe» (p. 56). Il nuovo mondo che pare far capolino a fine narrazione pare essere di quelle «donne per bene, pur sempre angeli del focolare ma ora anche capofamiglia, in cui l’uomo gioca la parte del ‘sottosviluppato’ addomesticato» (p. 56).

Il tema principale della serie Les revenantes è individuato da Giuliani nel “dono” del ritorno dei morti tra i loro cari. Il fatto che i morti tornino alla spicciolata per riprendere il loro posto tra i loro cari nella piccola comunità montana situata accanto ad un’enorme ed inquietante diga crea immediatamente problemi di comprensione e di convivenza a cui si aggiunge il riaffiorare del vecchio paesino dalle acque del bacino idrico che si abbassano misteriosamente. Il riemergere del passato, secondo la studiosa, potrebbe essere «simbolo del riscatto dalla violenza umana sulla natura e il sovrannaturale, la valle sembra utilizzare il ritorno degli oltrepassati come una sorta di vendetta contro chi in quell’area ha continuato a vivere» (pp. 56-57). Resta misterioso il motivo per cui alcuni personaggi tornino in vita più volte così come sono ignote le ragioni per cui questi revenants vengano reclamati da loro simili privando nuovamente le famiglie dei propri cari.

Nella serie In the flash, prodotta dalla BBC, si ha una narrazione molto intimista tra zombie e “scomparsi e poi ritornanti”. Giuliani sottolinea come qui si scavi nei conflitti famigliari di una piccola comunità ed il ritorno di Kieren Walker ha tutte le sembianze di un dono offerto alla famiglia per riparare agli errori commessi precedentemente. Il tutto pare ruotare attorno alla trasformazione dello zombie in una nuova possibilità d’amore e di riscatto. «La storia di Kieren e sua madre ci inducono alle ragioni della scelta, da parte del regista e narratore, del genere zombie e del post-umano per raccontare una storia di marginalità e sofferenza (cagionata da discriminazione di genere, classe e sessualità) all’interno di una piccola comunità inglese: il post-umano e l’Apocalisse, in particolare, sembrano permettere infatti, seguendo le teorie del femminismo materiale, di tematizzare la critica all’epistemologia maschile e bianca, all’antropocentrismo eterosessuale e illuminista e al patriarcato (etero) sessista che è sia matrice della secolarizzazione sia pilastro del potere spirituale della Chiesa» (p. 60). Il ruolo della chiesa è qui decisamente ambivalente; da una parte essa ha contribuito a mantenere unita la comunità nel corso dell’insurrezione ma ha basato tale coesione sull’odio nei confronti dei ritornanti.

Giuliani si sofferma anche sulla sovversione femminile dell’ordine costituto presente sia nel film Fido che nella serie In the flash. Nell’horror-comico Fido le donne americane intendono abbandonare il ruolo di «passive domestiche dedite alla riproduzione del maschio e della sua egemonia tipico dei primissimi anni Sessanta (si pensi alla rappresentazione della domesticità femminile nella serie americana Mad men): sono anche quelle che più nettamente infrangono i tabù sessuali legati alla linea del colore e di classe, e le regole sociali che stabiliscono il confine tra normalità e anormalità» (pp. 60-61). Nel caso di In the flash abbiamo donne che segretamente «costruiscono le reti affettive che sembrano garantire materialmente l’avvento di un futuro ‘migliore’: le madri e mogli dei ritornanti si incontrano in una stanza buia, separata, insieme all’infermiera e madre di Philip, il segretario del vicario (La ragazza madre del paesino), che ha deciso di insegnare loro come ‘medicare’ i propri famigliari PDS [Partially Deceased Syndrome, sindrome del parzialmente deceduto]. È sempre lei che ha creato questo gruppo di ‘autocoscienza’ e ‘autoaiuto’, perché le donne possano raccontare che cosa provano e come riescono a fare i conti con i PDS e la società attorno» (p. 61). Dunque, in qusto ultimo caso, le donne hanno un “ruolo ponte” tra umano e post-umano.

Nella serie la milizia, nonostante comprenda anche donne, secondo la studiosa rappresenta lo spazio semantico della virilità, del maschio, del soldato che custodisce la purezza della nazione e si fonda sulla convinzione che la minaccia è ancora presente pur certificando che la mutazione non è eliminabile. «La milizia si nutre dell’emergenza e, al contempo, la combatte: come per le polizie anti-terrorismo a cui è demandata parte della gestione governamentale del ‘nemico’ all’interno delle società reali, anche nella narrazione distopica il permanere del ‘mostruoso’ come parte integrante della società legittima il controllo di polizia su persone e relazioni. Come per le prassi e il discorso securitario e anti-terrorista posti in vigore dagli apparati di sicurezza britannici a partire dalla guerra in Afghanistan e in Iraq e dagli attacchi suicidi del luglio 2005, così anche nel racconto horror di In the flash tutti sono chiamati a fare i delatori e a manifestare, anche dentro le proprie case, la presenza di un PDS. Ma non devono agire da soli contro ‘i ritornanti’: devono piuttosto affidarsi alla milizia, alla polizia, auto-dichiaratasi in charge dell’eliminazione del risorto, come in una ‘società totale’ che non ammette critica né diversità» (p. 61).

Dunque, conclude Giuliani, se guardiamo 28 giorni dopo, 28 settimane dopo, Dead Set, La horde, Fido, Les revenants ed In the flash «in continuità con le guerre ‘coloniali’ del secolo scorso […] queste produzioni insistono sul backlash, sugli effetti di ritorno, di una condotta che può, in queste distopie, essere definita coloniale: il nemico è divenuto ‘inestirpabile’, ed è una costante intrinseca all’Europa ‘sin da quando essa è uscita da se stessa per reinventarsi sugli altri continenti. Al suo pari, il mondo degli uomini, nelle narrazioni distopiche prese in considerazione, ha ‘superato i propri confini’. A meno di una guerra che come quella ‘atomica’ potrebbe cancellare l’umano, insieme al post-umano, dalla faccia della Terra, l’apertura ‘della porta coloniale’ ha permesso all’altro, persino al non-morto che viene dall’aldilà, di varcare l’uscio e restare» (p. 62).

]]>
La costruzione dell’immaginario seriale contemporaneo https://www.carmillaonline.com/2015/08/31/la-costruzione-dellimmaginario-seriale-contemporaneo/ Mon, 31 Aug 2015 21:30:16 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=24453 di Gioacchino Toni

immaginario_seriale_contemporaneoSara Martin, a cura di, La costruzione dell’immaginario seriale contemporaneo. Eterotopie, personaggi, mondi, Mimesis, Milano – Udine, 2014, 187 pagine, € 16,00

Gli studi sulle serie televisive presentati dal volume curato da Sara Martin, si sviluppano dall’idea che la serialità si trovi ad essere al centro di una tensione trasformatrice della società contemporanea. La serialità viene analizzata a partire dal concetto di eterotopia sviluppato da Michel Foucault, che individua con tale termine “quegli spazi che hanno la particolare caratteristica di essere connessi a tutti gli altri spazi, ma in [...]]]> di Gioacchino Toni

immaginario_seriale_contemporaneoSara Martin, a cura di, La costruzione dell’immaginario seriale contemporaneo. Eterotopie, personaggi, mondi, Mimesis, Milano – Udine, 2014, 187 pagine, € 16,00

Gli studi sulle serie televisive presentati dal volume curato da Sara Martin, si sviluppano dall’idea che la serialità si trovi ad essere al centro di una tensione trasformatrice della società contemporanea. La serialità viene analizzata a partire dal concetto di eterotopia sviluppato da Michel Foucault, che individua con tale termine “quegli spazi che hanno la particolare caratteristica di essere connessi a tutti gli altri spazi, ma in modo tale da sospendere, neutralizzare o invertire l’insieme dei rapporti che essi stessi designano, riflettono o rispecchiano” (M. Foucault, Eterotopia, Mimesis 2010). Pertanto, la televisione, può essere individuata come “l’eterotopia per eccellenza”, nella sua continua giustapposizione, in un luogo reale, di spazi che generalmente sarebbero incompatibili. Il processo di costruzione di un nuovo immaginario dei mondi seriali, secondo la curatrice del volume, ricorre a spazi anomali entro i quali i personaggi agiscono al fine di “proteggere la dimensione di chiusura dell’eterotopia, in cui si collocano, restii (o impossibilitati) a concedere l’ingresso degli altri spazi al loro interno”. Due le forme assunte dalle eterotopie definite da Foucault: “eterotopie di crisi” ed “eterotopie di deviazione”. Nel primo caso si tratta di luoghi riservati a chi, in relazione alla società, si trova in stato di crisi, nel secondo si tratta invece di quegli spazi in cui vengono collocati i devianti rispetto alle norme imposte (cliniche psichiatriche, carceri…). Il volume ragiona su questa seconda forma, “indagando la scrittura e la costruzione di luoghi e personaggi altri”.

Nell’immaginario prodotto da alcune serie si hanno rappresentazioni del mondo che portano lo spettatore a vivere esperienze affettivo-sensoriali fantastiche in grado, in taluni casi, di essere strumento di comprensione della realtà. In altri termini si può dire che diventano dei miti in grado di inglobare lo spazio dello spettatore trasformandosi in luoghi di “creazione di risposte” relativamente alla società. Altre serie narrano il mito di fondazione di civiltà costituentesi sulla base di un nuovo ordine, derivato da un disordine maggiore sconfitto in maniera più o meno definitiva. Essendo le eterotopie, sempre seguendo Foucault, la contestazione di tutti gli altri spazi esercitata o attraverso l’illusione che denuncia l’illusorietà della realtà, o creando uno spazio perfetto ed ordinato quanto il nostro è disordinato e caotico, il saggio si propone di tracciare una mappa dei luoghi in cui prendono vita questi mondi. In tali spazi si collocano le cosiddette prison television series, come, ad esempio, OZ (HBO 1997-2003), Prison Break (Fox, 2005-2009) ed Orange Is the New Black (Netfix, dal 2013). Una società può far funzionare con modalità diverse un’eterotopia, come nell’esempio foucaultiano del cimitero: si tratta di uno spazio trasformatosi radicalmente nel corso del tempo, da “luogo integrato” allo spazio abitativo, a “luogo altro”, distinto sino a divenire simbolo del culto moderno dei defunti. Relativamente al rapporto luogo di sepoltura, defunti e città, Sara Martin individua il costituirsi di differenti mondi narrativi; dalle serie incentrate sugli zombie, come The Walking Dead (AMC, dal 2010) ed In the Flesh (BBC Three, dal 2013), alle storie di vampiri, come il vecchio Dark Shadows (AMC, 1966-1971), Buffy the Vampire Slayer (WB / UPN, 1997-2003) e True Blood (HBO, 2008-2014). Essendo le eterotopie connesse con la suddivisione del tempo, in diverse serie si assiste alla questione della rottura con il tempo tradizionale. Ad esempio, in Lost (ABC, 2004-2010) si ha una rottura tra il tempo dell’isola e quello fuori da essa ed in Person of Interest (CBS, dal 2011) i protagonisti ricorrono all’archivio visivo delle telecamere di sorveglianza, luogo in cui, al pari delle biblioteche e dei musei, il tempo “non smette di accumularsi”.

Nel suo intervento, Roy Menarini, sottolinea come da qualche tempo le serie televisive non soffrano più della sindrome di inferiorità culturale nei confronti del cinema. Lo studioso individua in Avatar (2009) di Jeames Cameron un esempio di riconquista di mercato, nei confronti della televisione, da parte del cinema, attuato attraverso il ricorso al 3D, come elemento di “valorizzazione della sala”. Anziché sfidare le serie televisive sulla complessità del racconto, il cinema sembra optare per una particolare “esperienza di visione” ed una generale “semplificazione simbolica”. Il cinema cerca, in altre parole, di conquistare per via tecnologica quanto non riesce più a garantire in termini narrativi. A proposito di questi ultimi, Menarini sottolinea come anche i registi cinematografici che, in un primo tempo, hanno insistito su “rompicapi narrativi”, come lo stesso Quentin Tarantino, siano passati a racconti più lineari. La produzione contemporanea statunitense, soprattutto di carattere spettacolare, ha optato per strategie commerciali volte ad intrecciare le serie televisive con i prodotti cinematografici, in transmedia storytelling in cui i due prodotti si dimostrano l’uno l’espansione dell’altro. In ciò la produzione della Marvel è maestra, con tanto di ulteriore prolungamento nei videogames. La serialità televisiva contemporanea, secondo l’analisi di Menarini, ha raccolto la nozione di drama offrendo spazio a soggetti solitamente propri del cinema indipendente di nicchia, ampliando ed intorbidendo i riferimenti culturali. Tale complessificazione dei prodotti audiovisivi si traduce, dal punto di vista imprenditoriale, in strategie di marketing e di targeting sempre più elaborate basate su algoritmi e software di profilatura degli utenti sempre più elaborati.

Marta Boni, nel suo scritto, ragiona circa la capacità dei racconti seriali di costruire mondi con geografie che si sovrappongono a quelle reali. Quando si parla di mondi, sottolinea la studiosa, si parla di un sistema complesso non riconducibile né ad una storia né ad un solo medium. “Una serie è un sistema complesso, provvisto di confini, che tiene insieme vari racconti e che, grazie alla ‘saturazione’ delle capacità cognitive dello spettatore attraverso la molteplicità, ottiene il risultato di costruirsi come mondo consistente, esplorabile a piacere e, come tutte le eterotopie, può essere il luogo in cui una società pensa i propri confini ed elabora la propria identità”. L’epopea mette in ordine un mondo così come alcuni mondi seriali inglobano lo spazio dello spettatore divenendo luoghi di “creazione di risposte sulla società”. Il mito, conclude l’autrice, si costruisce per sedimentazione, si sviluppa nella ridondanza e nella permanenza di frammenti nello spazio sociale, è un processo storico di costruzione della memoria collettiva ed i mondi seriali “emergono nel tempo come degli spazi flessibili al punto da diventare sistemi, o ‘ecosistemi’, delle presenze durevoli nell’universo mediale contemporaneo”.

game-of-thrones-daenerysMaria Comand si sofferma sui personaggi della serialità fantasy sottolineando come questi non costituiscano un caso diverso rispetto a quelli di altri mondi di fantasia, visto che per entrambi lo spettatore impiega i medesimi procedimenti di comprensione ed adesione. Nell’analizzare il dibattito che si è sviluppato attorno alla serie Game of Thrones (HBO, dal 2001), l’autrice mette in risalto come attorno ad alcuni personaggi si sia sviluppata una riflessione assai approfondita. Sulla figura di Daenerys Targaryen, ad esempio, si scontrano interpretazioni che vanno da chi, accusando la serie di sessismo (Myles McNutt ha a tal proposito coniato il termine sexposition), stigmatizza i comportamenti della ragazza perché “esprimerebbero una subordinazione a codici di comportamento androcratici, giacché usa il proprio corpo per emanciparsi”, a chi, invece, la considera “un’icona progressista-femminista, in virtù del suo intendere la leadership come espressione carismatico-empatica e come cura degli altri”. Secondo Comand, questo serrato dibattito prova, prima di ogni altra cosa, l’esistenza di Daenerys: “come soggetto del dibattito pubblico, nella vita immaginativa, simbolica e affettiva degli spettatori, questa donna Nata dalla Tempesta e Madre dei Draghi esiste”. Evidentemente, sostiene la studiosa, “l’incredibilità non implica automaticamente scarsa credibilità o l’incapacità di coinvolgere, incantare, suscitare sentimenti e interrogativi”, tanto che, con estrema naturalezza, si arriva a chiedersi se Daenerys Targaryen sia o meno femminista.

Alberto Brodesco analizza il rapporto tra teorie scientifiche e trame seriali che struttura un immaginario scientifico-mediale ove la cultura pop “trova nutrimento nella scienza che sfida il senso comune”. L’autore sottolinea come, a differenza del cinema del passato in cui la scienza solitamente compare attraverso la figura dello scienziato pazzo che valica il confine del consentito, la fiction contemporanea “mostra la scienza costretta dalla sua stessa episteme a spingersi al di là dei limiti della mente umana”. Per lo spettatore la legittimazione fornita dalla scienza regala alla narrazione un’atmosfera, in cui si fondono mistero e razionalità, utile al mantenimento di quell’ambiguità che rappresenta “uno dei cardini su cui si reggono le narrazioni estese”.

Decisamente approfondita risulta l’analisi della complessa struttura di Game of Thrones (HBO, dal 2001) realizzata da Luca Bandirali ed Enrico Terrone. Viene dai due indagato il ruolo narrativo dello spazio nel conflitto messo in scena dalla serie. In tale opera, sostengono gli autori, il legame strutturale tra spazialità, conflitto e forme di vita raggiunge livelli estremi di articolazione e proliferazione. Lo spazio qua è l’oggetto della contesa tanto che il mondo di Game of Thrones risulta cartografato con estrema cura. In uno dei quattro continenti, Westeors, suddiviso in sette regni, abbiamo il centro focale di tutta la vicenda. Chi tra i sette regni, perennemente in conflitto tra di loro, occuperà King’s Landing, ove si trova il trono, si troverà a governare su tutti gli altri. Al di là dei conflitti interni, i pericoli per Westeors vengono da nord, oltre la barriera, dai barbari bruti che premono sulla frontiera per fuggire dalla minaccia dei “non-morti” mentre, da sud, la minaccia viene dall’ultima discendente dei Targaryen, un casato spodestato restato senza stato. Da nord la minaccia ultima è rappresentata dai “non-morti”, mentre da sud da un esercito “ibridato con forme di vita non umane, i draghi”. Lo scontro finale pare destinato ad essere quello tra umani e non-umani.
Bandirali e Terrone analizzano dettagliatamente la complessa sigla iniziale della serie rilevandovi un’elaborata presentazione della struttura spaziale e narrativa. La sigla offre le esatte coordinate geografiche della serie e varia leggermente in base alle località maggiormente coinvolte nella narrazione della puntata. In essa compare anche un’enigmatica forma sferica: “Se la mappa rappresenta lo spazio geografico, il topos, come condizione fondamentale della narrazione (…) questa sfera rotante, con le sue effigi di draghi, cervi e antichi condottieri, sembra piuttosto voler condensare le altre dimensioni fondamentali della storia: l’epos come incombere di un passato leggendario, il kratos come pervasività delle relazioni di potere, e il telos come tensione verso un futuro nel quale si addensano progetti, obiettivi, speranze, timori”. Ulteriore approfondimento riguarda la complessa orchestrazione degli spazi e, secondo gli autori, quando la serie “abbandona la tipica verbosità del fantasy e mette in scena il potere dello spazio, raggiunge l’apice della propria rilevanza estetica in una fusione perfetta tra progetto narrativo, stilistico e ideologico”.

Alice Cucchetti si occupa dei fenomeni fandom legati alle produzioni seriali partendo da una definizione di fan inteso come “fruitore che opera sul proprio oggetto di culto un investimento emotivo, affettivo, performativo. Descriversi come fan di un prodotto (culturale oppure no) corrisponde a dare agli altri e a se stessi una definizione di sé. E di conseguenza riconoscere come simili le persone che condividono la stessa passione”. Con il termine fandom si indica, pertanto, una comunità di fan composta da cultori che “adottano un approccio attivo e dinamico nei confronti del testo”. Il materiale idolatrato viene saccheggiato dai fan e rimodellato secondo esigenze di carattere creativo ed emotivo che, non di rado, sfocia in una “produzione derivata” che integra l’oggetto di partenza o se ne distacca totalmente. Le produzioni culturali narrative si prestano alle dinamiche di fandom per diversi motivi, tra questi hanno un ruolo importante la spiccata componente d’evasione, il “potenziale di immedesimazione intimamente personale” e la possibilità di intervenire, sia come “sforzo immaginativo” che come “agire produttivo”, nella manipolazione del complesso “universo narrativo finzionale”. Risulta evidente come le produzioni seriali, televisive e non, amplifichino tali dinamiche. L’autrice ricorda come il primo fandom riconosciuto sia relativo al personaggio di Sherlock Holmes al punto di imporre ad Arthur Conan Doyle di “resuscitare” il protagonista dopo averlo fatto morire in un racconto del 1893. Sul celebre investigatore sono poi stati prodotti oltre duecento film e diverse serie televisive che hanno offerto ai fan ulteriore materiale su cui investire energie ed emozioni. Tra le produzioni televisive spicca per popolarità, la serie Sherlock (BBC, dal 2010), che vanta un fandom particolarmente attivo sul web. L’universo narrativo di Doyle, in effetti, contiene diverse caratteristiche utili alla creazione del fenomeno fandom: la dimensione seriale, la chiamata in causa del lettore/spettatore coinvolto nel metodo deduttivo anche grazie alla figura di Watson come suo alter ego ecc.
In generale, la serialità televisiva, sostiene Cucchetti, apre a forme di gradimento basate, oltre che sulla ripetizione e sulla variazione infinita, sulla competenza intertestuale del pubblico. Tale tipo di fruizione si è intensificato nel corso della cosiddetta “Golden Age seriale” caratterizzata da “narrazioni stratificate e complesse, una forte orizzontalità, una moltiplicazione dei personaggi e delle relative storyline, un approfondimento di temi trasversali, filosofici e/o morali. È una tipologia di racconto che pretende di essere fruita collettivamente”. Il fenomeno fandom non deve però essere percepito esclusivamente come attività “dal basso” visto che le produzioni non mancano di stimolare la nascita di tali fenomeni mettendo a disposizione materiale in abbondanza: “la grassroot convergence” interagisce con la “corporate convergence”.
Circa la “potenza di fuoco” che alcuni fandom sono in grado di dispiegare, l’autrice riporta il caso di Firefly (Fox, 2002), ove le veementi proteste dei fan per la cancellazione della serie dopo pochi episodi (trasmessi dall’emittente televisiva disordinatamente e con una collocazione di palinsesto infelice) hanno convinto la Universal Pictures a riprendere il discorso interrotto attraverso la realizzazione del lungometraggio cinematografico Serenity (2005). Caso, per certi versi, ancora più eclatante riguarda la serie Veronica Mars (UPN / CW, 2004-2007), teen drama poliziesco cancellato dopo tre stagioni. Il creatore della serie e l’attrice protagonista hanno chiesto direttamente alla comunità di fan di contribuire, attraverso un crowdfunding, al finanziamento di una nuova produzione. Lanciata la raccolta dei 2 milioni di dollari necessari sulla piattaforma Kickstarter, questi sono stati ottenuti dopo sole 24 ore ed, a fine raccolta, sono stati raggiunti più di 7 milioni di dollari. In entrambi i casi si capisce come, nonostante l’insuccesso della normale programmazione, “una nicchia di pubblico apparentemente ristretta ma motivata da una passione intensa è un’audience fruttuosa e potente quanto (e forse più) di una larga massa debole”. L’intervento di Alice Cucchetti si chiude toccando una questione importante circa lo sviluppo delle comunità di fan: come influirà sulla fruizione sociale del prodotto seriale la scelta di piattaforme streaming, come Netfix, di rilasciare tutti gli episodi della stagione contemporaneamente?

L’intervento di Veronica Innocenti passa in rassegna la serie televisiva Buffy the Vampire Slayer (WB / UPN, 1997-2003), preceduta dall’omonimo film per le sale cinematografiche di F. Rubel Kuzui del 1992. In entrambe le produzioni, sceneggiate da Joss Whedon, si narrano le vicende di una giovane californiana che, all’improvviso, scopre di essere la prescelta per difendere l’umanità da creature mostruose. Ibridazione, ribaltamento ed ironia nei confronti delle convenzioni di genere rappresentano i punti di forza di Buffy. La serie, caratterizzata da una forte instabilità delle identità dei personaggi e da una spiccata ibridazione dei generi, è strutturata su un sistema modulare ed, al pari di diverse altre produzioni seriali contemporanee, sostiene Innocenti, risulta contraddistinta da una “particolare sensazione di permanenza”. Abbandonati i sistemi tradizionali di narrazione procedurale, le forme testuali contemporanea si sono trasformate in “ecosistemi narrativi” caratterizzati per essere “sistemi aperti, abitati da forme narrative e personaggi che si modificano nello spazio e nel tempo (…); fondati su meccanismi di rimando e rimediazione; persistenti e resilienti, cioè durevoli e capaci di resistere alle perturbazioni (…); caratterizzati da una componente biotica preponderante, cioè da una materia narrativa viva e vitale, soggetta a processi di competizione, di adattamento, di cambiamento, di modifica”. Circa l’estensione del fenomeno Buffy ben oltre al medium televisivo, Innocenti sottolinea l’importanza del suo approdo nel mondo dei videogiochi, grazie al quale si allargano notevolmente le situazioni narrative e si permette al fruitore un ruolo decisamente più attivo. Il fruitore non si trova più a seguire una serie televisiva, ma, piuttosto, è chiamato ad “inseguirla” nei diversi ambiti mediali.

Il saggio di Paola Brambilla analizza Grimm (NBC, dal 2011), serie televisiva fantastico-procedurale ove il detective Nick Burkhardt, discendente dai “guardiani Grimm”, viene ad avere a che fare con creature demoniache. Grimm viene qua indagato “quale caso di evoluzione estetica e narrativa di una serie in relazione a fattori istituzionali e commerciali, legati alle esigenze dello scenario televisivo e mediale”. Dopo aver evidenziato come la forma iniziale della serie risulti influenzata dai meccanismi interni della broadcast television (che per sua natura è sottoposta ai controlli della Federal Communication Commision e deve prevedere i break pubblicitari, con ciò che ne consegue a livello di struttura narrativa), viene analizzata l’influenza sull’evoluzione stilistico-narrativa esercitata dal posizionamento nel palinsesto ed annesse strategie competitive. Elemento sfruttato al fine di accrescere la fidelizzazione risulta quello dell’incrementare il dialogo con i fan; ad esempio nella chiusura dell’ultima stagione compaiono sullo schermo note degli autori che, “strizzando l’occhio” al pubblico più affezionato recitano: “To be continued. Oh, come on. You knew this was coming”.

the-walking-deadLo scritto di Gabriele de Luca si occupa della rappresentazione dello straniero attraverso la figura del morto vivente in The Walking Dead (AMC, dal 2010). Prima di affrontare direttamente la serie, l’autore ricostruisce brevemente come la figura del morto vivente si presti a divenire nelle produzioni audiovisive contemporanee metafora “dello straniero, e più precisamente del migrante, quello irregolare, che si sposta clandestinamente, che viaggia senza i documenti necessari”. Analizzando le caratteristiche dello zombie, suggerisce de Luca, diviene possibile “riflettere sullo statuto attuale di questa figura” e sulla “rappresentazione dell’altro nei media contemporanei”.
Il classico dilemma circa la vera natura dei morti viventi torna anche in The Walking Dead: queste figure appartengono o meno al genere umano? I morti viventi della serie si presentano trasandati, pallidi, affamati e muti. “Gli zombie, come i migranti ridotti al silenzio dalle culture dominanti, sono muti, incapaci di articolare le proprie rivendicazioni, in grado a malapena di dialogare tra loro”. L’elemento che però sembra accomunare maggiormente zombie e migranti irregolari è la deindividualizzazione. I media rappresentano quasi sempre i migranti, esattamente come gli zombie, come folla, come orda che avanza col fine ultimo di sconvolgere la vita delle comunità civili. Tra le peculiarità della serie esaminata, de Luca individua il fatto che “la presenza dei walkers da stato d’eccezione diventa caratteristica costante di un mondo nuovo, rispetto al quale quello vecchio non è che un ricordo”. Una volta constatata l’impossibilità di sconfiggere il fenomeno dei morti viventi ed una volta scoperto che tutti, indistintamente, una volta morti si trasformano in zombie pur senza essere stati morsi da essi, ogni speranza di poter tornare alla vecchia società si spegne. La questione diventa allora quella di trovare forme di coesistenza, di costruire comunità nuove pur tra mille contraddizioni e difficoltà. L’elemento di novità introdotto dalla serie è che lo spunto narrativo dell’invasione dei morti viventi rimane presente ma viene pian piano relegato più sullo sfondo ed alla questione dello statuto degli zombie (umani/non-umani) “fa da contraltare un progressivo ed inesorabile assottigliarsi della barriera che separa uomini e zombie”. Anche gli esseri umani, via via, divengono sempre più lividi, sporchi, emaciati ed inclini ad impulsi violenti primordiali e l’assottigliarsi del confine che separa esseri umani e morti viventi è accompagnato da una “progressiva normalizzazione della situazione di eccezione”. L’accoglienza nei confronti di altri esseri umani si è data sul finire della terza stagione: all’interno della prigione-rifugio vengono accolti gli abitanti Woodbury, dopo che si è palesata la vera natura del Governatore. Resta da vedere se e come vi potranno essere modalità di apertura nei confronti dei walkers.

Les-Revenants-01Chiara Grizzaffi affronta la serie francese Les Revenantes (Canal+, dal 2012) in cui confluiscono i topoi di diversi generi, tra questi l’horror, il thriller ed il dramma. Seppure l’idea della serie derivi dal film omonimo realizzato nel 2006 da Robin Campillo, nella realizzazione seriale di Fabrice Gobert e Frédéric Mermoud, i cambiamenti sono parecchi. Venendo alla produzione di Canal+, le vicende narrate ruotano attorno ad un’immaginaria cittadina delle montagne francesi ai piedi di una diga, ove, pian piano, iniziano a far ritorno alle rispettive dimore personaggi deceduti da tempo. Il rapporto che si instaura tra questi personaggi che improvvisamente ritornano e gli abitanti della cittadina è al centro della vicenda. Altri elementi inquietanti si aggiungono, man mano, alla narrazione: la scoperta che il lago delimitato dalla nuova diga ricopre il vecchio paese sommerso da un’inondazione causata dal cedimento della precedente diga; il fatto che l’età di coloro che ritornano pare essere restata quella del momento della loro scomparsa mentre il resto del paese ha continuato ad invecchiare, l’inquietante figura della “guida spirituale” della comunità, i poteri che sembrano avere alcuni revenant, l’impossibilità di lasciare il paese da parte di chi tenta di andarsene e finisce poi per ritrovarsi sempre al punto di partenza, l’inspiegabile calo del livello dell’acqua del bacino delimitato dall’imponente nuova diga, la presenza di cadaveri di animali che sembrano essersi lanciati volontariamente nel lago, il fatto che alcuni dei revenant iniziano a manifestare piaghe di decomposizione sulla pelle dal sapore cronemberghiano ecc.
L’intera vicenda è contraddistinta, secondo Grizzaffi, da un tono perturbante; ciò che pur pare familiare allo spettatore, ben presto, a partire dalla sigla di testa, si presenta ad esso come estraneo. Se i primi episodi risultano “più intimisti”, gravitanti attorno al “conflitto psicologico” tra i personaggi, la trama sfocia, nell’approssimarsi all’epilogo, nel paranormale, lo scenario diviene post-apocalittico e la cittadina appare sempre più isolata dal resto del mondo tanto in termini spaziali che temporali, in una perturbante atmosfera sospesa in cui si mescola la temporalità bloccata dei ritornanti con lo scorrere del tempo dei cittadini che, pare, rallentare sempre più. Il finale pare zombie-oriented, con decine e decine di revenant che escono dalla foresta per dirigersi, tra le nebbie, verso l’abitato. Il rifiuto da parte dei vivi di consegnare Adèle ai revenant, porta allo scontro e l’ultima immagine ci mostra la città sommersa dalle acque.
La serie Les revenantes, sostiene acutamente Grizzaffi al termine del suo scritto, al di là dei riferimenti ai diversi generi (horror, thriller ecc.), “svela una complessità e una stratificazione maggiori: l’umanizzazione dell’orrore, il forte accento sui risvolti psicologici o sugli aspetti più banali del dolore e il rifiuto di motivare o spiegare la componente soprannaturale della trama, costituiscono una sfida per gli spettatori costretti a stare al gioco nonostante le regole – solitamente stabilite anche dalle coordinate di genere – in questo caso non siano chiare. (…) E, forse, tutto questo ci dice qualcosa anche sui tempi che stiamo vivendo: in un’epoca in cui l’oblio è un diritto da riconquistare e le tracce del nostro passato, soprattutto quelle digitali, sopravvivono anche alla nostra morte, rischiamo davvero di essere condannati al passato”.

Pietro Bianchi analizza la serie True Blood (HBO, 2008-2014) a partire dall’ambientazione: il profondo Sud rurale degli Stati Uniti. Tale mondo ha esercitato un certo fascino sull’immaginario americano, tanto che numerosi sono i film ambientati in tale località che riesce a mescolare eccessi e contraddizioni. Non è difficile immaginare come la rappresentazione del Sud rurale si sia alimentata di stereotipi propri della cultura urbana nordamericana che hanno finito con il costruirne un’immagine in cui le contraddizioni sono portate all’eccesso; di queste terre si elogia la genuinità e l’autenticità ma al tempo stesso ci si spaventa per l’arretratezza tecnologica e culturale. Bianchi sostiene che ”True Blood non ci vuol fare vedere il Sud, ci vuole far vedere l’immagine del Sud. Quell’immagine che l’ha reso un oggetto del desiderio delle élite colte e urbane americane e dei film di Hollywood degli ultimi anni. Il fatto che di questo luogo vengano mostrati con insistenza i tratti di eccesso sessuale, fisico, estatico; o che venga continuamente riaffermato il surplus di autenticità e veracità, costituirà il filo rosso dell’intera serie. La presenza dei vampiri serve infatti a raddoppiare all’interno dell’intreccio, quello che la rappresentazione del Sud costituisce all’esterno nell’immaginario contemporaneo”. Nella serie si sommano gli eccessi propri delle creature soprannaturali con le esperienze umane quando queste si fanno estreme. L’esperienza dell’andare oltre la propria umanità, secondo Bianchi, “non ha niente a che vedere con il registro del magico o del soprannaturale, ma con qualcosa di estremamente razionale e che la psicanalisi definisce ‘pulsione di morte’”. Nella serie la comparsa dei vampiri si accompagna “all’impossibilità di alcuni personaggi di riuscire a fari i conti con la distruttività del godimento”. Tale ragionamento porta l’autore a concludere che di “soprannaturale”, nella serie esaminata, c’è proprio la pulsione di morte, ossia “un principio di superamento dei limiti del vivente che tuttavia si trova al cuore dell’umano” e le creature soprannaturali (vampiri, licantropi ecc.) “sono un modo per dare manifestazione a ciò che di innaturale vi è nell’essere umano, non un modo per mettere a tacere l’umano con ciò che umano non è”.

person of interestLo scritto di Valentina Valente si occupa di Person of Interest (CBS, dal 2011), serie che mescola thriller spionistico ed aspetti avveniristici di derivazione fantascientifica ma esplicitamente ancorata a questioni che toccano il mondo reale ormai disseminato di telecamere di controllo a circuito chiuso e banche dati utili a tracciare i profili degli individui. La “Macchina” in grado di riconoscere e mappare gli individui sfruttando CCTV e banche dati, compare in quanto commissionata, in seguito all’11 settembre, dal governo statunitense, al fine di sventare attacchi terroristici. Grazie all’integrazione umana dei due protagonisti, la Macchina si rivela in grado di fornire informazioni riguardanti anche crimini non di carattere terroristico. Ed è di questo uso che si occupa Person of Interest. Nella serie si esplicita, secondo Valente, una distinzione tra chi, avendo accesso agli “strumenti della conoscenza e dello sguardo”, dunque detiene il potere, e chi, è inconsapevole. La Macchina costituisce la linea di separazione tra questi due mondi. Altro elemento su cui si sofferma tale analisi riguarda le caratteristiche dei luoghi entro cui si dipana la narrazione. La biblioteca-rifugio rappresenta il luogo della ricerca e della pianificazione, tale spazio è l’unico a presentarsi allo spettatore come sicuro, tanto che non viene quasi mai inquadrata la porta di accesso al fine di rafforzare l’idea di spazio inviolabile. Il commissariato di polizia che, normalmente viene presentato nei film e nelle serie televisive come spazio sicuro, in questo caso appare come luogo concepito per “impedire la riservatezza”; si tratta di un’ambiente corrotto, potenzialmente pericoloso. L’ambiente principale, continua Valente, è la città, New York. In questo caso lo spettatore ne prende visione principalmente attraverso la videosorveglianza. I dispositivi video “non sono soltanto oggetti diegetici che per un breve momento caratterizzano la narrazione (…) o sono semplicemente gli oggetti prevalenti per lunghi brani narrativi (…), ma connotano la configurazione visiva dell’intera opera”. I dispositivi di sorveglianza oltre ad essere “oggetto diegetico” rappresentano una “modalità di fruizione di immagini” a cui il pubblico contemporaneo è abituato, perciò “la loro varietà di topologia di immagine non è spiazzante, ma amplifica la complessità della collocazione dello sguardo nella frammentarietà della metropoli contemporanea”.

L’analisi di Rossella Catanese e Valerio De Simone passa in rassegna Bates Motel (Universal Television Group – The Wolper Organization – A&E, dal 2013), serie che sembra un prequel anomalo di Psyco (1960) di Alfred Hitchcock. Le storie narrate si svolgono attorno alla famiglia Bates, nel corso dell’adolescenza di Norman. L’anomalia, se si vuole intendere la serie come prequel di Psyco, consiste nel fatto che la collocazione temporale contraddice tanto l’opera hitchcockiana, quanto il remake realizzato da Gus Van Sant nel 1998, essendo, la serie, ambientata in epoca a noi contemporanea e non prima degli anni Sessanta, nel caso anticipasse Hitchcock, né prima degli anni Novanta, nel caso decidesse di rifarsi alla versione di Gus Van Sant. Inoltre, cambia la località: un piccolo paesino sulla costa dell’Oregon, White Pine Bay, al posto della cittadina californiana di Fairvale. Bates Motel, pertanto, non può essere indicato né come un vero e proprio prequel, né, tantomeno, come, ennesimo, remake. Secondo gli autori la serie è piuttosto considerabile una rielaborazione, una rilettura di ambientazione contemporanea di un’opera ormai diventa classica. Dalla seconda metà degli anni Duemila sono numerosi i casi in cui vengono riprese opere cinematografiche o vecchie serie di successo ed ambientate ai giorni nostri con diversi cambiamenti. La serie Bates Motel, secondo Catanese e De Simone, può essere definita un “double re-imagined”: viene infatti doppiamente ri-immaginato ciò che non è stato mostrato precedentemente per poi collocarlo ai nostri giorni al fine di accrescere “il processo di identificazione” dei teenager. bates_motel_06Al fine di marcare lo stato di isolamento di Norman, viene mostrato indossare abiti “retrò”, per certi versi atemporali, differenziandolo così dalla comunità dei suoi coetanei vestiti invece in maniera contemporanea. Ulteriore elemento su cui si sofferma l’analisi riguarda il ruolo della crisi economica nella serie. Mentre in altre serie la crisi che ha attraversato gli Stati Uniti nel 2008, sostengono gli autori, risulta rappresentata come “evento traumatico di passaggio”, nella serie in esame diviene un elemento essenziale. “In Bates Motel il processo che ha generato la crisi viene capovolto: a generare la crisi non sono le speculazioni dei professionisti della borsa, bensì le proteste di un gruppo di ambientalisti” che mettono in crisi il business del commercio di legname, fino ad allora perno dell’economia locale, aprendo le porte alle attività illegali che sommergono la cittadina. È lo stesso dimesso motel a divenire emblema della crisi economica, motel che già nella versione hitchcockiana esibisce, nelle intenzioni del regista, il “grigio squallore della working class, i sogni infranti del benessere negato”. L’analisi di Catanese e De Simone insiste sulla centralità del motel segnalando come sin da Psyco di Hitchcock il set, composto da motel ed annessa casa sulla collina, sia pensato come “concretizzazione del paesaggio interiore del protagonista”, e finisca per rappresentare “il terrore collettivo per l’abiezione degli omicidi seriali, trauma culturale per gli Stati Uniti degli anni Cinquanta”. Il motel, nell’analisi esposta dagli autori, diviene “un’eterotopia, un luogo privo di riferimenti geografici o culturali, che condensa gli elementi aleatori e precari di un’idea di estraneità”, l’orrore non è più confinato nella spettrale casa sulla collina ma “appare improvvisamente nella banalità quotidiana e anonima del motel”, mentre l’isolamento dei due edifici, casa/motel, sembra replicare, simbolicamente, “l’io diviso del protagonista e contemporaneamente la sua dipendenza dalla personalità materna”.

L’ultimo contributo del libro curato da Sara Martin, è di Mimmo Gianneri e si occupa di Battlestar Galactica (Sci Fi Channel, 2004-2009), versione re-imagined della serie televisiva di fine anni Settanta Galactica (Glen A. Larson Productions – Universal TV, 1978-1979). La serie andata in onda a partire dal 2004 si inserisce nelle produzioni che intendono riprendere in maniera allegorica la società statunitense dopo l’11 settembre: “la flotta coloniale è alle prese con le conseguenze di un attacco al proprio cuore che si rivela fin da subito un’offensiva al proprio modello culturale e alle proprie certezze ideologiche”. Dal punto di vista stilistico la serie decide di adottare uno stile “documentaristico” con ambientazioni realistiche ed un “paesaggio sonoro costituito da suoni diegetici”. La colonna sonora riveste un ruolo fondamentale nella comprensione della filosofia della serie, tanto che l’analisi di Gianneri si concentra principalmente sul sonoro a partire dalla scelta di preferire al cliché della musica sinfonica, tipico di tanta fantascienza, sonorità non occidentali, al fine di sottolineare simbolicamente “la composizione culturalmente eterogenea della flotta in fuga”. Nell’economia del soundscape, sottolinea lo studioso, “la musica percorre una strada parallela a quella del sonoro diegetico realistico e aptico in una vera e propria divisione dei ‘compiti’. Se il suono diegetico è il prodotto del sudore, della fatica quotidiana e, in ultima misura del lavorio del metallo arrugginito che circonda le navi-prigioni perse in cerca di una ‘casa’, la musica extradiegetica rappresenta una forza esogena di pacificazione” E le rare occasioni in cui il sonoro diegetico ed extradiegetico dialogano, rimandano alla presenza di un’entità superiore tanto che il ritrovamento della Terra pare fondarsi sulla “capacità di cogliere e interpretare, da una prospettiva terrena – fatta di tradimenti, morti e ferite interiori – i segni divini (cioè musicali) percepibili”.

]]>
E.N.D. – Dalla parte degli zombi https://www.carmillaonline.com/2015/06/26/e-n-d-dalla-parte-degli-zombi/ Fri, 26 Jun 2015 20:00:03 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=23640 di Luca Cangianti

END_THE_MOVIE_VIDEO_OVERLAY_IMAGEIl ribaltamento tra zombi e umani è già presente in germe nella Notte dei morte viventi di George Romero. Nel finale di questo film gli zombi diventano vittime della violenza militarista, insieme all’unico umano scampato alla notte di assedio; poi nel quarto lungometraggio della saga, La terra dei morti viventi, gli zombi si evolvono riapprendendo a svolgere alcune attività che eseguivano in vita. Uno di questi, Big Daddy, diventa perfino il leader che guida un attacco pianificato a una città popolata da umani crudeli. Un membro di una [...]]]> di Luca Cangianti

END_THE_MOVIE_VIDEO_OVERLAY_IMAGEIl ribaltamento tra zombi e umani è già presente in germe nella Notte dei morte viventi di George Romero. Nel finale di questo film gli zombi diventano vittime della violenza militarista, insieme all’unico umano scampato alla notte di assedio; poi nel quarto lungometraggio della saga, La terra dei morti viventi, gli zombi si evolvono riapprendendo a svolgere alcune attività che eseguivano in vita. Uno di questi, Big Daddy, diventa perfino il leader che guida un attacco pianificato a una città popolata da umani crudeli. Un membro di una squadra di esploratori in disaccordo con i governanti della città, mira alla testa di Big Daddy, ma il comandante Riley Denbo gli ordina di non sparare: “Stanno solo cercando un posto dove andare… Proprio come noi!” Insomma, i mostri hanno acquisito coscienza e soggettività rivoluzionaria, al punto da esser riconosciuti dagli umani più illuminati.

In E.N.D. The Movie ci si spinge ancora più avanti: i morti viventi si evolvono fino a costituire una nuova specie dotata di linguaggio, di legami sociali, di sentimenti e debolezze. Siamo oltre il modo di produzione umano.
Il film, presentato in anteprima il 24 giugno scorso al Fantafestival di Roma, è una produzione indipendente realizzata anche grazie a un crowdfunding. Al di là di qualche effetto speciale digitale, del quale non c’era bisogno, e di un rallentamento nella parte centrale, E.N.D. ha un impianto narrativo solido e originale, in cui il genere horror è scelto come contesto più adatto a valorizzare il conflitto tra i personaggi. Il lungometraggio è stato realizzato da un gruppo di registi: Federico Greco, Domiziano Cristopharo, Luca Alessandro e Allegra Bernardoni. Il primo di questi, Greco, ha curato la supervisione creativa oltre a firmare per intero l’ultima parte del film.

E.N.D. tuttavia non è un film a episodi perché, pur essendo composto di tre sezioni, si articola lungo il filo di un’unica storia. L’epidemia scoppia a causa di una partita tagliata male di cocaina (Erythroxylum coca – NaOH – Desipramina, E.N.D. per l’appunto) e continua a diffondersi coinvolgendo un’agenzia di pompe funebri. La seconda sezione del film, diretta da Domiziano Cristopharo, si svolge 4 anni dopo in un’Italia occupata dall’esercito statunitense impegnato a combattere i mostri affamati di carne umana. Qui una donna incinta e un soldato, assediati in una casa di campagna, assistono a un processo d’ibridazione che apre alla terza parte, quella più riuscita. Sono passati altri due anni, gli zombi non possono esser uccisi in nessun modo, nemmeno sparandogli in testa. Anzi si sono sviluppati al punto da costituire una società eticamente migliore rispetto a quella umana, che usa anziani e portatori di handicap come cavie.

Il genere fantastico può avere una funzione sovversiva, capace di svelare realtà invisibili, indicibili e rimosse. Nel caso di E.N.D. all’apparire dei morti viventi, connotati da bruttezza, sporcizia, violenza, irrazionalità e mancanza d’individualità (proprio come le masse proletarie e migranti agli occhi del benpensante) fa seguito un processo evolutivo che mette in discussione la rigidità tra il “noi” e il “loro”, fino al ribaltamento più radicale. Differentemente da molti altri film di zombi, l’irruzione del mostruoso non si sana sparando in testa a tutti i morti viventi che ci si presentano davanti, per ricostruire poi una convivenza umana basata sugli assetti precedenti all’apocalisse. Da un punto di vista concettuale siamo anche oltre le avvincenti ibridazioni presenti in In the flesh e Z Nation. E.N.D. non ci permette più di dire chi siano i veri mostri. Gli zombi nel loro linguaggio non hanno dubbi: “Dalla nostra parte si sta meglio!”, dicono prima di mordere gli umani includendoli così nella loro comunità. Ma non c’è nessun manicheismo: la paura, il tradimento e la vigliaccheria appartengono anche al fronte della morte vivente. Ed è forse per questo che con gli zombi ci sentiamo a casa.

]]>