immaginario tecnologico – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 29 Oct 2025 21:32:56 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 L’immaginario tecnologico nel cinema italiano dagli anni Trenta agli anni Settanta https://www.carmillaonline.com/2024/06/05/limmaginario-tecnologico-nel-cinema-italiano-dagli-anni-trenta-agli-anni-settanta/ Wed, 05 Jun 2024 20:00:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82181 di Gioacchino Toni

In Sociologie du cinéma (1977) Pierre Sorlin definisce il visibile «ciò che i fabbricanti di immagini cercano di captare per trasmetterlo […] ciò che gli spettatori accettano senza stupore, il visibile è quel che appare fotografabile e quel che appare sugli schermi di un’epoca data». Se c’è un medium che ha rappresentato la “modernità”, a partire dal suo farne parte, dal suo essere intrinsecamente “macchina della modernità”, questi è il cinema: in esso, sin dalla nascita, confluiscono l’ambito artistico-creativo e quello tecnologico, ed è proprio a causa dell’invadenza di questo ultimo che, per qualche tempo, subirà l’ostracismo degli [...]]]> di Gioacchino Toni

In Sociologie du cinéma (1977) Pierre Sorlin definisce il visibile «ciò che i fabbricanti di immagini cercano di captare per trasmetterlo […] ciò che gli spettatori accettano senza stupore, il visibile è quel che appare fotografabile e quel che appare sugli schermi di un’epoca data». Se c’è un medium che ha rappresentato la “modernità”, a partire dal suo farne parte, dal suo essere intrinsecamente “macchina della modernità”, questi è il cinema: in esso, sin dalla nascita, confluiscono l’ambito artistico-creativo e quello tecnologico, ed è proprio a causa dell’invadenza di questo ultimo che, per qualche tempo, subirà l’ostracismo degli ambienti più conservatori dalle arti tradizionali in un periodo in cui, intanto, gli artisti più innovativi stavano progressivamente allentando l’incidenza della “manualità” sulle loro produzioni, come espliciterà Duchamp, negli anni Dieci del Novecento, tanto da proporne la scomparsa attraverso i suoi ready made.

A contestare il meccanomorfismo cubo-futurista, a partire dai suoi aspetti ideologici, ha provveduto l’orda dadaista: lungi dal rappresentare un repertorio formale positivo da cui attingere acriticamente ispirazioni al contempo stilistiche e concettuali, l’universo delle macchine è stato da questi contestato e beffeggiato, reso “improduttivo”.

Come spiega Leonardo Gandini introducendo il volume da lui curato La meccanica dell’umano. La rappresentazione della tecnologia nel cinema italiano dagli anni Trenta agli anni Settanta (Carocci, 2005), nel complesso rapporto tra arte e tecnologia che segna il passaggio tra Otto e Novecento, per conquistarsi legittimazione artistica il cinema ha dovuto fare i conti con l’incidenza tecnologica che lo contraddistingue e lo ha fatto “antropomorfizzandosi”, così da rendere accettabile la riproduzione meccanica, vera e propria precondizione per il riconoscimento di un’estetica tecnologica. Oltre a piegarsi alla rappresentazione dell’essere umano e dei suoi sentimenti, riprendendo sintassi e temi della narrativa romanzesca, la tecnologia cinematografica, sin dalle origini, ha prestato attenzione al rapporto tra individuo e macchina attenuando e addomesticando «gli attriti che hanno inevitabilmente corredato la penetrazione capillare del mondo delle macchine in quello degli uomini». Già Walter Benjamin aveva evidenziato come la più importante tra le funzioni sociali del cinema fosse quella di creare un equilibrio tra l’essere umano e l’apparecchiatura neutralizzando i traumi indotti dalla tecnologia.

Se da un lato, sottolinea Gandini, il contributo del cinema nella messa a punto di un immaginario tecnologico si sviluppa essenzialmente in rapporto al significato e alle funzioni che la tecnologia assume nelle pratiche sociali quotidiane, dall’altro riflette «sulle premesse e le condizioni di una dialettica tra uomo e macchina che rimanda a una dialettica tra uomo e macchina da presa, senza la quale […] è di fatto preclusa la possibilità, per il cinema, di approdare ad una dimensione artistica». Insomma, il cinema, anche per autolegittimarsi, non ha potuto fare a meno di raccontare la tecnologia in quanto esso stesso soggetto tecnologico, non accontentandosi di un ruolo di mediazione del processo ma, in virtù della sua origine tecnologica, come parte in causa dei fenomeni che definiscono la modernità.

Nei diversi saggi che compongono il volume La meccanica dell’umano, viene evidenziato come nel cinema italiano compreso tra gli anni Trenta e gli anni Settanta del Novecento la tecnologia rappresenti una sorta di cartina di tornasole dei traumi prodotti dalla modernità. «In quanto emblema della civiltà moderna da una parte, e luogo generatore di conflitti legati alla sua penetrazione nel tessuto sociale dall’altra, la macchina entra a far parte di un campo di riflessione del quale il cinema è, al contempo, soggetto, attraverso i film, e oggetto, in quanto prodotto tecnologico destinato a sua volta a confrontarsi e misurarsi con la dimensione sociale». Di certo, sottolinea Gandini, coniugando tecnologia e condizione urbana, il cinema non poteva che essere (anche) autoriflessivo: serialità, riproducibilità e consumo di massa sono elementi che accomunano cinema e ambito urbano, entrambi parte strutturale della modernità.

Il volume La meccanica dell’umano è suddiviso in tre parti dedicate rispettivamente agli anni Trenta, al periodo compreso tra il secondo dopoguerra e il boom economico e, l’ultima, agli anni Sessanta e Settanta

La prima parte, dedicata agli anni Trenta, si compone di uno scritto di Marcia Landy, sull’immaginario tecnologico all’epoca del fascismo, e di un contributo di Raffaele De Berti, sul rapporto tra tecnologia, modernità e immaginario urbano.

Landy si sofferma: su film che narrano vicende aventi a che fare con i mezzi di comunicazione a partire dallo stesso mondo del cinema (es. La signora di tutti del 1934 di Max Ophüls); su opere che tendono a tratteggiare criticamente la vita urbana tecnologizzata, contrapponendola a una “più genuina” realtà rurale (es. Quattro passi tra le nuvole del 1942 di Alessandro Blasetti); sulla messa in scena della tecnologia in ambito produttivo (es. Acciaio del 1933 di Walter Ruttmann); sui mezzi di trasporto, come l’automobile, nel suo duplice aspetto di mezzo di lavoro o bene di lusso, il treno, come emblema di mobilità (e libertà) maschile in contrapposizione alla staticità casalinga della donna (es. Zazà del 1942 di Renato Castellani), l’aereo, come icona della modernità facilmente associato alla velocità, alla virilità e alla conquista dello spazio, con tutti i riferimenti coloniali del caso (es. Lo squadrone bianco del 1936 di Augusto Genina); sul ruolo bio-politico di controllo sui corpi sociali e individuali delle tecnologie cittadine e della comunicazione che emerge in controluce in diversi film. «Le molte (e conflittuali) immagini della tecnologia apparse sugli schermi italiani nel corso del Ventennio ci illuminano non solo sui conflitti e i cambiamenti che animavano la cultura dell’epoca, ma anche sulle loro conseguenze per la definizione di eventi successivi, ad esempio i due miracoli economici italiani che ebbero luogo rispettivamente negli anni Cinquanta-Sessanta e negli anni Settanta-Ottanta».

De Berti nota come la modernità nel cinema si manifesti più negli interni delle abitazioni e nell’abbigliamento femminile che non negli esterni. Mancando il paesaggio urbano italiano del grattacielo, cioè dell’elemento moderno per eccellenza ricorrente nelle produzioni hollywoodiane, il cinema nazionale ripiega sulla velocità: automobili, tram, treni e tutto ciò che serve per spostarsi o comunicare velocemente. Come sintetizza il cortometraggio, di esplicita matrice futurista, Stramilano del 1929 di Corrado D’Errico, tutto sembra svolgersi «sotto il segno del tempo risparmiato, grazie o a una maggiore velocità o a strumenti meccanici che compiono operazioni prima eseguite manualmente». In tale opera, sottolinea De Berti, sono presenti le tre principali “categorie” caratterizzanti la modernità: i mezzi di trasporto, le fabbriche e la merce reclamizzata dalle pubblicità ed esposta nei grandi magazzini.

Se automobili, treni e biciclette sono onnipresenti nelle commedie italiane del periodo, è con Gli uomini che mascalzoni… del 1932 di Mario Camerini che nel cinema di finzione i mezzi di trasporto divengono protagonisti del film. A dare invece immagine alle fabbriche sono film come Rotaie del 1929 di Mario Camerini e, soprattutto, Acciaio del 1933 di Walter Ruttmann. In questo ultimo caso le «vere protagoniste del film sono le scene girate all’interno degli stabilimenti e le riprese della cascata delle Marmore», a sancire come il film non contrapponga l’universo della fabbrica a quello rurale e contadino, ma punti «all’integrazione e all’armonizzazione del binomio industria/campagna».

Ad essere accuratamente evita nel cinema italiano, e non solo degli anni Trenta, sottolinea De Berti, è la vita operaia all’interno delle fabbriche; difficile renderla accattivante a spettatori a cui si vuole offrire svago. Il compito di entrare con la macchina da presa nei luoghi di lavoro viene lasciato a qualche documentario e cinegiornale, ma per magnificare l’organizzazione produttiva e la qualità dei prodotti italiani. I film, soprattutto le commedie, anziché i luoghi di produzione preferiscono offrire agli spettatori ciò che in questi si produce: le merci. Ed è proprio il favoloso mondo di queste ultime, pronte per essere sognate e acquistate, ad essere celebrato dal documentario Rinascente realizzato nel 1930-1931. Riprendendo molto da vicino il dinamismo delle riprese e il montaggio serrato di Stramilano, questo cortometraggio muto, il cui realizzatore resta ignoto, mette in scena con enfasi «la perfetta organizzazione di una grande fabbrica commerciale in grado di esaudire tutti i desideri della piccola e media borghesia urbana italiana». A questo documentario si è di certo ispirato Mario Camerini per il suo Grandi Magazzini del 1939.

Nella seconda parte del volume, dedicata al periodo compreso tra il secondo dopoguerra e il boom economico, il saggio di Lucia Cardore si sofferma sulla “tecnologia motoria” presente in tante pellicole italiane, mentre invece il contributo di Paola Valentini indaga su come cambi il panorama sonoro del/nel cinema nazionale.

Cardore sostiene che, per certi versi, è come se, finita la guerra, con un Paese da ricostruire, i mezzi di locomozione – biciclette, treni, motociclette, automobili – comparissero nei film come simbolo di una fretta di ripartire avviata a trasformarsi inesorabilmente, un poco alla volta, in frenesia consumista. «Arrivati i treni dei reduci», scrive la studiosa, «partono quelli degli emigranti», come nel caso di Il cammino della speranza del 1950 di Pietro Germi e Rocco e i suoi fratelli del 1960 di Luchino Visconti. I mezzi pubblici si rivelano in alcune opere spazi di socializzazione, come il treno per le mondine in Riso amaro del 1949 di Giuseppe De Santis, l’autobus che conduce gli abitanti delle campagne e delle periferie in città in cerca di lavoro nel film Il sole negli occhi del 1953 di Pietrangeli. Il treno diviene anche il mezzo, per chi può permetterselo, per la luna di miele o microcosmo in cui mettere in scena gag comiche o melodrammi.

A partire dalla fine degli anni Quaranta «si comincia a sognare a motore»; le due ruote motorizzate contribuiscono ad affiancare alle necessità ed ai desideri tradizionali l’idea di avventura, di fuga e di vagabondaggio, non mancando di palesare come dietro al soddisfacimento di queste fantasie si celi spesso qualcosa di negativo: in L’onorevole Angelina del 1947 di Luigi Zampa la motocicletta viene acquistata con i proventi della borsa nera; in Bellissima del 1951 di Luchino Visconti la Lambretta viene pagata con i ricavi di un’attività truffaldina; in Accattone del 1961 di Pier Paolo Pasolini il protagonista perde la vita a bordo di una motocicletta rubata per fuggire a un tentativo di furto.

Se all’indomani della fine del conflitto in diversi film l’automobile assolve al ruolo di simbolo di uno status acquisito illecitamente, come in Caccia tragica del 1947 di De Santis e Gioventù perduta del 1948 di Pietro Germi, verso la metà degli anni Cinquanta, scrive Cardore, essa «si spoglia, almeno in parte, dell’aurea di trasgressione e pericolo […] per divenire oggetto di desiderio comune, coltivato con ardore dai ceti popolari, che andavano inesorabilmente omologandosi, come osserva il Pasolini degli Scritti corsari, alle abitudini e ai consumi piccolo-borghesi. Alle soglie del boom economico, l’immagine dell’auto riassume in sé i desideri di consumo, divenendone l’icona principale».

A riprova di quanto stiano cambiando le città, nei film degli anni Cinquanta non è raro imbattersi in un ingorgo, come in Il cammino della speranza del 1950 di Pietro Germi, La dolce vita del 1959 di Federico Fellini e in Nata di marzo del 1958 di Antonio Pietrangeli. Sebbene gli spostamenti avvengano più frequentemente lungo le statali e le provinciali, non mancano film in cui compaiono le autostrade, come in Cronaca di un amore del 1950 di Michelangelo Antonioni. Alle figure dei viaggiatori che attraversano il Paese in automobile tendono poi a sostituirsi i turisti, non mancando di mettere a confronto la modernità motorizzata con la realtà più arcaica del Paese. Al capolinea di questa evoluzione è forse l’incidente stradale a palesare tutti i limiti della corsa alla modernità.

Circa invece i cambiamenti del panorama sonoro del/nel cinema italiano, Valentini ricorda come mentre l’arrivo in Italia della stereofonia attorno alla metà degli anni Cinquanta si imponga celermente, decisamente meno rapida è la diffusione, nel decennio successivo, del “suono sporco” della presa diretta. Al di là di come cambi il sonore del cinema, è interessante guardare all’avvicendarsi dei diversi dispositivi sonori che compaiono sulle pellicole. Agli esclusivi “telefoni bianchi” degli ambienti lussuosi del periodo prebellico si sostituisce il telefono come status simbol di ascesa sociale che si diffonde tra la piccola borghesia per poi disseminarsi nel paesaggio urbano. A comparire sulle pellicole e a far sognare gli italiani è la radio che il cinema segue in tutta la sua parabola che la vede passare da simbolo di agiatezza ad apparecchio ascoltato durante i lavori domestici, fino alle versioni sempre più piccole permesse dall’arrivo dei transistor che si diffondo soprattutto a partire dagli anni Sessanta. Curioso è anche osservare come i riproduttori per dischi passino abbastanza speditamente da simbolo di festa e convivialità a testimoni malinconici di solitudini.

Nella terza parte del volume, dedicata agli anni Sessanta e Settanta, trovano spazio un contributo di Simone Venturini, sulla rappresentazione della tecnologia domestica, ed uno di Veronica Innocenti e Roy Menarini, sul rapporto cinema-televisione.

Nella sua analisi Venturini nota la presenza di una figura visiva ricorrente nel cinema italiano: «il dittico o il trittico di elettrodomestici che incorniciano come le pale di un altare la figura della donna». Gli elettrodomestici che compaiono in queste ambientazioni assumono «i tratti di un campo visivo “magico” che trattiene, costringe e prefigura al suo centro non solo il corpo femminile, ma l’identità e la rappresentazione stessa della famiglia, della casa». «La rappresentazione della “gabbia” della tecnologia domestica nel cinema italiano costruisce un’identità familiare ancorata a un corpo, fisico e sociale, destinato a consumarsi al suo interno». Se però negli anni Sessanta il cinema, soprattutto nella commedia, mette in scena un’opulenza illusoria, nel decennio successivo «l’illusione scompare, e a rimanere sono la lotta per la sopravvivenza, il conflitto, la crisi dei valori e gli oggetti tecnologici della casa, che continuano a testimoniare e organizzare parte del visibile cinematografico di quegli anni».

A riprova di come con la diffusione della televisione l’intera produzione audiovisiva sia soggetta a una svolta importante, è con un saggio sul rapporto cinema-televisione che si conclude il volume curato da Leonardo Gandini che ha inteso tratteggiare l’immaginario tecnologico veicolato dal cinema italiano tra gli anni Trenta e i Settanta. Gli anni Ottanta rappresentano effettivamente un momento di cambiamento importante e non solo per l’ambito audiovisivo.

Innocenti e Menarini sottolineano come il cinema italiano abbia dovuto fare i conti con la diffusione della televisione sia dal punto di vista linguistico che rappresentativo. Nel primo caso basti pensare, ad esempio, a quanto il fenomeno dei film ad episodi, diffusosi negli anni Sessanta, sia debitore nei confronti dei tempi brevi, della serialità e dei passaggi repentini tra temi e toni differenti propri del linguaggio televisivo. Dal punto di vista rappresentativo, e simbolico, il cinema – dalla commedia alle opere autoriali –, dopo aver per qualche tempo guardo alla televisione soprattutto come a un «vettore di disgregazione sociale e di rinuncia estetica», sul finire degli anni Settanta ha finito per relegarla ad una presenza di paesaggio a cui non per forza di cose si deve prestare troppa attenzione. Poi, come detto, arrivano gli anni Ottanta. Non tutto, certo, ma molto cambia nella società italiana a livello audiovisivo e non solo.

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Immagini del conflitto / Corpi https://www.carmillaonline.com/2018/06/09/immagini-del-conflitto-corpi/ Fri, 08 Jun 2018 22:01:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=46124 di Gioacchino Toni

Convinto di come il genere fantascientifico – nelle sue molteplici dilatazioni – abbia saputo condensare epocali processi sociali e conflitti politici, Antonio Tursi, nel suo recente libro Immagini del conflitto. Corpi e spazi tra fantascienza e politica (Meltemi, 2018), si sofferma su alcune rappresentazioni che a ridosso del cambio di millennio hanno messo in luce quei mutamenti di confini che stanno ridisegnando i nostri corpi in un orizzonte post-umano.

Attraverso una serie di esempi narrativi – la figura del cyborg, con i suoi rimandi alla creatura frankensteiniana e a Dracula; [...]]]> di Gioacchino Toni

Convinto di come il genere fantascientifico – nelle sue molteplici dilatazioni – abbia saputo condensare epocali processi sociali e conflitti politici, Antonio Tursi, nel suo recente libro Immagini del conflitto. Corpi e spazi tra fantascienza e politica (Meltemi, 2018), si sofferma su alcune rappresentazioni che a ridosso del cambio di millennio hanno messo in luce quei mutamenti di confini che stanno ridisegnando i nostri corpi in un orizzonte post-umano.

Attraverso una serie di esempi narrativi – la figura del cyborg, con i suoi rimandi alla creatura frankensteiniana e a Dracula; l’universo avatariano di James Cameron; la nuova carne cronenberghiana; la trilogia cinematografica dei fratelli Larry e Andy Wachowski; il ciberspazio dei romanzi di William Gibson, il Metaverso descritto da Neal Stephenson – Tursi riflette su questioni che toccano il nostro presente materiale-immaginario in un volume suddiviso in due parti: Corpi e Spazi. In questo scritto ci limiteremo a prendere in esame soltanto la prima parte del libro, relativa ai Corpi, ripromettendoci di tornare sulla seconda, dedicata agli Spazi, successivamente.

Il rapporto tra corpi e immaginario risulta meno oppositivo di quanto non appaia in un primo momento e ciò risulta particolarmente evidente nell’immaginario tecnologico. Se già nel Golem, creatura umanoide artificiale della tradizione ebraica, nel suo essere proto-umano, i confini tra umano e non-umano, organico e inorganico, naturale e artificiale non appaiono tracciati con la nettezza che contraddistingue la cultura occidentale, è però sull’essere mostruoso assemblato da Frankenstein e sulla figura del conte Dracula che Tursi avvia la riflessione sulla recente figura ibrida del cyborg.

Il corpo della creatura frankensteiniana di Mary Shelley rappresenta l’oggetto scandaloso con cui è costretta a confrontarsi la società borghese pre-vittoriana. «Un corpo assemblato rappezzando pezzi anatomici di cadaveri, attraverso un commercio con il-già-morto, con membra destinate alla putrescenza. Con ciò che la società degli umani ha già relegato nell’altro da sé, anche fisicamente rinchiudendolo nei cimiteri all’esterno delle città» (p. 34). Il corpo della creatura mostruosa è sospeso tra vita e morte, «tra visioni normalizzate dell’umano e visioni inquietanti di ciò che umano non è ritenuto e che, nonostante ciò o proprio a causa di ciò, insiste nel mettere in discussione le certezze umane» (p. 34). Le membra tratte dai cadaveri ricevono la vita dal dominio moderno tecnico-scientifico sulla natura; l’immaginario tecnologico veicolato dalle vicende della creatura frankensteiniana ha sicuramente a che fare con i mutamenti tecnologici e sociali propri del periodo compreso tra la prima e la seconda rivoluzione industriale. Scriveva a tal proposito sul finire degli anni Settanta Alberto Abruzzese (La grande scimmia. Mostri vampiri automi mutanti. L’immaginario collettivo dalla letteratura al cinema e all’informazione, 1979) che nel momento in cui le macchine invadono l’uomo e la natura, all’orrido paesaggistico finiscono con l’aggiungersi gli orrori industriali e metropolitani di un capitalismo che porta sfruttamento e alienazione.

Un aspetto interessante della creatura di Frankenstein riguarda il legame tra l’evoluzione biologica e quella culturale, tra corpo e tecnica. Quando il mostro assemblato tenta di raggiungere una sua autonomia, inevitabilmente sente il bisogno di esprimere le sue emozioni, di comunicare con gli altri esseri umani al fine di farne a tutti gli effetti parte ma, paradossalmente, «è poco macchina»; non possiede la macchina sociale del linguaggio. Il mostro deve acquisire un elemento artificiale come il linguaggio per potersi dire davvero umano.

Dracula di Bram Stoker è invece un essere metamorfico, il suo corpo si trasforma in altro da sé, in altre specie viventi, collocandosi in un immaginario di fine secolo caratterizzato dall’instabilità del soggetto moderno. È attraverso il sangue raggiunto dai denti aguzzi che il suo corpo di non-morto si ibrida con il corpo dei mortali in un meccanismo di attrazione reciproca, di contaminazione e di trasformazione. «Metamorfosi e ibridazione emergono come caratteristiche decisive del corpo di Dracula e perturbano la stabilità e l’identità dei corpi umani» (p. 42). Nella sua alterità si annida un vettore di disordine che mette in pericolo l’identità occidentale che la tradizione umanistica ha edificato nel corso dei secoli: è l’intero ordine da essa costruito ad essere messo a rischio.

La narrazione di Dracula, sottolinea Tursi, si inscrive perfettamente all’interno delle trasformazioni comunicative moderne; nel testo si giustappongono diversi mezzi di comunicazione e attorno al buon esito o meno della comunicazione si determinano comprensioni o incomprensioni tra i diversi personaggi con importanti ricadute sull’epilogo. Oltre alle comunicazioni anche i numerosi mezzi di spostamento hanno importanza nella narrazione che conduce, inesorabilmente, verso la dissoluzione del corpo di Dracula e se ciò accade è perché i suoi nemici possono ricorrere ai mezzi messi a disposizione dalla moderna società capitalista che regola così i conti con un passato costretto a lasciare spazio al nuovo mondo che avanza.

Questa immersione nella civiltà tecnologica dei protagonisti del romanzo di Stoker svela sino in fondo il conflitto che ha portato alla dissoluzione del corpo di Dracula e all’impedimento posto alla trasformazione in non-morta del corpo di Mina. Da un lato, infatti, c’è l’aristocratico conte Dracula dotato di notevoli risorse, lascito di un passato glorioso; dall’altro, un manipolo, tutto sommato abbastanza omogeneo, sintesi della borghesia occidentale, anch’essa dotata di bastevoli risorse, frutto delle attività dei tempi recenti. Evidentemente, queste ultime superiori alle prime tanto da consentire la vittoria all’avvocato Jonathan Harker, all’americano Quincy Morris e agli altri inseguitori. Alla fine Mina potrà con un certo autocompiacimento “riflettere sul meraviglioso potere del denaro! Che cosa possono fare i soldi quando sono impiegati come si deve”. Cosa pu fare il capitalismo nel pieno della seconda rivoluzione industriale e poco prima del passaggio di secolo? (p. 45).

A dissolversi con il corpo del conte è anche l’Uomo cartesiano, infrantosi contro il «corpo polimorfico, ibrido e desiderante di Dracula. Questo essere diabolico ha rivelato la contingenza storica del progetto moderno: le apparentemente intoccabili catene dell’ancien régime si sono spezzate per essere prontamente sostituite da nuove catene, quelle che nel romanzo di Stoker si colgono nel rapporto di reverenza nei confronti delle classi emergenti da parte dei personaggi di ceto sociale inferiore» (p. 46). Usciamo da questa vicenda coscienti del «carattere dinamico del nostro “essere-generico” (gattungswesen) […] costruzione prodotta dai rapporti capitalistici di produzione» (p. 47).

Non è difficile comprendere i motivi per cui il mostro organico-artificiale frankensteiniano e il metamorfico Dracula riescano ad avere ancora un ruolo importante nell’immaginario contemporaneo. Nonostante si tratti di figure nate nel corso di un epoca passata di grandi mutamenti della quale hanno saputo condensare i conflitti sociali e l’immaginario, sembrano comunque capaci di far riferimento anche a un contesto contemporaneo caratterizzato da un immaginario tecnologico riferito al corpo umano in cui

la tenco-scienza si è fatta mondo, si è posta […] l’obiettivo di costruire non una seconda natura per l’essere umano ma la natura stessa dell’essere umano. Se nel primo caso, infatti, poteva ancora valere il tentativo di segnalare il carattere compensativo della tecnica rispetto a una carenza dell’umano, oggi ciò che è tecnica e ciò che è umano mostrano la loro indissolubilità e indistinguibilità ab origine. La tecno-scienza ha addirittura proposto (preteso), attraverso la mappatura completa del genoma, di tradurre l’umano in un codice d’informazioni, disponibile alla riproducibilità tecnica (p. 49).

L’essere umano si modella tanto «attraverso una messa in forma civilizzante» (attraverso pratiche di educazione, disciplinamento, formazione…), quanto ricorrendo all’ingegneria genetica e alle biotecnologie «che intervengono a costruire l’umano, a manipolare la sua costruzione biologica in modo accelerato» (p. 50). Il ricorso sempre più massiccio alla tecno-scienza comporta una messa in discussione dei confini che definiscono l’umano. «Affrontare i confini della nostra vita corporea, il suo inizio e la sua fine, ripensare le nostre vulnerabilità e le nostre potenzialità, cogliere i limiti e gli sconfinamenti della nostra pelle, di quella membrana che ci interfaccia con il mondo, si pongono come questioni di scelta politica da cui non possiamo sottrarci come singoli, come collettività e come società globale» (p. 51).

Alla luce di tali trasformazioni, l’individuo contemporaneo, rispetto al passato, tende inevitabilmente ad avvertire come la sua condizione sia tutto sommato simile a quella del corpo assemblato immaginato da Shelley o metamorfico narrato da Stoker. «Parti inorganiche (le protesi), semiorganiche (gli organi bioartificiali) o appartenenti a organismi non più viventi (gli organi trapiantati) sono pronte a costruire e ricostruire, a modificare in continuazione i nostri corpi grazie ai meravigliosi progressi tecnoscientifici degli ultimi decenni. La rottura di un ordine, che il corpo mostruoso della creatura di Frankenstein manifestava ai suoi contemporanei, è diventata normalità, condizione quotidiana di noi post-umani del terzo millennio» (pp. 52-53).

Mentre la civiltà classica ha tendenzialmente manifestato l’inquietudine circa l’identità umana elaborando un universo di mostri in cui l’umano si intrecciava con l’animale, l’attuale civiltà tecnologica si proietta su sconfinamenti che riguardano l’antroposfera e la tecnosfera. Da tali sconfinamenti nascono le figure dei nuovi mostri: automi, robot, androidi, replicanti, mutanti… Nell’età contemporanea tali inquietanti ibridazioni consentono di fare i conti il concetto stesso di “vera natura” che si tramanda da secoli.

Gli attuali e diffusi sconfinamenti tra antroposfera e tecnosfera impongono la sfida concettuale di interrogarsi su quanto queste sfere (compresa naturalmente la teriosfera) possano definirsi nella loro distinzione netta se non oppositiva, così come la civiltà classica e poi quella umanistica hanno suggerito, e non invece nella loro ibridazione reciproca. Se dalla civiltà umanistica abbiamo ereditato un certo Uomo, autoreferenziale nel suo intendimento e persino violento nel suo progetto di dominio, in un orizzonte post-umanistico possiamo riconsiderare le trame di relazioni che l’essere umano costruisce da sempre con l’alterità, sia essa innanzitutto umana (superando, per esempio, quelle distinzioni di razza e di genere che per troppo tempo hanno contribuito a isolare quel certo Uomo e a produrre sub-uomini), animale o macchinica. Sono queste trame a permettere l’emerge stesso di ciò che siamo abituati a chiamare umano (pp. 53-54).

Senza dubbio la figura del cyborg è quella che meglio esprime l’ibridazione tra elementi organici e cibernetici pensando però a questi ultimi non soltanto come oggetti aggiunti a un corpo naturale. «Essi, in quanto ultima manifestazione del nostro esserci tecnico, rientrano appieno nel definire la natura umana ovvero nel coglierne la fondamentale costruzione storica» (p. 56). L’orizzonte post-umano comporta dunque una riconsiderazione dell’intera storia dell’evoluzione dell’essere umano e non soltanto degli esiti recenti tecnologicamente più avveniristici. Se da un lato si può affermare che l’essere umano è sempre stato post-umano in quanto ibridato (con piante,  cibo, farmaci, droghe e, in epoca più recente, macchine) e modificato (attraverso pratiche artificiali), dall’altro lato vi è però un’importante discontinuità che risiede nella sua inedita consapevolezza.

Secondo Tursi occorrerebbe «rintracciare nel cuore della modernità, nei suoi disumanizzanti processi di industrializzazione e artificializzazione, crepe rispetto a quella civiltà umanistica che è valsa come alveo della modernità stessa» (p. 57). È proprio «nel momento in cui il progetto umanistico si è compiuto imponendo la sua egemonia sul mondo intero [che] si sono avvertiti i suoi limiti e le sue ambivalenze. L’Uomo bianco, nel portare sulle spalle il suo gravoso fardello, si è trovato di fronte a un cuore di tenebra: ha incontrato mostri come quello di Frankenstein e il conte Dracula» (p. 57) e questi hanno insegnato a guardare al di sotto della superficie della della civiltà occidentale, cogliendone le ambivalenze. «E così il mostro di Frankenstein e il conte Dracula invitano anche a guardare nell’attuale orizzonte post-umano per cogliere sfumature e ambiguità, opportunità e rischi del nostro essere cyborg, per essere cioè all’altezza delle sfide complesse che esso ci pone, a iniziare da quella di riconsiderare le tracce della storia che conducono ai nostri corpi, sulla cui pelle si giocano i conflitti del presente a venire» (p. 57).

Dopo una breve parentesi in cui, ragionando attorno ad Avatar (2009) di James Cameron, lo studioso riflette sulla soggettività e l’agire politico nel mondo contemporaneo a partire dall’intersezione tra corpo e tecnologia in un’epoca in cui la politica sembrerebbe fondarsi «sul coinvolgimento emotivo, sulla condivisione di un sentimento di appartenenza, di un sentire comune» (p. 71) più che sulla ricerca di una soluzione razionale, Antonio Tursi giunge ad affrontare, inevitabilmente, la produzione cornemberghiana.

Attorno al passaggio di millennio, in un’epoca segnata da nuove scoperte scientifiche e innovazioni tecnologiche, oltre che dall’aprirsi di una prospettiva di globalizzazione, è stata messa in discussione l’eredità umanistica antropocentrica che «mentre dichiarava l’essere umano (o meglio un certo essere umano: uomo, bianco, colto, razionale e possidente) misura di tutte le cose, lasciava sul terreno macerie e tragedie impensabili. Dell’essere umano si è compresa la dinamica emergenziale: non si tratta di un essere fisso e immodificato (di cui rinvenire l’essenza) ma di un’entità costruita nei tempi lunghi della sua filogenesi» (pp. 80-81). La consapevolezza che l’essere umano derivi da numerosi processi di ibridazione (con simili, con l’ambiente, con la tecnica…) ha comportato un ripensamento del corpo «ripensato e compreso non come datità ma come retaggio di lunghi processi filogenetici, processi di adattamento e sfida all’ambiente» (p. 81) in cui è possibile – inevitabile – accogliere alterità.

In ambito cinematografico David Cronenberg è sicuramente l’autore che meglio di ogni altro ha saputo «condensare uno dei passaggi mediologici cruciali del secolo scorso: cioè il ruolo profondo dei media elettronici e in particolare della televisione» (p. 82). In Videodrome (1983) il regista «ci ha messo di fronte alle caratteristiche decisive della televisione: al suo essere ambientale (e non riducibile a un mero strumento) e al suo essere tattile (e non legato unicamente al regime visivo)» (pp. 82-83).

Cronenberg […] ha saputo cogliere e rendere percepibile il medium televisione: Videodrome ci ha offerto scene di pulsazioni degli aggeggi televisivi, di piccoli schermi che risucchiano corpi, di corpi che ospitano e liberano aggeggi, di desideri che si incontrano sulle superfici dei tubi catodici, di ibridazioni tra umano e tecnologico, di immersioni profonde in ambienti televisivi, di emergenza di una nuova forma di vita. Inoltre, Videodrome rappresenta il consolidarsi del nuovo regime mediale come conflitto tra progetti alternativi, tra istanze divergenti […] Un conflitto che […] ridisegna l’essere umano, la sua carne, sino a far emergere un ibrido tra corpo e comunicazione, tra psiche e segnali dell’etere, tra sistema nervoso e immaginario, tra “realtà” e allucinazioni (p. 84).

La fusione tra essere umano e ambiente si completa nelle scene finali quando il protagonista, desiderando andare oltre i suoi confini, oltre la sua umanità, inneggia alla “nuova carne” mentre lo schermo televisivo di fronte a lui esplode eruttando interiora e sangue. «Così la fusione tra uomo e ambiente televisivo è completa e profonda. Ed è avvenuta spingendo oltre l’uomo e oltre il suo rassicurante ambiente abituale, verso una superficie scontornata che amalgama pelle e transistor, carni e metalli, desideri e immaginari senza soluzioni di continuità» (p. 85). Tematiche simili si rintracciano anche in eXistenZ (1999) dello stesso Cronemberg, con il mondo dei videogiochi digitali e reticolari al posto della televisione tradizionale.

Tursi evidenzia che se in molte produzioni cinematografiche recenti Cronemberg sembra aver accantonato l’ossessione per le tecnologie, soprattutto comunicative, e la loro ibridazione con il corpo umano, è pur vero che questa riflessione la si ritrova, in qualche modo, e in maniera del tutto particolare, nel suo romanzo Consumed (Divorati, 2014). Curiosamente in questo caso Cronemberg ricorre a un medium come il libro stampato, in cui la fotografia ha un ruolo centrale nella narrazione.

Divorati si apre con uno schermo di un computer portatile, quello attraverso il quale Naomi esplora l’abitazione dei coniugi Aristide Arosteguy e Célestine Moreau (“Naomi era nello schermo” sono le prime parole del romanzo). Durante tutto il romanzo, le nostre tecnologie e piattaforme di comunicazione sono costantemente richiamate: dall’iPhone all’iPad, dal MacBook Air alle schedine di memoria SD, da Adobe Lightroom a Photoshop, da YouTube a Skype, da Facebook a Google. Esse rappresentano lo sfondo della vita quotidiana di Naomi e Nathan esattamente come rappresentano lo sfondo della vita quotidiana di ciascuno di noi. E naturalmente come l’acqua per i pesci, queste tecnologie rischiano di essere sempre più inavvertite nel momento stesso in cui si normalizzano e ci circondano nelle routine quotidiane (p. 87).

Pur evitando di mostrare tecnologie e scenari futuristici, Cronemberg evidenzia la

quotidianizzazione dei media digitali. Comprendere il loro carattere ambientale, da un lato, diventa più difficile perché ormai ne siamo costantemente immersi ma, dall’altro, è una possibilità offerta a ciascuno e non più solo un’esperienza eccezionale, quale era quella a cui aveva avuto accesso – nel caso di Videodrome – il produttore televisivo Max Renn. Una possibilità che diviene più che mai necessario cogliere per muoversi agilmente nel nuovo scenario mediale, individuarne gli elementi conflittuali e non lasciarsi risucchiare in una narcosi da Narcisi postmoderni, non lasciarsi sommergere dalla “inesorabile, rovente colata lavica della tecnologia” (pp. 87-88).

Le macchinette fotografiche che letteralmente infestano le vite dei protagonisti del romanzo si riveleranno incapaci di garantire autenticità alle immagini. Su «quelle foto, sulla loro capacità di catturare o ancor di più costruire e veicolare la nuova carne, si è giocata una partita globale tra poteri» (pp. 89-90). Cronemberg mette in scena scontri globali sulle tecnologie che «nel dispiegare la nuova carne del mondo, configurano uno scontro profondo sul modo stesso in cui ci comprendiamo, comprendiamo i nostri corpi, configuriamo le nostre identità ibride. Attraverso le tecnologie, si ridisegna il rapporto tra carne e corpo» (p. 91).

Attraverso il romanzo Cronenberg sembrerebbe pertanto riprendere la sua indagine sull’estetica contemporanea intesa come «cartina di tornasole delle dinamiche politiche attuali». Un’estetica fondata sull’ibridazione tra tecnologie e corpi che accoglie concetti di bellezza in passato non ritenuti tali.

La malattia che eccita, la seduzione del decadimento, il profumo della morte, le disfunzioni corporee (come quella di Peyronie), la disabilità umana, i nuovi corpi che emergono dall’amputazione di membra (apotemnofilia): modalità di una bellezza che si contrappone a quella classica basata sulla conformità, sull’armonia, sull’organicità. Una bellezza capace di competere con quella naturale o addirittura di superarla per capacità di seduzione, una bellezza all’altezza delle nuove condizioni industriali-tecnologiche dell’uomo. Un riallineamento dell’estetica che fa perno sulla diversità stessa, diventata “afrodisiaca e stuzzicante”. E intorno a questa bellezza che si costruiscono nuove identità, che si giocano perciò gli scontri di potere. In un mondo in cui il “vero oggetto dell’innata brama di bellezza erano adesso le merci, i prodotti industriali”, in un mondo in cui il corpo stesso è ridotto a merce, è omologato, è triturato dall’“insaziabile ethos consumista occidentale che tutto divora”, ovvero è costruito come prodotto dalle tecnologie, in questo mondo non ci resta che diventare consumatori di noi stessi, appropriarci di noi stessi in modo estremo, essere divoratori della carne ormai sconfinata oltre i confini della nostra pelle. […] Abitare un corpo ibrido, aperto, contaminato. Che non può più rappresentare il confortevole porto di partenza dal quale sicuri guardare il mondo ma l’approdo instabile del nostro cammino nel mondo (p. 95).

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