immaginazione – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 13 Sep 2025 20:04:05 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 «Credo nel potere che ha l’immaginazione di cacciare la notte» https://www.carmillaonline.com/2024/03/27/credo-nel-potere-che-ha-limmaginazione-di-cacciare-la-notte/ Wed, 27 Mar 2024 21:00:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81723 di Sandro Moiso

Michele Neri, Ballardland, Italo Svevo, Trieste -Roma 2024, p. 144, 16 euro

Il testo di Michele Neri, appena pubblicato nella collana Biblioteca di letteratura inutile (B.L.I.) dalla casa editrice Italo Svevo, ha il pregio, nelle sue 130 pagine circa, di costituire una delle migliori sintesi e guide al pensiero e all’opera di James Graham Ballard (1930- 2009), uno dei maggiori scrittori inglesi della seconda metà del Novecento, troppo spesso e irrispettosamente relegato al solo genere fantascientifico.

Il carattere irrispettoso di certa critica non è tanto dovuto al ‘genere’ in cui lo ha inserito, ma piuttosto al fatto [...]]]> di Sandro Moiso

Michele Neri, Ballardland, Italo Svevo, Trieste -Roma 2024, p. 144, 16 euro

Il testo di Michele Neri, appena pubblicato nella collana Biblioteca di letteratura inutile (B.L.I.) dalla casa editrice Italo Svevo, ha il pregio, nelle sue 130 pagine circa, di costituire una delle migliori sintesi e guide al pensiero e all’opera di James Graham Ballard (1930- 2009), uno dei maggiori scrittori inglesi della seconda metà del Novecento, troppo spesso e irrispettosamente relegato al solo genere fantascientifico.

Il carattere irrispettoso di certa critica non è tanto dovuto al ‘genere’ in cui lo ha inserito, ma piuttosto al fatto con l’ignorare la distanza che lo scrittore di Sheppeton ha voluto marcare tra i testi e le riflessioni degli ultimi decenni prima dello scomparsa e la Fantascienza, genere cui si era dedicato fin dalle sue prime opere degli anni ’50, ma la cui funzione innovativa riteneva ormai esaurita sia dal punto di vista della possibile predizione del futuro sia di un immaginario che rimanendo, talvolta, troppo collegato all’innovazione tecnologica o ai viaggi nello spazio ha finito di ignorare la complessità dei mutamenti intervenuti nella psiche umana a seguito dei cambiamenti indotti dallo sviluppo tecnologico e dalla loro influenza sulle società ‘avanzate’.

Ecco allora che Ballardland entra, con gran dovizia di citazioni tratte da opere, saggi e interviste dell’autore inglese, in quell’universo psichico che costituiva davvero l’inner space che Ballard aveva comunque sempre contrapposto all’outer space tipico di tanta fantascienza classica. Accompagnando il lettore lungo un percorso che trae costantemente spunto dall’esplorazione ballardiana di ciò che rimane tra le rovine della mente e dell’Io nell’era del dominio tecnologico della Natura e della realtà che circonda gli individui e le compagini sociali che ne costituiscono l’espressione formale.

Michele Neri è nato a Milano nel 1959. Giornalista culturale e professionista in campo fotografico, ha pubblicato Scazzi (Mondadori), i saggi Photo Generation (Gallucci) e L’ultima foto, un dialogo con Enrico Ratto (Seipersei), i romanzi Sospensione (Centauria) e Come un mattino texano (Polidoro Editore), oltre a racconti su «Nazione Indiana» e «minima&moralia», con questo saggio biografico rende omaggio ad un autore certamente molto ammirato, amato e direttamente conosciuto e frequentato non soltanto attraverso la lettura delle opere, ma anche in occasione di svariate interviste.

E’ lo stesso Neri a rendere il lettore edotto su ciò che si intende per “Ballardland”, paesaggio/luogo di confine tra mondo reale e proiezione dello steso nella psiche di chi lo abita.

Ballardland è nel cielo giallo di Manhattan dopo gli incendi in Canada, negli oceani che sommergono atolli abitati, nel sorriso dei turisti che si fanno fotografare di fianco al cartello che segnala i 55 gradi Celsius della Death Valley, e ancora nei nostri sogni ormai avverati – alter ego sintetici, cloni di rimpiazzo, desideri d’istantaneità, immortalità –, che stupiscono per quanto siano scellerati, noiosi. Ballardland è lo stato d’animo di quei tecnici che, avendo richiesto a un prototipo meccanico guidato dall’intelligenza artificiale di occupare uno spazio determinato muovendosi in orizzontale e strisciando, si sono accorti che aveva preferito ottenere lo stesso risultato procedendo con una sequenza di salti in alto. È mantenere in vita l’avatar digitale di un parente defunto perché si comporti come non avrebbe fatto in vita. Il perturbante non è davanti a noi, è una condizione di partenza1.

Qualcosa che era già stato preannunciato da Virginia Woolf, nel 1915 sul margine della Prima guerra mondiale, quando nel suo diario aveva scritto: «The future is dark, which is the best thing the future can be». Ma l’oscurità di Ballard non è sociale o storica, è psichica e appartiene tutta al modo in cui la nostra mente si relaziona con trasformazioni che sono, allo stesso tempo, traumatiche e inevitabili in un contesto in cui non esiste più una sola concreta e ‘naturale’ realtà delle cose. Come lo stesso scrittore aveva già affermato in un’intervista rilasciata nel giugno del 1992, in occasione della seconda edizione del Noir in Festival di Viareggio.

In qualche modo, è difficile definire dove sia il confine tra sogno e realtà. Credo lo sia ancora di più nel nostro mondo moderno, dove l’ambiente esterno in cui tutti viviamo, ciò che siamo abituati a chiamare realtà, oggi è una fantasia creata dai mass media, dai film, dalla televisione, dalla pubblicità, dalla politica – che ormai non è altro che un ramo della pubblicità. Ho detto più volte che oggi stiamo vivendo all’interno di un enorme romanzo, come personaggi dentro una storia immensa. È molto difficile dire cosa sia la realtà. Un campo d’erba che cresce ai bordi di un’autostrada è più reale della pubblicità dell’ultimo film di Arnold Schwarzenegger? Quale dei due è la realtà? Io direi che la pubblicità di Schwarzenegger è più reale di un campo d’erba che cresce. Schwarzenegger rappresenta le più grandi mitologie commerciali della fine del XX secolo. Tristemente l’erba potrebbe morire domani a causa dello smog o dei gas emessi dalle macchine che passano lungo la strada. Questa differenza tra realtà e sogno è molto difficile da analizzare e, in diversi modi, il sogno è la nostra realtà. È più sensato pensare che i nostri sogni siano reali2.

Il sogno come prodotto della psiche e il mondo come prodotto tra ciò che l’Io profondo immagina di se stesso e del proprio rapporto con il mondo stesso o, almeno, con ciò che ha introiettato come tale.

Ecco allora che per Ballard l’oscurità di un mondo fatto di guerre, devastazioni ambientali e sociali e di tecnologie sfuggite al controllo dei poveri individui che fingono ancora di poterle dominare, può essere superata soltanto dall’immaginazione che, pur succube dei dati e degli stimoli provenienti dall’esterno, può ancora «cacciare la notte».

Oppure trovare il modo di trarne piacere, per perverso che questo possa essere.
Poiché, in fin de conti, per l’esploratore psichico inglese: «L’immaginazione non è uno stato mentale: è l’esistenza umana stessa».


  1. M. Neri, Ballardland, Italo Svevo, Trieste -Roma 2024, p. 109.  

  2. J. Ballard, All That Mattered Was Sensation, introduzione e intervista a cura di S. Moiso, con un saggio di Simon Reynolds, Krisis Publishing, Brescia 2019.  

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I ratti dell’immaginario https://www.carmillaonline.com/2021/04/21/i-ratti-dellimmaginario/ Wed, 21 Apr 2021 21:00:20 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=66087 di Redazione

Dedicato a Giovanna e a tutti coloro che subiscono ma, ancora, resistono

Prima li sentivamo muoversi nei muri, come i topi del celebre racconto di H. P. Lovecraft, poi hanno iniziato a muoversi per le stanze di casa e per le vie delle città e oggi sono venuti allo scoperto rivelandoci tutto l’orrore di questa società che si sarebbe voluto tener nascosto dietro a pareti di discorsi democratici, progressisti e green moltiplicati e riproposti all’infinito dai media.

Si sono presentati così, a volto scoperto con la scusa della pandemia e dei provvedimenti di urgenza, con i Dpcm, con [...]]]> di Redazione

Dedicato a Giovanna e a tutti coloro che subiscono ma, ancora, resistono

Prima li sentivamo muoversi nei muri, come i topi del celebre racconto di H. P. Lovecraft, poi hanno iniziato a muoversi per le stanze di casa e per le vie delle città e oggi sono venuti allo scoperto rivelandoci tutto l’orrore di questa società che si sarebbe voluto tener nascosto dietro a pareti di discorsi democratici, progressisti e green moltiplicati e riproposti all’infinito dai media.

Si sono presentati così, a volto scoperto con la scusa della pandemia e dei provvedimenti di urgenza, con i Dpcm, con i lacrimogeni sparati in faccia a chi si oppone ai loro devastanti e inutili progetti, con la criminalizzazione dei lavoratori in lotta, con la distribuzione di anni di reclusione o di sorveglianza speciale per chi si ostina a battersi contro le miserie dell’esistente e, per finire in “gloria”, con generali in pompa magna che vorrebbero farci credere di essere al servizio della società e della “nostra” salute.

Negano l’evidenza della gestione fallimentare della pandemia e dell’esistente, negano o ignorano l’assoluta dipendenza di ogni loro decisione dalle necessità immediate o future del capitale, rovinano le mezze classi fingendo di rappresentarle e si accaniscono sui lavoratori salariati e i giovani in una epocale trasformazione del lavoro e della distribuzione che lascerà sul campo milioni di disoccupati oppure di lavoratori destinati a compiti sempre più umili, non garantiti e sottopagati.

Per fare ciò, però, non possono accontentarsi di disciplinare la società e il lavoro ma, come si è già detto su queste pagine (qui) devono anche riuscire a reprimere e disciplinare ogni aspetto dell’immaginario, individuale o collettivo.
Per raggiungere questo obiettivo hanno dovuto andare oltre i limiti della normale produzione di narrazioni tossiche cui ci hanno abituato da tempo le fake news sistemiche e di Stato; hanno superato i limiti di una produzione culturale mainstream, contro cui questa rivista si batte ormai da molti anni poiché ritiene l’immaginario un campo di battaglia fondamentale per la definizione del nostro futuro, e hanno iniziato a porre severi limiti alla libertà di immaginare, in ogni sua forma ed espressione.

In tale ipotesi la libertà d’opinione sarà definitivamente seppellita e si potrà essere liberi di immaginare soltanto se si immaginerà ciò che il Capitale e lo Stato riterranno utile e proficuo immaginare. La capacità di immaginazione sarà trasformata in reato della mente, in associazione a delinquere del desiderio e dovrà essere rigidamente controllata da una sorta di polizia politica dei sogni.

Nemmeno George Orwell con 1984 era giunto a tanto e anche Ray Bradbury, con il suo Fahrenheit 451, era tutto sommato rimasto ancorato ai roghi di libri già visti tante volte nella storia. Tentativi messi in atto, anche in tempi recenti, per cancellare la memoria del passato e la sua cultura.
Oggi invece si vuole cancellare il futuro e la capacità di immaginarlo insieme al presente.
Presente e futuro che devono certamente preoccupare molto, se non addirittura spaventare, gli attuali signori della guerra economica, sanitaria e psichica per farli giungere ad una pratica che forse solo Philip K. Dick aveva saputo adeguatamente descrivere in alcune sue opere.

Disciplinare la mente significa disciplinare l’immaginario, mentre immaginare significa, il più delle volte, anticipare. Ecco allora che ciò che viene messo in atto oggi, anche attraverso l’operato della magistratura, è proprio questo: il tentativo di negare il futuro o un’immagine altra del presente.
Sia ben chiaro: si tratta di una partita per la vita e per la morte di un presente oscurantista che per rendersi eterno deve uccidere sul nascere qualsiasi ipotesi altra. Anche se presente soltanto in un romanzo.

Come è accaduto nel caso di Marco Boba, al quale va la piena solidarietà di tutta la redazione di Carmilla, che sembra esser precipitato in una dimensione degna dell’Inquisizione tardo medievale, poiché dopo una condanna in primo grado a quattro anni di detenzione per “incendio volontario” a seguito dei frammenti da fuoco d’artificio caduti su un capannone interno al carcere torinese delle Vallette, durante una manifestazione di protesta al suo esterno nel febbraio del 2019, è anche diventato oggetto di un provvedimento di sorveglianza speciale proposto nei suoi confronti, a causa del suo romanzo Io non sono come voi edito nel 2015 dalla cooperativa editoriale Eris di Torino. Infatti, come si afferma nel comunicato della casa editrice:

Giovedì 1 aprile è successa una cosa molto grave, e prima di parlarvene abbiamo voluto prenderci qualche giorno per riflettere. Scusate la lunghezza, ma in certi casi ogni parola è importante.
A un nostro autore, Marco Boba, è stata notificata da parte della Questura e della Procura di Torino una richiesta di sorveglianza speciale. Sino a qua, purtroppo, niente di straordinario. Negli ultimi anni questa misura preventiva molto pesante è stata richiesta e applicata più volte a militant* e attivist* di tutti i movimenti. Per chi non fosse avvezzo, la sorveglianza speciale consiste in un insieme di regole e divieti che vanno a colpire la persona nella propria quotidianità a causa di quella che viene definita “pericolosità sociale”, quindi è un provvedimento che colpisce le persone al di là di uno specifico fatto ma per un “comportamento generale”1.
Quello che noi troviamo davvero pericoloso e allarmante è che all’interno di questa richiesta di sorveglianza speciale sia stato inserito il romanzo –Io non sono come voi– che Marco ha pubblicato con noi nel 2015 come aggravante e/o prova. Anzi, il fulcro di questa prova nello specifico è la frase che noi come editori abbiamo scelto di mettere nel retro di copertina: «Io odio. Dentro di me c’è solo voglia di distruggere, le mie sono pulsioni nichiliste. Per la società, per il sistema, sono un violento, ma ti assicuro che per indole sono una persona tendenzialmente tranquilla, la mia violenza è un centesimo rispetto alla violenza quotidiana che subisco, che subisci tu o gli altri miliardi di persone su questo pianeta.» Una frase che dice il protagonista del libro in un dialogo. Una frase che come sempre estrapoliamo dal romanzo per far capire a chi si ritroverà il libro in mano qual è il cuore della storia, il mood, l’atmosfera, lo stile narrativo.
Parliamo di un romanzo di finzione, con un protagonista di finzione. Il romanzo è scritto in prima persona, al presente, scelta tra l’altro fatta non in origine dall’autore, ma dopo un lungo confronto tra autore ed editore. Editing, normale editing.
Che il romanzo sia di fantasia tra l’altro è dichiarato sin da subito, nella sinossi presente nell’aletta che si discosta totalmente dalla biografia dell’autore e in due pagine esplicative finali.
Non basta lo sfondo, il contesto, l’ambientazione, per decidere che un romanzo è autobiografico. I fatti principali che costituiscono la trama e il motore principale della narrazione sono chiaramente inventati, di finzione.
Ecco, a noi sembra davvero pericoloso che una finzione possa diventare una prova, che il dialogo di un personaggio di un romanzo possa diventare una prova, che le opinioni o le azioni di un personaggio di finzione possano diventare una prova, che una frase scelta dall’editore, per promuovere al meglio un libro, possa diventare un’aggravante e che una questura o una procura si possano occupare di una materia che dovrebbe restare appannaggio di chi fa critica letteraria.
In questi anni più volte si è invocato il reato d’opinione. Dalla vicenda di Erri De Luca, assolto dall’accusa di istigazione a delinquere per essersi espresso a favore dei sabotaggi contro la Tav, alla studentessa accusata di aver partecipato attivamente a delle azioni No Tav solo per aver utilizzato il “noi partecipativo” nella sua tesi di laurea in Antropologia culturale sul movimento stesso.
Ma ci sembra che a questo punto non stia diventando illecito solo avere un’opinione, ma anche il puro e semplice immaginare. Una società in cui non solo si paga per le proprie opinioni, ma addirittura per le opinioni o le azioni dei propri personaggi d’invenzione sarebbe la trama perfetta per un romanzo distopico. Ma per qualcuno, invece, è la realtà, perché sta accadendo.

Per Marco Boba, militante anarchico di lunga data, scrittore, occupante di case ed ex-redattore di Radio Black Out, il pm erede dell’operato anti-movimentista del duo Rinaudo e Padalino ha richiesto un provvedimento di sorveglianza speciale della durata di due anni basato, incredibilmente, su prove costituite non soltanto da una frase tratta dalla quarta di copertina del romanzo edito da Eris, come è stato detto già prima, ma anche da una recensione on line del libro stesso, oltre che dalla cattiva condotta suggerita dalla più che discutibile condanna precedentemente inflittagli nel primo grado di giudizio.

Sembra così, nell’operato della giustizia torinese, che la fantasia sia davvero andata al potere, visto che fantasiosi rappresentanti della magistratura perseguono reati di immaginazione, utilizzando qualsiasi forma o applicazione dell’immaginario per tarpare le ali non solo a quella che in tempi ormai lontani si sarebbe definita creatività, ma ad ogni forma di movimento dalle caratteristiche anti-sistemiche o antagoniste.

Dilungarsi ulteriormente su un episodio che più che appartenere ad una dialettica viva e reale tra le forze e le classi sociali potrebbe essere stato tratto da una farsa di Totò e Peppino, non sarebbe necessario se l’utilizzo a buon mercato e a largo raggio della sorveglianza speciale, accompagnato da accuse fantasiose, non fosse diventato pratica corrente nei confronti dei militanti NoTav, di coloro che come Eddi hanno combattuto per la libertà del Rojava oppure per gli anarchici cagliaritani e le giovani donne giunte da poco alla militanza antagonista, com’è successo recentemente a Firenze.

Vorremmo poter dire di questa giustizia fai da te, di questi apparati repressivi, dello Stato e dei governi imbelli, non ragionar di lor ma guarda e passa, ma l’unica cosa che possiamo invece affermare in questo momento e in solidarietà con tutti coloro che da questi provvedimenti e dalle violenze sono ormai quasi quotidianamente colpiti è che anche noi non siamo come voi e che molti ancora si aggiungeranno alle nostre fila, poiché il vostro operato sta proprio lavorando in quella direzione.

Grazie dunque a tutti coloro che, nel tentativo di ingabbiare e portarci via il nostro immaginario, faranno sì che questo diventi sempre più forte, chiaro, potente e condiviso.


  1. Per un approfondimento su pericolosità sociale e sorveglianza speciale si veda qui  

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Se sono chiuse le eterotopie del sogno https://www.carmillaonline.com/2021/01/18/se-sono-chiuse-le-eterotopie-del-sogno/ Mon, 18 Jan 2021 21:30:18 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=64576 di Paolo Lago

Oggi, a causa della pandemia, sono stati chiusi cinema e teatri, biblioteche e musei. Tutti questi spazi sono accomunati dal fatto di costituire, all’interno della nostra società, delle eterotopie. Tale definizione è stata coniata da Michel Foucault, in un suo intervento del 1967 dal titolo Des espaces autres, per definire i luoghi “che costituiscono delle specie di contro-spazi, delle specie di utopie effettivamente realizzate in cui gli spazi reali, tutti gli spazi reali che possiamo trovare all’interno della cultura, sono, al contempo, rappresentati, contestati e rovesciati, delle specie di luoghi [...]]]> di Paolo Lago

Oggi, a causa della pandemia, sono stati chiusi cinema e teatri, biblioteche e musei. Tutti questi spazi sono accomunati dal fatto di costituire, all’interno della nostra società, delle eterotopie. Tale definizione è stata coniata da Michel Foucault, in un suo intervento del 1967 dal titolo Des espaces autres, per definire i luoghi “che costituiscono delle specie di contro-spazi, delle specie di utopie effettivamente realizzate in cui gli spazi reali, tutti gli spazi reali che possiamo trovare all’interno della cultura, sono, al contempo, rappresentati, contestati e rovesciati, delle specie di luoghi che stanno al di fuori di tutti i luoghi, anche se sono effettivamente localizzabili”1. Le eterotopie sono degli “spazi altri” che costituiscono “una specie di contestazione, al tempo stesso mitica e reale, dello spazio in cui viviamo”2.

Secondo Foucault, teatri e cinema hanno la caratteristica di giustapporre, in un unico luogo reale, numerosi spazi tra loro incompatibili: nel teatro, sulla scena, vengono ricreati una serie di luoghi estranei gli uni agli altri; nella sala del cinema, invece, in uno spazio a due dimensioni ne viene proiettato uno a tre dimensioni. Cinema e teatri sono poi strettamente legati alla fantasia, alla libertà dell’immaginazione, al sogno. Quando entriamo in un teatro o in un cinema si entra veramente in uno “spazio altro”, uno spazio del sogno, in cui si materializzano davanti ai nostri occhi, come per magia, delle storie messe in scena da attori presenti lì in carne ed ossa oppure presenti in una sorta di altra dimensione, all’interno della pellicola proiettata. Il cinema si è sempre caratterizzato come una vera e propria macchina dei sogni: alle sue origini, infatti, altro non vi è che la “lanterna magica”, uno strumento che proiettava su una parete, in una stanza buia, delle immagini dipinte. Gli spazi del teatro e del cinema sono poi caratterizzati dall’essere al buio: in essi, durante lo spettacolo, è presente solo la luce sulla scena o quella emanata dalla proiezione. Lo spettatore del cinema, rilassato nel buio della sala, dà libero sfogo alla sua immaginazione di sognatore giungendo a identificarsi con i personaggi cinematografici. Il cinema e il teatro, perciò, possono essere definite come delle vere e proprie eterotopie del sogno.

Le biblioteche e i musei sono definite da Foucault come “eterotopie del tempo accumulato all’infinito”, in cui “il tempo non smette di accumularsi”3. Anche questi sono spazi della fantasia e dell’immaginazione: nelle biblioteche possiamo dare libero sfogo alla nostra immaginazione per mezzo della lettura; nei musei incontriamo la bellezza dell’arte che, spesso, si unisce a racconti e storie del tempo passato, vestigia e testimonianze che ci parlano e ci incantano. In tutti questi spazi, nei cinema, nei teatri, nei musei e nelle biblioteche cadiamo insomma preda di un vero e proprio incantesimo, entriamo in una dimensione magica, in un altro spazio e in un altro tempo liberati dalle dinamiche della quotidianità, grigia e banale, che ci aspetta fuori.

Fra i diversi tipi di eterotopie ce n’è una, secondo Foucault, che si configura come “l’eterotopia per eccellenza”, la nave. Essa è un “pezzo di spazio vagante”, “un luogo senza luogo che vive per se stesso” e che diventa un vero e proprio “serbatoio di immaginazione”, uno spazio del sogno e della fantasia liberata. In una precedente versione radiofonica del suo intervento, per descrivere tali qualità della nave, lo studioso francese usava tonalità più poetiche rispetto alla successiva: “Le civiltà senza navi sono come i bambini, i cui genitori non hanno un letto matrimoniale sul quale poter giocare. I loro sogni allora si inaridiscono; lo spionaggio si sostituisce all’avventura, e lo squallore della polizia prende il posto dell’assolata bellezza dei corsari”4. Da una parte abbiamo l’immaginazione, simbolicamente rappresentata dai pirati e dalle loro avventure; dall’altra la polizia, simbolo del controllo e dello “spionaggio”.

Al pari della nave, anche i teatri e i cinema, le biblioteche e i musei sono dei serbatoi di immaginazione. E quando sono chiusi, in un certo senso, ci viene negata la possibilità di immaginare, di sognare, di arricchire e curare una parte importante di noi stessi. Probabilmente, invece di una totale chiusura, nonostante la situazione di emergenza, si potevano mantenere gli accessi limitati e scaglionati, come nei negozi o nei centri commerciali. Ma le eterotopie del sogno non hanno certo un immediato ritorno economico. Non c’è quindi da stupirsi che siano state immediatamente chiuse (come anche un altro spazio eterotopico, la scuola) in una società dominata dal modello di sviluppo capitalistico, che insegue soltanto il profitto economico. Una società senza teatri, cinema, biblioteche e musei è – al pari di una “civiltà senza navi” – come un bambino “i cui genitori non hanno un letto matrimoniale sul quale poter giocare” e, allora, “i sogni si inaridiscono”.

I sogni e l’immaginazione si annientano anche quando le navi, eterotopie per eccellenza, sono costrette a fermarsi nei porti, quando vengono bloccate, per motivi economici o per gli interessi degli armatori; quando la loro libera erranza sulla distesa del mare viene negata e annullata. Di navi ferme, nella narrativa e nel cinema contemporanei, ne incontriamo diverse: pensiamo al romanzo di Álvaro Mutis, Ilona arriva con la pioggia (Ilona llega con la lluvia, 1988), in cui una nave, la Hansa Stern, viene bloccata a Panama, sequestrata dalle banche. Il protagonista del racconto, Maqroll il Gabbiere, marinaio della Hansa Stern, è costretto a sbarcare e ad affrontare il grigiore e la noia della vita a terra. Mentre la nave sta entrando in porto, i funzionari della guardia di finanza di Panama vi si avvicinano per salire a bordo ed effettuare i controlli. Nell’ingresso in porto, lo stesso aspetto del mare cambia: l’immaginifico “imprevedibile disordine” del mare aperto lascia il posto a una “palude grigia” disseminata di spazzatura e di uccelli marini in putrefazione, segnali del progressivo avvicinamento dello spazio della terraferma, quasi esso stesso paludoso e putrefatto. La noia, il controllo e la “polizia” sembrano avere il sopravvento e il comandante della nave, Wito, si uccide con un colpo di pistola. Il suicidio, di fronte al blocco forzato dei sogni del mare, appare anche l’unica alternativa al capitano della London Valour (“che si sparava negli occhi”) dopo il naufragio, nel brano di Fabrizio De André, Parlando del naufragio della «London Valour», in Rimini (1978). Anche in Marinai perduti (Les marins perdu, 1997) di Jean-Claude Izzo, una nave, l’Aldébaran, è costretta al blocco nel porto di Marsiglia, sequestrata dalle banche a causa dei debiti contratti dall’armatore. Marsiglia, a differenza di Panama nel romanzo di Mutis, si presenta come uno spazio generatore di nuovi sogni per i tre personaggi principali del racconto: il capitano Abdul, il suo secondo Diamantis e il giovane marinaio turco Nedim. Ma la nave bloccata nel porto può trasformarsi anche in uno strumento di contestazione e resistenza, come nel documentario di Peter Marcias, La nostra quarantena (2015), che riflette una situazione reale mostrando la vicenda di una nave bloccata nel porto di Cagliari e occupata da quindici marinai marocchini, senza stipendio da mesi. La nave ferma (stavolta non in un porto) si trasforma poi in uno spazio di contestazione “fuori dai confini” e “fuori controllo” nel film di Richard Curtis, I love Radio Rock (The Boat That Rocked, 2009), in cui una nave ancorata nel Mare del Nord viene trasformata da alcuni simpatici e squinternati deejay in una stazione radio pirata che trasmette musica rock illegale nell’universo perbenista dell’Inghilterra del 1966.

Se sono chiuse le eterotopie del sogno e se le navi sono bloccate, la “polizia” comincia perciò ad offuscare l’assolata bellezza dei corsari e la sua fantasia. Ma, forse, possono nascere e svilupparsi anche inediti e creativi percorsi di resistenza e di liberazione.


  1. M. Foucault, Eterotopie, in Id., Estetica dell’esistenza, etica, politica. Archivio Foucault 3. Interventi, colloqui, interviste. 1978-1985, Feltrinelli, Milano, 2020, p. 310. 

  2. Ivi, p. 311. 

  3. Ivi, p. 314. 

  4.  Id., Utopie Eterotopie, a cura di A. Moscati, Cronopio, Napoli, 2011, p. 28. 

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Dal cortile di casa al Multiverso https://www.carmillaonline.com/2017/10/12/dal-cortile-casa-al-multiverso/ Wed, 11 Oct 2017 22:01:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=40805 di Sandro Moiso

Tommaso Maccacaro – Claudio M. Tartari, STORIA DEL DOVE. Alla ricerca dei confini del mondo, Bollati Boringhieri 2017, pp.150, € 14,00

In un’epoca di oscurantismo, di chiusure nazionalistiche e razziste dei confini, il testo di Tommaso Maccacaro (astrofisico) e Claudio Tartari (storico) appare come una salutare boccata d’aria. Anche se, all’apparenza, il testo si occupa di ben altro che delle questioni terrene legate ai tristi temi politici oggi attuali. Eppure, eppure…la storia della progressiva definizione ed allargamento dei confini degli spazi conosciuti dalla specie umana costituisce un ottimo stimolo per la riflessione anche su temi così distanti. [...]]]> di Sandro Moiso

Tommaso Maccacaro – Claudio M. Tartari, STORIA DEL DOVE. Alla ricerca dei confini del mondo, Bollati Boringhieri 2017, pp.150, € 14,00

In un’epoca di oscurantismo, di chiusure nazionalistiche e razziste dei confini, il testo di Tommaso Maccacaro (astrofisico) e Claudio Tartari (storico) appare come una salutare boccata d’aria. Anche se, all’apparenza, il testo si occupa di ben altro che delle questioni terrene legate ai tristi temi politici oggi attuali. Eppure, eppure…la storia della progressiva definizione ed allargamento dei confini degli spazi conosciuti dalla specie umana costituisce un ottimo stimolo per la riflessione anche su temi così distanti. Oltre che su un’infinità di altri.

La straordinari e sintetica panoramica che i due autori ci forniscono sull’evoluzione delle conoscenze umane sullo spazio circostante, condotta a partire dai nostri preistorici antenati, ci obbliga a riflettere sui percorsi che l’immaginario prodotto dai differenti e distanti gruppi sociali ha seguito non soltanto per risolvere problemi di urgenza immediata (l’orientamento spaziale per affrontare lunghi viaggi e spostamenti o la necessità di definire misure sicure per delimitare proprietà, regni, stati e imperi), ma per giungere anche ad una conoscenza che è giunta ben al di là dei limiti (spaziali e fisici) dell’uomo. Fino all’ipotesi di quel multiverso costituito da infiniti universi paralleli o frattale a cui si accenna nel titolo di questa recensione.

Cercare i confini ha infatti indotto gli uomini a superarli costantemente, sia in termini di spazio che di conoscenza. Così se, metaforicamente e praticamente, per le società mediterranee dell’Antichità e del Medio Evo il superamento delle Colonne d’Ercole significò scoprire il mondo degli oceani ed aprirsi ad esso, anche il superamento definitivo della teoria geocentrica tolemaica e dei dogmi che la sostenevano significò per gli uomini, non solo di scienza, partire per un viaggio nel cosmo che non è ancora terminato e dover fare i conti con una conoscenza che più si ingrandisce e più si rende conto di quanto l’universo che ci circonda sia tutt’altro che conosciuto.

L’ardua battaglia dei fisici per ridurlo a dimensioni riconoscibili e misurabili, quindi ad un universo finito, si scontra costantemente con il concetto di infinito postulato da filosofi e matematici, dando vita ad una continua, soprattutto negli ultimi secoli, revisione dei risultati raggiunti che ha dialetticamente dato vita a nuove conoscenze e nuove domande.

Un ciclo infinito di domande, congetture, ipotesi, teorie che sembra essersi sviluppato da quando gli uomini iniziarono ad alzare gli occhi verso il cielo e a cercare, da un lato, di utilizzarlo per i propri spostamenti e il proprio orientamento e, dall’altro, di interpretarne le dimensioni, la distanza, la sostanza e il significato per la specie stessa e il mondo che abitava.

Ciclo infinito che ci rivela come spesso il limite, oltre che di carattere strumentale e conoscitivo, sia stato spesso di carattere ideologico, politico o religioso. Limite non sempre e soltanto posto dagli interessi del potere e dell’autorità. Come dimostra il caso della difesa a spada tratta del sistema geocentrico e tolemaico fatta sia dagli anabattisti che dall’Inquisizione e dalla Congrega dell’Indice che operavano in nome dell’autorità della Chiesa romana contro qualsiasi tipo di eresia.

Una storia complessa e tortuosa quella del progressivo allargamento delle conoscenze geografiche e astronomiche, prima, e astrofisiche e astrobiologiche poi. Una storia contraddittoria che ha costretto e costringe gli uomini che se ne occupavano e ancora se ne occupano a fare i conti con i loro limiti e il loro riduttivo antropocentrismo. Soprattutto oggi che la possibilità di individuare pianeti sui quali la vita sia possibile si fa via via più vicina, costringendo gli scienziati a chiedersi sotto quali altre forme e strutture chimiche, magari non basate sul carbonio, la vita e l’intelligenza possano manifestarsi.

Una storia in cui speculazioni e congetture, una volta liberata la strada da dogmi e divieti, sono state rigettate soltanto in base alla loro erroneità sperimentale ed empirica, in una sorta di labirinto degli specchi in cui dall’osservazione empirica si passa alle congetture e ai postulati, per poi tornare alla dimostrazione sperimentale ed empirica.

Stiamo attenti, ciò che questa storia dimostra è che nemmeno il calcolo e la dimostrazione matematica bastano a confermare un’ipotesi, se poi questa non è verificabile strumentalmente. Prova ne sia l’attitudine galileiana all’osservazione dei fenomeni celesti attraverso un cannocchiale (strumento che tra XVI e XVII secolo stava muovendo i primi passi), nonostante il fatto che a convincere Galileo della corretta (e poi superata) concezione copernicana del sistema solare fossero stati inizialmente i calcoli dello studioso polacco.

Quindi quello che questa ricostruzione ci suggerisce è che il cammino della conoscenza è costituito da un continuo scambio ed elaborazione di informazioni tra osservazione empirica, lavoro dell’immaginazione (congetture e ipotesi) e loro conferma (o meno) a livello empirico e/o strumentale. Un metodo che suggerisce qualcosa anche a chi si occupa di altro, ad esempio della critica dell’esistente. Che evidentemente non può essere affrontata sostituendo dogmi con altri dogmi.

Per finire va perciò detto che l’utilità e l’importanza del testo dei due studiosi più che nella storia delle vicende e delle osservazioni di alcuni individui importantissimi per lo sviluppo delle conoscenze umane (Dante, Levi ben Gershon, Niccolò Cusano, Galileo Galilei, William Herschel o Fritz Zwicky, soltanto per citarne alcuni), consiste proprio nelle riflessioni che costringe il lettore a fare, quando questo si rende conto, come è successo nei secoli per la comunità degli scienziati, che per quanto lontano si riesca ad osservare c’è sempre qualcosa da scoprire oltre.

Un testo, infine, che nel triste panorama scolastico italiano forse dovrebbe essere prima letto e poi adottato dai docenti, sia delle discipline scientifiche che di quelle umanistiche, per insegnare agli studenti a porsi nuove domande e ad andare oltre. Ma questo è davvero chiedere e sperare troppo.

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“Serbatoio di immaginazione” e dinamiche del controllo: l’eterotopia della nave nella letteratura e nel cinema https://www.carmillaonline.com/2016/07/06/serbatoio-immaginazione-dinamiche-del-controllo-leterotopia-della-nave-nella-letteratura-nel-cinema/ Wed, 06 Jul 2016 21:30:58 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=31363 di Gioacchino Toni

nuovomondo13Paolo Lago, La nave lo spazio e l’altro. L’eterotopia della nave nella letteratura e nel cinema, Mimesis edizioni, Milano – Udine, 2016, 222 pagine, € 20,00

Nel saggio La nave lo spazio e l’altro, Paolo Lago, riprendendo il concetto di eterotopia sviluppato da Michel Foucault, analizza lo spazio della nave come “eterotopia per eccellenza” – luogo senza luogo, spazio in movimento diretto verso altri luoghi sconosciuti, scrigno di sogni – in svariati autori della letteratura e del cinema. Tale analisi conduce lo studioso ad individuare alcune grandi tipizzazioni: navi emigranti [...]]]> di Gioacchino Toni

nuovomondo13Paolo Lago, La nave lo spazio e l’altro. L’eterotopia della nave nella letteratura e nel cinema, Mimesis edizioni, Milano – Udine, 2016, 222 pagine, € 20,00

Nel saggio La nave lo spazio e l’altro, Paolo Lago, riprendendo il concetto di eterotopia sviluppato da Michel Foucault, analizza lo spazio della nave come “eterotopia per eccellenza” – luogo senza luogo, spazio in movimento diretto verso altri luoghi sconosciuti, scrigno di sogni – in svariati autori della letteratura e del cinema. Tale analisi conduce lo studioso ad individuare alcune grandi tipizzazioni: navi emigranti e dell’esilio; navi dell’avventura; navi “infernali”, mostruose e spettrali; navi della ricerca e dell’erranza; navi ferme e in disarmo. Il saggio, con un occhio di riguardo alle dinamiche sociali, ricostruisce dunque il mutevole funzionamento dello spazio eterotopico nelle diverse tipologie di imbarcazioni verificando come l’eterotopia-nave possa configurarsi come un “serbatoio di immaginazione” in grado di sfuggire alle dinamiche del controllo. La nave nella letteratura e nel cinema è pertanto analizzata dall’autore come spazio sociale così come spazi sociali risultano essere i luoghi che essa mette in comunicazione.

In apertura del volume viene ripreso il concetto di eterotopia sviluppato da Michel Foucault: se con il termine utopia si può indicare uno spazio privo di un luogo reale, con il termine eterotopia lo studioso francese indica invece un luogo reale ma separato dal contesto quotidiano in cui viviamo. Si possono avere, sempre secondo Foucault, “eterotopie di crisi” (luoghi riservati a chi è in uno stato di crisi rispetto alla società) ed “eterotopie di deviazione” (luoghi in cui vengono confinati individui con comportamenti devianti rispetto alle norme che regolano la società). Eterotopie sono anche i cimiteri, le biblioteche, i teatri, i cinema, i musei, i villaggi vacanze ed, in generale, quelli che l’antropologo Marc Augé ha definito “non luoghi”. Altre caratteristiche delle eterotopie individuate da Foucault sono il loro essere dotate di un sistema di chiusura/apertura che le rende isolate/penetrabili ed il fatto che esse istituiscono uno “spazio illusorio” che palesa come lo “spazio reale”, al di fuori di esse, sia ancora più illusorio. Da pare nostra abbiamo già avuto modo di affrontare il concetto di eterotopia sviluppato dalle produzioni audiovisive analizzando [su Carmilla] il saggio curato da Sara Martin, La costruzione dell’immaginario seriale contemporaneo. Eterotopie, personaggi, mondi (2014).

Dopo un prologo incentrato sull’Odissea come opera archetipale dedicata ai viaggi via mare, il primo capitolo del saggio si occupa delle “Navi emigranti e dell’esilio”. Le navi di tale tipologia declinano il loro “serbatoio di immaginazione”, nell’approssimarsi alla località d’approdo, come speranza o come angoscia. Lo spazio-nave è però, ricorda l’autore, anche lo spazio ove si prende coscienza della propria condizione di emigrante o di esule. Si tratta, pertanto, di uno spazio di fuga rispetto a ciò che si vuole/deve abbandonare ed al tempo stesso di un contenitore di sogni autonomo rispetto al “fuori”, privo tanto di un punto di partenza che di approdo.

A proposito delle navi emigranti e dell’esilio, lo studioso inizia con l’affrontare opere letterarie e cinematografiche incentrate sul momento dell’approdo alla meta, al “nuovo mondo”. Nel romanzo autobiografico Il primo Dio (pubblicato postumo nel 1978) di Emanuel Carnevali viene raccontata l’esperienza di emigrante dello scrittore e l’analisi dello studioso si concentra su come il microcosmo di immaginazione rappresentato dal transatlantico, si sfaldi improvvisamente alla vista della destinazione. «Si può quindi pensare che, in questo caso, un’eterotopia serva per raggiungere un’utopia; ma non appena quest’ultima viene raggiunta non è più tale, non è più quel paese perfetto e ideale che si credeva» (p. 33). Nell’autobiografia Son of Italy (1924) di Pascal D’Angelo, invece, la nave si mostra inquietante e mostruosa sin dalla partenza, lo scrittore ne parla come di una prigione terrificante. Quello spazio navigante che per Carnevali è un sogno, per D’Angelo è un incubo che sembra attenuarsi soltanto in vista dell’approdo, nel momento in cui ci si prepara ad abbandonare la nave. L’imbarcazione come microcosmo separato dalla terraferma la si ritrova anche in Sull’Oceano (1889) di Edmondo De Amicis, che descrive il transatlantico come frammento della terra natale diretto verso un nuovo mondo sconosciuto. Nel caso di Vita (2003) di Melania Mazzucco, l’imbarcazione, vista con gli occhi di una bambina, diviene spazio fantastico d’avventura ed immaginazione e, in questo caso, non vengono descritti i momenti dell’approdo finale. Tale microcosmo onirico galleggiante sembra vivere per se stesso, come uno spazio “altro” senza partenza né approdo, ove il tempo scorre circolare.

nuovomondo3Per quanto riguarda l’ambito cinematografico, Lago si sofferma su Nuovomondo (2006) di Emanuele Crialese, film che mette in scena una nave di emigranti siciliani diretti a New York. «I sogni degli immigrati, una volta che questi sono sbarcati e sottoposti al controllo e a una rigida selezione, vengono catturati e incasellati dalla “società disciplinare” che li vuole trasformare, reificandoli, in forza-lavoro produttiva all’interno della società industriale; le strutture di potere catturano l’immaginazione degli immigrati» (p. 38). Nel film, alla nave come “serbatoio di immaginazione”, si contrappone la terraferma come luogo di controllo e disciplinamento. Nell’opera di Crialese, sottolinea lo studioso, la nave si presenta come luogo misterioso che incute timore sin dal momento dell’imbarco ma, una volta salpata, man mano che si allontana dalla terra natia, conquista lo statuto di spazio autonomo, di “serbatoio di immaginazione” contenente i sogni e le speranze degli emigranti. In Terraferma (2011), successivo film di Crialese, viene affrontato lo sbarco dei migranti sulle coste italiane. All’arrivo i migranti vengono sottoposti ad un controllo disciplinare del tutto simile a quello a cui erano sottoposti i migranti italiani all’atto dello sbarco sulle coste statunitensi ad inizio Novecento. Viene mostrato anche l’incontro con “l’altro” in termini solidali tra pescatori ed alcuni clandestini ma, sottolinea Lago, per far ciò, è necessario contravvenire alle leggi. Nelle scene finali il “peschereccio solidale” viene mostrato allontanarsi dalla macchina disciplinare, «dal reticolo del controllo che si è stabilizzato fra le isole e le coste italiane e quelle africane [ed] il peschereccio, divenuto “serbatoio di immaginazione”, si dirige lontano dallo spazio del controllo riproducendo la possibilità del desiderio dei migranti di un altrove libero e liberato dalla dinamica della sorveglianza e della cattura» (p. 41).

Sempre all’interno del capitolo dedicato alle navi emigranti e dell’esilio, viene analizzato il romanzo Amerika (pubblicato postumo nel 1927) di Franz Kafka. In tale racconto la nave viene presentata come un ambiente labirintico e caotico che conduce ad un altro grande ambiente labirintico e caotico (New York). Si tratta di un “serbatoio di immaginazione” che offre agli ingenui occhi degli emigranti la visione di un mondo irreale, fantastico e caotico. «Lo spazio della nave, quindi, diviene quasi un’appendice eterotopica del luogo da cui parte e di quello in cui arriva, rispecchiandone le abitudini e le caratteristiche. Fra i due punti di convergenza c’è lo spazio del viaggio, della mescolanza, dell’immaginazione, della fantasia che si appropria utopisticamente del punto d’arrivo» (p. 43).

Una sezione del primo capitolo è dedicata anche alla figura dell’intellettuale che si trova a scrivere nel corso di un viaggio in mare che lo porta verso l’esilio. L’analisi inizia con l’esilio di Ovidio narrato nei Tristia (I sec. d.C.). In questo caso l’esiliato, salendo a bordo della nave, entra in un “altro” luogo ed in un “altro” tempo rispetto alla quotidianità. La scrittura del protagonista avviene dunque in un luogo di rottura assoluta col tempo quotidiano; a bordo, il tempo, è assorbito dallo spazio. L’imbarcazione può dirsi un ambiente liminale, una vera e propria prefigurazione delle sofferenze dell’esilio. «La nave, in questo caso, è perciò uno spazio che si dirige verso una condizione di morte; dalla civilizzata Roma, il centro del mondo, la nave sta portando Ovidio verso territori inospitali e ‘barbari’, abitati da gente selvaggia, rude, violenta e caratterizzati dal freddo e dall’oscurità» (pp. 49-50). Nel saggio viene fatto riferimento anche alla rilettura dell’esilio di Ovidio realizzata da Christoph Ransmayr nel suo Il mondo estremo (1988) ed al romanzo Le passioni dell’anima (2011) di Raffaele Simone, in cui si narra del burrascoso viaggio in mare di Cartesio e della sua permanenza nella fredda ed inospitale Stoccolma. Anche in questo caso la nave si configura come uno spazio liminale che prelude alla solitudine di quello che è vissuto dal Cartesio del romanzo come un esilio. Lago sottolinea come Cartesio, al pari di Ovidio, scriva durante una tempesta in mare, quasi si trattasse di un’anticipazione dello scrivere in terra straniera: «lo spazio della nave diviene un’anticipazione dell’eterocronia dell’esilio, della lontananza, della solitudine in terra straniera» (p. 52). Sia nel caso di Ovidio che di Cartesio, la scrittura in mare sembra generata dalla nave come “serbatoio di immaginazione” che, nell’avvicinarsi all’infausta destinazione, tende a trasformarsi essa stessa in luogo dell’esilio. Nei racconti si assiste ad una metamorfosi dell’eterotopia navigante che genera riflessioni sulla destinazione. «La spazialità della nave che trasporta letterati e intellettuali verso terre sconosciute è quindi essa stessa una creazione letteraria, ed è costruita dalla penna degli autori come una vera e propria anticipazione dell’ambiente che li attende lontano dalla loro patria e dalla sua rassicurante quotidianità» (p. 54).

nuovomondo06Il secondo capitolo del saggio è dedicato alle “Navi nel ‘tempo d’avventura’” e qui, lo studioso, analizza la configurazione dello spazio eterotopico della nave quando questa diviene cerniera narrativa tra avventure. Dopo aver passato in rassegna alcuni esempi tratti dall’antichità, dal romanzo greco – a partire dalle Avventure di Cherea e Calliroe (I sec. a.C. – I sec. d.C.) di Caritone – al Satyricon (I sec. d.C.) di Petronio, Lago si sofferma su Gargantua e Pantagruele (1532) di François Rabelais, romanzo ove la nave si caratterizza come spazio di libertà attraverso cui si possono raggiungere nuovi mondi. Lo studioso mette in luce come, nel caso di Rabelais, ci si trovi di fronte ad un passaggio epocale, dal mondo medioevale alla modernità rinascimentale, ed in linea con gli studi di M. Batchin, Lago sostiene che qui la nave non è una semplice cerniera narrativa fra un’avventura e l’altra, come avviene nel romanzo greco, ma «diventa essa stessa corpo; una nave molto più ‘umanizzata’ che, vero e proprio “serbatoio di immaginazione”, conduce i personaggi verso territori fantastici ai quattro angoli del globo, vettore di spostamento su una geografia nuova, antigerarchica, in cui sempre nuove espressioni culturali stanno progressivamente entrando in libera interazione fra di loro» (p. 72).

A questo punto nel saggio vengono analizzati diversi romanzi settecenteschi in cui i lunghi viaggi in mare conducono ad utopiche terre misteriose e la nave diviene spesso uno spazio liminale ove i personaggi si ritrovano improvvisamente in universi fantastici. In tali testi l’imbarcazione, oltre che luogo dell’avventura e dell’immaginazione, riveste spesso valenze economiche; l’avventura si incrocia al commercio, come avviene nei Viaggi di Gulliver (1726) di Jonathan Swift, ove la nave incarna tanto la fuga verso l’ignoto, verso l’utopia, quanto il mezzo di “sviluppo economico”. Nel romanzo di Swift la nave con cui, di volta in volta, il protagonista fa ritorno dalle sue avventure è anche “spazio del linguaggio”, del racconto. «Lo spazio per eccellenza del ritorno dall’ignoto, dall’avventura, dall’Utopia è la nave, ed è tale spazio che permette il dispiegarsi della scrittura; una scrittura che nell’ottica swiftiana vuole insegnare, rendere migliori gli uomini. La nave dovrebbe configurarsi come lo spazio di un arricchimento culturale tramite la libertà dell’immaginazione, non come il mezzo di un cieco sviluppo economico che non esita a colonizzare e conquistare le popolazioni in modo barbaro e crudele» (p. 77).

Nel romanzo Viaggi di Enrico Wanton ai regni delle scimmie e dei cinocefali (1749) di Zaccaria Seriman, si racconta di un viaggiatore che entra a far parte del microcosmo navigante con sete di conoscenza, pur spaventato dal doversi staccare dallo spazio-tempo quotidiano della terraferma. L’eterotopia si configura qua come spazio dello studio e della scrittura in vista degli incontri con nuove popolazioni; «la nave è veramente una finestra aperta sull’Altro, un ‘altro da sé’ da studiare in modo scientifico e razionale secondo un metodo che anticipa quello della moderna etnografia» (p. 79). Ai momenti di permanenza sulla terraferma spetta invece la fase empirica, il contatto con l’Altro in carne ed ossa.

Nel caso di Robinson Crusoe (1719) di Daniel Defoe, per tutta la prima parte del romanzo, la nave può essere interpretata come il mezzo con cui ci si allontana dalla tranquilla ed operosa vita borghese, dunque come “spazio sovversivo”, come eterotopia che proietta il protagonista verso un altrove che finirà con l’avere la forma di una nuova eterotopia: l’isola. La nave funziona anche come spazio di salvezza durante la permanenza obbligata sull’isola; dall’imbarcazione, restata praticamente intatta su una secca, il protagonista recupera alimenti ed utensili utili alla sopravvivenza. La nave, vista dall’isola-prigione, assume una forte carica immaginativa che la connota come spazio di libertà. Lago segnala, inoltre, come nel romanzo l’imbarcazione abbia anche «una spiccata valenza commerciale e mercantile, mentre lo stesso protagonista assume le caratteristiche del moderno homo economicus della società capitalistica e borghese» (pp. 82-83). Ed infatti, se nella prima parte del libro la nave è spazio di allontanamento dall’economia borghese, nella seconda parte il valore commerciale del viaggio e della stessa nave finisce con l’avere il sopravvento. L’economia riprende il sopravvento sull’avventura. In Robinson Crusoe «la nave appare sia come una via di fuga dal quieto mondo borghese della famiglia di Robinson, sia come uno strumento utilizzato da quella stessa società inglese per arricchirsi e poter mantenere quello status sociale di benessere. L’avventura e il commercio, nel romanzo di Defoe, appaiono quindi come le facce di una stessa medaglia: la nave, come una sorta di Giano bifronte, le incarna entrambe» (p. 84).

All’interno del secondo capitolo l’autore affronta anche Candido, o l’ottimismo (1759) di Voltaire concentrandosi sulla nave diretta a Buenos Aires che, secondo Lago, può essere identificata, oltre che come cesura narrativa che conduce i protagonisti verso nuove avventure, anche come spazio di riflessione e di preparazione degli stessi a fare ingresso in un nuovo mondo. La valenza commerciale della nave è presente anche in questo romanzo ma, secondo lo studioso, qua è connotata decisamente in maniera più negativa rispetto agli altri romanzi settecenteschi analizzati. «L’immagine della nave mercantile che salpa per l’Europa dopo aver derubato l’ingenuo Candido ha […] una forte connotazione simbolica poiché rappresenta il lato negativo di quello “sviluppo economico” che non esita a sfruttare, derubare e imbrogliare» (pp. 85-86).

nuovomondo02A proposito di navi e di avventura, l’autore non poteva che affrontare il mondo dei pirati a partire da un libro esemplare in tal senso come L’isola del tesoro (1883) di Robert Louis Stevenson, per poi trattare un curioso romanzo contemporaneo, La vera storia del pirata Long John Silver dello scrittore svedese Björn Larsson, che palesa una sorta di rapporto ipertestuale con l’opera di Stevenson. Uno spazio del capitolo è dedicato anche alla tipologia della “nave-carcere” attraverso l’analisi del romanzo Viaggio al termine della notte (1932) di LouisFerdinand Céline e del film Satyricon (1969) di Federico Fellini. Nel primo caso, afferma Lago, non abbiamo alcuna soglia tra la terraferma e la nave; il passaggio del protagonista «nell’eterotopia della nave avviene […] entro una dimensione onirica che ce la fa apparire in una veste nuova: se, precedentemente, i personaggi che si sono imbarcati hanno sempre guardato la nave dal di fuori, prima di salirvi, caricando questo sguardo di sognante immaginazione e fantastiche aspettative, oppure di ansie e pensieri angosciosi, adesso […] ci appare già vista dal di dentro» (p. 95). La nave del romanzo di Céline resta ancora un “serbatoio di immaginazione” seppur diretto verso un’utopia in negativo. Nel film di Fellini, invece, l’imbarcazione non pare avere a che fare con il “serbatoio di immaginazione”, essa si presenta piuttosto come luogo di viaggio infernale. Lago ricorda come in Fellini, la nave come “serbatoio di immaginazione” faccia invece palesemente la sua comparsa nel film E la nave va (1983); in questo caso l’imbarcazione può dirsi microcosmo simbolico della fantasmagoria del mondo dello spettacolo che non si ferma nemmeno di fronte al dramma dello scoppio della Grande guerra.
Il capitolo si chiude con l’analisi del romanzo Roderick Duddle (2014) di Michele Mari. In questo caso, l’eterotopia della nave si caratterizza come spazio del sogno, tanto che anche la (inevitabile) tempesta sembra configurasi come un sogno legato al desiderio d’avventura del protagonista.

Il terzo capitolo del saggio è dedicato alle “Navi della ricerca e dell’erranza”. In questo caso i testi presi in esame sono Le Argonautiche (III sec. a.C.) di Apollonio Rodio e Moby Dick (1851) di Hermann Melville. Si tratta di opere in cui i protagonisti solcano il mare alla ricerca di un “oggetto del desiderio” (il Vello d’oro e la balena bianca) ma che assumono connotazioni erratiche. «La ricerca si unisce perciò al nomadismo e all’erranza: la nave non è più uno spazio di congiungimento tra due sponde, ma un universo lanciato dietro una ricerca nomadica in territori sempre più lontani e sconosciuti» (p. 107).

Alle “Navi mostruose, ‘infernali’, perturbanti, spettrali” è, invece, dedicato il quarto capitolo del volume, ove vengono affrontati viaggi marittimi in cui il “serbatoio di immaginazione” diviene “serbatoio di incubo”. Eterotopie naviganti di tale specie le ritroviamo in Storia di Gordon Pym di Edgar Allan Poe – ove «lo spazio della nave non possiede più positive connotazioni avventurose o picaresche; il desiderio di scoperta e di avventura del protagonista si infrange contro il nulla dell’orrore» (p. 129) – e nel romanzo I pirati fantasma (1909) di William Hope Hodgson, ove la nave spettrale appare totalmente slegata dallo spazio-tempo tradizionale. All’interno di questo capitolo l’autore prende in esame anche il film The Fog (1980) di John Carpenter. In tal caso viene raccontata la storia di una nave spettrale popolata da fantasmi di lebbrosi (il rimando alla “nave dei folli” rinascimentale è evidente) che si presenta al cospetto di una cittadina americana per punire le colpe degli avi degli abitanti, rei di avere, un secolo prima, affondata la nave col suo carico di malati a bordo. La nave degli spettri appare davvero una nave proveniente da un mondo “altro” e tale “serbatoio di incubo”, come in molte opere di Carpenter, si presenta come minaccia della quieta, quanto cinica, società borghese.

A proposito di navi fantasma, non poteva mancare un riferimento al mito nordico dell’Olandese volante, vascello fantasma condannato a navigare in eterno, che ha ispirato parecchie trasposizioni nelle più diverse arti. Lago si sofferma in particolare sul romanzo La nave fantasma (1839) di Frederick Marryat e sull’opera L’Olandese Volante (1841) di Richard Wagner. Nel caso del romanzo lo studioso segnala come la nave spettrale appaia come un’eterotopia che non si limita ad istituire un “tempo altro”; in questo caso lo scorrere del tempo è annullato. La nave fantasma di Marryat è uno spazio senza tempo, è «lo spazio della leggenda, di un altrove in cui l’immaginazione e l’incubo si confondono; uno spazio senza tempo condannato in eterno a solcare il mare, luogo metaforico per eccellenza della libertà, dell’erranza nonché della perdita del sé» (pp. 137-138).

Lo spazio della nave ne Il compagno segreto (1910) di Joseph Conrad, è, invece, lo spazio del perturbate attraverso cui lo scrittore, secondo Lago, decostruisce lo spirito avventuriero e colonialista ottocentesco: «Conrad presenta una situazione assolutamente realistica e verosimile, lontano dai dettami della letteratura fantastica. Lo spazio della nave che fa la spola fra la ‘civilizzata’ e ‘razionale’ Inghilterra e l’universo ‘straniero’ delle colonie si riduce a un “battello di morti” minacciato dall’Inferno. Segno che forse – anche se il capitano riuscirà a condurre in salvo la nave – qualcosa sta cambiando: su quell’imperialismo marittimo di età vittoriana cominciano a formarsi delle crepe. L’avventura imperialista inizia inevitabilmente a decadere» (p. 144).

eterotopie-paolo_lago_coverIn alcune opere lo spazio della nave si presenta come vero e proprio inferno capace di trasformare gli stessi personaggi che lo abitano in esseri infernali. Le descrizioni ricorrono spesso ad una terminologia rimandante alla malattia ed al disfacimento fisico. Il negro del “Narciso” (1897) di Joseph Conrad è esemplare a tal proposito. Qui lo spazio della nave diviene lo spazio della malattia a cui si aggiunge una spaventosa tempesta e gli effetti della malattia sembrano placarsi soltanto all’arrivo della nave in Inghilterra, quando l’eterotopia si rompe al salire sulla nave delle persone della terraferma. Connotazioni infernali delle imbarcazioni si ritornavano anche in altri romanzi conradiani ed, in generale, secondo Lago, lo «spazio della nave che commercia con le colonie, in Conrad, è […] spesso segnato dalla malattia e dal disfacimento dei corpi dei membri dell’equipaggio. L’Imperialismo è ormai malato; lo spazio navigante che collega madrepatria e colonie si riduce ad un inferno di uomini malati e affaticati, paragonati a cadaveri o a maschere grottesche segnate dalla morte» (p. 153).

Seppure in maniera differente, anche Louis-Ferdinand Céline rappresenta la decadenza del colonialismo nel romanzo Viaggio al termine della notte (1932). Nuovamente lo spazio della nave che porta verso le colonie si presenta come “serbatoio d’incubo”, come spazio della malattia e del decadimento; le colonie divengono luoghi dannati che nulla hanno più a che fare con il sogno.
Invece, nel caso del romanzo La nave morta (1932) di B. Traven, la nave è sì spazio infernale ma, rispetto alla terraferma, ove non è possibile vivere senza un’identità attestata dai documenti, è pur sempre un inferno in cui, sottraendosi alla logica del controllo, il protagonista riesce a ritrovare una dimensione più autentica.

Uno spazio importante, all’interno di questo quarto capitolo, è dedicato alla nave del vampiro a cui hanno mirabilmente dato immagine Friedrich Wilhelm Murnau, nel film Nosferatu (1922) e, successivamente, Werner Herzog nel suo Nosferatu, Principe della Notte (1979). Nei due film Lago individua nella nave «il mezzo con il quale la forza infernale e irrazionale del vampiro giunge a minare il sicuro e razionale ordo borghese dell’Occidente; il suo è uno spazio spettrale che conduce, per mezzo di un ennesimo viaggio dell’incubo, il diverso ed il nomade verso i territori industrializzati del cuore dell’Europa. Il deserto, lo spazio liscio, la potenziale colonia lontana, adesso, attaccano l’Occidente colonizzatore per annientarlo» (pp. 165-166)

Nel quinto capitolo vengono passate in rassegna le “Navi ferme e in disarmo”. Nei romanzi di Álvaro Mutis, Ilona arriva con la pioggia (1988) e di Jean-Claude Izzo, Marinai perduti (1997), la terraferma finisce col contaminare la vita dei marinai a cui è momentaneamente preclusa la vita in alto mare, mentre nel romanzo L’isola del giorno prima (1994) di Umberto Eco e nel film I love Radio Rock (2009) di Richard Curtis la nave è ferma al largo, dunque mantiene una certa autonomia dalla terraferma.

Nel romanzo di Mutis lo spazio della nave, nel momento in cui si avvicina a terra, «viene gradatamente invaso da un altro spazio e un altro tempo gravidi di ripetitivi rituali, subalterni alle dinamiche della quotidianità e del controllo» (p. 171). Dunque, il contatto con la terraferma determina «il progressivo sfaldarsi dell’eterotopia navigante e l’oscurarsi graduale del “serbatoio di immaginazione” che essa era stata: la “polizia”, la struttura del controllo sale a bordo e comincia ad annichilire l’assolata bellezza dei corsari e le sue dinamiche di immaginazione e di libertà» (p. 172). Si palesa così una contrapposizione tra lo spazio navigante, spazio della libertà e dell’avventura, e lo spazio della terraferma, spazio razionale e della quotidianità. Nell’essere obbligatoriamente bloccata in porto, la nave del romanzo di Izzo è costretta a sottostare alle regole del controllo statale, dunque finisce per divenire «il nucleo irradiante dal quale si dipartono tante linee di fuga verso la città e il suo spazio. I marinai, una volta a terra, sono “perduti”, quasi snaturati, e danno inizio a una serie di intersezioni con la terraferma che li trasforma fin quasi a perdere coscienza di sé» (p. 178). Come in molti romanzi di Izzo, ancora una volta, è Marsiglia la vera protagonista del libro, tanto che, nel venire a contatto con la nave bloccata in porto, è come se la città la fagocitasse, la trasformasse in una sua appendice.

Secondo lo studioso la nave ferma del romanzo di Eco può essere, invece, considerata «un complesso “mondo possibile”, creato in tutto o in parte dalla fantasia e dalle ossessioni di Roberto (e, dietro di lui, dal narratore onnisciente): un altro “serbatoio di immaginazione” che, anche se non in movimento, anche se non congiunge paesi e continenti, riesce a creare infiniti mondi, sogni, pensieri di pensieri» (p. 171).
Il film I love Radio Rock di Curtis narra di una stazione radio pirata che, nel 1966, trasmette all’Inghilterra musica rock da una nave ancorata al largo, quando i canali radiofonici ufficiali si ostinano a non prenderla in considerazione. Si tratta di una nave bloccata al largo, che non viaggia più ma capace di far «viaggiare la parola e il linguaggio in una dinamica di contestazione allo spazio ‘quotidiano’ della terraferma. Dall’eterotopia della nave si dipartono voci, parole e musica che minano alle sue basi la stanca società e il suo linguaggio d’ordine, regolato da meccanismi disciplinari» (p. 182). Dunque, suggerisce Lago, ricorrendo alle parole di Foucault (Spazi altri), lo spazio della nave, in questo caso, può essere considerato «una specie di contestazione al contempo mitica e reale dello spazio in cui viviamo» (pp. 182-183). In tale film, continua Lago, la nave è «un’eterotopia della contestazione che si muove pur stando ferma, che possiede non il movimento (non a caso, quando proverà a muoversi si guasterà e colerà a picco) ma la velocità. Una velocità ‘nomadica’ che, dal mare aperto, dallo spazio liscio di un deserto marino, muove una pacifica e terribile guerra all’apparato statale immobile e sedentario» (p. 184).

croc_naufrIl volume La nave lo spazio e l’altro, si conclude con “Un epilogo postmoderno: la crociera”, in cui l’autore passa in rassegna la crociera, «vero e proprio “serbatoio di immaginazione” creato a tavolino, uno spazio postmoderno emblema dello sfarzo e del declino della società occidentale capitalistica» (p. 185) raccontata dal romanzo Una cosa divertente che non farò mai più (1997) di David Foster Wallace e dalle opere cinematografiche Un film parlato (2003) di Manoel De Oliveira e Film Socialisme (2010) di Jean-Luc Godard.

Il romanzo di Wallace presenta la crociera come microcosmo spettacolare, becero e meschino, della società capitalistica statunitense. Il film di De Oliveira ricorre alla nave come simbolo dell’intera società occidentale contemporanea, segnata dalla forza razionale della parola, che si trova improvvisamente ed inaspettatamente a fare i conti con il suo doppio oscuro ed irrazionale che la fa saltare in aria. «Il terrorismo e il suo orrore non è altro che una mannaia che il razionalismo capitalista si è autoimposto, una mannaia direttamente collegata a terribili errori compiuti nel passato da quello stesso razionalismo. La nave da crociera, quel “trionfo calvinista del capitale e dell’industria sulla primitiva forza corrosiva del mare”, secondo le parole di Wallace, simbolo della società occidentale, è adesso devastata dalla morte e dalla distruzione. Ancora una volta, in fondo a quel “serbatoio di immaginazione”, rimane soltanto l’orrore, stavolta non letterario, ma crudamente e terribilmente reale» (p. 193). Nel caso di Godard la nave è un «postmoderno scrigno del divertimento ostentato e del benessere occidentale, […] simbolo di una società, di un popolo, di un continente» (p. 193). Quella di Godard è una nave alla deriva, che si allontana dall’Africa, dimentica delle sue colpe coloniali. «Sembra che nella società contemporanea dominata dal Capitalismo maturo anche la stessa eterotopia della nave si infranga per lasciare spazio al nuovo mondo globalizzato e livellato, diretto verso un inesorabile declino» (p. 195).

Nell’individualismo più sfrenato a cui l’occidente capitalista ha condotto l’umanità sembra ormai tramontato anche l’invito all’arrangiarsi, al “si salvi chi può!”. La crociera postmoderna narrata da questi autori sembra piuttosto palesare l’impossibilità della salvezza. “Salvarsi non si può!”

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Tutte le immagini sono tratte dal film Nuovomondo (2006) di Emanuele Crialese tranne l’ultima che mostra il famoso naufragio del 2012, nei pressi dell’isola del Giglio, della medesima nave da crociera utilizzata nel Film Socialisme (2010) di Jean-Luc Godard.

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