immagine – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il rapporto tra parola e fotografia nel mondo dell’immagine https://www.carmillaonline.com/2024/08/03/il-rapporto-tra-parola-e-fotografia-nel-mondo-dellimmagine/ Sat, 03 Aug 2024 20:00:50 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83459 di Gioacchino Toni

Cristina Casero, Federico Marzi, a cura di, D’inchiostro, d’argento, di pixel. Rapporto tra parola e fotografia nel mondo dell’immagine, Postmedia books, Milano 2024, pp. 106, € 14,00

Derivato dall’omonimo seminario che si è tenuto nel maggio del 2023 presso il Centro per le Attività e le Professioni delle Arti e dello Spettacolo dell’Università di Parma, il volume D’inchiostro, d’argento, di pixel. Rapporto tra parola e fotografia nel mondo dell’immagine, (Postmedia books 2024), curato da Cristina Casero e Federico Marzi, raccoglie una serie di contributi che indagano il complesso rapporto tra parola e fotografia nell’odierna società dell’immagine. In un [...]]]> di Gioacchino Toni

Cristina Casero, Federico Marzi, a cura di, D’inchiostro, d’argento, di pixel. Rapporto tra parola e fotografia nel mondo dell’immagine, Postmedia books, Milano 2024, pp. 106, € 14,00

Derivato dall’omonimo seminario che si è tenuto nel maggio del 2023 presso il Centro per le Attività e le Professioni delle Arti e dello Spettacolo dell’Università di Parma, il volume D’inchiostro, d’argento, di pixel. Rapporto tra parola e fotografia nel mondo dell’immagine, (Postmedia books 2024), curato da Cristina Casero e Federico Marzi, raccoglie una serie di contributi che indagano il complesso rapporto tra parola e fotografia nell’odierna società dell’immagine. In un panorama mediale come quello contemporaneo, in cui l’immagine fotografica sembra ambire a sostituirsi alla scrittura, indagare il rapporto tra i due linguaggi espressivi assume una particolare importanza anche alla luce delle inedite possibilità di manipolazione delle immagini offerte dal digitale.

Se da un lato l’immagine fotografica, per la sua immediatezza, risulta estremamente efficace dal punto di vista comunicativo, tanto da poter offuscare il testo, è altrettanto vero che l’interpretazione dell’immagine fotografica viene indubbiamente indirizzata dal testo che la accompagna. Che si tratti di una semplice didascalia o di un testo più corposo e complesso, nell’attuale contesto visivo la parola continua ad avere un ruolo importante nel suo confronto con l’immagine fotografica e, come è emerso dal seminario in questione, la sintesi di entrambi i linguaggi si rivela assolutamente essenziale per la costruzione di un significato autentico e profondo.

Passando in rassegna gli studi di Bertold Brecht, sul rapporto tra testo scritto e fotografia a proposito dei servizi giornalistici sulla seconda guerra mondiale, e di Walter Benjamin, sul ruolo della didascalia nella significazione fotografica, del proficuo rapporto tra scrittori e fotografi e delle esperienze artistiche basate sul rapporto tra le due pratiche comunicative, Roberta Valtorta evidenzia la complessità del rapporto fra l’immagine fotografica e la parola. La studiosa passa dunque in rassegna, nelle loro differenti modalità, sia diversi celebri rapporti che si sono dati tra scrittori e fotografi, che diverse modalità con cui gli artisti hanno fatto dialogare i due diversi sistemi espressivi. Per quanto riguarda il rapporto tra scrittori e fotografi, la studiosa ricorda i casi di: Elio Vittorini e Luigi Crocenzi, Cesare Zavattini e Paul Strand, James Agee e Walker Evans, Gianni Celati e Luigi Ghirri, Giorgio Messori e Vittore Fossati. Tra le esperienze artistiche incentrate su forme narrative verbo-visuali, su dialoghi o conflitti tra fotografia e parola, Vlatorta riporta i casi di alcuni protagonisti delle Prime e, soprattutto, delle Seconde avanguardie novecentesche: Joseph Kosuth, John Baldessari, Vito Acconci, Victor Burgin, Franco Vaccari, Luigi Ghirri, Duane Michaels, Barbara Kruger, Jochen Gerz, Sophie Calle o, in casi più recenti, in cui il rapporto tra immagine fotografica e parola scritto sembra complicarsi ulteriormente, come in Bianco-Valente, Claudio Beorchia, Joachim Schmid. In conclusione del suo intervento, in cui sono tratteggiate diverse modalità con cui i due linguaggi espressivi si sono confrontati tra loro, rifacendosi al convincimento di William John Thomas Mitchell – “There are no Visual Media” – Roberta Valtorta invita a chiedersi se davvero non sia il caso di abbandonare una volta per tutte l’idea che esista una specificità del visivo e prendere atto che «tutti i media sono misti, e un medium agisce nell’ambito di pratiche sociali complesse e non come qualcosa di specifico determinato da una qualche tecnologia che possa dotarlo di una speciale specificità».

Pensando al “fototesto” come a un ecosistema intermediale e retorico in cui sono compresenti linguaggio fotografico e verbale-letterario in un equilibrato rapporto di confronto e integrazione, Paolo Villa approfondisce la particolare e breve esperienza di interazione e sperimentazione fra fotografia, cinema, giornalismo e letteratura proposta dai “fotodocumentari” della rivista «Cinema Nuovo». Una volta analizzato il fototesto nei diversi elementi mediali e discorsivi che lo compongono, guardando tanto alle singole specificità che alle loro reciproche relazioni, e dopo aver tratteggiato il contesto italiano di metà degli anni Cinquanta in cui si collocata l’esperienza dei fotodocumentari (dal 1954 al 1956), Villa analizza questi ultimi attraverso l’enucleazione dei livelli strutturali e delle strategie comunicative che li contraddistinguono. Nonostante si sia trattato di un’esperienza decisamente minoritaria, indubbiamente «Cinema Nuovo», con i suoi fotodocumentari, caratterizzati da un’evidente matrice cinematografica, ha contribuito allo «sviluppo di una fotografia documentaria moderna e aggiornata al contesto internazionale, intesa come strumento autonomo di indagine sociale, dimostrato dal pieno riconoscimento autoriale assegnato ai fotografi».

Al ruolo del fotografo di scena, nato insieme al cinema, nel suo narrare il processo di realizzazione di un film rendendo pubblico e visibile il lavoro dietro e davanti alla cinepresa è dedicato il contributo di Sofia Panza. L’ingaggio di fotografi di scena risponde innanzitutto all’esigenza di supportare visivamente il film nelle sale, dunque nasce come strumento promozionale che, in Italia, si pone sul solco dei cineracconti diffusi sin dagli anni Venti del Novecento, in un crescendo che proseguirà sino agli anni Sessanta. Tipicamente italiano è poi il fenomeno dei cineromanzi, una forma narrativa ibrida tra cinema, letteratura e fotografia che raggiunge il suo culmine negli anni Cinquanta. Per quanto, come detto, l’origine della fotografia di scena sia promozionale e commerciale, non di meno, soprattutto negli ultimi tempi, è stata riconosciuta come fonte documentaria importante capace di rivelare importanti informazioni non solo circa il lavoro dei registi e degli attori, ma anche dalle più diverse maestranze che concorrono alla realizzazione dei film. L’archivio fotografico di Rodrigo Pais esaminato da Panza, può essere visto come importante esempio di documentazione visiva del mondo cinematografico indagato dal fotografo per oltre mezzo secolo.

Partendo dalla definizione di archivio, Federico Marzi si occupa del legame tra l’immagine fotografica e la parola scritta; due modalità comunicative che, per quanto differenti, all’interno dell’archivio fotografico risultano essere del tutto complementari nella ricostruzione di tracce che rimarrebbero altrimenti nell’ombra della storia. Indagando tre casi studio – Archivio Publifoto, Archivio Foto Vasari e Archivio Bruno Stefani – lo studioso mostra l’importanza del rapporto tra parola e fotografia in archivio nel fornire informazioni utili per la catalogazione e l’accesso alle collezioni fotografiche in formato digitale.

Al percorso artistico di Barbara Kruger, tra gli esempi artistici contemporanei in cui è più evidente la volontà di unire testo e immagine fotografica, è dedicato lo scritto di Alessandra Acocella. Analizzando in particolare alcune mostre tenute dalla statunitense in Italia tra il 1980 ed il 2002 – al Padiglione d’arte contemporanea di Milano, al Castello di Rivoli, al Centro Pecci di Prato ed al Palazzo delle Papesse di Siena –, la studiosa indaga come l’artista sfrutti mirabilmente le potenzialità comunicative dell’immagine e della parola al fine di creare «dispositivi di riflessione e interrogazione sul significato» su tematiche come la costruzione delle identità e le dinamiche dei rapporti di potere.

Del rapporto tra testi e immagini nella costruzione di fake news si occupa Michele Smargiassi in un intervento in cui evidenzia come le fotografie, pur capaci di amplificare il potere persuasivo delle parole, a causa alla loro storica credibilità come “medium della realtà”, non siano in grado di smentire direttamente una falsità. Soffermandosi in particolare sull’ambito politico, lo studioso sottolinea come, lungi dall’essere riconducibili a “semplice” mancanza di accuratezza, le fake news siano divenute a tutti gli effetti una influente “strategia di comunicazione” utile ad aumentare l’identificazione del pubblico con una causa e un leader.

Giulia Conti individua nella fotografia e nel testo scritto le forme espressive dominanti nella modernità capaci di influenzare profondamente la socialità e la cultura. A superare l’idea che distingue nettamente le due forme comunicative, secondo la studiosa, provvede l’universo dei social network capace com’è di rendere il rapporto tra fotografia e testo decisamente complesso e dinamico, dando luogo a un continuum transmediale. Per quanto si voglia superata l’ingenua pretesa dell’obiettività delle fotografie, queste sembrano continuare ad offrire interpretazioni e narrazioni deformate della realtà. Conti propone dunque «una riflessione sociologica su come le affordance, le particolarità intrinseche dello spazio social, e le pratiche che ne derivano ci inducano a considerare il messaggio trasmesso attraverso i social come un costrutto olistico, in cui convergono semiotiche diverse, spesso inscindibili le une dalle altre». Dopo un breve excursus sulle caratteristiche della socialità online, la studiosa si concentra «su cosa significa usare foto e testi come grammatica estetica tipica di una delle dimensioni della nostra socialità», giungendo alla conclusione che fotografie e testo «si fanno parte organica dell’autopoiesi che i sistemi social(i) portano avanti».

A chiudere il volume è il contributo di Ylenia Caputo volto a mostrare come nei tempi recenti sia profondamente cambiata l’immagine della “celebrità” alla luce della demistificazione operata dalla televisione e dalle piattaforme mediatiche che hanno immensamente esteso la possibilità di fama, per quanto effimera possa essere, a soggetti a cui un tempo sarebbe stata preclusa. La sola immagine, scrive Caputo, «non basta per giustificare la rivoluzione del paradigma della celebrità. Anche la parola si rivela un elemento soggetto a forte metamorfosi, che contribuisce fortemente alla decostruzione della celebrità, avvicinandola al pubblico, ricollocandola nel mondo ordinario». Insomma, è il particolare rapporto che si è andato a creare tra parole a immagine, permesso dal digitale, che ha permesso, come mai prima, alla figura della celebrità di avvicinarsi al pubblico e inserirsi nella vita quotidiana.

Il volume curato da Cristina Casero e Federico Marzi ha il merito di guardare al complesso rapporto tra parola e fotografia nell’odierna società dell’immagine accantonando la semplicistica idea che vuole l’immagine tiranna assoluta dei nostri giorni.

]]>
L’esperienza umana nell’epoca dell’intelligenza artificiale https://www.carmillaonline.com/2023/05/10/lesperienza-umana-nellepoca-dellintelligenza-artificiale/ Wed, 10 May 2023 20:00:00 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76777 di Gioacchino Toni

Adriano Pessina, L’essere altrove. L’esperienza umana nell’epoca dell’intelligenza artificiale, Mimesis, Milano-Udine, 2023, pp. 126, € 12.00

Che ci si preoccupi di come sfruttare al meglio la tecnica dal punto di vista del profitto, che si cerchino in essa inediti ampliamenti della dimensione umana, che vi si individuino modalità di semplificazione dell’esistenza o che ci si interroghi su quanto si sia da essa posseduti, è indubbia la rilevanza che ha assunto la “questione della tecnica” nel dibattito degli ultimi decenni.

Evitando tanto approcci che guardano alla tecnologia in maniera apocalittica, quanto [...]]]> di Gioacchino Toni

Adriano Pessina, L’essere altrove. L’esperienza umana nell’epoca dell’intelligenza artificiale, Mimesis, Milano-Udine, 2023, pp. 126, € 12.00

Che ci si preoccupi di come sfruttare al meglio la tecnica dal punto di vista del profitto, che si cerchino in essa inediti ampliamenti della dimensione umana, che vi si individuino modalità di semplificazione dell’esistenza o che ci si interroghi su quanto si sia da essa posseduti, è indubbia la rilevanza che ha assunto la “questione della tecnica” nel dibattito degli ultimi decenni.

Evitando tanto approcci che guardano alla tecnologia in maniera apocalittica, quanto quelli votati ad acritici entusiasmi nei suoi confronti, il saggio di Pessina assume la prospettiva del fruitore delle nuove tecnologie indagandone in particolare l’esperienza “dell’essere altrove”. Non si tratta di documentare cosa gli esseri umani possano fare con le tecnologie e cosa queste facciano degli umani, quanto piuttosto di riflettere su come l’“esperienza dell’io” si dia ai nostri giorni in una situazione in cui si intrecciano “presenza” e “assenza”.

L’attuale contesto storico vede infatti l’esperienza degli individui fare i conti con l’irruzione di ciò che è altrove rispetto all’immediato dell’esperienza così come la si vive all’interno dei confini spazio-temporali della biosfera. Occorre perciò pensarsi anche dentro quel nuovo spazio di comunicazioni e relazioni creato dalle Tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT), chiamato infosfera. «Pensare a ciò che facciamo richiede, oggi, di comprendere meglio anche ciò che le ICT fanno della e nella nostra esperienza» (p. 14). Tale contesto tecnologico, insieme a questioni di natura economica, sociale, politica, implica anche questioni di carattere antropologico che per certi versi riscrivono la stessa rappresentazione dell’essere umano.

Riprendendo alcune considerazioni di Hannah Arendt (The Human Condition, 1958) circa l’insoddisfazione dell’essere umano nei confronti della propria condizione originaria, Pessina riflettere sul diffondersi del convincimento che il naturale imperfetto possa trovare un suo modello nell’artificiale.

L’idea che il dato, il naturale sia pensabile come imperfetto rispetto al prodotto, all’artificiale che ne diventano, per così dire, la misura, non è affatto estranea ai progetti dell’altra rivoluzione, non più biologica, ma digitale, oggi impegnata a creare un mondo artificiale in cui imparare a esistere nel mondo reale, secondo i progetti dell’intelligenza artificiale e del cosiddetto Metaverso (p. 17).

A partire dalle riflessioni di Günther Anders (Die Antiquiertheit des Menschen, 1956) che vedono nel “dislivello” tra condizione umana e potenza degli artefatti tecnologici la perdita di senso dell’umano, Pessina si domanda, a proposito dell’esperienza tecnologica, se ai giorni nostri il “dislivello” più problematico non sia piuttosto di tipo sociale, relativo cioè al possesso delle tecnologie (avere o meno l’ultimo modello di smartphone, disporre delle applicazioni più avanzate, di una connessione veloce ecc.).

Il panorama digitale contemporaneo ripropone con forza la questione del «rapporto tra la realtà e l’immagine che la rappresenta, tra le parole e le cose, ma anche tra somiglianza e similitudine» (p. 29) posto con grande consapevolezza dal pittore surrealista belga René Magritte in diverse sue opere a partire dal celebre La Trahison des Images (1929), dipinto su cui riflette il filosofo francese Michel Foucault.

L’importanza attribuita alla vista […] è sicuramente dettata dal fatto che sembra eliminare la distanza fisica tra noi e le varie forme del reale, ma è solo in base a precomprensioni culturali che possiamo trasformare l’analogia tra il vedere e il conoscere nel primato della vista. L’inganno è sempre facilitato da ogni riduzione delle fonti del conoscere e dalla nostra volontà di giungere, anche per scopi pratici, a rapide conclusioni. La tecnologia, del resto, è velocità e come tale non ci aiuta a prendere tempo per valutare (p. 31).

Da tali considerazioni deriva la necessità di «passare dall’immediatezza della percezione visiva e della conoscenza che ne segue – che fa sempre riferimento a ciò che appare – alla riflessione» (p. 31).

La forza persuasiva delle moderne Tecnologie dell’informazione e della comunicazione raggiunge probabilmente il suo culmine nella loro proposta di ambienti digitali e virtuali in cui si simula un’efficace esperienza plurisensoriale. Al fine di sviluppare un atteggiamento critico nei confronti di tali tecnologie, sottolinea Pessina, occorre «comprendere e tentare di approfondire quali esperienze e conoscenze si stanno facendo “realmente” quando siamo “altrove”, mentalmente o, come nel caso delle esperienze del virtuale, sensorialmente» (p. 32).

Con la televisione, suggerisce Anders, le tecnologie introducono nell’esperienza umana immagini rimandanti a fatti ed eventi che si collocano in un “altrove” rispetto allo spazio-tempo in cui queste vengono fruite ma queste non possono essere indicate come “rappresentazione”, se con tale termine si intende indicarne la funzione di “simulazione”. Chiaramente le immagini che compaiono sugli schermi hanno una differente ricaduta sul nostro vissuto a seconda che siano interpretate come “fatti” o come “rappresentazioni”, come contenuti “documentari” o di “finzione”.

A proposito dello spettatore posto di fronte alle trasmissioni televisive Anders puntualizza come gli avvenimenti che compaiono sullo schermo siano al tempo stesso “presenti” e “assenti”, “reali” e “apparenti”, come si trattasse di “fantasmi”, nel senso che l’esperienza individuale partecipa di qualcosa che pur non essendo “presente materialmente” è però in sé “reale”, si trova “altrove” rispetto allo spazio-tempo fisico vissuto dal fruitore ma influisce a livello sensoriale, cognitivo ed emotivo, su di esso.

Le tecnologie allargano decisamente la sfera delle esperienze cognitive, emotive e sensoriali ma ne modificano il significato originario. Di fatto manca un linguaggio adeguato a definire le esperienze portate dalle nuove tecnologie; se da un lato non si può infatti ricorrere al termine “rappresentazione”, dall’altro la nozione di “fantasma” a cui ricorre Anders appare poco intuitiva e rischia di produrre fraintendimenti.

L’individuo ha l’impressione di poter governare le “presenze” offerte dalle nuove tecnologie ma si scontra con una “passività costitutiva” che non è venuta meno con la svolta digitale; le architetture tecnologiche con cui interagisce non sono di certo neutre.

Se poi pensiamo a come i cosiddetti “social” tendano a farci inserire nelle comunicazioni dei vari utenti, facendoci credere di “partecipare” alle loro esperienze, ci rendiamo conto di come la dilatazione delle “immagini” del mondo e della “realtà” portino con sé, in modo paradossale, una specie di radicale impoverimento dell’esperienza in prima persona singolare, di quell’esperienza diretta, non mediata da altri punti di vista umani, che pure continuiamo a vivere (pp. 39-40).

Se tutto diviene informazione, se corpo vissuto e corpo conosciuto, corpo visto e corpo toccato diventano indistinguibili, allora «scompare anche la differenza tra una realtà presente e attuale e una realtà non attuale ma presente sui nostri schermi solo grazie al primato del “visivo”» (p. 40).

Il modello dell’apprendimento e dell’emancipazione, nell’epoca della tecnologia, sembra, allora, invertire il processo indicato da Platone. Se si vuole conoscere e comprendere la realtà non si deve dare le spalle al gran teatro del mondo che appare sugli schermi ma, al contrario, occorre voltare lo sguardo dalla realtà immediata e cercare nella rete la conferma della sua stessa consistenza, del suo significato (p. 44).

Tanto nel mito platonico, quanto in quello tecnologico, sottolinea Pessina, il mondo delle immagini si trasforma nel “tradimento delle immagini” soltanto se si espelle dall’esperienza cognitiva ogni livello riflessivo.

Nell’era digitale il server è “altrove” rispetto all’apparecchiatura tecnologica utilizzata, “altrove” sono gli eventuali interlocutori con cui si può interagire e “altrove” sono le fonti dei contenuti di cui si fruisce. Nell’immergersi mentalmente in un contesto sensoriale isolante (online), si resta con il corpo senziente in un luogo determinato (offline). «Essere qui e altrove, occupare, con il nostro corpo, un luogo fisico determinato ed essere, con la mente, altrove, è un’esperienza tutt’altro che insolita per gli esseri umani: forse ne è, addirittura, il carattere distintivo. Trascendere l’immediato è, infatti, l’originaria esperienza del pensare, dell’immaginare e del fantasticare» (p. 59).

L’epoca ipertecnologica contemporanea, sottolinea Pessina, appare fortemente votata alla disincarnazione dell’umano.

L’epoca della disincarnazione è un’epoca nuova, in cui diventa sempre più difficile la semantica del dolore, della sofferenza, della gioia e della solitudine creativa: difficile, ma sempre presente, perché l’esistenza non si annulla nelle sue rappresentazioni. L’epoca della disincarnazione rende fluide le comprensioni identitarie e sembra far perdere il senso del tragico, che appartiene alla problematizzazione dell’esistere e del suo senso ultimo. Se l’Incarnazione si inscrive nella logica della speranza e della salvezza, quella della disincarnazione si presenta con le vesti dell’efficienza e della soluzione. Le intelligenze umane esprimono la complessità dell’esistenza corporea, che deve confrontarsi con la contingenza che si annuncia sempre dentro la temporalità di tutte le esperienze personali, individuali; l’intelligenza artificiale, invece, esprime la possibilità della semplificazione e dell’individuazione delle risposte univoche a tutte le domande e le esigenze che possono essere tradotte in una universalità formale (p. 122).

L’indifferenza contemporanea nei confronti delle originarie e radicali questioni filosofiche e teologiche non deriverebbe dal suo essere disincantata, ma dal suo essere disincarnata, dunque «non più capace di cogliere il senso del nascere e del morire, segni di quella contingenza che pone la questione della radicale contraddizione tra la fine e i fini che l’essere umano pone. L’introduzione, nella storia umana, della figura pratica e teorica della disincarnazione conferma il potere, per così dire, retroattivo che le nuove tecnologie hanno non solo sulla vita dell’uomo, ma anche sulla sua autorappresentazione» (p. 123).

Se il processo di “familiarizzazione” della tecnologia ha finito per integrarla nei vissuti e nelle abitudini della vita quotidiana, occorrerebbe però, sottolinea lo studioso, «un ridimensionamento delle sue promesse e delle sue funzioni. Cercare nella rete ciò che non possiamo trovare nella realtà e viceversa, modulare la realtà in funzione della rete e delle nuove tecnologie, comporta decisamente una perdita di realismo. Ma anche una perdita di carne e di incanto, e forse di umanità» (p. 123). Una tale riflessione sull’esperienza umana nell’epoca tecnologica permette di approfondire cosa si ritenga esservi di “originale” e di “irriducibile” nell’umanità. Se davvero si vuole “restare umani” tale riflessione risulta imprescindibile.

]]>
Il reale delle/nelle immagini. Il cinema e la rottura del nesso fra visione e conoscenza https://www.carmillaonline.com/2022/08/23/il-reale-delle-nelle-immagini-il-cinema-e-la-rottura-del-nesso-fra-visione-e-conoscenza/ Tue, 23 Aug 2022 20:00:37 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73248 di Gioacchino Toni

Ad un ventennio dalla prima edizione torna in libreria il volume di Gianni Canova, L’Alieno e il pipistrello. La crisi della forma nel cinema contemporaneo (Bompiani 2022), testo denso di preziose riflessioni attorno all’universo cinematografico relativamente alla perdita del legame ontologico fra immagine e realtà e alla rottura del nesso fra visione e conoscenza, nel contesto di un fine millennio attraversato dai dibattiti sul postmoderno sul piano epistemologico, sul postfordismo sul piano sociologico e sul virtuale su quello scopico.

Pur essendo l’attuale un paesaggio comunicativo segnato da nuovi dispositivi di [...]]]>

di Gioacchino Toni

Ad un ventennio dalla prima edizione torna in libreria il volume di Gianni Canova, L’Alieno e il pipistrello. La crisi della forma nel cinema contemporaneo (Bompiani 2022), testo denso di preziose riflessioni attorno all’universo cinematografico relativamente alla perdita del legame ontologico fra immagine e realtà e alla rottura del nesso fra visione e conoscenza, nel contesto di un fine millennio attraversato dai dibattiti sul postmoderno sul piano epistemologico, sul postfordismo sul piano sociologico e sul virtuale su quello scopico.

Pur essendo l’attuale un paesaggio comunicativo segnato da nuovi dispositivi di produzione, fruizione e condivisione degli audiovisivi, da un’immagine cinematografica che, nel suo illudere una perfetta duplicazione del reale, non provoca più la sensazione che in essa il rappresentante ceda il posto al rappresentato ma, piuttosto, l’assenza del primo e la percezione di trovarsi il secondo presente davanti agli occhi1, da testi filmici strutturalmente cambiati rispetto all’epoca in/su cui venne steso il volume, le riflessioni da esso proposte su ciò che allora si definiva “contemporaneo” e che non è evidentemente più tale oggi, restano assolutamente utili e non solo come testimonianza di un importante passaggio epocale avvenuto e, per certi versi, oltrepassato, ma anche perché del contemporaneo in cui si è immersi rappresentano l’alba.

Vale la pena dedicare alle riflessioni sviluppate da tale volume due distinti scritti; il primo incentrato sulla rottura del nesso tra visione e conoscenza ed il secondo sulla questione identitaria ed il suo rapporto con l’alterità nel cinema che testimonia la crisi del visivo.

Al fine di evitare fraintendimenti circa il ricorso al temine “contemporaneo” utilizzato nel libro di Canova per definire quanto era tale due decenni fa, all’epoca della sua prima stesura, si eviterà il più possibile di farvi ricorso, sostitutendolo con una più neutra indicazione di perido.

Le analisi presenti in L’alieno e il pipistrello – in cui, rispetto alla sua prima uscita, è stato aggiunto in coda un breve capitolo dedicato a Joker come «interprete emblematico e paradigmatico della nostra contemporaneità» (p. 7) – restano di estrema utilità visto che, come scrive l’autore nella prefazione alla nuova edizione, «il cinema è rimasto uno dei pochi sismografi emozionali e cognitivi capaci di ricordarci che il semplice gesto del guardare un’immagine non significa anche conoscere il mondo che in quell’immagine viene mostrato (o pretende di essere mostrato, o finge di esserlo)» (p. 6), inoltre, le «figure archetipe come Batman e Alien (il protettore mostruoso e il mostro protettivo) si confermano – anche a distanza di un ventennio – come imprescindibili icone dell’immaginario collettivo» (p. 6).

Il volume si apre facendo riferimento a Gattaca – La porta dell’universo (Gattaca, 1997) di Andrew Niccol, film che narra di uno scenario in cui il corpo umano si è ormai consegnato alla dittatura dell’artificio e del simulacro e «le immagini hanno perso ogni potere di certificazione della realtà» (p. 11), ma al contempo racconta anche di una insopprimibile nostalgia della vista e del desiderio in forma scopica. «In un mondo completamente desensorializzato (asettico-lucido-inodore-insapore) la vista esprime la nostalgia del corpo, il suo eterno ritorno» (p. 11).

Le tematiche trattate dal film introducono dunque alcune questioni indagate dal libro: «la crisi dell’egemonia dello sguardo nella società contemporanea, la perdita del legame ontologico fra immagine e realtà, l’avvento di un paradigma tecnologico e culturale in cui l’immagine filmica reagisce alla consapevolezza del proprio definitivo ingresso in un regime di simulazione lasciando emergere la crisi delle sue forme tradizionali e dei suoi più collaudati dispositivi di rappresentazione del visibile» (p. 12).

La sequenza di Entrapment (1999) di Jon Amiel, in cui si mostra il meticoloso allenamento con cui la protagonista, preparandosi a un furto, si esercita a muoversi facendo a meno dello sguardo, viene indicata da Canova come «sintomo di un destino epocale che sembra interessare tutto il cinema di fine millennio: la consapevolezza del progressivo declino della vista nella gerarchia degli organi di senso unita alla percezione della crescente importanza che vanno assumendo, per converso, l’udito e il tatto» (p. 52). Costruito attorno al tema dell’eclissi dello sguardo, il film non manca di esprimere «la nostalgia per la civiltà dello sguardo nel momento stesso in cui prende atto, sul piano pragmatico-funzionale, del suo declino» (p. 52) .

Il cinema degli ultimi decenni del secolo scorso, di cui si occupa il volume, tende in diversi casi a palesare come l’occhio sia divenuto un simulacro di quel che è stato e lo fa insistendo su storie in cui i personaggi si trovano a – o decidono di – fare a meno degli occhi, suggerendo il sopraggiungere di una sostanziale perdita di fiducia nella vista.

Sono diversi i film che sottolineano lo scarto che si è venuto a creare fra visione e conoscenza, dunque dell’inaffidabilità dell’immagine. La messa in discussione dello statuto di quest’ultima è già presente nel cinema di fine degli anni Cinquanta, ma quel cinema «era comunque convinto di poter sopperire con la propria tecnologia riproduttiva alle debolezze, alle fragilità o alle miopie dello sguardo umano» (p. 55), mentre invece quello di fine millennio «non ci crede più. Sa che la tecnologia, lungi dal servire a riprodurre il vero, serve sempre più spesso a simulare il falso, e non si fida. Per lo meno: non crede più che il semplice gesto del guardare un’immagine significhi anche conoscere il mondo che in quell’immagine viene mostrato» (p. 56).

Canova invita a cogliere tale scarto nella distanza che separa i protagonisti di Blow-Up (1966) di Michelangelo Antonioni e I misteri del giardino di Compton House (The Draughtsman’s Contract, 1982) di Peter Greenaway, rispettivamente un fotografo ed un disegnatore di vedute dal vero.

I due registi, consapevoli dell’incolmabile distanza che separa l’immagine dal reale, nel mettere in scena situazioni tutto sommato simili – indizi di un delitto presenti nelle riproduzioni sfuggiti ai rispettivi autori – optano per protagonisti che si pongono di fronte al rapporto tra immagini e reale in maniera decisamente diversa. Se il personaggio-fotografo, fiducioso nella possibilità che l’immagine sveli il reale, scopre l’accaduto «osservando attentamente non la realtà ma la sua riproduzione fotografica» ricorrendo all’ingrandimento per svelare quanto l’occhio umano non può cogliere, palesa la coincidenza di visione e conoscenza, nella sua ossessione riproduttiva, il disegnatore non coglie ciò che riproduce, non lo capisce, non lo conosce. Visione e riproduzione non garantiscono conoscenza.

Il cinema di fine Novecento, come può suggerire il film di Greenaway, tende a palesare «la rottura fra visione e conoscenza come una dolorosa menomazione. E talora reagisce al trauma offendendo l’occhio, cioè accanendosi proprio contro l’organo che ritiene responsabile della perdita» (p. 58). Un cinema che dunque rinuncia a vedere, che, di fronte alla rottura del nesso fra visione e conoscenza, decide di non rapportarsi più al mondo attraverso lo sguardo. Un cinema che, consapevolmente, opta per la cecità.

Il film Occhi nelle tenebre (Blink, 1994) di Michael Apted racconta di una giovane violinista che ha perso la vista da bambina a causa di una violenta punizione inflittale dalla madre per il suo ostinarsi ad imitarla allo specchio. Un trapianto di cornea permette alla protagonista di riguadagnare parzialmente la vista ma la lascia incapace di capire se il suo sguardo sia “in diretta” o “in differita”; se ciò che intravede è quanto sta accadendo o se si tratta di un residuo visivo di un fatto accaduto nel passato. La cecità della violinista deriva dunque da

una colpa di tipo narcisistico-imitativo: non vede più perché, al contempo, si è illusa di poter essere come la madre e ha contemplato un po’ troppo se stessa davanti a uno specchio. Anche il cinema ha seguito un percorso analogo: si è illuso di saper imitare la realtà, di poterla riprodurre fino a confondervisi, e si è trastullato a lungo davanti alla propria immagine riflessa, guardandosi (pp. 61-62).

L’accecamento presente in numerosi film di fine millennio, secondo Canova, potrebbe essere letto come metafora di un’autopunizione per l’eccesso di fiducia concessa dal cinema all’illusione riproduttiva/sostitutiva del reale e per l’illusione di poter mettere in scena il suo essere linguaggio senza comprometterne il funzionamento. Un non voler vedere derivato dalla caduta dei sogni di onnipotenza dello sguardo che ha finito per ripiegare nella simulazione e nella virtualità abbandonando pretese ontologiche.

La metafora dell’accecamento coinvolge tanto il rapporto del cinema con il visibile, a favore dell’acustico e del tattile, quanto con il visivo, inceppando processi a cui era solito ricorrere come produttore di senso.

La dialettica tra visibile e non visibile è stata al centro della riflessione “moderna” sul cinema in autori come André Bazin, Noël Burch e Pascal Bonitzer per i quali «l’irrappresentabile o il non visibile si danno come tali solo a uno spettatore esterno (a un interpretante) che rifletta sui dati esperienziali del proprio percepire» (p. 67). Nel cinema di fine millennio, invece, è «lo stesso film a enunciare i propri limiti e a scandagliare i territori dell’irrappresentabile, confessando apertamente la propria incapacità di renderli visibili». Si tratta di un cinema «che tematizza la non visibilità. Che racconta di mondi che non sa visualizzare. O di tecnologie ipersofisticate che servono solo a visualizzare il mondo che noi già conosciamo (e che il cinema da sempre mette in scena)» (p. 68).

Il cinema che palesa la sua crisi, sostiene Canova, risulta decisamente più interessante di quello che la esorcizzava «inseguendo la produzione della “bella forma”»; è invece nell’infrazione di quest’ultima, nella sua lacerazione che, si dice convinto l’autore del saggio, il cinema sembra suggerire «qualcosa circa il proprio destino» (p. 68).

A partire da queste premesse, lo studioso affronta la messinscena della crisi del visibile nel cinema di fine Novecento proponendo tre livelli di riflessione: la rappresentazione del limite del filmabile attraverso il film Contact (1997) di Robert Zemeckis; la rappresentazione dello scarto rispetto al già filmato nel film Psycho (1999) di Gus Van Sant; la rappresentazione del limite del virtuale nel film Matrix (1999) di Lana e Lilly Wachowski.

Si viene così ad avere una nuova esperienza del sublime che non ha a che fare né con la grandiosità incommensurabile della natura, né con la sua straordinaria potenza, bensì, nei tre esempi, rispettivamente con la scoperta dell’incommensurabilità dell’Altro (sublime gnoseologico), dell’Identico (sublime intertestuale) e del Virtuale (sublime tecnologico).

«Contact (1997) è prima di tutto un film sull’altrove. Sul bisogno di altrove. Sulla necessità di portare lo sguardo oltre i confini del visibile e del filmabile per farlo approdare ad altri tempi e ad altri spazi» (p. 69). Allo stesso tempo, continua Canova, si tratta di «un film sull’impossibilità di tutto questo, sull’inadeguatezza della nostra strumentazione (tecnologica, ma anche emotiva, percettiva, epistemologica) al fine di rendere visibile (e, quindi, di trasformare in cinema) questa necessità» (p. 69). Dunque, Contact si presenta come un «film sul non-poter-andare-oltre delle immagini. Di queste immagini, quelle che finora hanno dato vita al cinema e ai film» (p. 70), tanto da proporsi come esempio di cinema sinestetico, soprattutto acustico.

«Ancora una volta: vedere non basta. Non è sufficiente per comprendere e capire; il tema della conoscenza mediante le apparenze, che impregna di sé tutta la storia del cinema e tutto l’immaginario dell’era del visibile, è anche il tema di Contact. Che entra direttamente nella crepa epistemologica apertasi fra visione e conoscenza, e ci lavora dentro» (p. 71). Non a caso la protagonista percepisce le cose con l’udito prima che con la vista.

Psycho di Gus Van Sant sembra amare talmente tanto il suo modello di partenza da produrne la morte.

C’è una strana coincidenza fra il gesto linguistico di Van Sant e il testo che egli rimette in scena. Psyco di Hitchcock narra di un figlio che uccide la madre, conserva il suo cadavere imbalsamato, assume le sue sembianze e prende il posto di lei. Il film di Van Sant fa la stessa cosa con la sua madre-matrice: la “uccide” e prova a prendere il suo posto. Ne conserva lo scheletro (lo storyboard), ne imita la voce (le musiche di Bernard Herrmann), ne mima le apparenze e le fattezze (i titoli di testa di Saul Bass), assume sul proprio corpo i segni di riconoscimento “materni” e fa di sé il simulacro della propria “genitrice” (pp. 76-77).

Un cinema che “imbalsama se stesso” come ultima possibile prerogativa dello sguardo: «di fronte alla perfezione inattingibile del già visto e del già mostrato, cerca di esprimere la propria “sublime” ammirazione con la produzione dell’identico e con l’esplicitazione del non-filmato, ma poi si rende conto che non è incrementando il visibile che può sperare di accrescere la tensione scopica dello spettatore e che, anzi, finisce per produrre proprio l’effetto contrario» (p. 77) .

Concentrandosi su Matrix, Canova sottolinea come spesso, guardando ad esso, si ha l’impressione di trovarsi di fronte a un videogioco sia visivamente che narrativamente, tanto da rendere inopportuno affrontarlo ricorrendo ai canoni del cinema.

In perfetta sintonia con lo scenario della postmodernità, l’immagine di Matrix non è mai né “bella” né “vera”, tutt’al più è intensa, elegante o eccitante. Troppo piena (di segni, di pallottole, di corpi), troppo vuota (di senso?). Allo spettatore non è chiesto di “interpretare” alcunché, ma di prendersi tutto il piacere che riesce a catturare transitando dentro un gigantesco luna-park emotivo che funziona, in ogni istante, come uno stimolatore dei sensi (p. 80).

Eppure, sottolinea Canova, «Matrix è ancora cinema» a partire dai numerosi riferimenti al cinema che contiene. Lo è a modo suo, ribaltando la classica pretesa del cinema di simularsi reale, qua l’artificiosità è dichiarata, palesata.

Ma proprio qui sta il punto: per denunciare l’avvenuto dominio della simulazione, Matrix non può che essere a sua volta totalmente artificiale. Cioè finto, truccato, simulativo. E in ciò – in questa contraddizione, in questa doppiezza – sta al contempo la sua grandezza e la sua condanna. Assieme all’impressione che qui si sfiori davvero l’unica forma di sublime consentita al cinema di fronte alla visione della potenza e dell’inattingibilità delle tecnologie virtuali. Perché anche Matrix è, a suo modo, un film sulla crisi del visibile e sul tramonto dello sguardo. “Nessuno di noi può spiegare Matrix con le parole, bisogna vederla con i propri occhi” dice Morpheus a Neo. Appunto: che le parole fossero impotenti lo si sapeva già da tempo, ma il film delle sorelle Wachowski ci dice che anche lo sguardo non lo è da meno (pp. 81-82).

Dunque, il volume passa ad analizzare alcune crisi che si palesano in questo cinema di fine millennio: quella del diegetico, dell’iconico e delle forme filmiche.

A proposito della prima, lo studioso analizza in dettaglio Pulp Fiction (1994) di Quentin Tarantino, nella cui struttura diegetica si intrecciano/alternano elementi di narrazione forte, debole e persino antinarrativa, tanto da rendere «indecidibile e indecifrabile il modello diegetico a cui effettivamente si ispira» (p. 85). La metanarratività su cui è costruito il film «si dà come forma ibrida, cioè come luogo di fuoriuscita dal canone e come punto di crisi delle forme narrative precedenti» (p. 89).

Per quanto riguarda la crisi dell’iconico, lo studioso si sofferma su Face/Off – Due facce di un assassino (Face/Off, 1997) di John Woo, segnalando come i personaggi secondari, accontentandosi di osservare superficialmente la “maschera” dei due protagonisti, si limitino a credere a quello che vedono finendo per non vedere: «il modo di “guardare” e di operare identificazioni scopiche da parte dei personaggi di Face/Off rivela l’inadeguatezza di quei codici di riconoscimento iconico a cui essi stessi conferiscono la massima fiducia. Meglio: è lo sguardo di John Woo su di essi che rivela a noi spettatori la loro incapacità (o impossibilità) di riconoscere con gli occhi» (pp. 93-94).

Infine, per quanto concerne la crisi delle forme filmiche, Canova portata esempi riguardanti la soggettiva, la dissolvenza incrociata, il flashback ed il piano sequenza.

Nel primo caso lo studioso individua in Strange Days (1995) di Kathryn Bigelow «il punto di crisi e di messa in discussione più radicale dello statuto della soggettiva» (p. 102) del cinema dei decenni terminali del secolo. Il film sembra suggerire che ad eccitare «l’umanità di fine millennio – secondo l’eterotopia scopica di Kathryn Bigelow – non è lo sguardo, ma la cosa vista. È la possibilità di vedere con l’occhio del protagonista il coito e la morte: […] ciò di cui i personaggi di Strange Days sembrano aver bisogno (e nostalgia) è l’ovvia banalità del nostro sguardo originario. Di ciò che esso era (e poteva) già prima dell’invenzione dei fratelli Lumière» (pp. 103-104). Insomma, film come questo si/ci interrogano a proposito del «rapporto fra lo sguardo e il suo oggetto [della] relazione fra visione, emozione e conoscenza» (p. 106).

Per quanto riguarda l’uso “anomalo”, rispetto alla tradizione, della dissolvenza incrociata, Canova si concentra su Blackout (The Blackout, 1997) di Abel Ferrara, film che, nel suo insistito e reiterato utilizzo la annulla come figura di significazione. Blackout sembra suggerire che

in un universo scopico in cui la realtà non solo è registrabile e falsificabile, ma è quasi annullata dalla bramosia di sostituirla con i simulacri mentali e visuali ininterrottamente prodotti dai personaggi […], il rischio è che a un certo punto – come sperimenta in prima persona il protagonista del film – le immagini comincino a generarsi da sole, a prescindere dalla nostra volontà e intenzionalità, e si riproducano spontaneamente in modo impazzito, quasi in una sorta di metastasi scopica (p. 110).

Ecco allora il sopraggiungere del “blackout”, inteso come perdita del controllo sulla riproduzione tecnica del visibile, crollo definitivo dell’illusione riproduttiva dell’immagine, ma anche possibile ultima via di fuga percorribile. «È il battito di ciglia, la palpebra che si abbassa. È, ancora una volta, il rifiuto di vedere così; lo stacco nero, la nuotata verso il nulla su cui Ferrara chiude il suo film» (p. 111). La dissolvenza incrociata, anziché esibire l’avanzamento testuale del film, si propone dunque come una figura di paralisi.

Circa il flashback, trasformatasi nel corso del tempo da articolazione del racconto a nucleo tematico della storia, nel cinema che palesa le sue crisi finisce per perdere la sua funzione chiarificatrice

per configurarsi piuttosto come elemento di “oscuramento” e di complicazione. Più che un’opportunità, diventa spesso una condanna: segnala l’impossibilità di liberarsi dalle immagini del passato, che premono sul presente diegetico come una massa di ricordi mnemonico-visuali di cui i personaggi farebbero volentieri a meno. Da elemento di illuminazione diegetica, il flashback tende a diventare insomma un elemento di confusione; da figura di produzione del senso (o di messa in scena della sua pluralità e ambiguità: Welles e Kurosawa) si fa sempre più figura dell’implosione (o del collasso) di ogni senso possibile (p. 113).

Uno dei registi ad essersi spinto maggiormente in tale direzione è Abel Ferrara che infatti

fa del flashback la figura-chiave della memoria: individuale e filmica, ma anche storica, sociale e collettiva. Si veda, ad esempio, la trilogia formata da The Addiction (1995), da Fratelli (The Funeral, 1996) e dal già citato Blackout» (p. 113). Attaccare il flashback per Ferrara significa distrugge l’illusione, renderla impraticabile, obbligandoci «ad assumere il nostro atto di visione come unico oggetto ancora possibile per il nostro inappagabile desiderio di guardare (p. 116).

Per quanto concerne il piano sequenza, questo è storicamente passato dal presentarsi come forma filmica per eccellenza del realismo cinematografico a manifestarsi come manieristico segno linguistico autoriale di messa in scena e, ancora, nel cinema di fine millennio, «come artificio linguistico che sperimenta sul (e nel) suo stesso parossismo la difficoltà – se non addirittura l’incapacità – di vedere» (p. 118).

In questo caso l’esempio su cui si sofferma il volume è quello del celebre incipit di Omicidio in diretta (Snake Eyes, 1998) di Brian De Palma in cui

il piano sequenza non mostra né il fulcro diegetico della realtà, né il lavoro del linguaggio che dia un senso al racconto. Mostra, piuttosto, l’inattingibilità del primo e la sterile impotenza del secondo. Come se De Palma volesse tendere fino al limite estremo – fino al punto di rottura – le potenzialità tecniche del mezzo per dimostrare tanto il suo non saper vedere quanto, forse, anche il suo non aver più idea di cosa guardare. O lo scarto fra ciò che si è scelto di vedere (di far vedere) e ciò che sarebbe stato giusto guardare (p. 119).

Snake Eyes, dunque. Occhi di serpente. Sguardo tentatore e al tempo stesso tentato, come quello «della “macchina” che desiderò il mondo agli albori del cinema, e che oggi si ritrova drammaticamente senza mondo, legato alle figure sfigurate di quel che è stata la visione filmica da un rapporto di struggente ma disincantata nostalgia» (p. 121).

 


Il reale delle/nelle immagini – Serie completa

 


  1. Cfr. Andrea Rabbito, L’onda mediale. Le nuove immagini nell’epoca della società visuale, Mimesis, Milano-Udine, 2015. Sul volume di vedano: Gioacchino Toni, Il reale delle/nelle immagini. L’onda mediale, “Carmilla”, 15 marzo 2016; Gioacchino Toni, Il reale delle/nelle immagini. Forme di resistenza all’onda mediale, in “Carmilla”, 22 marzo 2016. 

]]>
Il reale delle/nelle immagini. Specchi, vampiri e narcisisti https://www.carmillaonline.com/2022/03/25/il-reale-delle-nelle-immagini-specchi-vampiri-e-narcisisti/ Fri, 25 Mar 2022 21:00:57 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=70969 di Gioacchino Toni

Attorno alla metà degli anni Novanta del secolo scorso, quando ormai la fotografia è costretta a fare i conti la svolta digitale, vissuta all’epoca da diversi “addetti ai lavori” come una vera e propria invasione barbarica che avrebbe di lì a poco condotto a un’era “postfotografica”, nel trattare del diverso modo con cui si ritiene la fotografia si rapporti con la realtà, con un’efficace metafora, l’artista e saggista catalano Joan Fontcuberta, ricorre a due figure che manifestano nei confronti dello specchio un atteggiamento antitetico: il Vampiro che cerca di sottrarsi al riflesso e il Narciso che invece non [...]]]> di Gioacchino Toni

Attorno alla metà degli anni Novanta del secolo scorso, quando ormai la fotografia è costretta a fare i conti la svolta digitale, vissuta all’epoca da diversi “addetti ai lavori” come una vera e propria invasione barbarica che avrebbe di lì a poco condotto a un’era “postfotografica”, nel trattare del diverso modo con cui si ritiene la fotografia si rapporti con la realtà, con un’efficace metafora, l’artista e saggista catalano Joan Fontcuberta, ricorre a due figure che manifestano nei confronti dello specchio un atteggiamento antitetico: il Vampiro che cerca di sottrarsi al riflesso e il Narciso che invece non riesce a farne a meno.

Anche se la svolta digitale della fotografia sembra infrangere definitivamente lo specchio, ossia spezzare il cordone ombelicale tra realtà e immagine, questa non sembra smettere di fingersi «messaggera autorizzata del Vero», come scrive Michele Smargiassi nella sua presentazione al volume di Joan Fontcuberta, Il bacio di giuda. Fotografia e realtà (Mimesis, 2022), in cui sono raccolti otto saggi critici sulla fotografia scritti dal catalano a proposito della creazione delle immagini e della cultura che le vorrebbe espressione della verità e prova dell’esistente.

Nella fotografia Fontcuberta intravede la crisi del rapporto ultramillenario tra essere umano e immagini ed anziché domandarsi, come tanti, cosa la fotografia sia, preferisce indagare cosa essa faccia. Per il catalano, scrive ancora Smargiassi, «non è la fotografia che impone la propria veridicità con la apparente potenza del suo procedimento di raccolta meccanica di impronte del mondo fisico. È vero il contrario: sono i contesti ideologici intenzionali in cui la incontriamo a conferirle un’autorevolezza che da sola non avrebbe. La fotografia è la servizievole, efficiente collaboratrice di più ampi progetti di mascheramento del reale» (p. 9). La fotografia entra nella cultura moderna ricevendo

il mandato di naturalizzare l’ideologia del capitalismo e di tradurla in un’etica della visione che avesse l’indiscutibilità di una religione rivelata. Bene: quel mandato storico, ci svela Fontcuberta, pur essendo infondato, ebbe sicuramente successo; ma ora è terminato. Si è esaurito. Non serve più. Il sistema, ora, per poter garantire la continuità del proprio potere, ha bisogno di distruggere la fiducia dei cittadini nella possibilità di affermazioni vere, non più di imporre persuasivi realismi (pp. 9-10).

Anziché farsi da parte, la fotografia continua, imperterrita, a «fingersi modello privilegiato di rappresentazione della realtà, nascondendo la sua nuova funzione di simulazione come un cavallo di Troia» (p. 10). Al catalano non interessa smascherare i meccanismi di finzione adottati dalla pratica fotografica, il suo l’obiettivo è piuttosto «demolire radicalmente il fallace paradigma verosimilista con cui abbiamo finora guardato e usato le fotografie (o meglio, abbiamo lasciato che ci usassero)» (p. 11).

Uno spirito ragionevolmente scettico ci spinge a concludere che credere che la fotografia testimoni qualcosa implica, prima di tutto, proprio questo: il credere, l’avere fede. Il realismo fotografico e i valori che esso sottende sono una questione di fede. Perché non c’è alcun indizio logico convincente che garantisca che la fotografia, per sua natura, abbia più valore come promemoria di quanto ne abbia un nodo al dito o una reliquia. Il messaggio di Michelangelo Antonioni in Blow up, oltre a dirci che la manifestazione ordinaria del mondo nasconde altre realtà, si riassume nell’idea che tutto – inclusa la certezza fotografica – è pura illusione: nella sequenza finale del film un gruppo di mimi gioca a tennis con una pallina invisibile, fino a che questa oltrepassa la recinzione del campo e uno stordito Thomas, trasformato in complice di quella illusione, dovrà essere colui che recupererà la pallina invisibile affinché la partita possa continuare (pp. 68-69).

A lungo la fotografia è stata considerata come «il modo in cui la natura rappresentava se stessa» (31), una sorta di conseguimento diretto, naturale, senza mediazioni, della verità.

L’annoso dibattito su ciò che è vero e ciò che è falso è stato sostituito da quello che distingue tra “mentire bene” e “mentire male”. La fotografia è una finzione che si presenta come veritiera. A dispetto di ciò che ci hanno inculcato, a dispetto di ciò che siamo soliti pensare, la fotografia mente sempre, mente per istinto, mente perché la sua natura non le permette di fare diversamente. Ciò che conta, però, non è quell’inevitabile menzogna. Ciò che conta è il modo in cui se ne serve il fotografo, con che proposito la usa. In sostanza, ciò che conta è il controllo esercitato dal fotografo per dare una direzione etica alla propria menzogna. Il buon fotografo è quello che mente bene la verità (p. 23).

Insomma, la fotografia, sostiene Fontcuberta, è po’ come il bacio di Giuda: «un amore fasullo venduto per trenta denari» (p. 25).


Il reale delle/nelle immagini – Serie completa

 

 

]]>
Fotografia e femminismo nell’Italia degli anni Settanta https://www.carmillaonline.com/2021/12/23/fotografia-e-femminismo-nellitalia-degli-anni-settanta/ Thu, 23 Dec 2021 21:00:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=69726 di Gioacchino Toni

Nel corso degli anni Settanta, analogamente a quanto accade in altri paesi, anche in Italia molte donne, più o meno legate ai movimenti femministi, si incontrano con la pratica fotografica secondo molteplici direzioni che spaziano dall’ambito documentaristico a quello artistico, secondo modalità che, anche quando non direttamente militanti, con una consapevolezza del tutto nuova del proprio operare e del proprio ruolo, concorrono a sviluppare tanto una riflessione identitaria, quanto una testimonianza circa la condizione femminile nella società italiana del periodo.

Nel corso del 2020 il Museo di Fotografia Contemporanea di Cinisello Balsamo ha organizzato il convegno di studi [...]]]> di Gioacchino Toni

Nel corso degli anni Settanta, analogamente a quanto accade in altri paesi, anche in Italia molte donne, più o meno legate ai movimenti femministi, si incontrano con la pratica fotografica secondo molteplici direzioni che spaziano dall’ambito documentaristico a quello artistico, secondo modalità che, anche quando non direttamente militanti, con una consapevolezza del tutto nuova del proprio operare e del proprio ruolo, concorrono a sviluppare tanto una riflessione identitaria, quanto una testimonianza circa la condizione femminile nella società italiana del periodo.

Nel corso del 2020 il Museo di Fotografia Contemporanea di Cinisello Balsamo ha organizzato il convegno di studi intitolato “Rispecchiamento, indagine critica, testimonianza. Fotografia e femminismo nell’Italia degli anni ’70”, curato da Cristina Casero, docente di storia della fotografia e di arte contemporanea. L’iniziativa milanese ha inteso riflettere sull’importanza che la pratica fotografia “in mano alle donne” ha assunto nel panorama italiano degli anni Settanta. Il Convegno, moderato da Cristina Casero e Giovanna Calvenzi, attraverso i contributi di studiose da tempo impegnate nell’indagare il rapporto tra fotografia e femminismo (Linda Bertelli, Lara Conte, Elena Di Raddo, Laura Iamurri, Lucia Miodini, Federica Muzzarelli e Raffaella Perna) ha approfondito le ricerche di alcune fotografe italiane impegnate nell’elaborazione di una riflessione del tutto nuova sulla donna.

È dai contributi esposti durante il Convegno che deriva il volume di Cristina Casero (a cura di), Fotografia e femminismo nell’Italia degli anni Settanta. Rispecchiamento, indagine critica e testimonianza. Rispecchiamento, indagine critica e testimonianza (postmedia books, 2021) in cui sono raccolti saggi delle studiose che hanno preso parte all’iniziativa milanese, oltre che contributi e testimonianze di Paola Agosti, Isabella Balena, Marina Ballo Charmet, Liliana Barchiesi, Giovanna Calvenzi, Marcella Campagnano, Paola Di Bello, Bruna Ginammi, Gabriella Guerci, Silvia Lelli, Marzia Malli, Paola Mattioli, Donata Pizzi, Agnese Purgatorio e Livia Sismondi.

Riflettendo sulla sua esperienza personale di donna alle prese con la fotografia tra anni Sessanta e Settanta afferma Giovanna Calvenzi:

molte di noi si sono trovate con una macchina fotografica in mano. Eravamo tante. Venivamo da storie ed esperienze diverse eppure le intenzioni, i progetti, i sogni e l’impegno erano comuni. Alcune di noi erano legate ai gruppi extraparlamentari, altre al femminismo. In breve siamo diventate una gruppo forte e solidale. Frequentarci significava discutere di fotografia e di femminismo, fare progetti insieme. Io fotografavo in modo molto mediocre, non volevo diventare una fotografa ma amavo lavorare con le mie amiche (p. 137).

Le parole di Calvenzi evidenziano come la pratica fotografica delle donne nel corso di una delle più radicali stagioni di lotte sia stata anche una pratica collettiva, di una comunità solidale, oltre che un momento di riflessione ed analisi individuale.

Cristina Casero, curatrice del volume, oltre a ricordare come la fotografia sia stata uno degli strumenti privilegiati di proposta di un’immagine “altra” della realtà rispetto a quella “ufficiale”, maschile, evidenzia come donne artiste e fotografia si siano trovate ad essere accomunuate da un’analoga dimensione “alternativa”: le prime nei confronti del potere culturale degli uomini che tendenzialmente tendeva ad escluderle, e l’altra nei confronti della pratica pittorica a cui spettava una sorta di ruolo privilegiato, se non egemone, in ambito artistico. Da un certo punto di vista si è trattato di un incontro tra “visioni alternative” al potere. Mettere in relazione la tecnica, storicamente dato culturale maschile, con l’occhio della donna ha significato innanzitutto mettere in discussione quella rappresentazione del mondo maschile imposta come assoluta.

Le modalità con cui nel corso degli anni Settanta in Italia le donne hanno fatto ricorso alla pratica fotografica sono indubbiamente varie: in alcuni casi si è trattato di coniugare la pratica femminista, anche di autoanalisi, con quella artistica (es. Paola Mattioli e Verita Monselles), in altri è piuttosto stato indagato il ruolo della donna nella società contemporanea (es. Paola Agosti, Lisetta Cerati, Giovanna Nuvoletti, il Collettivo Donne Fotoreporter ecc.), oppure vi sono autrici che in maniera meno diretta hanno comunque contributo a scalfire il “dominio visivo maschile” proponendo una “visione di parte”, femminile, sul reale (es. Letizia Battaglia, Silvia Lelli, Maria Mulas, Marialba Russo ecc.). Scrive Cristina Casero:

Sono, dunque, numerosi gli aspetti che rendono quasi fisiologico il connubio tra alcune delle istanze femministe e la fotografia. Essenziale è pure il fatto che essa permette di lavorare sull’immagine e quindi sull’immaginario collettivo, che veicolando una figura femminile costruita su cliché rinforza stereotipi sul corpo delle donne, il luogo dell’identità e della differenza. Attraverso la prassi fotografica è possibile dare visibilità a una nuova immagine della donna, nata dallo sguardo del “soggetto imprevisto”, come dice Lonzi, da un occhio che si muove al di fuori degli schemi per proporre, attraverso il racconto del reale, un nuovo racconto di sé, del proprio corpo, nel quale sia finalmente possibile riconoscersi (p. 31).

Nel suo intervento Federica Muzzarelli si sofferma sull’incontro tra esigenze femministe e fotografia sottolineando come «ciò che fa di una fotografia un’immagine femminista è il suo opporsi alla visione monolitica dominante e monodirezionale sui ruoli di genere, dell’identità di genere e dei desideri di genere, se insomma una fotografia femminista si oppone a una visione sessista dei rapporti e del mondo, allora l’estetica femminista di una fotografia è sempre al contempo una dichiarazione politica in sé» (p. 44).

Raffaella Perna ricostruisce il contesto in cui, nel 1976, escono due libri importanti nella storia del neofemminismo italiano: Donne Immagini di Marcella Campagnano, edito dalla casa editrice milanese Moizzi, e Riprendiamoci la vita. Immagini del movimento delle donne di Paola Agosti, Silvia Bordini, Rosalba Spagnoletti, Annalisa Usai, dato alle stampe dall’editore romano Savelli. Entrambi i volumi sono caratterizzati dalla volontà di dare espressione a quei valori emersi nell’ambito dei gruppi femministi italiani ripensando «i canoni della rappresentazione fotografica del corpo della donna», riflettendo «sullo sguardo che le donne rivolgono su se stesse e sul mondo» (p. 63). Al di là delle analogie, Perna mette in evidenza le profonde differenze che caratterizzano le due pubblicazioni, che non mancano di ribadire le differenze tra il movimento romano e quello milanese, a partire dal diverso modo di concepire il medium fotografico e una differente concezione del libro fotografico.

Lucia Miodini approfondisce la produzione di Carla Cerati nelle sue modalità di raccontare le donne tra reportage e sperimentazioni narrative.

Per Carla Cerati la fotografia ha rappresentato un mezzo di riappropriazione di sé, le ha offerto la possibilità di tenere insieme le dimensioni complementari del corpo e della mente, ma soprattutto è stata la sua stanza tutta per sé. Allo stesso tempo la macchina fotografica è stata un diaframma tra sé e gli altri, un oggetto mimetico, quasi invisibile, che è diventato anche strumento di conoscenza e mediazione. […] Narrando la città, i personaggi che la abitano o la attraversano, Cerati racconta se stessa (p. 77)

Laura Iamurri analizza la pubblicazione alfabeta, scritta e illustrata nel 1975 da Cloti Ricciardi durante il suo periodo di militanza nel Movimento Femminista Romano in cui approda dopo aver preso parte all’esperienza di Rivolta Femminile. Scrive Ricciardi a proposito della pubblicazione «il libricino alfabeta fu per me un’esperienza molto interessante e anticipatoria sotto molti aspetti, c’erano fotografie, ritratti, parole, la modificazione del quotidiano. Per noi la riflessione su quello che vivevamo era costante, l’autocoscienza ci portava ad essere analitiche, il rapporto tra le parole e le immagini era fondamentale, una riflessione quotidiana» (p. 94). Sebbene a metà anni Settanta la fotografia non rappresenti un ambito privilegiato nella produzione di Ricciardi, è comunque presente intrecciandosi con con elementi verbali e grafici.

Lara Conte prende in esame una serie di proposte fotografiche legate alla città di Genova e alle questioni di genere realizzate da Lisetta Carmi nel corso degli anni Settanta preoccupandosi di tracciare «una possibile genealogia nelle vicende non lineari del rapporto tra arte, fotografia e femminismo in Italia negli Settanta, in cui militanza e politicità definiscono sovente una dimensione che parte dal sé, nella profonda relazione tra privato e pubblico, al di là di una effettiva adesione da parte delle artiste a gruppi e movimenti femministi» (p. 108).

Il termine “femminista”, scrive Conte, applicato all’opera di Carmi assume la dimensione di uno “sguardo altro” attraverso cui osservare il mondo.

Più volte Lisetta Carmi ha ribadito che la fotografia “è un modo diverso per capire il mondo ed entrare nel mistero dell’umano”. La fotografia è per lei la definizione di una nuova prospettiva che fa emergere il marginale, il minoritario, il rimosso. Grazie ai suoi reportage Lisetta Carmi dà voce a quello che Rosi Braidotti ha definito “soggetto nomade”. Un soggetto che mette in crisi i rapporti di forza e di oppressione del sistema capitalistico e della cultura patriarcale, deegemonizzando le narrazioni, alla conquista di una libertà e di un’individualità non sottomessa alle rigide codificazioni dei generi (p. 108).

Focalizzandosi sulla produzione di Ketty La Rocca, Elena di Raddo si sofferma invece sul tema della “Grande Madre” ripreso da numerose artiste nel corso degli anni Settanata; «l’archetipo che definisce con varie sfumature, nelle diverse epoche e civiltà, il principio generativo della donna, il suo rapporto privilegiato con la natura, espressione quindi non tanto della singolarità, ma di un principio femminile che accomuna tutti i generi, al di là della semplice distinzione maschile femminile» (p. 121).

Fotografia e femminismo nell’Italia degli anni Settanta rappresenta davvero un’importante ricostruzione di come lo sguardo e la sensibilità delle donne abbiano fatto uso della fotografia in un periodo in cui, non accontentandosi della dimensione critica o del politicamente corretto, si volevano davvero cambiare le cose. La pratica fotografia “in mano alle donne” nel corso dei Settanta è certamente un altro sguardo sul mondo, ma è anche un’altra proposta di mondo.

]]>
Processi di ibridazione. L’immagine (è) mutante https://www.carmillaonline.com/2020/09/21/processi-di-ibridazione-limmagine-e-mutante/ Mon, 21 Sep 2020 21:05:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=62275 di Gioacchino Toni

«io cerco sempre di mostrare […] quel momento in cui ci si rende conto che la realtà non è che una possibilità, debole e fragile come tutte le altre possibilità» David Cronenberg

Agli inizi degli anni Ottanta esce nelle sale Videodrome (Id., 1983) di David Cronenberg, opera con cui il regista canadese inaugura una serie di pellicole in cui, in maniera più esplicita rispetto ad altre sue realizzazioni, pone lo spettatore di fronte allo sconvolgimento dei piani di realtà. Si tratta di un film incentrato sul rapporto dell’individuo con quell’apparecchio [...]]]> di Gioacchino Toni

«io cerco sempre di mostrare […] quel momento in cui ci si rende conto che la realtà non è che una possibilità, debole e fragile come tutte le altre possibilità» David Cronenberg

Agli inizi degli anni Ottanta esce nelle sale Videodrome (Id., 1983) di David Cronenberg, opera con cui il regista canadese inaugura una serie di pellicole in cui, in maniera più esplicita rispetto ad altre sue realizzazioni, pone lo spettatore di fronte allo sconvolgimento dei piani di realtà. Si tratta di un film incentrato sul rapporto dell’individuo con quell’apparecchio televisivo, vero e proprio generatore di immagini all’interno della realtà domestica che, come scrive Riccardo Sasso – L’immagine mutante. Il cinema di David Cronenberg (Edizioni Falsopiano, 2018) –, agisce «come un organismo patogeno, inizializzando un meccanismo virale grazie al quale l’uomo è stato trasformato, mutato in un un nuovo individuo, un homo tecnologicus, che ha incorporato in sé la tecnologia e da essa trae un sostentamento vitale necessario alla sua sopravvivenza»1. L’essere umano contemporaneo è giunto a cibarsi di televisione, tanto che i poveri che nel film si recano alla Cathode Ray Misison, al posto di un pasto caldo, ricevono la loro dose quotidiana di immagini televisive. Non è difficile leggere in Videodrome la convinzione mcluhaniana della televisione come strumento antropogenetico in grado di incidere sulla biochimica umana.

La televisione, suggerisce l’opera cronenberghiana, non si limita più a riprodurre la realtà, si è fatta «più reale della realtà stessa: ha agito fisicamente sulla struttura del […] cervello, creando al suo interno dei tumori, veri e propri organi di senso, capaci di costruire in lui un nuovo sistema percettivo»2. L’immagine è mutante, in questo caso nel senso che agisce, mutandolo, sull’individuo che ne viene a contatto. L’essere umano messo in scena da Cronenberg, a partire da Videodrome, è un essere che «ha assorbito in sé la tecnologia e nello stesso tempo l’ha corporeizzata»3; il protagonista del film, dopo essere stato contagiato dal virus, si è ibridato con la macchina, «ha penetrato la tecnologia (come nella famosa scena in cui si fonde con il televisore), l’ha resa carne pulsante (la televisione è divenuta un organismo, che respira e vomita frattaglie) e al contempo ne è stato violato, penetrato – gli si è formata un’apertura sull’addome dal quale escono ibridi biomeccanici»4.

Con Videodrome, sostiene Gianni Canova nella sua monografia dedicata al regista – David Cronenberg (Editrice Il Castoro, 2007)5 – «Cronenberg riflette sull’intossicazione iconica derivata dal consumo di immagini televisive e sulle modificazioni fisiche e antropologiche che la diffusione della tv sta apportando all’apparato percettivo umano»6. Il film pone inquietanti interrogativi «sulla natura riproduttiva delle immagini e sul rapporto di ambivalente fascinazione e repulsione che l’occhio umano prova di fronte ai propri sogni e ai propri incubi reificati e incessantemente riprodotti sullo schermo della tv»7. Il regista decide di mettere in scena un mondo condannato a vivere in uno stato di perenne allucinazione, in cui gli esseri umani sembrano poter essere programmabili al pari degli apparecchi di registrazione audiovisiva. In anticipo di alcuni decenni rispetto alla serie televisiva Black Mirror (Id., dal 2011 – in produzione, Channel 4; Netflix), Videodrome si pone come opera audiovisiva politica in quanto riflettendo sul consumo di immagini fa provare direttamente allo spettatore «le potenzialità e le aberrazioni insite nel […] desiderio di consumare tecnologicamente immagini»8.

Oltre a palesare i processi di contaminazione fra organico ed elettronico, con una televisione che diviene carne e una carne che a sua volta funziona come un videoregistratore, in Videodrome, suggerisce Canova, Cronenberg «applica anche al linguaggio (al cinema) quei processi di contaminazione e confusione che mostra all’opera sul piano dei corpi»9. Ecco allora che il film può essere visto come il paradigma di uno stile fondato sull’instabilità enunciativa: Videodrome non permette allo spettatore di considerare la macchina da presa come un “narratore onnisciente”, diviene impossibile, continua Canova, attribuire alle immagini un aprioristico statuto ontologico di verità. Il continuo cambiamento di punti di vista non consente di stabilire se ciò che si osserva è “realtà”, allucinazione o sogno. Insomma, ad essere messa in discussione in questa pellicola è (anche) la stessa nozione di “realtà” cinematografica.

La questione della mente come terreno di conflitto presente in Scanners (Id., 1981) e Videodrome, torna prepotentemente anche in La zona morta (The Dead Zone, 1983) con il protagonista che, risvegliatosi da uno stato comatoso dopo un incidente, si ritrova alle prese con una vera e propria mutazione mentale che gli permette di viaggiare nel passato e nel futuro degli individui con cui viene a contatto. Come in Scanners, anche in questo film non è difficile individuare suggestioni cristologico-messianiche; il protagonista in questo caso “muore” (in un incidente), “risorge” (dal coma) e si “immola” per la salvezza dell’umanità. Se rispetto ad altre opere cronenberghiane qua i personaggi sembrano più definiti nel palesarsi buoni o malvagi, basta attendere la parte finale della pellicola per veder vacillare tali certezze.

In La zona morta Cronenberg rilegge Stephen King con la lente di McLuhan, interpretando la “seconda vista” [del protagonista] come una prerogativa tipicamente mediale, cioè come un’estensione illimitata dei suoi organi di senso. La “zona morta” [del protagonista], quel buco nero coscienziale che gli consente non solo di “vedere” l’altrove spazio-temporale, ma anche di alterare e cambiare il corso degli eventi, significa proprio questo. Che l’utopia mass mediale si è come “incistata” nel suo corpo, si è fatta corpo essa stessa. O che il suo corpo si è trasformato in una sorta di medium totale10.

Se nel romanzo le capacità mentali del protagonista vengono ricondotte a un trauma infantile, Cronenberg fa derivare la “nuova vista” dall’incidente stradale, a sua volta causato da una carenza visiva: il non aver saputo vedere l’autocarro, «un’insufficienza visiva funziona insomma da preludio all’acquisizione di una visione “panottica”: e proprio qui, in questa mirabolante onnipotenza del vedere, si insinua il “virus” cronenberghiano dell’ambiguità»11. Dunque, conclude Canova, a essere messo in dubbio dal regista è ancora una volta lo statuto di verità delle immagini. Allo spettatore non resta che dubitare di esse: messa da parte la convinzione di trovarsi di fronte a una macchina da presa che funziona come “narratore onnisciente”, non è più possibile accordare incondizionata fiducia alle immagini; da un momento all’altro tutto potrebbe palesarsi come allucinazione di un personaggio.

Se così stanno le cose, allora il protagonista di La zona morta non è tanto un “eroe positivo”, quanto piuttosto, continua lo studioso, un semplice testimone del fatto che ormai l’unica realtà è quella percepita dai sensi. Rispetto al romanzo, inoltre, il regista elimina i riferimenti politici diretti «per concentrarsi esclusivamente su ciò che negli anni Ottanta sta trasformando radicalmente le forme e le strutture di una civiltà mass mediale planetaria che obbliga tutti a fare i conti con la viralità delle immagini e con la necessità di ridefinire lo statuto comunicativo»12.

A ben guardare è la medesima convinzione a cui, qualche tempo prima, è giunto James Ballard che, infatti, in un’intervista sostiene esplicitamente che «ciò che siamo abituati a chiamare realtà, oggi è una fantasia creata dai mass media, dai film, dalla televisione, dalla pubblicità, dalla politica»13. Dunque, conclude lo scrittore inglese, ai giorni nostri risulta “più reale” la pubblicità di un film di un mito di fine Novecento come Arnold Schwarzenegger che non un prato ai bordi di una strada.

L’interesse per le modalità con cui l’individuo contemporaneo percepisce e vive una realtà ormai trasformatasi (anche) sotto la spinta dei media audiovisivi è sicuramente uno degli aspetti che accomunano Ballard e Cronenberg, autori che anticipano con le loro opere quel dibattito teorico che nel corso degli anni Novanta vede numerosi studiosi porsi “il problema della realtà”, ragionando a proposito della progressiva scomparsa del “reale”. A tal proposito l’antropologo Marc Augé, ad esempio, giunge a parlare di “finzionalizzazione”, di messa in finzione della realtà14.

Nel film La zona morta viene messo in evidenza anche un altro aspetto del ruolo mutageno televisivo: l’invadenza esercitata da tale medium nei confronti del protagonista nel momento in cui le sue facoltà diventano di pubblico dominio. Sull’incidenza televisiva sulla vita dei personaggi, una volta che questi finiscono per qualche motivo sotto l’occhio morboso delle telecamere, torna anche A History of Violence (Id., 2005). Come a dire che non importa da che parte dello schermo ci si trovi: la televisione si rivela in grado di mutare la vita degli individui anche soltanto prendendoli di mira e mettendoli sotto i riflettori.

Oltre a riprendere la riflessione sulla “nuova carne” intrapresa, sotto diverse sfaccettature, da Videodrome, Scanners e La zona morta, con La mosca (The Fly, 1986) Cronenberg presenta un film mutante al pari del corpo che mette in scena, tanto che Charles Tesson15 vi individua un’opera di finzione che mette in scena la natura e il meccanismo dell’immagine-video palesando il problema della “perdita” che tocca inevitabilmente ogni passaggio dalla realtà alla sua riproduzione. Scrive a tal proposito Canova che il teletrasporto messo in scena dal film rinvia al trasporto dei corpi dalla realtà all’immagine attuato dai mezzi audiovisivi: in tutti i casi nel trasporto qualcosa si perde per strada. «Ed è su questo qualcosa che si concentra Cronenberg in La mosca. Che è dunque, ancora una volta, un film sul meccanismo generativo delle immagini e sull’orrore che la perdita (cioè la “mutazione” sottrattiva) implica in questo procedimento non può non generare»16. La capsula di teletrasporto del film potrebbe allora essere letta, suggerisce lo studioso, come metafora dell’impotenza visiva del cinema, come esplicitazione della «sua “cecità” nei momenti cruciali: quelli in cui l’immagine nasce staccandosi dal corpo e facendosi altro da lui»17 e l’orrore scaturirebbe proprio dalla percezione di tale impossibilità.

Riflessioni sulla natura delle immagini sono presenti anche in Inseparabili (Dead Ringers, 1988). Se nei due gemelli ginecologi alcuni studiosi hanno individuato riferimenti al ruolo del regista, ossia colui che mette al mondo immagini, il film è però anche un’opera che si confronta con l’attrazione per ciò che abita l’interno dei corpi umani e con l’ossessione di mostrare il non-filmabile. «Inseparabili è uno straordinario film su questo paradosso. Non solo un film sul “doppio”, sui gemelli, sulla simmetria e sulla specularità, ma anche (e soprattutto) un vertiginoso periplo intorno all’irrappresentabiltà del corpo, sempre in bilico fra il visibile e il non mostrabile, fra ciò che vediamo e ciò che non potremo mai (o non possiamo ancora) vedere»18. In questo caso il regista opta per un’opera implosiva anziché esplosiva decidendo di non mostrare la carne, di non squarciare i corpi e di lasciare che le immagini scivolino sulle superfici concentrandosi piuttosto sull’orrore del guardarsi dentro.

Con eXistenZ (Id., 1999) ancora una volta Cronenberg inserisce in una sua opera la questione dell’obsolescenza del corpo, la sua inadeguatezza di fronte alle nuove tecnologie. A tale inadeguatezza eXistenZ risponde con un coinvolgimento diretto del corpo umano nella dimensione del gioco, senza bisogno di ricorrere a macchine, schermi ecc. La connessione avviene tramite una consolle semiorganica che attraverso una bioporta si lega, con una sorta di cordone ombelicale artificiale, alla spina dorsale, dunque al sistema nervoso dell’essere umano. Non si tratta più di un collegamento con l’universo simulatorio ottenuto tramite lo sguardo; qua è l’apparato percettivo umano ad essere condotto in un’altra dimensione.

Si può affermare che con questo film Cronenberg estremizzi ulteriormente Videodrome a proposito della «indicibilità circa lo statuto linguistico e mediatico delle immagini di volta in volta proposte, in una perenne oscillazione fra il registro mimetico-riproduttivo e quello allucinatorio-visionario »19. La percezione dello spettatore viene lasciata in balia del dubbio nell’impossibilità di distinguere tra realtà del mondo e realtà videoludica. Per far ciò Cronenberg elimina ogni artificio retorico codificato con cui la grammatica audiovisiva è solita indicare il livello di rappresentazione. eXistenZ è film del tutto privo di sviluppo narrativo, costruito su una vertiginosa mise en abime in cui reale e virtuale risultano indistinguibili, combacianti, forse ormai persino inseparabili.

Di nuovo Videodrome, praticamente: ma al posto di una video-arena nella quale emittenti televisive si contendono il possesso delle menti a scapito di spettatori persi in un ginepraio allucinatorio, qua è nella game-arena della realtà simulata che le corporazioni e le sette […] combattono fra loro per conquistare le masse, e che i personaggi gareggiano per sopravvivere, in quella forma di allucinazione consensuale che è il videogioco. […] Ai poveri che ricavavano la loro “dose di televisione” nella basilica tecnologica della Cathode Ray Mission [di Videodrome] si sostituiscono gli uomini e le donne di tutti i giorni per la loro dose di evasione, la loro dose di esistenza20.

L’impossibilità dell’essere umano di prescindere dal processo di “vetrinizzaizone”21 mediatica la si ritrova in Maps to The Stars (Id., 2014), opera dalla struttura più convenzionale che insiste tanto sulla dipendenza dell’individuo dall’immagine quanto sull’instabilità della sua identità e lo fa ambientando la narrazione nella fabbrica di immagini e immaginari per eccellenza: Hollywood.


Processi di ibridazione


  1. R. Sasso, L’immagine mutante. Il cinema di David Cronenberg, Edizioni Falsopiano, Alessandria 2018, p. 64. 

  2. Ivi, p. 65. 

  3. Ibid

  4. Ibid

  5. G. Canova, David Cronenberg, Editrice Il Castoro, Milano 2007. La monografia, uscita la prima volta nel lontano 1993, è stata aggiornata più volte; in questo scritto si fa riferimento all’edizione del 2007 

  6. G. Canova, op. cit., p. 52. 

  7. Ibid

  8. Ivi, p. 59. 

  9. Ivi, p. 56. 

  10. Ivi, p. 64. 

  11. Ivi, p. 65. 

  12. Ivi, p. 67. 

  13. James Ballard, All that Mattered was Sensation, Krisis Publishing, Brescia 2019. Testo bilingue con intervista e prefazione di Sandro Moiso e un saggio critico di Simon Reynolds. 

  14. Si veda la serie di interventi Il reale delle/nelle immagini di G. Toni pubblicati su “Carmilla”. 

  15. C. Tesson, Les yeux plus gros que le ventre, “Chaier du cinéma”, n. 391, gennaio 1987. 

  16. G. Canova, op. cit., p. 74. 

  17. Ibid

  18. Ivi, p. 79. 

  19. Ivi, p. 109. 

  20. R. Sasso, op. cit.,  pp. 120-121. 

  21. La tendenza alla “vetrinizzazione”, secondo il sociologo Vanni Codeluppi, deriva dalla necessità dell’individuo contemporaneo di creare e gestire la propria identità attraverso una pratica di esposizione/narrazione di sé attuata soprattutto, anche se non esclusivamente, attraverso i social media. Si tratta di un tentativo di catturare l’attenzione attraverso un adeguamento agli standard di rappresentazione sociale prevalenti. Si vedano i volumi: V. Codeluppi, La vetrinizzazione sociale. Il processo di spettacolarizzazione degli individui e della società, Bollati Boringhieri, Torino 2007; Id., Mi metto in vetrina. Selfie, Facebook, Apple, Hello Kitty, Renzi e altre “vetrinizzazioni”, Mimesis, Milano-Udine 2015. 

]]>
Estetiche del potere. La risposta femminile al mito del lusso donnesco nella prima modernità https://www.carmillaonline.com/2019/08/25/estetiche-del-potere-la-risposta-femminile-al-mito-del-lusso-donnesco-nella-prima-modernita/ Sat, 24 Aug 2019 22:01:37 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=54129 di Gioacchino Toni

«Le donne, da Eva in poi, sono state rappresentate come seduttrici e causa primaria della perdita di razionalità, saggezza e peccato. A questo, vengono contrapposte le rassicuranti figure della Vergine Maria, la madre e la Madonna. L’Antisatira di Tarabotti, può essere considerata come la prima profonda e prolungata risposta alla tradizione della polemica sul lusso femminile (lusso donnesco), un manifesto politico perfettamente in linea con gli altri suoi scritti di denuncia della disuguaglianza tra uomini e donne. Ma il testo fa anche più di questo: è una critica della nozione secondo cui il genere è fisso, una categoria [...]]]> di Gioacchino Toni

«Le donne, da Eva in poi, sono state rappresentate come seduttrici e causa primaria della perdita di razionalità, saggezza e peccato. A questo, vengono contrapposte le rassicuranti figure della Vergine Maria, la madre e la Madonna. L’Antisatira di Tarabotti, può essere considerata come la prima profonda e prolungata risposta alla tradizione della polemica sul lusso femminile (lusso donnesco), un manifesto politico perfettamente in linea con gli altri suoi scritti di denuncia della disuguaglianza tra uomini e donne. Ma il testo fa anche più di questo: è una critica della nozione secondo cui il genere è fisso, una categoria essenziale e naturalizzata. Sovvertendo le regole del gioco, Tarabotti svela l’ipocrisia sociale che aveva visto decorazioni e ornamenti come oggetti della femminilità, e la mascolinità in contrapposizione ad essa». Eugenia Paulicelli

Il mito che nella prima modernità voleva Venezia come città ideale e culla di libertà a cui contribuirono personalità come Cesare Vecellio e Giacomo Franco con le loro pubblicazioni sugli abiti e sui costumi, è stato aspramente contestato da scrittrici veneziane del Cinque e Seicento come Modesta Pozza ed Arcangela Tarabotti (al secolo Elena Cassandra Tarabotti).

La prima, autrice de Il merito delle donne (dialogo tra sole donne pubblicato postumo nel 1600 con lo pseudonimo di Moderata Fonte), ricorre all’artificio retorico di aprire il volume tessendo le lodi alla città lagunare, per poi mostrare come la vita pubblica della Serenissima escluda di fatto le donne, prive di diritti e non considerate parte attiva della comunità cittadina. Alla figura di Arcangela Tarabotti, ancora più sferzante e puntuale nella critica alla società veneziana, la studiosa Eugenia Paulicelli – docente di Letteratura italiana, comparata e Women’s Studies alla City University di New York – dedica un interessante capitolo del suo volume Moda e letteratura nell’Italia della prima modernità (Meltemi, 2019) [su Carmilla].

Costretta dal padre a perdere i voti in giovane età, Tarabotti è autrice di opere come La tirannia paterna, L’inferno monacale, Il paradiso monacale e Antisatira in cui la vita personale, pubblica e politica non sono mai separate dal contesto geopolitico. Si tratta di una produzione caratterizzate da una verve polemica e da una passione che non si ritrovano negli scritti di altre veneziane della prima modernità in cui la giovane monaca benedettina, forte di un’ottima conoscenza degli affari cittadini, della moda e delle consuetudini sociali maschili e femminili, sferra un attacco diretto al cuore dello stato veneziano decostruendone il mito di città della libertà prendendo di mira la struttura dispotica delle istituzioni della Serenissima. In generale, sostiene Paulicelli, le opere della Tarabotti sono caratterizzate da una critica sferzante e disincantata del patriarcato che sottende le istituzioni della società lagunare (famiglia, stato, istruzione ecc.).

Così come Modesta Pozza, anche Arcangela Tarabotti decise di aprire sia Tirannia Paterna (pubblicato postumo) che in Inferno monacale, con una presentazione di Venezia come baluardo di libertà, salvo «sostituire subito dopo quell’immagine con una visione opposta della città: come una prigione, la negazione della libertà, soprattutto per le donne. Per Tarabotti, Venezia diventa l’immagine stessa della misoginia, una città che gode di uno status e un prestigio internazionali, ma dove le donne rimangono cittadine di seconda classe e in cui lo spazio pubblico è loro negato».

I due libri circolarono per qualche tempo in maniera semi-clandestina a Venezia allo stato di manoscritti e nel caso de La tirannia paterna anche dopo la sua pubblicazione il testo continuò ad essere osteggiato tanto da venire bandito dalla Congregazione dell’Indice nel 1661, pochi anni dopo la sua pubblicazione postuma.

Tarabotti riuscì invece a pubblicare in vita Il Paradiso monacale (1643), l’Antisatira (1644), Lettere Famigliari (1650) e Che le donne siano della spetie degli huomini. Difesa delle donne (1651). A darle fama sarà soprattutto l’Antisatira, libro pubblicato anonimamente sotto la sigla D.A.T. in risposta alla Satira (1638 e 1644) scritta da Francesco Buoninsegni, in cui l’intellettuale senese prendeva di mira la moda femminile e con essa le donne. Nella sua replica Tarabotti, oltre a schierarsi per la libertà delle donne di seguire la moda, denunciò come questa toccasse parimenti gli uomini, tanto da insistere particolarmente nel descrivere la vanità maschile.

Nonostante la vita conventuale, la scrittrice riuscì a mantenere importanti contatti con la realtà culturale cittadina anche grazie al parlatoio, una sorta di spazio liminale tra l’isolamento del convento ed il mondo esterno, che «può anche essere visto come una forma di salotto, uno spazio intimo dove si discutevano gli affari pubblici, si scambiavano doni, si organizzavano matrimoni e così via». La studiosa Gabriella Zarri arriva a vedervi un’anticipazione della moda dei salotti francesi che si diffonderà negli stati italiani alla fine del Seicento.

La religiosa riuscì a stabilire legami con gli Incogniti, un gruppo di intellettuali libertini veneziani spesso presi di mira dall’Indice dei libri proibiti, incline ad uno stile di scrittura decisamente sperimentale per l’epoca. «Inutile dire che l’Accademia degli Incogniti era diretta da uomini […] L’Accademia era uno dei più importanti e riconoscibili “punti di ritrovo” per gli intellettuali italiani, sia dentro che fuori Venezia, così come per i letterati francesi».

«Quello che forse l’attraeva di più degli Incogniti», sostiene Paulicelli, «era il loro amore condiviso per la libertà. Deve esserle sembrato che, in questi ambienti, la lingua e le parole fossero libere da regole prestabilite. Nonostante le differenze tra la sua posizione femminista e la misoginia di molti dei letterati degli Incogniti, quello che condividevano era il desiderio di cambiamento e la passione per il potere rivoluzionario delle parole e del linguaggio».

Nelle sue pubblicazioni, Tarabotti si sofferma sull’accesso alla cultura delle donne, sul loro riconoscimento nella vita pubblica, sulla loro libertà e sul loro libero arbitrio. «In tutti i suoi scritti, Tarabotti fa ampio riferimento agli abiti, alla moda, all’apparire e al volto pubblico di uomini e donne, ma è in Tirannia paterna che questo filone del discorso di Tarabotti giunge a compimento. Ciò che collega i suoi scritti sulla moda e quelli sulla tirannia è la questione dell’inganno e di come vengono utilizzati in modo il linguaggio e i segni vengano utilizzati in modo e con scopi mendaci. L’arte di vestire e apparire per Tarabotti è simile all’atto della copertura e della stratificazione che è inerente alla rappresentazione e alla lingua, e dunque, per estensione, alla pratica della dissimulazione».

Nell’Antisatira la scrittrice si sofferma su quegli specifici elementi dell’abbigliamento distintivi della moda maschile nella prima metà del Seicento, denunciando la vanitosa passione degli uomini per le parrucche e i ricci, per i tessuti pregiati e per le vestiti, senza però essere per questo giudicati. «L’attacco di Tarabotti alla mascolinità fu in primo luogo, una risposta meticolosamente dettagliata e ben argomentata che con verve e intelligenza ha decostruito le finzioni della mascolinità come veniva rappresentata sulla scena sociale».

Nel libro la scrittrice si sofferma sull’usanza maschile di alterare, attraverso imbottiture, la forma del corpo, questione dibattuta nel corso del secolo da diversi scritti, come nel caso de La maschera scoperta (1671) di frate Arcangelo Aprosio, in cui viene sminuita la portata morale e simbolica delle trasformazioni del corpo maschile, mentre al contempo viene enfatizzata l’ingannevolezza insita nella medesima pratica da parte femminile. Nella lettura proposta dalla religiosa emerge una differente rappresentazione dell’abbigliamento maschile. «Nel falso ridimensionamento delle immagini di virilità, Tarabotti offre un quadro complesso della politica dello stile, genere e classe durante la sua epoca e offre interessanti argomenti sull’abilità delle donne e sul loro diritto e desiderio di controllare il proprio aspetto e la propria identità culturale».

Il dibattito sul lusso e sulla moda portato avanti nell’Antisatira deve essere collocato all’interno delle questioni della libertà e del libero arbitrio, e per Tarabotti «il diritto legittimo, la libertà e il piacere delle donne di abbellire i loro corpi e le loro apparenze, e il loro accesso a una vita intellettuale/pubblica sono la stessa cosa».

L’Antisatira può dunque essere vista come una risentita e piccata risposta femminile alla tradizionale lettura misogina del lusso donnesco. Il libro, oltre che riprendere la denuncia della disuguaglianza tra uomini e donne presente negli altri testi della scrittrice, è anche «una critica della nozione secondo cui il genere è fisso, una categoria essenziale e naturalizzata. Sovvertendo le regole del gioco, Tarabotti svela l’ipocrisia sociale che aveva visto decorazioni e ornamenti come oggetti della femminilità, e la mascolinità in contrapposizione ad essa». Si può dunque affermare, conclude Eugenia Paulicelli, che il suo testo risulta rivoluzionario per diversi motivi: «in primis perché difende il diritto della donna alla moda e al lusso, collegandolo al lavoro intellettuale, che può essere considerato parallelo alla cura del corpo. In altre parole, difende il diritto delle donne di essere libere e considera la cura di sé, del proprio corpo, della propria anima e del proprio cervello come atti che sono intrecciati e non separati dal controllo della vita, del comportamento delle donne e dell’economia del patriarcato. Affermando che le donne sono autrici della propria immagine e dei propri libri, Tarabotti può essere vista come una femminista radicale. Con riferimento alla chiesa, ha oltrepassato diversi confini difendendo il lusso invece di esaltare soltanto la castità e la modestia per le donne, e ha decostruito il mito secondo cui gli uomini non erano interessati all’apparire e all’eccesso».


Serie completa Estetiche del potere

]]>
Nemico (e) immaginario. Il senso dell’esistenza davanti allo specchio nero https://www.carmillaonline.com/2019/04/12/nemico-e-immaginario-il-senso-dellesistenza-davanti-allo-specchio-nero/ Thu, 11 Apr 2019 22:01:46 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=51942 di Gioacchino Toni

«Black Mirror piazza lo spettatore davanti allo specchio nero. Alla fine di ogni episodio, lo schermo si spegne diventando riflettente e il soggetto si ritrova solo davanti alla sua immagine, al suo Sé da cui non può fuggire e che non può costruire. Lo specchio (nero) incatena lo spettatore con se stesso e lo porta ad interrogarsi sul significato profondo della sua vita, della sua esistenza. Tutto ciò che l’individuo fa serve a riempire di senso la propria esistenza» Fausto Lammoglia e Selena Pastorino

La complessità narrativa di diverse serie audiovisive recenti richiede allo spettatore un coinvolgimento attivo [...]]]> di Gioacchino Toni

«Black Mirror piazza lo spettatore davanti allo specchio nero. Alla fine di ogni episodio, lo schermo si spegne diventando riflettente e il soggetto si ritrova solo davanti alla sua immagine, al suo Sé da cui non può fuggire e che non può costruire. Lo specchio (nero) incatena lo spettatore con se stesso e lo porta ad interrogarsi sul significato profondo della sua vita, della sua esistenza. Tutto ciò che l’individuo fa serve a riempire di senso la propria esistenza» Fausto Lammoglia e Selena Pastorino

La complessità narrativa di diverse serie audiovisive recenti richiede allo spettatore un coinvolgimento attivo al fine di comprendere, ricostruire, interpretare e prendere posizione, magari condividendo con altri spettatori ipotesi, anticipazioni, riscritture ed ampliamenti del testo originario. Con “complex TV” si fa riferimento proprio a questo tipo di produzioni televisive che incorporano al proprio interno la complessità, tanto a livello di narrazione che di fruizione. Black Mirror appartiene sicuramente a questo genere di programmi ma lo fa con alcune sue peculiarità che, secondo il recente volume di Fausto Lammoglia e Selena Pastorino, Black Mirror. Narrazioni filosofiche (Mimesis, 2019), rendono la serie una narrazione filosofica che si impone agli spettatori come una domanda di senso.

Lo schema narrativo di molte serie televisive si articola su più livelli: l’episodio, che tende a concentrarsi sugli aspetti di uno specifico evento o di un personaggio; la stagione, che conclude un determinato aspetto affrontato; la serie nella sua interezza, a cui spetta il compito di trasmettere il significato profondo dell’intera produzione. In Black Mirror, invece, il susseguirsi degli episodi non è finalizzato alla costruzione di una storia ma alla creazione di un mondo. Le diverse e, salvo rare occasioni, slegate puntate della serie contribuiscono a creare un’atmosfera generale, un continuum di esperienze accomunate da una visione del mondo, da universo tecnologico simile e da alcuni fatti che si legano tra loro soltanto attraverso piccoli dettagli, richiamanti altri episodi, disseminati discretamente dagli autori.

La serie è caratterizzata, oltre che da un evidente apparato allegorico (diversi significati sono veicolati attraverso le colonne sonore ed i nomi), anche dal ripetuto suggerire allo spettatore di non fidarsi delle apparenze ed a differenza di quanto accade con i colpi di scena cinematografici classici, le trasformazioni nella serie riguardano il modo di guardare le cose: ad essere rivoluzionato è il punto di vista.

Gli episodi della serie sembrano ambientati in un “domani tecnologico” di cui, sostengono Lammoglia e Pastorino, non viene tanto criticata la tecnologia, quanto piuttosto l’uso che di essa viene fatto, inoltre si tratta di un domani caratterizzato da una sorta di contrapposizione tra “futuristico” e “vintage”. «Tutta la tecnologia o le parti di realtà che non costituiscono una novità vera e propria sono rappresentate nella serie come strumenti superati, stracci vecchi che andrebbero buttati o cambiati ma, al contempo, rimangono sempre attuali, poiché la ricerca si spinge verso la novità assoluta lasciando da parte l’innovazione e miglioramenti» (p. 18).

L’analisi di Black Mirror proposta dal libro è votata a riconoscere il potenziale filosofico della sua narrazione privilegiando quattro direttive a cui sono dedicati altrettanti capitoli: il primo, Commemorare, affronta la questione della “memoria aumentata” grazie alla tecnologia e quella che potrebbe sconfiggere la morte; il secondo, Giudicare, è dedicato all’impatto che ogni parola può avere una volta raggiunta la dimensione pubblica del social(e); il terzo, Esprimere, si occupa delle modalità di comunicazione interpersonale mediatizzata; il quarto, Controllare, affronta la pervasività dello Stato tecnologico e l’ossessione del comando sul “reale”.

Secondo gli autori è possibile leggere l’intera serie come grido di dolore contro la mancanza di significato della vita in un mondo post-umano, immerso nei social. Diversi protagonisti sembrano «dei moderni Amleto costretti a confrontarsi con il dubbio ontologico tra essere e non essere, tra l’esistenza faticosa, dolorosa ma finalizzata alla pienezza di significato e la non esistenza, la resa che sembra possa portare alla tranquillità attraverso l’inazione […] Questo bisogno di senso si cala nella realtà attraverso due riflessioni ulteriori inerenti l’autenticità del significato. Da un lato il significato profondo dipende dall’immersione della vita nel tempo; dall’altro, il rischio è perseguire uno scopo strumentale perdendo di vista il vero fine della propria azione» (pp. 191-192)

Lasciare, alla fine di ogni episodio, chi lo ha seguito davanti allo schermo che si spegne, lo specchio nero, pone lo spettatore davanti alla sua immagine invitandolo ad interrogarsi circa il significato profondo della sua esistenza. Ma la serie, suggeriscono gli autori del saggio, «come ogni altra narrazione filosofica, non è fatta per restare nel campo dell’astratto ma trova la sua ragion d’essere nel mondo. Non basta capire, perché lo scopo è sempre e comunque l’azione, la praxis. Contemplare la realtà, conoscere se stessi, individuare le falle del sistema sono i passi propedeutici ad una ricaduta concreta nel reale che avvenga tramite l’azione diretta del soggetto il quale dovrà impegnarsi in ogni modo perché la realtà che lo circonda sia adatta, sia vivibile, diventando il campo in cui realizzare il significato profondo del suo Sé. Al contrario, se il soggetto resterà spettatore, seduto sul divano e volto all’inedia, ogni significato che assumerà la sua vita dipenderà da altro o da altri fuori di lui. La potenza della narrazione di Black Mirror è questa, in fondo. Chiede al soggetto di tramutare la sua essenza di spettatore per trasformarlo in attore» (p. 196).

Attraversare lo specchio, sottolineano Lammoglia e Pastorino, «significa allora abbandonare l’esteriorità di una teoresi sterile e ordinata per abbracciare la realtà dell’esperienza vissuta di fronte allo svolgersi degli eventi, darle una forma e agirla in una pratica in cui sia possibile riconoscere noi stessi. Perché se anche lo specchio nero può funzionare come una mirror box in cui le nostre convinzioni falsate vengono corrette da una visione attiva, è solo la prassi del pensiero, in ogni sua dimensione, a permetterci di nuotare nell’abisso che siamo. Ogni volta di nuovo» (p. 203).


Serie completa di “Nemico (e) immaginario”

]]>
L’estetica della con-fusione nell’opera di Kiarostami https://www.carmillaonline.com/2018/03/30/lestetica-della-con-fusione-nellopera-di-kiarostami/ Thu, 29 Mar 2018 22:03:46 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=44568 di Gioacchino Toni

Elio Ugenti, Abbas Kiarostami. Le forme dell’immagine, Bulzoni Editore, Roma, 2018, pp. 232, € 20,00

L’ultimo saggio di Elio Ugenti indaga l’opera di Abbas Kiarostami passando in rassegna una produzione visiva che coinvolge cinema, video e fotografia e si presenta al pubblico sotto forma di proiezione cinematografica, videoinstallazione, mostra fotografica e integrazione tra immagine video e spettacolo teatrale. L’obiettivo del volume è quello di far emergere la portata intermediale e la complessità del discorso sulla visualità dell’opera di Kiarostami.

Pur partendo dall’analisi del cinema dell’iraniano, il saggio allarga il suo [...]]]> di Gioacchino Toni

Elio Ugenti, Abbas Kiarostami. Le forme dell’immagine, Bulzoni Editore, Roma, 2018, pp. 232, € 20,00

L’ultimo saggio di Elio Ugenti indaga l’opera di Abbas Kiarostami passando in rassegna una produzione visiva che coinvolge cinema, video e fotografia e si presenta al pubblico sotto forma di proiezione cinematografica, videoinstallazione, mostra fotografica e integrazione tra immagine video e spettacolo teatrale. L’obiettivo del volume è quello di far emergere la portata intermediale e la complessità del discorso sulla visualità dell’opera di Kiarostami.

Pur partendo dall’analisi del cinema dell’iraniano, il saggio allarga il suo interesse ben oltre la produzione e proiezione cinematografica per toccare le diverse modalità con cui il regista ha portato avanti un personale discorso sull’immagine e sulle specificità del medium attraverso opere in cui lo sguardo dello spettatore è considerato come una componente essenziale delle immagini.

Ugenti procede analizzando le immagini da un punto di vista estetico-formale, problematizzando la loro funzione, soffermandosi sulle diverse modalità espositive e indagando gli effetti procurati dal processo di rilocazione a cui sono sottoposte.

Nel primo capitolo l’analisi della sequenza iniziale di Il vento ci porterà via (1999) consente di aprire una riflessione su un rapporto tra visione e azione dei personaggi contraddistinto dall’assenza di un assoggettamento dello sguardo spettatoriale allo sviluppo narrativo. Vengono dunque ricostruite le tappe attraverso cui il regista iraniano giunge a tale risultato passando in rassegna alcuni suoi film precedenti in un percorso che si sofferma sull’evoluzione dell’agire trasfromativo del personaggio in Dov’è la casa del mio amico? (1987) per poi passare all’indebolimento dell’efficacia dell’azione dei personaggi in E la vita continua (1992), ove si palesa un’idea di spazio fondata su una disarticolazione capace di modificare l’ambiente in un luogo di attraversamento entro il quale le finalità e le azioni dei personaggi risultano sempre meno rilevanti.

Se in Dov’è la casa del mio amico? il regista decide di «ridurre all’essenziale gli elementi di complessità della storia narrata, oltre a scegliere […] di ricorrere a uno stile visivo anch’esso essenziale e non assoggettato alle regole del decoupage classico, è pur vero che egli sceglie di costruire una struttura narrativa solida e consapevole, regolata da un agire trasformativo e orientata lungo un percorso di crescita del proprio personaggio, nonché alla trasformazione efficace di una situazione si disequilibrio che è venuta a determinarsi nella parte iniziale del film» (p. 38).

In E la vita continua si assiste ad un depotenziamento dell’agire trasformativo che sembra premettere quella radicalizzazione raggiunta in Il vento ci porterà via che paleserà l’impossibilità di «un’azione efficace, produttiva e orientata per il protagonista» (p. 38). Secondo Ugenti con E la vita continua «ci troviamo in una sorta di situazione intermedia, con un incipit che non risulta caratterizzato da scelte estetiche estreme come quelle de Il vento ci porterà via, ma che lascia intravedere già un parziale sgretolamento di quella solidità che caratterizza la prima sequenza di Dov’è la casa del mio amico?» (p. 41).

Nonostante Il vento ci porterà via si presenti come un film dotato di trama, personaggi, luoghi d’azione e situazioni narrative, in esso tende a palesarsi il prevalere del  sistema visivo su quello narrativo. Secondo Ugenti tale film rappresenta «un punto di snodo fondamentale nella produzione di Kiarostami, proprio per la volontà sistematica del regista di rompere l’ordine del discorso cinematografico per cercare altro, estremizzando ancor più il suo cinema e cercando modelli rappresentativi ancor più autonomi» (p. 64).

La consapevolezza dello sguardo spettatoriale, il disvelamento del dispositivo filmico e l’attribuzione della soggettività dello sguardo, il rapporto tra campo/fuoricampo e la negazione dell’immagine, sono al centro dell’analisi del secondo capitolo. Oltre a riprendere le opere precedentemente esaminate vengono qui approfonditi film come Compiti a casa (1989), Five Dedicated to Ozu (2003) e Shirin (2008) indagando anche le particolari configurazioni spaziali e temporali dell’inquadratura.

Secondo Ugenti l’opera di Kiarostami si contraddistingue per un progressivo svuotamento del suo cinema fino al punto di ridursi alla sua essenza. «Da un lato assistiamo ad un graduale depotenziamento della portata narrativa dei film […] mentre dall’altro ad una sempre crescente attenzione nei confronti delle relazioni che lo spettatore istituisce con l’immagine filmica, e un’esibizione sempre meno evidente della presenza dello sguardo filmico» (p. 69).

Il regista iraniano struttura una relazione tra visione e narrazione capace di determinare quell’apertura di senso che consente alle immagini di «esprimere la loro forza singolare in alcuni momenti del film, nonostante la loro presenza possa apparire per lunghi tratti subordinata alla necessità della storia» (p. 70). Kiarostami intraprende così una reinvenzione stilistica che conduce verso forme di cinema non narrativo.

In E la vita continua l’attenzione rivolta allo sguardo e all’atto del guardare determina l’esistenza di una entità terza diversa tanto dai fatti che dalla mera immagine. Si tratta di ciò che Dario Cecchi (Abbas Kiarostami. Immaginare la vita, 2013) identifica nello spettatore inteso come istanza che si manifesta nell’immagine stessa. Dunque, sostiene Ugenti, abbiamo a che fare con uno sguardo da intendersi come «esito di un processo configurativo che lo colloca all’interno del film» (p. 79). Lo studioso procede poi con il verificare diacronicamente le modalità con cui tale processo viene esibito nell’opera dell’iraniano attraverso una molteplicità di strategie estetiche e procedimenti formali.

Nella sua indagine, Ugenti riprende le riflessioni elaborate da Paolo Bertetto a proposito del concetto di configurazione preferito a quello di rappresentazione in quanto capace di esplicitare l’idea di processo creativo-generativo dell’immagine. «L’invito è a considerare l’immagine cinematografica come un artefatto inscindibile dallo sguardo che l’ha generato, come un susseguirsi di scelte operate dal cineasta […] e, in ultima analisi, come l’effetto di una proiezione che rende manifesta sullo schermo l’interazione simultanea di queste scelte, a partire dalle quali viene a determinarsi l’esperienza dello spettatore: il modo attraverso cui egli percepisce il tempo e lo spazio del film» (p. 82). Se tale caratteristica vale per l’intero cinema, suggerisce Ugenti, questa risulta particolarmente esibita dall’opera di Kiarostami.

Visto che l’estremizzazione del discorso metariflessivo sulla visione tende a portare verso la sua negazione, l’analisi del saggio si sofferma in particolare su alcuni momenti appartenenti a film differenti del regista in cui l’immagine «viene improvvisamente meno, mutando di colpo il vedere dello spettatore nella privazione totale del campo di visibilità» (p. 90). Dei tre momenti individuati – appartenenti a E la vita continua, ABC Africa (2001) e Il sapore della ciliegia (1997) – vengono indagati in particolare il grado di relazione tra negazione dell’immagine e livello narrativo-rappresentativo del film e la durata intesa come l’esperienza del tempo dello spettatore che non coincide necessariamente con il tempo rappresentato. Le scelte configurative permettono una messa in evidenza dell’immagine filmica in quanto tale grazie al processo di disvelamento del dispositivo filmico capace di «portare l’attenzione dello spettatore verso i suoi elementi costitutivi: lo spazio, la luce e il tempo» (p. 112).

La portata intermediale dell’opera del regista iraniano viene invece approfondita soprattutto nel terzo capitolo. Vengono qui analizzate le videoinstallazioni realizzate a partire dal 2001 e la produzione fotografica indagando la riflessione sul rapporto tra immagine fissa e immagine in movimento presente in alcune sue opere. Attenzione viene riservata anche al cambiamento di dispositivo, alla relazione tra spazio dell’osservatore e spazio plastico dell’immagine.

La vocazione intermediale e rilocativa dell’opera di Kiarostami viene affrontata da Ugenti a partire dall’analisi dell’allestimento romano del Ta’zieh, una forma drammaturgica tradizionale originaria del mondo islamico. Alla difficoltà del pubblico italiano di entrare in sintonia con lo spettacolo e di lasciarsi coinvolgere emotivamente, Kiarostami decide di sopperire attraverso la proiezione di immagini registrate di spettatori iraniani che assistono nel loro paese a tale spettacolo rendendoli “partecipi” dell’allestimento scenico romano. Il pubblico iraniano proiettato diviene così una “partitura emotiva” dello spettacolo messo in scena a Roma. «L’opera e lo sguardo sull’opera diventano dunque inscindibili» (p. 114).

Kiarostami attua dunque nella messa in scena romana del Ta’zieh una particolare forma di rilocazione ed è proprio su questo concetto che indaga l’intero capitolo che giunge – con Roads of Kiarostami (2005) e 24 Frames (2017) – alla riconfigurazione di forme diverse di espressione artistica all’interno di uno spazio che non è più uno spazio fisico ma, riprendendo il concetto elaborato da Miriam De Rosa (Cinema e postmedia. I territori del filmico nel contemporaneo, 2013) può essere definito come spazio-immagine.

Secondo Ugenti la continuità tra i film per la sala e le installazioni del regista iraniano è data da una ricerca formale volta a problematizzare il tipo d’esperienza dello spettatore. «Il lavoro di sottrazione operato sulle strutture narrative e la messa in gioco dello sguardo nei film […] trovano nella reinvenzione dello spazio un loro compimento. […] Forzare i limiti dello sguardo è stato […] il fil rouge che ha attraversato l’intera produzione del regista. E sconfinare dalla sala, in fondo, non è altro che un modo per perpetrare un’idea di cinema solida senza scadere nel manierismo, ma reinventando un modo diverso di porre domande che restano in perfetta continuità tra loro ne corso del tempo» (pp. 122-123).

Lo sconfinamento messo in atto da Kiarostami in alcune sue opere, l’interconnessione tra oggetto fimico e spazio museale, tende a condurre l’esperienza dell’immagine in movimento verso territori artistici. «Il darsi dell’immagine allo spettatore all’interno di una boité-regard che era esaltata dalle scelte formali di Kiarostami nei film degli anni Novanta, l’idea di far fronte a uno spazio prima ancora che a una rappresentazione […], persistono in queste forme di sperimentazione che prendono vita con Sleepers, e divengono il sintomo dell’indistricabilità tra la riflessione estetica […] e la reinvenzione della forma dell’operare artistico di Kiarostami» (pp. 129-130).

Secondo Ugenti i video del regista iraniano si presentano come tentativo di ribaltare la funzione svolta dal suo cinema nel decennio Ottanta-Novanta per poterla interrogare sotto una nuova luce. «In questa rinnovata condizione spettatoriale si modifica radicalmente la modalità di accesso al visibile: la riconfigurazione spaziale dell’opera […] rende davvero difficile, se non impossibile, concepire lo spettatore come un soggetto assorbito dalla visione e assoggettato alla narrazione. Se il regime rappresentativo […] era stato messo in crisi già nei film per la sala mediante l’esplicitazione di alcuni processi configurativi dell’immagine sullo schermo, qui assistiamo al passaggio definitivo verso un regime presentativo» (p. 130).

In installazioni come Summer Afternoon (2006) il contesto spaziale non si limita ad ospitare l’immagine ma interagisce con essa e con lo spettatore. Non si tratta più di uno spazio proiettato ma di uno spazio abitato; uno spazio che non è più nell’immagine ma che si costituisce anche grazie alla presenza dell’immagine. La messa in evidenza dell’immagine porta all’indiscernibilità tra l’immagine stessa e lo spazio che la accoglie/espone allo spettatore. «Non più un’immagine fruibile in uno schermo su una parete, ma immagine, schermo e parete che divengono gli elementi fondanti di un’esperienza spaziale di cui lo spettatore è arte integrante e attiva» (p. 132).

A partire dall’analisi dei film Copia conforme (2010) e Qualcuno da amare (2012), il quarto ed ultimo capitolo si sofferma sul ritorno del regista al linguaggio narrativo e sulla configurazione visiva di opere caratterizzate da uno spazio d’azione delimitato dall’inquadratura che sembra divenire uno spazio d’esposizione di immagini complesse votate all’astrazione che si offrono al piacere contemplativo dello spettatore. Ad essere preso in esame è qui anche il rapporto tra la presenza di alcuni elementi figurativi e le dinamiche narrative.

Di Ugenti abbiamo avuto modo di approfondire e apprezzare [su Carmilla] il saggio Immagini nella rete (2016) in cui viene approfondita l’esperienza visiva contemporanea alla luce delle interazioni tra i diversi dispositivi tecnologici che tendono a ridefinire significativamente la funzione delle immagini imponendo nuove modalità d’esistenza dipendenti dalla loro mutevole ricontestualizzazione. In questo ultimo libro dedicato a Kiarostami lo studioso ha il merito di mettere in luce la complessità delle forme dell’immagine e la portata intermediale e metariflessiva dell’opera del grande regista iraniano.

]]>
Il reale delle/nelle immagini. Spettacolo e irrealismo della società reale https://www.carmillaonline.com/2017/10/01/39984/ Sat, 30 Sep 2017 22:01:31 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=39984 di Gioacchino Toni

A partire dall’analisi debordiana della società dello spettacolo e dalla pratica del détournement situazionista, Alessandro Cutrona, nel suo L’attualità della mise en abyme nelle opere di Peter Greenaway e Charlie Kaufman (Mimesis, 2017), si occupa di quei rapporti di somiglianza tra un’opera ed il suo contenuto, tra la realtà mostrata e quella contenuta, che danno vita ad un gioco interpretativo senza fine.

Marc Augé, a partire dalla fine degli anni Novanta del secolo scorso, ha insistito sul processo di finzionalizzazione come caratteristico dell’epoca contemporanea: alla realtà si starebbero sostituendo le immagini, come evidenziato dal fenomeno che vede sempre [...]]]> di Gioacchino Toni

A partire dall’analisi debordiana della società dello spettacolo e dalla pratica del détournement situazionista, Alessandro Cutrona, nel suo L’attualità della mise en abyme nelle opere di Peter Greenaway e Charlie Kaufman (Mimesis, 2017), si occupa di quei rapporti di somiglianza tra un’opera ed il suo contenuto, tra la realtà mostrata e quella contenuta, che danno vita ad un gioco interpretativo senza fine.

Marc Augé, a partire dalla fine degli anni Novanta del secolo scorso, ha insistito sul processo di finzionalizzazione come caratteristico dell’epoca contemporanea: alla realtà si starebbero sostituendo le immagini, come evidenziato dal fenomeno che vede sempre più spesso la realtà riprodurre la finzione [su Carmilla]. Se da una parte il reale ama replicare il finzionale, è vero anche che spesso quest’ultimo tende, e forse proprio per questo, a fare del primo il suo tratto distintivo

generando effetti visivi o letterari di contenuto dentro contenuto, come il romanzo dentro al film o viceversa, citazionismi religiosi o mitologici raffigurati o “girati” dentro una scena che con le allusioni non hanno nulla in comune. La mise en abyme dà vita a un doppio, come nel caso dello specchio, condividendo con questo l’artificio o la stregoneria che gli consente un simile effetto. La mise en abyme fa di ciò che ha originato un medium, un ingresso da attraversare, investigare e forse anche da riempire, poiché è proprio lì che si cela l’essenza di un’opera. La creazione di un’entità (persona o oggetto) come doppione di un’entità primaria possiede un’elevata somiglianza a tal punto da far cadere in stato confusionale chi osserva o legge; eppure, nonostante la considerevole attendibilità, questa risulta evanescente, intangibile e parzialmente confutabile, poiché l’accesso dentro l’abisso è collocato all’infinito. Conseguentemente, la mise en abyme produce una trascrizione che riverbera quel principio auratico custodito nell’opera originale. Un’ombra senza tratto distintivo alcuno, poiché calco di un’autentica natura (p. 91).

Cutrona ricorda come a partire dalla tragedia greca il termine spettacolo implichi l’atto del guardare qualcosa o qualcuno da parte di un pubblico, dunque si tratta di un’esperienza antropica dipendente inizialmente da riti religiosi, poi caratterizzata dal legarsi del mito del dramma al racconto. Lungo tale percorso la storia dello spettacolo ha finito con l’intrecciarsi fortemente con quella dei media dando vita ad un rapporto contraddittorio.

Il fascino delle rappresentazioni ha contribuito a modificare la percezione ed i valori dell’uomo, tanto che lo stesso capitale si è sempre più smaterializzato «mediante un’evoluzione da merce a immagine e da immagine a merce […] È lo Zeitgeist della nostra epoca, è proprio da lì, che tutto inizia e finisce, non c’è altra forma di creazione di un hic et nunc, se non quella di un continuo set cinematografico, che si tratti degli studios di larga fama piuttosto che, quelli di un talk show […] di casa nostra. Le regole non cambiano, il gioco ha sempre un solo fine: mimare la vita» (p. 12). Inutile, sembrerebbe, provare a resistere o scontrarsi sul terreno dello spettacolo in quanto quest’ultimo pare in grado di assorbire qualsiasi forma di opposizione facendola propria.

All’interno di un capitalismo votato all’immateriale, ogni oggetto conta in quanto merce ed a contare è la sua forma simbolica. Se il valore di un bene, oltre che dalla quantità di lavoro necessaria a produrlo, dipende sempre più dalla condivisione che l’immagine-merce e merce-immagine riescono ad ottenere, allora, suggerisce Cutrona, «più forte è il lancio dell’immagine-merce più visibile e condivisibile è la merce-immagine, pertanto si tratta dell’odierno valore di scambio, il potere della circolazione che conta sull’astrazione. Lo spettacolo in tutte le sue forme è attualmente il titolare della produzione, l’unica risorsa che si fa immagine della società capitalistica avanzata» (p. 12). Sarebbe dunque nello spettacolo che risiede il vero motore dell’irrealismo della società reale, visto che sempre più spesso il reale tende a richiamare o duplicare la finzione-spettacolo rendendo sempre più indistinguibili i due mondi.

Guy Debord indica come caratteristiche di quella che definisce società dello spettacolo integrato (sintesi di spettacolo concentrato e spettacolo diffuso) «il rinnovamento tecnologico; la fusione economico-statale; il segreto generalizzato; il falso indiscutibile; un eterno presente» (pp. 14-15) e, suggerisce Cutrona, «Il rinnovamento tecnologico, l’eterno presente e il falso indiscutibile, sono le proprietà del mondo postmoderno» (p. 15). Essendo entrati in un’epoca in cui l’individuo tende ad avere un contatto con la realtà soltanto attraverso le immagini – si pensi, ad esempio, come la ripresa effettuata con lo smartphone rimpiazzi l’osservazione diretta dei luoghi attraversati – lo spettacolo oggi sembra rappresentare

la struttura scheletrica dell’odierna società dei consumi, sorretta da un rapporto sociale tra individui, a sua volta mediato da immagini. Se il bene principale è l’immagine, il consumatore contemporaneo è lo spettatore, il proletariato a cui si riferiva K. Marx si è evoluto nella classe dei famelici spettatori di fantasmagoria, certamente più consapevoli di un tempo. Curiosità e zelo determinano l’approccio a sperimentare nuove dinamiche e modalità di fruizione che, in questo punto culturale idealizzano l’audiovisivo come fondamento del dialogo collettivo, linfa vitale dell’l’imago-sfera (quel serbatoio di innumerevoli immagini fluttuanti disponibile a tutti), popolata da binari di ogni paese (p. 15).

Se in generale, rispetto al passato, è comunque sicuramente cresciuta la coscienza critica degli spettatori nelle modalità di fruire la realtà e le sue rappresentazioni, vale la pena soffermarsi sui tentativi di resistenza e di conflittualità più consapevoli ed a tal proposito Cutrona passa in rassegna alcune proposte della Psicogeografia, nella sua messa in discussione del luogo, e del fenomeno Lettrista, anticipatore di alcune linee di forza proprie dell’Internazionale Situazionista.

La Deriva Lettrista implica un modo di intendere libero finalmente da ogni pregiudizio, un’osservazione attenta dello spazio ma anche degli avvenimenti che ci circondano, capacità questa, di sottolineare il valore in ogni dettaglio. Qualunque spazio, una città, un paesaggio, smette di essere agli occhi di un Lettrista un appezzamento di terra, ma un’area contenente svariati codici dettati da un’ideologia dominante, visualizzarli costituisce la prima finalità. Una critica radicale per azzerare la società della merce e rendere l’uomo libero.
Analoga pratica è la Deriva Situazionista, ancora una volta la liberazione dai dispositivi ambientali percepiti come dispotici. Un volontario smarrimento tra il vagare e il cercare senza meta e scopo; il senso di questo sbigottimento, è aprire la mente verso nuovi, inattesi e magari anche, estranianti aspetti della realtà. Una sorta di training sensoriale che consente di avvertire nuove intuizioni, percezioni ed esperienze estetiche attraverso cui i soggetti si relazionano (pp. 23-24).

Arriviamo così al détournement situazionista, pratica che

mira a far deviare chi lo pratica da certi alienanti e dispotici meccanismi culturali, specialmente se legati alla comunicazione di massa, recepiti in forma acritica […]. Il détournement può essere visto come una deriva che procede, però, da un’idea di critica politica o culturale finendo col modificare oggetti estetici già dati (testi, immagini, suoni, ecc.) […] Una pratica combinatoria che, trova un senso inaspettato per “dirottare” il principale intento di quello specifico codice comunicativo. Testi o immagini risultano estranei, inattesi e portatori di una nuova direzione di significato che originariamente non avevano. Il détournement è definibile come un particolare caso di Deriva attivato sul fronte storico-culturale e mediatico della società dello spettacolo (p. 24).

Da tempo Jean Baudrillard insiste nel segnalare come la società contemporanea sia ormai talmente alienata da farsi manifestazione di illusione (le merci), in cui lo spettatore finisce con l’essere un lavoratore a sua insaputa ed i mezzi di comunicazione, a partire dalla televisione, hanno contribuito enormemente a tale trasformazione.

Nel suo saggio, Cutrona sottolinea giustamente come ben da prima dell’avvento della cultura di massa, eventi riguardanti la collettività si erano manifestati tanto nell’antichità, quanto in età medievale e, agli albori della modernità, nel periodo rinascimentale ma, sostiene lo studioso, oggi «l’uomo e i suoi sentimenti, sono ormai ridotti a merce in codici e algoritmi» (p. 25), dunque questi utenti-spettatori vengono costantemente monitorati ed analizzati per vendere loro insieme al prodotto «anche un pezzo di ideologia racchiusa in esso» (p. 25).

Venendo al meccanismo della mise en abyme, ovvero alla questione specifica del volume di Cutrona, secondo Andrè Gide in un componimento si trova la coincidenza «tra il narratore (costruzione letteraria e testuale) con il narratario (il personaggio che compare nel testo come eventuale ed ipotetico destinatario di ciò che il narratore enuncia, il lettore reale, può identificarsi nel personaggio che “legge” fino a coinciderci)» (pp. 27-28); siamo dunque di fronte ad un’esperienza riflessiva che attraverso un procedimento d’identificazione astratta conduce ad un ragionamento. «Una duplicazione interna all’autore, dapprima, che dà vita ad una forma d’arte, che vive una vita propria, come una realtà autonoma, libera ed indipendente. Racchiude in se stessa, in modo univoco, l’opera dentro l’opera. Un soggetto sdoppiato, già connaturato nel proprio sé, decide di creare un oggetto, un’estensione del proprio sé, mediante idee o congetture, più o meno astratte, che seguono un cammino proprio, in un destino temporalmente sconosciuto» (p. 28).

Se la narrazione è un modo di organizzare la realtà, sostiene Cutrona, allora opere come i romanzi ed i film sono da intendersi come delle istruzioni utili per creare un processo immaginativo ed il «meccanismo narrativo che vi è dietro ad una delle forme scelte, ha a che fare con la nostra percezione della realtà. In questo processo, una realtà si trova entro un’altra realtà, la prima, è caratterizzata da precise coordinate: la porzione del suolo di mondo che stiamo occupando, la seconda, è quella che immaginiamo mediante stimolazione, ora illusione, ora realtà» (p. 34). Probabilmente è il linguaggio audiovisivo ad offrire le possibilità più complesse di quella mise en abyme capace di rivoluzionare la percezione, «potenziando la prospettiva di visione, mediante una registrazione del reale, caustica per gli occhi dello spettatore e urtante per la sua sensibilità, creando non a caso, il suo artificio con precisione millimetrica, provocando una vertigine fra illusione e realtà» (p. 47).

A questo punto nel saggio ci si occupa di opere pittoriche, letterarie e cinematografiche a partire da alcuni dipinti di Jan van Eyck e Diego Velázquez a rappresentanza delle tante opere che hanno fatto ricorso alle proprietà di duplicazione proprie dello specchio inserito nella scena o del quadro nel quadro. Ed è proprio nella pittura fiamminga del XV secolo che può essere facilmente rintracciato, suggerisce Cutrona, il principio creativo della mise en abyme. Si pensi ad esempio al celebre ritratto de I coniugi Arnolfini (1434) di Jan van Eyck, dipinto che ad ogni scansione visiva rivela nuovi particolari e nuove tracce da indagare, per non parlare poi della presenza dello specchio, elemento chiave della mise en abyme, «che raddoppia l’ambiente almeno in due dimensioni, mostrando le spalle dei protagonisti, e non solo» (p. 30). Nel corso del XVII secolo Diego Velázquez è soprattutto attraverso il meccanismo del dipinto nel dipinto, del mettere un’immagine all’interno di un’altra, che costruisce la mise en abyme; si pensi a produzioni come Las Meninas (1656), Le Filatrici (1657) e Cristo in casa di Marta e Maria (1620).

In ambito letterario la tecnica della mise en abyme è indagata da Cutrona in opere come Questo non è un racconto (1772) di Denis Diderot, romanzo breve caratterizzato dal meccanismo del racconto nel racconto, L’idolo delle Cicladi (1965) di Julio Cortázar, che narra le vicende di tre archeologi alle prese con un manufatto dai poteri magici e della raccolta di racconti di genere fantastico Finzioni (1944) di Jorge Luis Borges. Di quest’ultima raccolta Cutrona indaga i racconti in cui si palesa la mise en abyme più esplicitamente: Tlön, Uqbar, Orbis Tertius (1940), ove l’immaginazione è «il solo ed unico medium che riflette una realtà, dentro una realtà, che non esiste materialmente ma idealmente» (p. 36), La Biblioteca di Babele (1941), in cui il gioco della «ripetizione, o ri-presentificazione della realtà si manifesta in un “collocato all’infinito”, da qui: en abyme» (p. 36), e Il giardino dei sentieri che si biforcano (1941), racconto ove libri e labirinti «offrono al lettore continue e infinite possibilità: di creazione, proiezione e duplicazione della realtà» (p. 36). Questi scritti di Borges, sostiene Cutrona, rappresentano una dimostrazione di come siano infinite «le possibilità, i livelli, le strutture, che danno vita ad un ordine: finito e infinito, reale o virtuale, scritto, dipinto o rappresentato, che fonda radici su un caos apparente ed ermetico» (p. 37).

Per quanto riguarda la produzione cinematografica il riflesso allo specchio rappresenta la mise en abyme per eccellenza e tale gioco di riflessi può offrire allo spettatore parecchi suggerimenti circa i protagonisti; dal riflesso allo specchio è possibile cogliere la loro vanità o il disgusto che provano per se stessi, il volere identificarsi nel riflesso o il timore provato nei suoi confronti.

Nel saggio vengono affrontati diversi film a partire da Lo studente di Praga (Der student von Prag, 1913) di Stellan Rye, ove «il doppio, possiede una consistenza autonoma e diviene un doppio persecutorio per il giovane studente. Si tratta della fuoriuscita di una parte del sé, e indica forse, l’esistenza di una dimensione inaccessibile» (p. 40).
In Dr. Jekyll and Mr. Hyde (1931) di Rouben Mamoulian, lo specchio svolge un ruolo importante nel gioco di riflessi, duplicazioni ed identificazioni di Jekyll/Hyde ed in Quarto potere (Citizen Kane, 1941) di Orson Welles, Cutrona si sofferma sulla celebre inquadratura in cui, sul finire del film, la solitudine di Charles Foster Keane viene suggerita attraverso un gioco di riflessi infiniti ottenuti dal riflettersi del protagonista su uno specchio posto di fronte ad un altro specchio.
In Fino all’ultimo respiro (À Bout de souflle, 1960) di Jean-Luc Godard, non mancano giochi di sguardi e riflessi tra i protagonisti davanti allo specchio e per quanto riguarda Taxi Driver (1976) di Martin Scorsese, lo studioso si sofferma inevitabilmente sul celebre monologo allo specchio del protagonista interpretato da Rober De Niro.
Per quanto riguarda Femme Fatale (2002) di Brian De Palma, l’analisi fa riferimento all’inquadratura costruita sul film nel film in cui vediamo la protagonista intenta a guardare alla tv La fiamma del peccato (Double Indemnity, 1944) di Billy Wilder.
In Secret Window (2004) di David Koepp, il protagonista, in preda al suo alterego, si trova riflesso “in maniera surreale” allo specchio come nel dipinto La riproduzione vietata, (1937) di René Magritte ed in Harry Potter e i doni della morte (Harry Potter and the Deathly Hallows – Part 1, 2, 2010) di David Yates, lo studioso fa riferimento tanto alla suddivisione dell’anima del signore oscuro Lord Voldemort in varie parti che al meccanismo generale proprio dell’intero ciclo Harry Potter in cui è possibile «riscoprire nuove interpretazioni come un gioco che cambia le sue regole di continuo, anche a distanza di anni; soffermandosi, i livelli di finzionalità espletati nella saga non lasciano traccia di alcun artificio, piuttosto, richiamano l’attenzione in un percorso rocambolesco tra realtà e finzione» (p. 45).
Infine, un doveroso esempio di cinema d’animazione conduce Cutrona ad affrontare Il castello errante di Howl (2004) di Hayao Miyazaki, film in cui «lo specchio non riproduce solamente la realtà, ma la altera, la manipola» (p. 45).

La mise en abyme, però, sostiene Cutrona, oltre che come un artificio, una mistificazione del reale, dovrebbe essere intesa come estensione del pensiero, come strumento utile per indagare «una porzione di tempo, spazio, privo di fondo e temporalità» (p. 92). Per certi versi la mise en abyme può essere paragonata ad un sogno che «attinge dal reale ma lo ricrea in uno spazio mobile, vicino ma distante al contempo, lasciando un’impronta senza alone alcuno» (p. 92).

All’interno dell’attuale epoca caratterizzata dall’ipertrofia visiva, l’individuo-voyeur tende a credere a – e sentirsi rappresentato da – tutto ciò che passa davanti ai suoi occhi come si trattasse di verità indiscutibile. Meglio sarebbe, sostiene Cutrona, «tenere ben presente i punti di vista critici dei Lettristi prima e Situazionisti dopo, i quali, teorizzavano una certa libertà da ogni dispositivo percepito come dispotico e controllato, annullando di fatto, il pensiero umano; come ha sostenuto del resto anche Baudrillard, affermando che il soggetto non esiste, e al suo posto invece vi è un sistema capitalistico avanzato nel quale è inevitabile rispecchiarsi» (pp. 92-93).

Ciò che fa del «manovratore di emozioni la divinità di una società dello spettacolo fatiscente andrebbe criticamente contrastata», suggerisce lo studioso, in quanto «si limita esclusivamente a mimare la vita, inseguendo l’arte per il gusto dell’arte, piuttosto che provare interagire con essa, al fine di impreziosirla, mediante un osmotico processo di parole e immagini» (p. 93). È a partire da tale ragionamento che si analizzano I misteri del giardino di Compton House (The Draughtsman’s Contract, 1983) e L’ultima tempesta (Prospero’s Books, 1991) di Peter Greenaway. La prima opera, strutturata su complesse stratificazioni narrative, «ha instillato l’idea che la mise en abyme non enfatizza esclusivamente la percezione visiva, ma giustifica in un certo qual modo, la propria esistenza per il solo fatto di essere portatrice del frammento di un originale» (p. 93). Il secondo lavoro di Greenaway preso in esame, invece, secondo lo studioso dimostra come il cinema possa ricorrere ad artifici «per dimostrare che un testo non è mai soltanto un testo, bensì, l’inizio di un percorso che produce effetti nella mente dello spettatore. Un viaggio ipertestuale che si serve continuamente di mise en abyme per tracciare l’esistenza di un legame tra la ripresentificazione di un contenuto e la stimolazione di un processo immaginativo appena iniziato, omaggiando l’estetica che ha sempre garantito un senso alla struttura diegetica rappresentata» (p. 93).

I film Il ladro di orchidee (Adaptation, 2002), diretto da Spike Jonze e scenggiato da Charlie Kaufman, e Synecdoche, New York (id., 2013) scritto e diretto da Charlie Kaufman, rappresentano un esempio di come le trovate narrative della sceneggiatura siano traducibili in racconto audiovisivo. «È evidente la sintesi che la mise en abyme o più precisamente in questo caso la metalessi, risulti utile a sintetizzare le silhouette psicologiche di un personaggio, e quindi la sistematica coincidenza tra autore, regista, sceneggiatore, attore protagonista. Ben distante da ogni rigore logico, la sostituzione di un’istanza narrativa con un’altra comporta una forte tematizzazione di ruoli e figure nel quadro-film» (pp. 93-94).

Il metalinguaggio al quale si perviene attraverso l’opera nell’opera – il teatro, il romanzo o il dipinto all’interno di un audiovisivo – mostra che un film non è semplicemente una serie di fotogrammi e, soprattutto, come bene esplicitato da Synecdoche, New York di Kaufman, che risulta impossibile rappresentare il reale a causa del suo essere in continuo divenire. Dunque, la mise en abyme deve essere intesa «come un’entità mutaforma che rende possibile il trasferimento di una proprietà in un’altra, plasmando continuamente struttura (dalla pittura alla sceneggiatura sino al film e alla videoarte) non compromettendo mai, quel principio auratico racchiuso in un’opera» (p. 94).

Consapevole di come i nuovi media abbiano rivoluzionato le modalità percettive dell’individuo, Cutrona, nella parte finale del libro, si sofferma anche sul computer game  The Sims (1999) sviluppato da Will Wright, mostrando «le potenzialità di una realtà riprodotta su scala, selezionando dall’interno storie di tutti i giorni, che si intrattengono col reale mediante relazioni […] Giocare a The Sims consegna all’utente o spettatore, una visione corredata di illustrazioni mediante l’uso di una Gestalt che si serve di un’identificazione unitaria» (p. 95). Dunque, il volume, oltre a concentrarsi sulla «mise en abyme come modello di coincidenza, sovrapposizione o ripresentificazione di storie tra personaggi come avviene nella metalessi» (p. 10), si occupa anche del ritratto del reale visto da un particolare angolo di prospettiva e visione: «il metagaming, grado evoluto ed espanso di percezione, sperimentazione e comprensione» (p. 10). In questo ultimo caso lo studioso si concentra su The Sims, gioco che deve il suo successo alla particolare capacità di trasporre il proprio sé in una dimensione altra ricca di aspirazioni e sogni. «Una sessione di gioco può rappresentare un modo per fronteggiare i problemi del reale, transitando dentro la propria vita non solo come spettatore, mediante un percorso virtuale e interpersonale» (p. 81).

]]>