Ilaria Turba – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 04 Dec 2025 21:00:06 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Fotografia e psichiatria https://www.carmillaonline.com/2025/12/04/fotografia-e-psichiatria/ Thu, 04 Dec 2025 21:00:06 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91365 di Gioacchino Toni

Francesca Orsi, La nuova alleanza tra fotografia e psichiatria. Da Basaglia a oggi, Interviste a Luciano D’Alessandro, Carla Cerati, Gianni Berengo Gardin, Claudio Ernè, Paola Mattioli, Emilio Tremolada, Uliano Lucas, Dario Coletti, Ilaria Turba, Joan Fontcuberta, Javier Viver, Christian Fogarolli, Prefazione di Vanessa Roghi, Mimesis, Milano-Udine 2025, pp. 234, € 25,00

In chiusura degli anni Sessanta del secolo scorso vengono pubblicati due volumi destinati a rivelare, attraverso immagini fotografiche, l’universo rinchiuso entro le mura dei manicomi, prima che questi fossero smantellati dalla caparbia lotta di Franco Basaglia e da un turbolento contesto italiano che seppe infrangere la cappa conservatrice [...]]]> di Gioacchino Toni

Francesca Orsi, La nuova alleanza tra fotografia e psichiatria. Da Basaglia a oggi, Interviste a Luciano D’Alessandro, Carla Cerati, Gianni Berengo Gardin, Claudio Ernè, Paola Mattioli, Emilio Tremolada, Uliano Lucas, Dario Coletti, Ilaria Turba, Joan Fontcuberta, Javier Viver, Christian Fogarolli, Prefazione di Vanessa Roghi, Mimesis, Milano-Udine 2025, pp. 234, € 25,00

In chiusura degli anni Sessanta del secolo scorso vengono pubblicati due volumi destinati a rivelare, attraverso immagini fotografiche, l’universo rinchiuso entro le mura dei manicomi, prima che questi fossero smantellati dalla caparbia lotta di Franco Basaglia e da un turbolento contesto italiano che seppe infrangere la cappa conservatrice che gravava sul Paese sorprendentemente disponible a sperimentare cambiamenti radicali.

Si tratta del volume curato da Franco Basaglia e Franca Ongaro, Morire di classe. La condizione manicomiale fotografata da Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin (Einaudi, 1969) e del libro di Luciano D’Alessandro, Gli esclusi. Fotoreportage da un’istituzione totale (Il Diaframma, 1969). Individuando in queste due pubblicazioni le fondamenta di una nuova iconografia della malattia mentale Francesca Orsi indaga il rapporto tra fotografia e psichiatria che si è sviluppato tra la fine degli anni Sessanta e oggi.

In linea con l’idea benjaminiana che individua nel frammento, nel suo interrompe la narrazione lineare della storia, un potenziale critico utile a svelare le contraddizioni della modernità aprendola a nuove e inedite prospettive, con La nuova alleanza tra fotografia e psichiatria Orsi ha inteso modellare «un nuovo atlante visivo della “follia” per accostamenti di tasselli che messi insieme creano significati inediti, tesi a definire un percorso alternativo verso un’iconografia destigmatizzante della malattia mentale e, contemporaneamente, a creare un senso collettivo di giustizia, di espressività artistica, di storia e di pensiero critico» (p. 228).

L’autrice sottolinea come le fotografie di Morire di classe abbiano avuto un ruolo importate non soltanto nel far conoscere le condizioni dei pazienti rinchiusi nei manicomi, ma anche nel rompere il sodalizio di estrazione positivista tra fotografia e psichiatria. Gli scatti di Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin hanno istituito «un nuovo alfabeto visivo della salute mentale, che affonda le sue radici nelle finalità politiche di Morire di classe, nella sua intrinseca urgenza civile e sociale» (p. 15), un alfabeto che si è evoluto nel corso del tempo rapportandosi con i cambiamenti occorsi non solo in ambito psichiatrico, sociale e politico, ma anche a livello di comunicazione visiva. Nel ricostruire quelle nuove visioni su malattia mentale, devianza e alterità, Orsi si è avvalsa delle testimonianze dirette di chi le ha prodotte. Nel volume si trovano interviste raccolte tra il 2008 e i giorni nostri a: Luciano D’Alessandro, Carla Cerati, Gianni Berengo Gardin, Claudio Ernè, Paola Mattioli, Emilio Tremolada, Uliano Lucas, Dario Coletti, Ilaria Turba, Joan Fontcuberta, Javier Viver e Christian Fogarolli.

Se tanto gli scatti di D’Alessandro, realizzati presso l’ospedale psichiatrico Materdomini di Nocera Superiore, ove operava il dottor Sergio Piro, pubblicati nel volume Gli esclusi, quanto quelli di Cerati e Berengo, effettuati nei manicomi di Colorno, Gorizia e Firenze, diffusi da Morire di classe, hanno messo la società italiana di fronte a una realtà sino ad allora sconosciuta attraverso la crudezza delle immagini, sono state soprattutto le fotografie di questi ultimi a sconvolgere l’opinione pubblica e ciò, probabilmente, è dovuto al fatto che queste hanno saputo trasmettere l’urgenza da cui erano mossi i fotografi di mostrare, denunciare e rivelare la violenza dell’istituzione psichiatrica in linea con la battaglia basagliana. È probabilmente la mancanza di questo senso di urgenza ad aver reso all’epoca meno dirompenti gli scatti di D’Alessandro, mossi invece da premesse di ordine estetico-autoriale e intenzionati a riflettere la solitudine dell’essere umano. Mentre le fotografie di Cerati e Berengo agiscono da «urlo», quelle di D’Alessandro, mosse più da uno sguardo autoriale che non reportagistico, sono riconducibili «al silenzio esistenziale», al «mondo interiore». Gli esclusi, afferma lo stesso D’Alessandro, ha preso il via come una riflessione sull’esistenza umana, da cui, soltanto dopo, è derivata la denuncia sociale.

Mentre Morire di classe fu voluto da Franco Basaglia e Franca Ongaro come un atto d’accusa all’istituzione psichiatrica, usando il libro come ponte verso l’esterno, verso la società, verso la politica e verso l’opinione pubblica, Gli esclusi fu voluto da Sergio Piro partendo dalla stessa tensione nei confronti della psichiatria, ma procedendo a una sua “demolizione” dall’interno, usando la propria esperienza e la propria visione come primo tassello da abbattere (p. 31).

Se Gli esclusi si è presentato come un libro fotografico elegante, Morire di classe, ricorda Berengo, si è proposto esplicitamente come «un manifesto politico di protesta, fatto con urgenza e con delle modalità che permettessero un costo molto basso, per arrivare a un pubblico più ampio» (p. 57). L’incidenza esercitata sulla società italiana dalle fotografie di Morire di classe non può che essere messa in relazione con l’importanza che, come ricorda la stessa Cerati, aveva la fotografia negli anni Sessanta nell’ambito della denuncia sociale, della divulgazione e della comunicazione. Due libri mossi da progettualità differenti ma altrettanto importanti nel rinnovamento della fotografia psichiatrica: Morire di classe per l’adozione di una strategia comunicativa efficace nel fare irrompere nella società italiana il tema della malattia mentale, Gli esclusi per la sua capacità di aprire una riflessione sull’istituzionalizzazione psichiatrica, sul ruolo del fotografo e sulla natura dell’immagine che intende raccontarla.

Se gli scatti di Morire di classe e de Gli esclusi hanno inteso denunciare l’istituzione psichiatrica, più che raccontare il cambiamento al suo interno, le fotografie realizzate negli anni Settanta presso l’ospedale psichiatrico triestino allora diretto da Basaglia di autori come Claudio Ernè, Paola Mattioli, Gian Butturini, Emilio Tremolada, Neva Gasparo e Mark Smith rappresentano un nuovo modo di guardare ai pazienti, ora considerati indissociabili dalla loro storia e dalla loro identità, in linea con il passaggio nella psichiatria basagliana dall’utopia goriziana degli anni Sessanta alle pratiche sperimentate nel decennio successivo.

Se in precedenza, dalla fine dell’Ottocento, la fotografia aveva assunto, rispetto all’istituzione psichiatrica, un ruolo di “strumento scientifico” per definire la malattia mentale e alla fine degli anni Sessanta era stata l’arma di denuncia della condizione manicomiale, negli anni Settanta i fotografi arrivati, per motivi diversi, a Trieste si resero parte loro stessi dell’ingranaggio del cambiamento in atto e testimoniandolo lo vivevano in prima persona (p. 71).

Le fotografie degli anni Settanta, insomma, tendevano a restituire ciò che gli stessi fotografi stavano vivendo nel loro rapportarsi con chi era affetto da malattia mentale.

Per i fotografi giunti nella città friulana, la realtà manicomiale, oltre a essere diventata una storia personale, data la prossimità fisica e umana, era anche una questione politica, un battersi per degli ideali in cui si credeva, un momento condiviso di forte critica al sistema. Il fotografo, nel suo essere coinvolto, perdeva la sua tecnicità e si mescolava agli altri volti e alle altre miriadi di storie che punteggiavano il parco del San Giovanni (p. 73).

Ernè ricorda come per i fotografi che, come lui, si confrontarono con la struttura triestina negli anni Settanta, lo scopo non fosse quello di denunciare, bensì quello di «fotografare una rinascita» di cui si sentivano parte. La stessa Mattioli conferma il clima di partecipazione e condivisione umana in cui si trovano immersi quanti e quante si erano presentati con la macchina fotografica nella struttura triestina.

Orsi si concentra poi su tre fotografi – Emilio Tremolada, Uliano Lucas e Dario Coletti – che «hanno espresso un ruolo di raccordo storico ma anche narrativo e meta fotografico. Il loro lavoro ha avuto il merito di documentare l’evoluzione di un movimento nel suo fluire temporale, ma anche di mostrare come tale evoluzione politica e ideologica fosse accompagnata da quella del linguaggio fotografico e del loro personale sentire estetico e compositivo» (p. 103). Tre autori che, per quanto differenti per stile e concezione della fotografia, sono riusciti «a raccontare tre momenti in cui la fotografia, procedendo nel suo percorso storico e formale, si è messa in dialogo con il suo passato per mostrare un concetto di cambiamento che riguardava la sua natura, il panorama psichiatrico e la società stessa» (p. 104).

Tremolada ribalta l’intento classificatorio e regolatore della fotografia positivista sui corpi dei pazienti proponendosi di guardare alla «personalizzazione degli oggetti che tornano ad assumere la loro funzione identitaria, che tornano a raccontare la specificità delle storie di vita, simboli di un cambiamento che ha fatto sì che il corpo del paziente non fosse più un “suppellettile assimilabile agli arredi del manicomio”» (p. 108). Oltre al soggetto delle immagini, il fotografo cambia la tecnica narrativa basandola su «inquadrature che stringevano, isolavano, facevano diventare gli oggetti dei concetti, delle astrazioni, degli spazi di riflessione» (p. 111).

Lucas affronta, invece, la malattia mentale allontanandosi dalla sua abituale narrazione reportagistica militante, proponendosi una una nuova iconografia attenta a non stigmatizzante la malattia mentale. Nel corso degli anni Ottanta e Novanta, egli si è focalizzato sull’essere umano, sulla sua riconquistata fisicità, sulle sue piccole storie vissute al di fuori delle mura delle strutture psichiatriche, sulle esperienze di integrazione sociale sperimentate dai nuovi indirizzi psichiatrici. «Se la fotografia psichiatrica di fine XIX secolo era servita a classificare la malattia mentale e a renderla visibile, quello che produsse Uliano Lucas fu un atlante di immagini teso a raccontare le sfaccettature dell’umano, senza che la fotografia fosse usata al servizio, ma a favore di qualcosa, di un pensiero che non stigmatizzasse più i “volti della follia”» (p. 114).

Mentre la fotografia di Cerati, Berengo e D’Alessandro raccontava la reclusione e la disperazione dell’essere umano, gli scatti di Lucas, per sua stessa ammissione, «rappresentano l’inizio della lotta, seguono l’impegno civile nel suo evolversi, rispecchiano la trasformazione del panorama psichiatrico dopo la riforma» (p. 137). Se con la fotografia, fino agli anni Settanta, ci si proponeva di suscitare un sentimento di pietà, successivamente, sostiene Lucas, si è voluto raccontare la riconquista della libertà dei soggetti, la loro vita, i loro affetti e la loro consapevolezza. «Le fotografie in ambito psichiatrico, con il tempo, hanno iniziato a raccontare il fluire di quella che una volta veniva definita “follia” nella normalità, la complessità della condizione umana» (p. 137). A partire dalla seconda metà degli anni Settanta, sostiene Lucas, la fotografia rivolta ai malati di mente ha smesso di documentare preferendo comunicare; se prima «il focus era il malato e la sua condizione, dopo, è diventato il suo confondersi nella società, di cui diventò parte» (p. 137).

Dalla sua esperienza partecipativa all’interno di una struttura mentale romana, Coletti ha voluto estrarre un racconto delle nuove forme di assistenza psichiatrica territoriale guardando ai volti e ai corpi degli assistiti in maniera autoriale, riprendendo, per certi versi, l’immaginario artistico adottato da D’Alessandro negli anni Sessanta.

Se D’Alessandro aveva intessuto il suo lavoro della semanticità del corpo, delle mani soprattutto, e i fotografi degli anni Settanta avevano raccontato, invece, la sua dinamicità figurativa, Coletti, con il suo lavoro, si pone, precisamente, al centro; raccordo tra iconografie passate ed espressione, però, di qualcosa che prima non era mai stato visto insieme e per questo nuovo (p. 117).

L’ultima parte del volume si concentra su alcuni casi recenti in cui l’arte e la fotografia si occupano di disagio mentale guardando in particolare a Ilaria Turba, Joan Fontcuberta, Javier Viver e Christian Fogarolli, in un contesto mutato, contraddistinto da una sovrastimolazione visiva che ha profondamene modificato l’immaginario visivo e le modalità di comunicazione.

La pratica artistica di Turba, che Orsi annovera tra gli artisti contemporanei che stanno dando vita a un nuovo alfabeto visivo della malattia mentale, si manifesta spesso come un processo collettivo di cui la fotografia offre testimonianza. «In un certo modo, le sue immagini sono documento di un qualcosa che si plasma per creare una connessione identitaria» (p. 166). Si tratta di un metodo generativo incentrato sulla condivisione; come per altri fotografi, anche per Turba il tempo trascorso nella comunità o con l’individuo di cui intende raccontare rappresenta un elemento imprescindibile nella produzioni di immagini.

A partire dalla sua riflessione sullo stato della fotografia contemporanea, nel rapportarsi all’iconografia della malattia mentale, Fontcuberta giunge a elaborare un metodo di “creazione visiva” in cui vecchie e nuove fotografie vengono elaborate digitalmente, ricorrendo anche all’intelligenza artificiale, dando luogo a particolari contaminazioni postfotografiche. Risulta interessante, scrive Orsi, notare come l’artista catalano, «attento più al processo rispetto al risultato e alla specificità del tema, riesca a sollevare in maniera critica il concetto di “anormalità”, applicato sia alle nuove espressività contemporanee sia, parallelamente, ai vecchi dogmi psichiatrici, creando una continuità tra la dimensione artificiale e quella umana» (p. 175).

Nell’affrontare la malattia mentale, Viver lavora spesso sul patrimonio visivo ottocentesco rimodellandone esclusivamente la narrazione, la sequenza, l’interazione tra le immagini dando luogo a una struttura aperta in cui le fotografie cessano di presentarsi come semplice simulacro dell’istituzione psichiatrica prestandosi a un’indagine attenta della condizione umana.

Infine, Fogarolli, «per riflettere sull’immaginario non solo della malattia mentale, ma, più diffusamente, della devianza e dell’alterità, utilizza l’arte nella sua accezione più vasta, non riconducendola esclusivamente alla natura dell’immagine, ma estendendola alle sue materializzazioni installative, scultoree e performative» (p. 180).

Orsi domanda ai fotografi interpellati come pensano sia cambiato nel corso del tempo il rapporto tra fotografia e disagio mentale. Rispetto alla fotografia degli anni Sessanta, da cui tutto è partito, quella attuale, sostiene Berengo, mostra maggiore aggressività, «una tendenza a drammatizzare, a confezionare un’immagine da “pugno nello stomaco”» (p. 60), sia nel momento dello scatto che in quello della stampa, le immagini sembrano volere a tutti i costi generare angoscia. D’Alessandro sottolinea come mentre la sua generazione era stata espressione di un’identità collettiva desiderosa di partecipare alla ricostruzione fisica, sociale e culturale del Paese uscito da poco dalla guerra, la generazione attuale di fotografi sembra mancare di un’identità collettiva, di un orizzonte comune. «Il mio, quello di Berengo e Cerati, era un progetto d’intervento, un contributo alla consapevolezza sociale e civile. Con i fotografi che raccontarono quello che successe dopo è come se avessimo fatto un unico lavoro a più mani, ognuno ha fatto un pezzo» (p. 40).

Come D’Alessandro, anche Lucas, pur facendo riferimento nel suo caso alla generazione di fotografi che si è occupata dei malati di mente negli anni Settanta, mette in luce l’aspetto collettivo e partecipativo che animava la loro pratica. «Molti artisti ai giorni nostri trattano il tema della salute mentale, da un punto di vista scientifico, storico, anche concettuale, ma il loro sguardo è uno sguardo spesso intellettualistico, che non rispecchia un sentire politico e sociale comune, come invece successe per la nostra generazione» (p. 141). Dalla metà degli anni Settanta, secondo Coletti, nel rapportarsi con la malattia mentale, la fotografia ha spostato il suo focus «verso una resa dinamica della realtà, che andava a simboleggiare il processo di riacquisizione identitaria dei pazienti. I loro corpi non erano più colti nella loro immobilità, suscitando un sentimento di pietà nello sguardo di chi vedeva le immagini» (p. 153). Difficile dire, sostiene il fotografo, «se questo cambio di registro dipenda dall’evoluzione del linguaggio in sé o dal percorso intrapreso dalla “nuova psichiatria”» (p. 153). Venendo poi alla stretta attualità, a parere di Coletti, la fotografia sembra avere ormai perso il suo valore di denuncia e dovendo immaginare un lavoro fotografico su tali tematiche sarebbe meglio concentrarsi sulle storie intime dei pazienti seguendo da vicino il loro percorso quotidiano.

Terminata l’epopea in cui si pensava e si agiva credendo nella possibilità di grandi e radicali trasformazioni, gli artisti e i fotografi contemporanei, sostiene Turba, si trovano a pensare e agire in “scala ridotta” rispetto alla prospettiva basagliana, concentrandosi su comunità e contesti specifici. Circa gli indirizzi assunti negli ultimi tempi dall’iconografia mentale nelle arti visuali e nella fotografia, che ha condotto diversi autori a lavorare sugli archivi fotografici, Viver ritiene che, in generale, questi sembrano caratterizzati da una propensione a sperimentare liberamente percorsi di ricerca della realtà più profonda in reazione ad un periodo eccessivamente caratterizzato da un approccio razionalista, empirico e materialista.

Una volta abbandonato il manicomio concentrazionario, la psichiatria istituzionale ha introdotto nuovi metodi di gestione dei devianti basati sulle etichette diagnostiche e sulla prescrizione di psicofarmaci, trasferendo così il manicomio dalle mura direttamente alla testa degli individui. Viene così introdotto un nuovo tipo di manicomio basato sulla diagnostica, sulla catalogazione e sull’etichettatura identitaria applicata ad ampio raggio a chiunque risulti affetto da un disturbo o da una malattia mentale. A partire dalla ricostruzione dell’iconografia della malattia mentale proposta da Francesca Orsi, vale ora la pena di domandarsi quali strade prenderà in futuro il rapporto tra fotografia e psichiatria alla luce delle profonde trasformazioni che hanno toccato entrambe.


Sul rapporto fotografia/psichiatria:

Senza distogliere lo sguardo: Carla Cerati, La classe è morta. Storia di un’evidenza negata, Prefazione di John Foot. A cura di Pietro Barbetta. Postfazione di Silvia Mazzucchelli (Mimesis 2023).

Manicomi. Immagini di violenza istituzionalizzata: Gianni Berengo Gardin, Manicomi. Psichiatria e antipsichiatria nelle immagini degli anni settanta (Contrasto 2015)

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