Il Secolo d’Italia – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il Generale, il Prefetto, il Serpente e la pulizia etnica della Jugoslavia https://www.carmillaonline.com/2017/11/13/generale-prefetto-serpente-la-pulizia-etnica-della-jugoslavia/ Mon, 13 Nov 2017 22:01:44 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=41469 di Fiorenzo Angoscini

Giacomo Scotti, I massacri di luglio. La storia censurata dei crimini fascisti in Jugoslavia. Introduzione di Giuseppe Ranieri, Red Star Press, Roma, giugno 2017, pag. 256, € 18,00

L’invasione militare e l’occupazione amministrativo-politica di alcuni territori della Jugoslavia del nord, da parte dell’Italia monarco-fascista, con velleità imperialiste e mire espansionistiche, tramite la cosiddetta ‘guerra d’aprile’ dell’anno 1941, ha provocato numerose vittime, distruzione di villaggi e città, decimazioni di nuclei famigliari, sofferenze, povertà e miseria per le popolazioni slave (s’ciavi, schiavi) che da sempre abitavano quelle terre. Accompagnate da manovre di snazionalizzazione, prevaricazioni, tentativi di cancellazione dell’identità culturale [...]]]> di Fiorenzo Angoscini

Giacomo Scotti, I massacri di luglio. La storia censurata dei crimini fascisti in Jugoslavia. Introduzione di Giuseppe Ranieri, Red Star Press, Roma, giugno 2017, pag. 256, € 18,00

L’invasione militare e l’occupazione amministrativo-politica di alcuni territori della Jugoslavia del nord, da parte dell’Italia monarco-fascista, con velleità imperialiste e mire espansionistiche, tramite la cosiddetta ‘guerra d’aprile’ dell’anno 1941, ha provocato numerose vittime, distruzione di villaggi e città, decimazioni di nuclei famigliari, sofferenze, povertà e miseria per le popolazioni slave (s’ciavi, schiavi) che da sempre abitavano quelle terre. Accompagnate da manovre di snazionalizzazione, prevaricazioni, tentativi di cancellazione dell’identità culturale e linguistica. Un vero e proprio piano di sostituzione etnica.

Già dai tempi dell’occupazione, attraversando il dopo guerra post resistenziale, gli anni cinquanta: quelli delle parole d’ordine nazional-fasciste-scioviniste di ‘Trento, Trieste, Istria italiane’,1 mescolando un irredentismo casereccio a rivendicazioni annessionistiche, nonché la ‘proprietà’ geografia della mitteleuropea città alabardata, l’onda lunga della menzogna è giunta sino ai giorni nostri con l’istituzione (2004), per decreto, del 10 febbraio come ‘Giorno del ricordo’ dedicato alla “memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre di istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale”.

In quella data, ogni anno, vengono consegnate ‘medagliette’ dorate (non sono d’oro, bensì in acciaio brunito e smaltato e recano la scritta “la Repubblica Italiana ricorda”) ai parenti degli ‘infoibati’ ma, tra i riconosciuti come vittime delle doline carsiche, ci sono anche caduti in combattimento (quindi non ‘infoibati’), ex-repubblichini2 e criminali di guerra3 . Un vero e proprio medaglificio fascista.4

Si parla, spesso gonfiandoli e falsificandoli, degli effetti, dimenticando e rimuovendo completamente quali sono state le cause: un’occupazione violenta e sanguinaria, crimini e misfatti, odiose forme di razzismo e repressione. Mescolando foibe e ‘profughi’ (come venivano chiamati dagli ‘italiani’ residenti i rientrati in Italia dalle zone jugoslave), bugie storiche e primati di insediamenti e radici mai avuti. Ribaltando la realtà dei fatti, applicando quello che molti storici definiscono ‘rovescismo’. Cercando di accreditare, cioè, l’esatto contrario di ciò che è avvenuto.

Per comprendere come le mire di annessione, l’odio ‘anti-slavo’ e le violenze fasciste abbiano radici lontane ma costanti, ricordiamo due avvenimenti tragici e criminali, collegati tra loro, nonostante la distanza temporale, dallo stesso e solito ‘filo nero’ squadrista. Il primo è l’attacco al Narodni Dom (Casa del popolo o Casa nazionale) di Trieste, sede delle organizzazioni degli sloveni triestini, un edificio polifunzionale nel centro di Trieste, nel quale si trovavano anche un teatro, una cassa di risparmio, un caffè e un albergo (Hotel Balkan).5 Incendiato dai fascisti il 13 luglio 1920, nel corso di quello che, persino Renzo De Felice definisce “il vero battesimo dello squadrismo organizzato”. L’altro, relativamente recente, significativamente avvenuto il 4 ottobre 1969 (due mesi prima della strage di Piazza Fontana alla Banca Nazionale dell’Agricoltura a Milano e riconducibile agli stessi ambienti responsabili, con identiche modalità, della strage) è il fallito attentato (per cause meteorologiche, non per volontà dei potenziali assassini) compiuto presso la Scuola elementare di lingua slovena a Trieste.

Quel lunedì mattina, il custode, trova sul davanzale di una finestra una cassetta portamunizioni militare con scritte in inglese avvolta da filo zincato. Quando i Carabinieri intervenuti sollevano il coperchio, trovano sei candelotti (kg 5,7 di esplosivo) di gelignite spezzati a metà, avvolti in carta paraffinata rossa, e un congegno ad orologeria formato da una pila, due detonatori e un orologio da polso con una vite inserita nel quadrante e collegata ai fili elettrici a loro volta collegati ai detonatori. Ai piedi dell’edificio vengono inoltre rinvenuti otto foglietti di carta con scritte in stampatello di carattere xenofobo quali “No al viaggio di Saragat in Jugoslavia”, “No alle foibe”, firmati FRONTE ANTI SLAVO.

Contro queste tendenze e demagogiche, deboli culturalmente ma forti mediaticamente, scuole di pensiero, in una difficile, logorante e solitaria, ‘battaglia per la verità’ si sono da molto tempo distinti alcuni storici, ricercatori, scrittori, giornalisti e militanti politici, in una sorta di ‘Resistenza storica’ per l’affermazione della realtà. Tra questi Giacomo Scotti, napoletano di origini e italiano di nascita che ha deciso di trasferirsi a vivere, in una sorta di controesodo, in Jugoslavia già nel 1947, autore di numerose inchieste e pubblicazioni,6 Claudia Cernigoi,7 Alessandra Kersevan,8 Alessandro Sandi Volk9 e, recentemente, affiancati anche dal collettivo di ricerca storica, filiazione della Fondazione Wu Ming, denominato ‘Nicoletta Bourbaky’10 che ha smascherato la montatura storico-politica della cosiddetta ‘foiba volante’ (appariva qui e là) che già dall’attribuzione finale si può intuire che era una cosa inesistente, non c’era materialmente.

L’invenzione mediatica ha visto come attori protagonisti reazionari veri, ‘democratici’ camuffati (un senatore Pd) e militanti ‘piddini’ dialoganti con Casa Pound.11 Anche Claudia Cernigoi, su questa strana foiba (foibe?), ha offerto un interessante contributo.12 Una bella compagnia di giro-armata Brancaleone, puntualmente sbugiardata13 . Mentre Scotti, Cernigoi, Volk, Kersevan, ‘Nicoletta Bourbaky’ ed altri, spesso accusati di negazionismo, combattono culturalmente il revisionismo storico vero, supporto e battistrada del revisionismo costituzionale.

Con questo nuovo contributo, Giacomo Scotti, utilizzando fonti articolate e diverse, dati e documenti alla mano, delinea le efferatezze, gli assassini e crudeltà perpretrate nel nord della Jugoslavia dagli occupanti italo-fascisti nella primavera-estate del 1942.
La ricostruzione storica parte dalla devastazione (12 luglio 1942) di un villaggio, Podhum, distante circa dieci chilometri da Fiume. Secondo il Prefetto Testa,14 ricordato dalla “popolazione come il boia del Fiumano e dei territori della Kupa”, il motivo-pretesto dell’eccidio è stato offerto, e compiuto, per vendicare “16 soldati uccisi dai ribelli”, mentre il ‘Federale’ fascista di Fiume, Genunzio Servitori, fa risalire le ragioni della rappresaglia alla morte di due maestri elementari, i coniugi Giovanni e Francesca Renzi, emissari del “regime fascista nelle terre occupate e annesse per italianizzare i ‘barbari slavi’”. Ma Scotti puntualizza: “Il ‘caso’ di Podhum si inserisce, in verità, in un disegno generale di sterminio delle popolazioni slave sui Territori annessi della Slovenia e della Croazia nel quadro, cioè, di un’operazione preparata accuratamente.
Il risultato sarà la totale o parziale distruzione col fuoco di circa cinquanta villaggi…con fucilazioni di centinaia di ostaggi e la deportazione di alcune migliaia di persone”.

Descrive come la popolazione veniva vessata e perseguitata perché aveva parenti che erano ‘andati nel bosco’ , cioè con i Partigiani, oppure di arrestati che venivano condannati a morte da un tribunale di guerra ma solo dopo essere già stati fucilati mentre i lori cadaveri marcivano in una fossa sconosciuta.
Puntualizza come la famigerata circolare 3-C emanata, il 1° marzo 1942, dal comandante della II Armata operante in quei territori, Mario Roatta,15 fosse “un documento-programma (riassunto in un opuscolo di circa 200 pagine e distribuito a tutti gli ufficiali dell’esercito) grazie al quale nel solo mese di luglio 1942 furono deportati 10mila civili dai territori coinvolti in una cosiddetta ‘Operazione Primavera’” . Il cui obiettivo era “lo spopolamento tramite la deportazione dei civili e il massacro dei ‘ribelli’…contenente tra l’altro la formula ‘non dente per dente ma testa per dente’…che rappresentò una normativa repressiva di tipo coloniale nei confronti delle popolazioni dei Territori annessi destinati alla bonifica etnica…facendo terra bruciata, in vista di una imminente colonizzazione italiana”.

Prima delle distruzione di luglio, anche la primavera era stata insanguinata, con decine di villaggi rasi al suolo, comunità distrutte e disperse, giovani e giovanissimi ammazzati perché appartenenti ad una ‘razza’ inferiore. Questa repressione, senza pietà, aveva come principale protagonista il Prefetto Temistocle Testa che, spesso, firmava di proprio pugno gli ordini che sancivano vere e proprie stragi di civili.

Scotti elenca, con precisione certosina, il numero e, a volte, anche i nomi dei fucilati, dei deportati, degli internati nei campi di concentramento, e spesso anche il nome dei fucilatori. Racconta delle lusinghe, dei premi, vere e proprie taglie poste sulla testa dei ‘ricercati’. Della costituzione di squadroni della morte (Milizia Volontaria Anticomunista) e per la caccia (Bela Garda, Camicie Bianche) alle ‘bande Comuniste’, ma che andavano sempre più ingrossandosi con l’aumentare della repressione.
L’autore documenta come non ci sia alcuna differenza tra fascisti della prima ora, neo-fascisti o post-fascisti: gli squadristi del manganello, della somministrazione dell’olio di ricino, degli agguati, dello sfoggio di camicie nere, e delle stragi (da Marzabotto a Piazza Fontana) sono sempre gli stessi, identici storicamente e ‘culturalmente’, siano essi ‘manovali’ oppure ‘intellettuali’.

Uno degli esempi è rappresentato dalla falsificazione relativa alla volontà, e ‘contentezza’, degli abitanti alcune frazioni di Castua, nell’essere internati nei ‘campi’ fascisti. In una comunicazione riservata (giugno 1942) al questore di Fiume, gli artefici della rappresaglia si esprimono così: “Gran parte della popolazione del Castuano che assisteva all’operazione stessa ha manifestato il desiderio di essere internata nel Regno […] Il numero degli internati è di N. 500”.
Sfrontataggine fascista. Contrabbandando per desiderio una deportazione che conduce gli abitanti a sopportare nuove sofferenze e perfino la morte nei ‘campi del Duce’. “Parecchi di loro infatti, finirono nel campo di sterminio di Kampor sull’isola di Arbe dove tra il giugno 1942 e l’inizio di settembre 1943, su 12mila deportati ne morirono di stenti, di fame e di malattia circa 3mila, per la gran parte bambini e vecchi”.

In loro soccorso, a distanza di quasi 70 anni, si prodiga un quotidiano ‘indipendente’, “Il Secolo d’Italia”, già organo ufficiale del ricostituito partito fascista Movimento Sociale Italiano.
Il 23 novembre 2011, a proposito di quel ‘campo di lavoro’, il giornale scrive: “Non era né un campo di concentramento, né un campo di sterminio, e le vittime furono ‘in maggioranza’ comunisti croati e sloveni”. Bolscevichi di pochi anni, oppure ultrasettantenni e donne di ogni età. Con buona pace di quegli ‘ambigui’ che parlano di pacificazione e di equiparare i Partigiani agli assassini (fascisti e Repubblichini).

Un altro esempio di manipolazione della verità e falsificazione degli avvenimenti, riguarda l’epilogo della meschina vita di Vincenzo Cuiuli,16 comandante del ‘campo della morte’17 di Kampor, sull’isola di Arbe, in Dalmazia settentrionale, allestito all’ inizio dell’estate del 1942, il cui padre fondatore (come si autodefinì) è stato il Prefetto Temistocle Testa.
“Il tenente colonello Cuiuli portava sempre con sé un frustino per incutere terrore ai deportati da lui disprezzati come fossero bestie”. Anche per questo motivo era stato soprannominato Zmija, ‘il Serpente’.

Già dal gennaio ’43, nel ‘campo’ si era costituita una cellula clandestina del Fronte di Liberazione e, in luglio, una virtuale Brigata Partigiana (Rabska Brigada) che “si assunse il compito di creare migliori condizioni di vita nel campo e preparare gli internati alla lotta armata”. L’ 8 settembre 1943 la ‘brigata di campo’ prese il controllo della struttura senza compiere alcuna violenza sugli ex ‘controllori’, che non opposero resistenza. Solo “il Cuiuli minacciò i ribelli di farli fucilare, ma venne prontamente immobilizzato dagli internati, senza che gli altri ufficiali e soldati reagissero. Il ‘Serpente’ poté tornare negli uffici del Comando dove trascorse la notte”.
Successivamente tutto il personale militare venne ‘liberato’, furono trattenuti in stato di arresto solo il comandante, carabiniere Cuiuli, e una spia di nome Mohar, successivamente processati e condannati a morte per crimini di guerra.

E qui inizia la girandola di menzogne e ricostruzioni non veritiere.
Amleto Ballarini e Mihael Sobolevski, nel volume “Le vittime di nazionalità italiana a Fiume e dintorni (1939-1942)” collocano la morte del ‘regio’ carabiniere, ad Arbe, il 13 settembre 1943 (oltre la data della loro ricostruzione) “ucciso durante la rivolta degli internati”.
Non è vero, documenta Scotti, che Cuiuli fu ucciso ad Arbe il 13 settembre.
“Le cose andarono diversamente”.
L’ex comandante viene trasferito sulla terraferma nella notte tra il16 e 17 settembre e rinchiuso, sotto sorveglianza, in una cella del carcere di Crikvenica. Il mattino dopo viene rinvenuto moribondo nella sua cella: si era suicidato tagliandosi il collo.18

Ma questa soluzione non può essere accettata da parte di chi vuole screditare comunisti, partiginai, slavi ed internati in campi fascisti. Così, in un libro19 pubblicato a Trieste, l’autore, Luigi Papo20 sostiene che Cuiuli è stato una vittima dei Partigiani di Tito: “Gli slavi lo hanno impiccato ad Arbe tra il 10 e il 12 settembre davanti al campo di internamento, in cui era rinchiuso, e lo hanno seppellito in mezzo alla strada assieme al suo cane”.

Ma Scotti, precisa e demistifica: “In tre righe una montagna di falsità”.
Riprendendo le testimonianze raccolte da Anton Vratusa “che smentiscono sia l’impiccagione, l’esistenza del cane dell’ ‘impiccato’ e tutto il resto”, così come confermato anche dallo storico Ivo Baric’ nella voluminosa storia della sua isola, “Rapska bastina” (Il patrimonio di Arbe).
“Il comandante del più malfamato lager per civili creato dalle truppe italiane nella seconda guerra mondiale-suicidatosi forse per rimorso-venne sepolto accanto alle sue vittime”.

L’italiano di Croazia per scelta, Giacomo Scotti, ribadisce: “Bisognerebbe farla finita con il silenzio sui crimini del fascismo italiano, soprattutto le stragi compiute non soltanto dai battaglioni speciali fascisti ma dalle truppe italiane che aggredirono e occuparono la Jugoslavia, annettendosi intere regioni della Slovenia, del retroterra della Provincia di Fiume, della Dalmazia e l’intero Montenegro”.

Rendendo omaggio a tutti i fucilati di quelle terre: oltre 400mila civili, di cui più di 100mila rinchiusi nei campi di concentramento di Molat, Arbe, Gonars e molti altri.
Ciò, in risposta ad un comunicato del 25 aprile 2017, a firma di Donatella Schurzel, vice presidente nazionale dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, contro le persecuzioni subite dagli ebrei per opera nazista e dalla “comunità giuliano-dalmata vittima di persecuzioni, deportazioni, stragi e violenze nel corso della seconda guerra mondiale a opera dei nazionalcomunisti di Tito”.
Oplà! Con una giravolta la realtà è capovolta.


  1. http://www.diecifebbraio.info/wp-content/uploads/2015/07/1953-GLI-SCONTRI-PER-TRIESTE-ITALIANA..pdf  

  2. http://www.corriere.it/cronache/15_marzo_19/foibe-criminali-guerra-fascisti-300-combattenti-rsi-medaglie-ricevute-il-giorno-ricordo-49b164a6-ce59-11e4-b573-56a67cdde4d3.shtml  

  3. http://www.diecifebbraio.info/2012/03/i-riconoscimenti-per-gli-infoibati-ai-criminali-di-guerra-italiani/  

  4. https://www.wumingfoundation.com/giap/2015/04/il-giornodelricordo-dieci-anni-di-medaglificio-fascista-un-bilancio-agghiacciante/  

  5. http://www.anpi.it/media/uploads/patria/2011/29-34_PAHOR.pdf  

  6. con Luciano Giuricin, Rossa una stella. Storia del battaglione italiano Pino Budicin e degli Italiani dell’Istria e di Fiume nell’esercito Popolare di Liberazione della Jugoslavia, Unione degli italiani dell’Istria e di Fiume, Rovigno, 1975; Ustascia tra il fascio e la svastica, storia e crimini del movimento ustascia, Incontri Editore, Udine, 1976; Bono Taliano. Gli italiani in Jugoslavia (1941-43), La Pietra, Milano, 1977, ristampato per Odradek Edizioni nel 2012; Juris, juris! All’attacco! La guerriglia partigiana ai confini orientali d’Italia 1943-1945, Mursia, Milano, 1984; con Luciano Viazzi, Le aquile delle Montagne nere: storia dell’occupazione e della guerra italiana in Montenegro (1941-1943), Mursia, Milano, 1987; Dossier foibe, Manni, San Cesario di Lecce, 2005; Il bosco dopo il mare. Partigiani italiani in Jugoslavia, 1943-1945, Infinito Edizioni, Formigine (Mo), 2009; ed altri lavori  

  7. direttrice di “La Nuova Alabarda e la coda del diavolo”, notiziario di informazione culturale, politica e sociale; autrice di interessanti ‘dossier’ monografici: tra cui “L’ombra di Gladio. Le foibe tra mito ed eversione”; “La ‘foiba’ di Basovizza”; “Il caso Norma Cossetto”; “Operazione Foibe: tra storia e mito, Kappa Vu edizioni, Udine, 2005”; La «banda Collotti». Storia di un corpo di repressione al confine orientale d’Italia, Kappa Vu, Udine, 2013  

  8. animatrice della casa editrice Kappa Vu ed autrice di: “Un campo di concentramento fascista. Gonars (1942-1943)”, Kappa Vu Edizioni, Udine, 2010; “Lager italiani. Pulizia etnica e campi di concentramento fascisti per civili jugoslavi 1941-1943”, Nutrimenti Editore, Roma, 2008  

  9. Esuli a Trieste. Bonifica nazionale e rafforzamento dell’italianità sul confine orientale, Kappa Vu Edizioni, Udine, 2010; Truffe, fuffe e fascisti… I “premiati” del Giorno del Ricordo. Un bilancio provvisorio, www.diecifebbraio.info, 17 gennaio 2017  

  10. Nome usato da un gruppo di inchiesta sul revisionismo storiografico e le false notizie storiche in rete, con particolare riferimento alle manipolazioni su Wikipedia, formatosi nel 2012 durante una discussione su Giap. Con questa scelta, il gruppo ha voluto rendere omaggio a Nicolas Bourbaki, collettivo di matematici attivo in Francia dal 1935 al 1983  

  11. http://www.casapoundlombardia.org/index.php/en/112-archivio-brescia/164-cpi-brescia-linea-rossa-su-sfondo-nero  

  12. http://www.diecifebbraio.info/wp-content/uploads/2016/05/intrigo-nazionale-a-roccabernarda-1-1.pdf e http://www.diecifebbraio.info/2016/03/udine-2332016-la-verita-documentale-sulla-foiba-mobile-di-rosazzo/  

  13. https://www.wumingfoundation.com/giap/2016/12/la-foiba-volante-non-esiste/  

  14. Temistocle Testa, criminale di guerra, Prefetto di Fiume e del Carnaro dal 1938 fino al gennaio 1943. “…tipico Prefetto fascista interprete della guerra di conquista contro la Jugoslavia(…)e della peggiore tradizione sciovinista e anti-slava del fascismo giuliano”, Marco Coslovich, storico triestino.  

  15. Mario Roatta, due volte capo di stato maggiore, generale dell’esercito (monarchico-fascista-repubblichino) regista dell’assassinio dei fratelli Rosselli, autore della famigerata circolare 3-C, che pianificava l’estirpazione degli ‘slavi’ dalle loro terre per insediare gli occupanti italo-fascisti.  

  16. Vincenzo Cuiuli, colonnello dei Carabinieri, kapò del campo di concentramento fascista di Kampor ad Arbe/Rab, soprannominato dalle popolazioni internate, per la sua ferocia, bestialità e viscidità, il Serpente.  

  17. E’ stato calcolato che la percentuale di morti di Kampor è stata proporzionalmente maggiore di quella di Buckenwald  

  18. Testimonianza di Dusan Prasnikar, raccolta da Anton Vratusa in “Dalle catene alla libertà. La «Rabska brigada», una brigata partigiana nata in un campo di concentramento fascista”, Kappa Vu Edizioni, Udine, 2011  

  19. Luigi Papo de Montona, Albo d’oro: la Venezia Giulia e la Dalmazia nell’ultimo conflitto mondiale, Unione degli Istriani, Trieste, 1989  

  20. Nell’ ottobre 1943, passato al servizio dei nazisti, fonda il Partito fascista repubblicano e prende il comando di un battaglione della Milizia Difesa Territoriale e della Guardia repubblicana fascista, nata sulle orme della LX Legione Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale di stanza a Pola e operante in Istria, con i tedeschi, fino alla fine di aprile del 1945  

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La strategia della tensione e i mezzi di informazione. “Guerra psicologica” e controinformazione https://www.carmillaonline.com/2016/08/24/la-strategia-della-tensione-mezzi-informazione-guerra-psicologica-controinformazione/ Wed, 24 Aug 2016 21:30:38 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=32570 di Alberto Molinari

eco_del_boato_coverMirco Dondi, L’eco del boato. Storia della strategia della tensione 1965-1974, Laterza, Roma-Bari, 2015, pp. 445, € 28,00.

Sei stragi che provocarono 50 morti e 346 feriti (dalle bombe di Piazza Fontana a Milano, 12 dicembre 1969, a quelle sul treno Italicus a San Benedetto Val di Sambro, 4 agosto 1974), diverse minacce o tentativi di colpo di Stato, uno stillicidio di attentati e atti di violenza segnarono quella trama eversiva definita per la prima volta dal quotidiano inglese “The Observer”, all’indomani di Piazza Fontana, come “strategia della tensione”: è [...]]]> di Alberto Molinari

eco_del_boato_coverMirco Dondi, L’eco del boato. Storia della strategia della tensione 1965-1974, Laterza, Roma-Bari, 2015, pp. 445, € 28,00.

Sei stragi che provocarono 50 morti e 346 feriti (dalle bombe di Piazza Fontana a Milano, 12 dicembre 1969, a quelle sul treno Italicus a San Benedetto Val di Sambro, 4 agosto 1974), diverse minacce o tentativi di colpo di Stato, uno stillicidio di attentati e atti di violenza segnarono quella trama eversiva definita per la prima volta dal quotidiano inglese “The Observer”, all’indomani di Piazza Fontana, come “strategia della tensione”: è questo l’oggetto della ricerca di Mirco Dondi, docente di Storia contemporanea e direttore del Master di comunicazione storica all’Università di Bologna. L’”eco del boato”, richiamato nel titolo, è «tutto ciò che lascia l’esplosione dopo il suo scoppio». «Un rilevante atto terroristico – scrive Dondi – proietta il suo peso sui principali eventi dell’agenda politica, caricandoli dei significati generati dall’atto criminale. L’attentato produce un effetto domino sulla scena pubblica che ne esce completamente reinterpretata» (p. 3). L’”eco del boato” è quindi il cuore della strategia della tensione che l’autore ricostruisce nei suoi risvolti teorici, nelle sue pratiche e nei suoi obiettivi lungo il decennio 1965-1974. Attraverso il ricorso ad un’ampia bibliografia e l’intreccio di numerose fonti – atti delle commissioni di inchiesta, documenti giudiziari, rapporti di polizia, stampa nazionale e internazionale, memorialistica e saggistica coeva – la ricerca analizza il comportamento dei diversi attori coinvolti nell’elaborazione e nella realizzazione delle strategia della tensione, dai soggetti politici e istituzionali, agli apparati militari e alle organizzazioni neofasciste. Attori che si mossero con disegni a volte diversi, ma con una comune volontà di condizionare o modificare radicalmente lo scenario politico, minando in senso antidemocratico l’assetto politico repubblicano.

La prima parte del volume è dedicata alle origini e ai presupposti teorici della strategia della tensione, maturati nel clima della guerra fredda quando l’Italia divenne di fatto un paese a sovranità limitata, condizionato dalla strategia anticomunista promossa dagli Stati Uniti tramite la Cia e strutture occulte come la rete militare Stay behind. Nella parte più corposa del testo (cinque capitoli) Dondi analizza la strategia della tensione in atto, tra il 1969 e il 1974, ricondotta in un quadro di insieme grazie ad un solido filo narrativo che riordina una materia estremamente complessa, individuandone le linee di fondo, l’evoluzione, le diverse articolazioni, contraddizioni e sfumature, poste in relazione ai mutamenti delle dinamiche politiche e del contesto sociale. Nella densa trattazione di Dondi, tra i numerosi temi e spunti interpretativi che meriterebbero di essere segnalati, ci soffermiamo sull’analisi del ruolo dell’informazione, un aspetto centrale e innovativo della ricerca, rivolto soprattutto all’ambito della carta stampata (sono oltre cento le testate, nazionali e internazionali, citate dall’autore).

I mezzi di informazione svolsero un ruolo rilevante nella guerra psicologica, fondamentale strumento, insieme alla guerra non ortodossa, della strategia della tensione. Messe a punto negli anni Cinquanta dal Pentagono, le caratteristiche della guerra non ortodossa (definita anche guerra rivoluzionaria) e della guerra psicologica furono al centro del convegno organizzato a Roma nel maggio 1965 dall’istituto Pollio – considerato l’«atto fondativo della strategia della tensione» (p. 49) – al quale parteciparono numerosi protagonisti della stagione eversiva: estremisti neri come Pino Rauti e Stefano Delle Chiaie, militari come il generale Giuseppe Aloia e il colonnello Amos Spiazzi, uomini dei servizi come Guido Giannettini.
La guerra non ortodossa prevedeva la pianificazione di strutture paramilitari e la realizzazione di azioni “coperte” «decise da una selezionata cerchia di èlites militari e politiche, al di fuori delle procedure istituzionali e all’oscuro del parlamento» (p. 7). Pensata inizialmente in funzione difensiva rispetto a un ipotetico attacco dell’Urss, negli anni Sessanta la guerra non ortodossa venne concepita come uno strumento rivolto anzitutto contro il “nemico interno” (le sinistre, in primo luogo il Pci). Il suo scopo era destabilizzare il quadro politico attraverso azioni terroristiche attribuite, secondo il meccanismo della provocazione, al “nemico”, per poi stabilizzare, modificando gli equilibri politici in senso conservatore o autoritario, se necessario anche attraverso azioni golpiste.

Nella strategia della tensione, la guerra non ortodossa rappresentava il momento dell’azione, quella psicologica il resoconto dell’azione inteso come una forma di condizionamento e di persuasione attuata attraverso la strumentalizzazione della paura e del senso di insicurezza generati dall’atto terroristico. Un compito decisivo spettava ai mezzi di informazione che dovevano diffondere l’allarme per il disordine, imporre una versione “ufficiale” degli eventi funzionale alle demonizzazione del “nemico” additato come responsabile del caos, spingere l’opinione pubblica verso una richiesta di ordine.
All’interno della guerra psicologica, nota Dondi, la narrazione pubblica dell’evento assume un ruolo fondamentale: «la notizia sovrasta l’attentato perché l’andamento del “conflitto” dipende dal significato che si attribuisce all’atto violento: l’informazione è responsabile dell’esito finale. […] La guerra psicologica giunge al suo esito quando la prefabbricata costruzione degli eventi permea il senso comune. Se le versioni di un evento entrano in forte conflitto tra loro, sia per le dinamiche della ricostruzione sia per il peso bilanciato delle testate che le sostengono, l’obiettivo rischia di non essere raggiunto» (p. 63). Risultava perciò indispensabile pianificare il flusso delle informazioni, a partire dalle agenzie di stampa – spesso legate agli ambienti di estrema destra e ai servizi segreti nazionali e statunitensi – in grado di realizzare la prima «trasformazione del fatto accaduto in notizia» (p. 76) attraverso la selezione e la manipolazione delle informazioni da veicolare alle testate giornalistiche.

Secondo le indicazioni scaturite dal convegno romano, i mezzi di informazione avrebbero dovuto «additare il nemico all’opinione pubblica, denunciandone la permanente minaccia» e costruendone «una visione ossessiva e unidimensionale»; in linea con l’impostazione teorica della guerra psicologica, dalla trasformazione dell’avversario politico in nemico assoluto discendeva «la sua criminalizzazione e l’invenzione di un suo progetto cospirativo» (p.70).
Analizzando la composizione dei convegnisti presenti al Pollio appare con evidenza la connessione tra ispiratori delle trame eversive e sistema informativo. Oltre a giornalisti di esplicita tendenza neofascista (come Mario Tedeschi, direttore de “Il Borghese”), al convegno parteciparono i direttori di sei quotidiani (“Il Messaggero”, “Il Tempo”, “La Nazione”, “Roma”, “Il Giornale d’Italia”, “Il Corriere lombardo”) rilevanti per la loro complessiva diffusione, per la dipendenza da poteri economici “forti”, per i rapporti che legavano alcuni organi di stampa ai servizi segreti. Nel 1969, l’anno di Piazza Fontana, saranno queste ed altre testate, che Dondi definisce edotte, al corrente delle strategie, oltre a quelle consenzienti (come il “Corriere della Sera”) – portate ad accettare acriticamente la versione ufficiale degli eventi, per conformismo o convenienza – a convogliare la guerra psicologica diffondendo le notizie pianificate dalle autorità politiche e militari.

2. Il-Corriere-della-Sera_13-dicembe1969La stagione stragista matura in contrapposizione ai movimenti sorti nel biennio 1968/’69, culminato nelle lotte dell’”autunno caldo”. Subito dopo la strage di Piazza Fontana la stampa amplifica il messaggio del presidente della Repubblica Giuseppe Saragat che suggerisce un nesso tra manifestazioni di piazza, disordine e terrorismo per indirizzare l’opinione pubblica su una linea di ritorno all’ordine. Il Quirinale individua i precedenti della strage negli attentati di aprile a Milano, nelle bombe sui treni di agosto, nella morte dell’agente Annarumma, una «tragica catena», secondo le parole di Saragat, che funge da «elemento di raccordo dotato di funzione persuasiva» (p. 162). Diversi quotidiani riprendono l’intervento presidenziale descrivendo un paese in preda al caos, invocando provvedimenti di emergenza e rafforzando la linea narrativa del Quirinale attraverso allusioni alla pista anarchica che si tenta di avvalorare con un posticcio riferimento storico, l’attentato al teatro Diana di Milano del 23 marzo 1921, che aveva provocato 21 morti (si trattava di un gruppo di anarchici individualisti – estranei all’Unione anarchica italiana – che miravano a colpire il questore). La “tragica catena” «si arricchisce così di un nuovo contundente anello che si pone come presupposto di colpevolezza e serve a conferire credibilità alla pista anarchica prima ancora che siano gli inquirenti a rivelarla» (p. 163).
Oltre alle categorie interpretative, all’indomani della strage la stampa fa leva sull’emozione suscitata dall’evento. Titoli cubitali, immagini raccapriccianti, aggettivi ricorrenti (bestiale, orrendo, mostruoso, già presenti nel messaggio di Saragat) «rinfocolano una fenomenologia delle passioni utile a scuotere il panorama politico» (p. 172). Come nota Dondi, la strage è indiscutibilmente orrenda, ma il comune ricorso a quegli aggettivi, in luogo di altre possibili varianti, rimanda all’interpretazione dell’evento veicolata dal discorso presidenziale.

3. FOTO VALPREDANei giorni successivi l’arresto di Valpreda e la morte di Pinelli offrono altri due anelli alla “tragica catena”: alla matrice politica a cui si allude dal 13 dicembre, si aggiungono un “colpevole” e un “suicida”, secondo la versione della questura che presenta la morte dell’anarchico come un’”autoaccusa”.
La morte di Pinelli viene comunicata il 16 dicembre dalla Tv di Stato, senza avanzare alcun dubbio sulla tesi della questura. In serata arriva in diretta, nel momento di massimo ascolto, l’annuncio dell’arresto di Valpreda, attraverso il servizio dell’inviato Bruno Vespa che apre la strada alla «lapidazione» dell’anarchico sulla stampa (p. 189). Dondi analizza in modo puntuale la costruzione del “mostro” anarchico, a partire dal ricorso alle immagini. L’istantanea più utilizzata dai giornali ritrae Valpreda mentre protesta davanti al palazzo di Giustizia di Roma. Valpreda appare «seduto con un giubbotto sportivo, un po’ spettinato, indossa pantaloni bianchi, ha un medaglione in petto in stile beat con la “a” di anarchia mentre saluta con il pugno chiuso: un uomo agli antipodi del comune borghese». Poiché è additato come certamente “colpevole”, «in quell’immagine così efficace e sovrabbondante di simboli c’è la firma inequivocabile. Il ritratto di militanza cambia significato diventando contesto di crimine. Da qui si va per estensione: […] l’estremismo o l’essere fuori dagli schemi diviene marchio di delinquenza. Valpreda con il pugno chiuso è la più potente schedatura mediatica mai realizzata» (p. 192). La strumentalizzazione di Valpreda avviene anche attraverso altre immagini, come quella pubblicata su “Il Tempo”: alla fotografia scattata in ospedale del bambino Enrico Pizzamiglio, che a causa della strage ha perso una gamba, è affiancata, in taglio fototessera, l’immagine di Valpreda: «L’effetto è notevole. L’anarchico è raffigurato con un viso torvo, i capelli sempre scompigliati, la poca luce tra il collo e il mento – oltre al fondo scuro – ne accentuano la ruvidezza, mettendo in risalto la barba appena incolta. A fianco il volto candido, innocente e sofferente del piccolo Enrico» (p. 194).

4. valpredapress2Per distruggere la dignità di Valpreda la stampa scava nella sua vita privata, enfatizza, come marchio di derisione, la sua breve esperienza come “ballerino” (“il ballerino dinamitardo”, titola “Il Giornale d’Italia”) e insiste sulla precarietà dei suoi impieghi per farlo apparire come un velleitario, un fallito. Viene evidenziato anche il suo soprannome (“Cobra”) per delineare «un ritratto da fumetto di avventura», come nella prosa del “Tempo”: «cobra per la sua capacità mimetica, per l’abilità con cui camuffava il suo credo estremista» (p. 199).

A ridosso della strage di Milano poche testate (come “Il Giorno”, “La Stampa”, “Il Mondo”) mantengono un margine di autonomia, cercando di offrire una propria interpretazione dei fatti, e solo la stampa di opposizione (“l’Unità”, “Lotta Continua”, “il Manifesto”, “L’Espresso” e altri giornali legati alla sinistra) contrasta, per ragioni diverse, le versioni ufficiali. In breve tempo però l’attentato del 12 dicembre, l’arresto di Valpreda e la morte di Pinelli producono mutamenti anche nel mondo dell’informazione.
Dondi dedica diverse pagine all’analisi della controinformazione, primo ed efficace tentativo di contrastare la guerra psicologica (per una storia dettagliata della controinformazione negli anni Settanta, si veda A. Giannuli, Bombe ad inchiostro, Milano, Rizzoli, 2008). A Milano e a Roma nascono i comitati dei giornalisti democratici, che si propongono di ripensare e rinnovare la professione, restituendole autonomia e valore civile. Gli eventi milanesi sono l’occasione per una «ridefinizione del concetto di informazione» (p. 220) che cambia radicalmente il modo di concepire il giornalismo. I comitati, che contano su numerose adesioni tra i giornalisti professionisti, in gran parte collocati a sinistra, e su un proprio organo di riferimento (“Bcd”, Bollettino di controinformazione democratica), avviano un importante lavoro di inchiesta, di ricerca della verità sullo stragismo e di denuncia dei meccanismi di manipolazione della notizia, con l’intento di rovesciare il senso comune presente nell’opinione pubblica.

5C strage di stato cInsieme alla controinformazione democratica, nasce la controinformazione militante promossa da giornalisti professionisti e esponenti delle formazioni di estrema sinistra che, richiamandosi ai principi del ’68, svolgono un lavoro di raccolta di informazioni dal basso, utilizzano fonti alternative e contano sulla raccolta di notizie che proviene da un ampio bacino di militanti. In questo contesto prende forma il collettivo che produrrà il volume La strage di Stato, il libro simbolo della controinformazione, uscito il 13 giugno 1970. Il gruppo che realizza il lavoro, incrociandosi con l’inchiesta sulla morta di Pinelli condotta da “Lotta continua”, svolge un capillare lavoro di raccolta e di elaborazione di notizie che provengono da semplici militanti, sindacalisti, docenti universitari, avvocati e magistrati democratici, si avvalgono di informazioni raccolte nelle carceri, di indiscrezioni provenienti da diversi ambienti ai quali i militanti riescono ad avere accesso. Informazioni sulle relazioni tra l’Ufficio affari riservati (Uaarr), il servizio segreto civile, e il gruppo neofascista Avanguardia nazionale giungono dal Sid, il servizio segreto militare. Si tratta però di un’operazione di depistaggio – nell’ambito della rivalità tra servizi, resa più acuta dalla strage di Milano – realizzata per coprire Ordine nuovo, la formazione neofascista legata al Sid da cui provengono gli autori della strage di Milano, e scaricare le responsabilità sull’Uaarr, che intrattiene rapporti privilegiati con Avanguardia nazionale.
Anche se la pista Uaar-An seguita dalla redazione di La strage di Stato impedisce al gruppo di individuare i reali esecutori della strage, il lavoro di inchiesta raggiunge importanti risultati nella decostruzione della pista anarchica e della versione ufficiale sulla morte di Pinelli. Come sottolinea Dondi, grazie al successo politico ed editoriale del libro la controinformazione militante, insieme a quella democratica, inizia a produrre nell’opinione pubblica un mutamento rispetto all’interpretazione dominante. Le tesi della controinformazione vengono riprese e approfondite da altre testate della sinistra tradizionale e di opinione e stimolano la diffusione di libri-inchiesta, film, documentari, spettacoli teatrali, canzoni che contribuiscono ad incrinare ulteriormente la versione dei fatti veicolata attraverso la guerra psicologica.

Nelle successive fasi della stagione stragistica muta progressivamente il ruolo dei mezzi di informazione. Dopo la strage di Peteano, eseguita dagli ordinovisti contro i carabinieri il 31 maggio 1972, «i quotidiani conservatori cercano la strumentalizzazione politica del caso, ma in forma minore rispetto al 1969. Manca il peso del “Corriere della Sera” che dal marzo 1972, con la direzione di Piero Ottone, comincia a percorrere una linea più autonoma dal governo» (p. 293).
Lo sviluppo impressionante delle azioni violente ad opera dello squadrismo neofascista, la diffusione delle tesi della controinformazione che alimentano la mobilitazione antifascista, l’avvio dell’inchiesta della magistratura milanese che orienta le indagini su Piazza Fontana verso il neofascismo contribuiscono a far crescere anche nella stampa di opinione l’allarme nei confronti delle minacce eversive che provengono da destra. «Dalla metà del 1972 all’estate del 1974 – scrive Dondi – la minaccia nera viene progressivamente percepita, nella sua reale pericolosità, da larga parte dell’opinione pubblica. Da questo momento in poi le azioni di marca terroristica dell’estrema destra divengono aperte, chiaramente attribuibili, e processi di mascheramento e di inversione di responsabilità sempre meno credibili» (p. 303).
Nell’aprile 1973 fallisce l’attentato al treno Torino–Roma (viene arrestato il neofascista Nico Azzi, rimasto ferito nel tentativo di far esplodere la bomba che doveva essere attribuita all’estrema sinistra). Il mese successivo l’attentato alla questura di Milano non suscita l’ampio schieramento di stampa confluito sulla linea desiderata dagli strateghi della tensione dopo Piazza Fontana. Nonostante il tentativo di alcuni giornali, come “Il Resto del Carlino”, “Il Tempo e “Il Secolo d’Italia”, di sostenere la tesi dell’anarchismo di Bertoli, l’autore della strage, la fede anarchica dell’attentatore appare subito dubbia: «Gli eventi stragisti e il loro lungo strascico hanno cambiato in maniera sensibile la stampa d’opinione» (p. 320).

6A STRAGE brescia xL’attentato alla questura è l’ultima strage costruita secondo il copione di Piazza Fontana (regia istituzionale, esecutori “neri”, responsabilità da rovesciare sull’estrema sinistra). Cessate le «stragi di provocazione», finalizzate allo scambio di attribuzione dei responsabili, il 1974 si caratterizza per le «stragi di intimidazione dove l’esecuzione nera, anche se non apertamente rivendicata, appare incontrovertibile». L’obiettivo finale rimane il medesimo (modificare i tratti istituzionali del sistema), ma si è passati «da un tentativo di spostare il consenso attraverso la manipolazione degli eventi e la riproduzione del suo effetto distorto sui mezzi di informazione a un attacco frontale, con l’esibizione della propria forza d’urto. E’ saltato il passaggio intermedio nel quale i media dovevano convincere i cittadini sulla necessità di un intervento militare di fronte alla minaccia rossa. Da questo punto di vista la strage della questura ha dimostrato, soprattutto all’ambiente nero, l’inefficacia del travestimento» (p. 335).
In questo quadro si inscrivono le stragi del 1974 (piazza della Loggia a Brescia, 28 maggio; treno Italicus, 4 agosto). In entrambi i casi la straordinaria risposta antifascista, unita alla denuncia della matrice fascista degli attentati da parte dei principali mezzi di informazione, indicano che il clima è profondamente mutato: «La reazione politica e mediatica di condanna a piazza della Loggia dà l’impressione di assistere a un’inversione del codice ideologico da sempre prevalente nella storia dell’Italia repubblicana. Dopo la strage di Brescia, per la prima volta, l’antifascismo appare prioritario rispetto all’anticomunismo» (p. 361). Il meccanismo della strategia della tensione, così come era stato pensato a partire da metà anni Sessanta e messo in atto tra il 1969 e il 1974, è inceppato e lo stragismo nero «in declino per l’affievolirsi del sostegno internazionale, ma soprattutto – come […] Aldo Moro nota durante la sua prigionia – per la “vigilanza delle masse popolari”, il cui riorientamento rende infruttuosi e nocivi i nuovi atti della strategia della tensione» (p. 411).

Le stragi di Brescia e dell’Italicus segnano la chiusura della strategia della tensione, ma la conclusione è solo «apparente» e non mette al riparo la democrazia da nuove minacce eversive: «Il mancato smembramento degli apparati golpisti condizionerà, seppure in altro modo rispetto al quinquennio 1969-74, anche gli anni successivi» (p. 415). I principali responsabili della stagione stragista resteranno impuniti o sconteranno pene irrisorie. «La verità storica» – sostiene a ragione Dondi – «colma solo parzialmente le falle dell’omertà politica e dell’evasione giudiziaria, lasciando dietro di sé una memoria inquieta» (p. 404).

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