Il nuovo disordine mondiale – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il nuovo disordine mondiale / 9: la guerra nell’era del totalitarismo neoliberale https://www.carmillaonline.com/2022/03/28/il-nuovo-disordine-mondiale-9-la-guerra-nellera-del-totalitarismo-neoliberale/ Mon, 28 Mar 2022 20:00:46 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=71177 di Gioacchino Toni

«Quel Novecento che aveva visto il susseguirsi di guerre mondiali e totalitarismi, lo spreco incommensurabile di un’inutile corsa agli armamenti, il proliferare di autoritarismi e rivoluzioni fallite, con l’happy ending del “trionfo della democrazia”, aveva creato l’illusione che l’umanità e i governi che pretendono di rappresentarla potessero dimostrare, anche grazie agli straordinari progressi tecnologici e all’immensa ricchezza circolante, una maggiore capacità di costruire la pace, per non ripetere gli errori tragici del passato. E invece tutto ciò che la mia generazione è riuscita a fare è stato trasmettere ai propri [...]]]> di Gioacchino Toni

«Quel Novecento che aveva visto il susseguirsi di guerre mondiali e totalitarismi, lo spreco incommensurabile di un’inutile corsa agli armamenti, il proliferare di autoritarismi e rivoluzioni fallite, con l’happy ending del “trionfo della democrazia”, aveva creato l’illusione che l’umanità e i governi che pretendono di rappresentarla potessero dimostrare, anche grazie agli straordinari progressi tecnologici e all’immensa ricchezza circolante, una maggiore capacità di costruire la pace, per non ripetere gli errori tragici del passato. E invece tutto ciò che la mia generazione è riuscita a fare è stato trasmettere ai propri figli soltanto una diversa civiltà della guerra» Fabio Armao

Nel recente volume di Fabio Armao, La società autoimmune. Diario di un politologo (Meltemi 2022), viene analizzata l’ingarbugliata trama del potere che contraddistingue la contemporaneità: un “totalitarismo neoliberale” che, al di là delle differenti sembianze che assume – mafie, gang, neofascismo, finanza underground, capitalismo clientelare, femminicidio, ecocidio e persino, come si vedrà, privatizzazione della guerra – ha, secondo l’autore, nella rinascita del clan la struttura di riferimento del sistema sociale.

Tale convincimento, attorno a cui ruota il volume, si inserisce all’interno di una più generale riflessione a cui Armao ha dedicato due suoi precedenti testi: L’età dell’oikocrazia (Meltemi, 2020) [su Carmilla] e Le reti del potere (Meltemi, 2020). Secondo lo studioso la struttura del clan, in grado com’è di interporsi tra individui e istituzioni e di mediare tra locale e globale, risulterebbe particolarmente adatta alla gestione della globalizzazione neoliberale nel suo imporre gli interessi economici privati sull’interesse politico pubblico. Si tratterebbe dunque di una “oikocrazia”1 assurta a modello universale capace di adattarsi sia alle esigenze dei regimi democratici che a quelle delle autocrazie.

Come argomentato dallo studioso nei lavori precedenti, nell’edificazione del modello del totalitarismo neoliberale clanico, un ruolo fondamentale spetta alla città, dopo che questa è stata a lungo marginalizzata dal punto di vista politico dal sistema stato-nazione, non a caso, sottolinea l’autore, le cronache contemporanee rimandano più spesso a New York, Parigi e Madrid, a Raqqa e Kobane, a Kabul e Kunduz, piuttosto che ai rispettivi stati in cui si trovano.

La società autoimmune si apre prendendo atto di come le società contemporanee sembrino «sempre più attratte da un insano desiderio di autodistruzione, al punto da trasformare le proprie patologie collettive in autentiche “malattie autoimmuni”, invece di sforzarsi di debellarle». E tale pulsione di morte, continua l’autore, «si rivela tanto più profonda, quanto più avanzate ci appaiono dal punto di vista economico e tecnologico» (p. 11).

Con la frattura storica del 1989, il trionfo della globalizzazione neoliberale e l’irruzione della rivoluzione digitale, si è assistito al rapido scardinamento delle vecchie categorie concettuali novecentesche mentre la politica, di fronte ai problemi, si è mostrata sempre più incapace di dare risposte coerenti e unitarie a livello globale. Ciò che dovrebbe maggiormente preoccupare, sottolinea Armao,

è l’ormai patologica autoreferenzialità raggiunta dai sistemi politici occidentali, che la pandemia ha reso soltanto più evidente e drammatica nelle sue conseguenze. E che ci spinge a non vedere gli altri, a ignorare il fatto che siamo tra i principali responsabili storici delle condizioni di sfruttamento in cui continuiamo imperterriti a tenere interi continenti: saccheggiando le loro risorse e schiavizzando le loro popolazioni. Nei confronti del resto del mondo e della natura stessa non siamo da meno delle autocrazie; semmai eccelliamo in ipocrisia, arrivando a pretendere di essere un modello per gli altri.
Oggi a prevalere, anche all’interno delle nostre democrazie, è un pensiero unico e minimo. La politica ha ridotto il proprio spettro di azione, dimentica ormai delle grandi ideologie e dei valori emancipativi che queste ultime incarnavano e, di conseguenza, incapace di proporre visioni del mondo. Mentre il capitalismo, da parte sua, non riesce a concepire neppure più sé stesso, ormai affetto da una dipendenza tossica dalla speculazione finanziaria (p. 16).

Inoltre, nel crescente e ostentato disprezzo nei confronti proprio dell’agire politico, le élite al potere non solo spingono allo smantellamento dei meccanismi democratici su cui, almeno formalmente, esse stesse dovrebbero fondare il loro potere, ma contribuiscono, in assenza di proposte alternative, a distruggere il vivere comune.

Nel riferirsi alla contemporaneità lo studioso parla di “società autoimmune” elaborando il concetto di “società del rischio” proposto da Ulrich Beck. Secondo Armao

abbiamo ormai superato la fase della modernizzazione riflessiva che secondo Beck contraddistingueva l’età industriale, per entrare in una nuova epoca di modernizzazione regressiva (scusate l’ossimoro) che pur non risolvendo i conflitti sociali delle fasi precedenti (relativi alla distribuzione della ricchezza e dei rischi) trova una peculiare via d’uscita in una nuova alleanza tra politici e capitalisti.
I primi chiedono e sempre di più ottengono di riacquistare un ruolo da protagonisti, ma abdicando alla propria funzione di citoyens eletti rappresentanti in una qualsiasi delle arene destinate a emulare i riti della partecipazione, a tutto vantaggio della propria sfera privata di bourgeoises desiderosi di partecipare alla spartizione degli utili. Parafrasando Beck, se la vecchia società classista, caratterizzata dalla comunanza della penuria, si riassumeva nella frase “ho fame!” e la società del rischio, in cui prevaleva la comunanza indotta dai pericoli, in “ho paura!”, oggi la modernità regressiva arriva a generare due forme antitetiche di solidarietà sociale, che riassumiamo nelle frasi: “ho paura della fame!” e “ho fame di paura!”. Parole che, a scopo impressionistico, potremmo immaginare pronunciate, rispettivamente, dal migrante e dal sovranista (p. 19).

Nel passare in rassegna alcuni luoghi – dalla Sicilia all’Afghanistan, dagli Stati Uniti alla Cambogia, da Londra a Ciudad Juárez, a Delhi – in cui si manifestano con drammatica evidenza le forme assunte dal totalitarismo neoliberale, Armao dedica un capitolo alla “privatizzazione della guerra” a partire dal caso specifico di Mosul nel Nord dell’Iraq.

Città a maggioranza sunnita che ha potuto godere sin dalla fine degli anni Settanta del secolo scorso dei vantaggi derivati dall’essere centro propulsore del partito Ba’ath di Saddam Hussein, Mosul è restata coinvolta negli anni Novanta nel conflitto con i kurdi e sottoposta a no fly zone da Stati Uniti e Gran Bretagna per poi subire le conseguenze della “guerra globale al terrore” scatenata dall’amministrazione Bush nel 2003. Occupata da truppe statunitensi e da conractors al soldo di società militare private, diviene bersaglio di attacchi terroristici e subisce le conseguenze del processo di de-ba’athizzazione imposto dall’autorità provvisoria statunitense in Iraq e, successivamente, dal capo del governo al-Maliki che, sottolinea Armao, a proposito di “esportazione della democrazia”, concentra su di sé le cariche di primo ministro, ministro della Difesa, ministro dell’Interno, ministro della Sicurezza nazionale e comandante in capo delle Forze armate. Poi per la città è stata la volta dell’ISIL e del califfato di al-Baghdadi e dell’offensiva kurda e sunnita: un contesto bellico estremamente variabile in cui si sono insinuate faide tra clan e famiglie rivali. Una città, insomma, in cui la guerra, in tutte le sue forme, sembra essere divenuta una condizione endemica con cui convivere2.

Le guerre possono essere viste come lo specchio di una società ove si riflettono i rapporti di classe e quelli di genere, i modelli politici statali e internazionali e quelli economici. Il fatto che la guerra sia un atto di cultura, e non di natura, consente, almeno, di pensare ad un suo possibile superamento.

Di questa cultura fanno parte anche quegli studi sulla guerra che mirano ad alimentarne la mitologia, o a legittimarla. Vi rientrano la storia, tutte le volte che si trasforma in esegesi delle battaglie e dei grandi condottieri; la sociologia e la psicologia, quando insinuano nel lettore il dubbio (fondato) che la conoscenza degli apparati militari serva, in realtà, a migliorarne le prestazioni e la professionalità nell’uccidere; la scienza politica, ogniqualvolta (e capita molto spesso) si accontenta di giustificarla in termini di rispetto dell’interesse nazionale e di sano realismo: presa d’atto del carattere inevitabilmente anarchico delle relazioni internazionali (pp. 142-143).

A ricordare quanto la guerra sia carneficina di corpi e distruzione possono venire in aiuto le immagini ma, secondo l’autore, sono soprattutto i romanzi e le lettere dei combattenti, più ancora che le memorie dei reduci che scivolano a volte nell’agiografia, a dare un’idea dell’esperienza della guerra che si rivela, forse al pari di quella dei campi di concentramento, pressoché irrappresentabile. L’innaturalità di ciò che si prova al fronte, che si riverbera spesso nell’incapacità di ritrovare un proprio ruolo all’interno di quella stessa società che ha chiamato alle armi, conferma quanto l’essere umano non sia “nato per uccidere” ma addestrato a farlo.

Lo stato moderno, in particolare, ha usato tutti gli strumenti a propria disposizione per farlo nel modo che si rivelasse più funzionale. Si è accontentato a lungo di mercenari, motivati soltanto dalla prospettiva del guadagno, finché non ha avuto bisogno di discutere con i sudditi della legittimità del potere sovrano […]. Quando la crescita delle burocrazie civili e militari lo ha reso possibile e lo sviluppo tecnologico degli armamenti necessario, lo stato è poi passato agli eserciti permanenti […] Al tempo stesso, furono istituite le prime accademie militari [che] rappresentano altrettante conferme della “civiltà della guerra”, come pure dell’intelligenza dei poteri sovrani che se ne servono, di fatto, per sperimentare nuove forme di melting pot sociale, rese sempre più improrogabili dallo sviluppo capitalistico e dal trionfo della borghesia. Sono, infatti, i luoghi in cui il vecchio mondo degli ufficiali di cavalleria è costretto a convivere, non senza tensioni e conflitti aperti, con le élite delle nuove armi che richiedono competenze tecniche più che abilità fisiche (p. 144).

La coscrizione universale rappresenta secondo l’autore un altro evidente esempio del carattere culturale della guerra e della razionalità politica che la governa. Se è la Rivoluzione francese a scoprire la “nazione in armi”, non mancheranno di farvi ricorso anche le potenze conservatrici, seppure a tempo determinato e soltanto in caso di necessità. Non è casuale che la coscrizione obbligatoria «venga rivalutata nel Novecento, con le guerre mondiali, quale corollario indispensabile delle rivoluzioni industriali, apoteosi della distruzione creatrice del capitalismo, estensione dell’organizzazione tayloristica del lavoro alla produzione del massacro, prima nella forma ancora rozza delle trincee e infine in quelle perfette macchine dello sterminio che sono i campi di concentramento» (p. 145).

Il trentennio comprendente le due guerre mondiali novecentesche (1914-1945), sostiene l’autore, si caratterizza tanto per l’impressionante progresso tecnologico nell’arte della distruzione, quanto per l’altrettanto incredibile evoluzione sotto il profilo della “costruzione sociale della guerra”.

Le masse di milioni di fanti che vengono reclutati, calzati e vestiti (più o meno), armati e letteralmente incanalati e ammassati in migliaia di chilometri di trincee scavate con le loro stesse mani, che vengono comandati a uscirne – solo per essere falcidiati dal fuoco delle mitragliatrici nemiche – da uno stato maggiore che, per la stragrande maggioranza, li disprezza e li considera né più né meno che manodopera schiava, rispondono a un principio di autorità che è ancora quello ottocentesco del sovrano assoluto, padre e padrone (pp. 145-146).

L’unica soddisfazione concessa a questa carne da macello è la commemorazione che accomuna tutti gli stati coinvolti, vincitori e vinti: il rito dell’omaggio ai caduti attraverso il monumento al milite ignoto: «la “democratizzazione della memoria” concessa nel tentativo di esorcizzare quei milioni di morti che non è più possibile occultare» (p. 146). Poi si apre l’era in cui trionfa la propaganda come professione capace di ricorrere ad ogni media necessario «per convincere i sudditi appena promossi cittadini […] che sono loro, in realtà, a volere la guerra, ad aspirare al sacrificio personale in difesa della patria» (p. 146).

Le due, per quanto diverse, guerre mondiali novecentesche dimostrano che a contare

è l’efficacia del comando, ossia la costruzione sociale dell’obbedienza all’autorità, ottenuta coinvolgendo se necessario tutte le istituzioni, ancora una volta, culturali. Nel Novecento, le chiese di ogni fede, le scuole, le università e i mezzi di informazione concorrono attivamente al sostegno dei governi, rivelandosi determinanti nella costruzione del consenso delle masse. E quando arriva il momento di combattere, è l’addestramento che deve inculcare nel soldato il dovere di eseguire gli ordini, senza discuterli, perché altrimenti metterebbe a rischio la sopravvivenza sua e dei commilitoni: i tempi della guerra non si conciliano con le procedure assembleari (pp. 146-147).

Lo stato moderno, sostiene Armao, è riuscito a rivendicare con successo il monopolio della forza fisica legittima e a costruire il mito di tale legittimità propagandola poi attraverso le istituzioni culturali e imponendone il rispetto grazie agli apparati militari addestrati all’obbedienza oltre che al mantenimento dell’ordine interno e alla difesa dei confini esterni grazie alla loro professionalità nel ricorso alla violenza. Tale impresa, però, sottolinea lo studioso, lo stato ha potuto compierla soltanto grazie all’attiva collaborazione del capitalismo, che dalla guerra ha sempre saputo trarre profitti.

I due grandi protagonisti della modernità, stato e capitalismo, con la loro divisione di ruoli e compiti, manifestano una sostanziale comunità d’intenti. Le monarchie assolute hanno fatto ampio ricorso ai mercenari – sostanzialmente gruppi privati gestiti da piccoli imprenditori – anche quando già reclutavano eserciti permanenti e istituivano accademie militari.

Colonialismo e imperialismo non sono […] che le due le due fasi successive – nella prima prevalgono gli interessi economici, nella seconda entra in gioco la geopolitica – di una stessa tragica e intensiva modalità di saccheggio dei territori e delle risorse altrui, simbioticamente perseguita da stato e capitalismo: modalità che ha negli schiavi (manodopera d’importazione) e nei coloni (i vagabondi e i criminali che è meglio espellere) le due speculari forme di esclusione sociale, di non-simili […]. E che trova nel soldato di professione, abilitato all’uso indiscriminato della violenza e dello stupro, il proprio “volonteroso carnefice”, indispensabile per portare a termine la propria “missione civilizzatrice” (p. 150).

Nel corso della seconda metà dell’Ottocento, con la raggiunta identità di nazione, lo stato dismette la pratica di esternalizzazione dei conflitti a privati preferendo assumere la gestione totale degli apparati militari arrivando a ricorrere alla coscrizione universale e a rinunciare alla produzione di armamenti che viene ceduta al mercato. La divisione tra stato e capitalismo prevede dunque per il primo il primato politico della guerra assegnando al secondo il settore delle innovazioni tecnologiche. Si concede così al capitalismo la possibilità

di applicare alla produzione le economie di scala necessarie ad abbattere i costi e, di conseguenza, di incrementare oltremisura i mercati di sbocco, se necessario vendendo armi e brevetti persino ai paesi nemici; per di più, gli consente di ricorrere a strategie fatte di fusioni e accordi collusivi tali da dar vita a quello che, di lì a poco, verrà definito il “complesso militare-industriale” […] Lo stato, storicamente, sembra aver dimostrato il coraggio di farsi davvero imprenditore, di investire in ricerca e innovazione senza porsi limiti di budget, soltanto quando si è trattato di uccidere gli uomini, non di salvarli. Per poi accettare di buon grado di farsi vampirizzare dal settore privato (pp. 151-152).

Dopo i due conflitti mondiali novecenteschi, per diversi decenni stato e capitalismo hanno continuato ad andare a braccetto sostanzialmente allo stesso modo: la politica creava cause e contesti in cui «soldati “pubblici” (in tutto o in parte di leva) potessero ritenere ancora che valesse la pena di combattere e morire, mentre il mercato “privato” si impegnava a fornire tutti i mezzi di distruzione di massa necessari a compiere l’impresa» (p. 153). Poi qualcosa è cambiato. Dopo le batoste vietnamite e afgane per le due superpotenze il sistema è sembrato non essere più adeguato ai nuovi tempi.

Da allora, sembra di assistere anche in campo bellico a quella “ritirata dello stato” cui Susan Strange attribuisce la perdita di controllo dell’economia mondiale: “lì dove gli stati erano una volta i padroni del mercato, ora sono i mercati i padroni dei governi degli stati”. A ben vedere, non si tratta di una vera e propria abdicazione al proprio ruolo in guerra da parte degli stati, quanto piuttosto di una consapevole e intenzionalmente perseguita delega della sua gestione alle corporation private; in perfetta sintonia con il trionfo del neoliberalismo […] e la sua logica di esternalizzazione ai privati, ad esempio, del welfare state, dalla sanità all’istruzione. In termini ancora più espliciti: anche le “nuove guerre” mantengono in tutto e per tutto fede al principio clausewitziano della loro natura di autentici strumenti politici, il fatto è che, semplicemente, la loro conduzione viene esternalizzata a gruppi privati come conseguenza della privatizzazione della politica (p. 153-154).

Attraverso partecipazioni azionarie più o meno trasparenti una corporation può detenere un potere militare tale da permettergli di gestire autonomamente una guerra in ogni sua fase mettendosi al servizio di chi può pagare i sui servizi incurante delle opinioni pubbliche e rispondendo della propria condotta, eventualmente, esclusivamente agli azionisti interessanti soltanto ai dividendi.

La privatizzazione negli Stati Uniti ha da tempo toccato i diversi settori della gestione del conflitto in ogni sua fase, dall’addestramento dei militari all’opera di ricostruzione post-bellica. Soprattutto durante l’amministrazione di George W. Bush, che ha visto raddoppiare la spesa per i contratti, si è assistito ad un’assegnazione delle commesse del tutto deregolamentata: basti pensare agli enormi appalti federali concessi alla Halliburton, ex azienda di Dick Cheney, all’epoca vicepresidente degli Stati Uniti, con contratti flessibili che le hanno consentito di addebitare al governo oltre un miliardo di dollari di spese non documentate.

Volendo riassumere, potremmo dire che proprio oggi che la democrazia sembra essersi affermata come il regime politico più diffuso al mondo, ben più che nella secentesca epoca delle monarchie assolute e del trionfo del mercenariato, la violenza organizzata è diventata comune moneta di scambio e alimenta un’intera filiera economica. Il soldato, nella sua accezione più ampia, è manodopera salariata che produce la morte come bene diretto, ma ricchezza e potere come beni strumentali. Le armi producono profitti attraverso la vendita al dettaglio, ma non bisogna nemmeno dimenticare che la loro produzione genera reddito anche per operai civili i quali, come i loro colleghi delle industrie altamente inquinanti, si trovano soggetti al ricatto: stare zitti per salvaguardare il proprio posto di lavoro o “fare obiezione” nel tentativo di salvare vite umane. L’intero comparto militare, per di più, partecipa al casinò dell’alta finanza, ben sapendo che le sue quotazioni in borsa sono destinate a crescere quanto più gli speculatori ritengono siano fondate le prospettive di nuovi conflitti. Infine, c’è il mercato clandestino e criminale che immancabilmente fiorisce nei territori sconvolti dalla guerra, imponendo alle popolazioni ferite e affamate l’ulteriore balzello dell’aumento indiscriminato dei prezzi dei beni di prima necessità (p. 155).

I protagonisti di questo mercato globale della guerra vanno dai contractors e warlords al servizio di multinazionali occidentali in attività in tanti conflitti africani per il controllo delle risorse naturali, ai terroristi utili ad alimentare il redditizio indotto del mercato della sicurezza, alle mafie impegnate nella riproduzione dell’accumulazione originaria delle risorse nei quartieri delle città impegnati nel mercato globale delle droghe, degli schiavi, delle armi e dei rifiuti tossici, oltre che nel riciclaggio di denaro, di cui si nutre l’economia capitalistica. «Vale la pena di rimarcare che, in tutti questi casi, gli attori non statali della violenza si dimostrano in grado di conseguire quegli stessi obiettivi che lo stato ha impiegato secoli a ottenere dalle proprie forze armate, ma in tempi molto più ridotti e con un ben più limitato dispendio di risorse» (p. 157).

Subappaltando l’esercizio della violenza gli stati rinunciano al proprio monopolio della forza e delegano capacità di comando, cioè una caratteristica consustanziale del potere: ottenere obbedienza. Lo stato sta nei fatti cedendo ai privati quote significative della propria stessa legittimità e quanto tale processo sia reversibile è tutto da verificare.

Tra i diversi vantaggi che il mercato globale della violenza affidato agli attori non statali della violenza può contare c’è, sottolinea Armao, la possibilità che ciascuno dei «brand privati della violenza organizzata» possa intervenire tanto sull’offerta, quanto sulla domanda: tutti questi attori (mafiosi, mercenari, terroristi…) forniscono servizi di protezione e tutti, al tempo stesso, contribuiscono a creare quell’insicurezza che è all’origine della domanda di protezione.

Tutti insieme questi attori concorrono a definire il contesto di quella che Armao definisce guerra civile globale permanente peculiare del nuovo disordine mondiale contemporaneo: civile per il suo tendenziale svolgersi all’interno dei territori statali, coinvolgendo sempre più vittime ignare e combattenti non statali della violenza intenzionati a gestire in maniera totalitaria il proprio specifico territorio generando business; globale in quanto tutti i conflitti civili hanno ricadute politiche, economiche e sociali internazionali; permanente per il suo divenire una condizione ordinaria e quotidiana per milioni di esseri umani. Tale stato di guerra civile globale permanente rende sempre più labile il confine fra tempo di pace e tempo di guerra. Questa nuova forma di guerra, pur non escludendo sue forme più tradizionali, diventa una condizione endemica di amministrazione delle relazioni sociali domestiche3.


  1. “Oikocrazia”: dall’unione di kratos (potere) e oikos (casa, famiglia, clan, oltre che radice del termine economia, “amministrazione della casa”). 

  2. Chi tra gli abitanti di Mosul è riuscito a salvarsi da tale inferno, dopo un lungo periodo di permanenza nei campi profughi, si è trovato a fare i conti con il rientro in città. A tal proposito Armao racconta di un particolare progetto architettonico, elaborato nell’ambito del Politecnico di Torino per il concorso internazionale d’architettura “Mosul Postwar Camp”, volto a fornire chi rientrava in città una sistemazione provvisoria a ridosso dei quartieri in ricostruzione alla cui realizzazione avrebbe poi partecipato direttamente. Un’idea di ricostruzione comunitaria dal basso non solo alternativa al “classico” invio di manodopera da parte delle multinazionali statunitensi intenzionate ad arricchirsi con gli appalti post-bellici, ma capace, nel suo piccolo, di fornire una possibilità partecipativa alla costruzione del proprio presente e del proprio futuro in contrasto al consueto dover sottostare a forme di socialità urbana decise da vecchi e nuovi potentati. 

  3. Cfr. Fabio Armao, L’età dell’oikocrazia, Milano, Meltemi, 2020. [su Carmilla]

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Il nuovo disordine mondiale / 5: guerra, informazione e realtà verosimile https://www.carmillaonline.com/2022/03/09/il-nuovo-disordine-mondiale-5-guerra-informazione-e-realta-verosimile/ Wed, 09 Mar 2022 21:01:22 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=70791 di Gioacchino Toni

Recentemente circolava sul Web quella che veniva presentata come la registrazione di una telefonata a un redattore del Tg2 incalzato circa il fatto che qualche giorno prima, in un servizio del telegiornale sulla guerra in Ucraina, erano state inserite brevi sequenze del videogame War Thunder come se si trattasse di riprese di fatti reali.

In tale telefonata, nel ribattere all’accusa di disinformazione, il giornalista ha più volte alternato l’ammissione di aver commesso “un errore” nel mandarle in onda come fossero immagini di fatti veri con la scusante che, tutto sommato, [...]]]> di Gioacchino Toni

Recentemente circolava sul Web quella che veniva presentata come la registrazione di una telefonata a un redattore del Tg2 incalzato circa il fatto che qualche giorno prima, in un servizio del telegiornale sulla guerra in Ucraina, erano state inserite brevi sequenze del videogame War Thunder come se si trattasse di riprese di fatti reali.

In tale telefonata, nel ribattere all’accusa di disinformazione, il giornalista ha più volte alternato l’ammissione di aver commesso “un errore” nel mandarle in onda come fossero immagini di fatti veri con la scusante che, tutto sommato, conoscendo bene le guerre contemporanee, quelle sequenze del videogioco erano in fin dei conti del tutto “verosimili”. Insomma, in base a tale ragionamento, se la messa in scena ha caratteristiche di verosimiglianza questa può benissimo essere utilizzata come sequenza di immagini di fatti reali.

Benvenuti nell’era del verosimile, era in cui, il più delle volte, non essendoci il tempo necessario per verificare la veridicità dell’informazione, si finisce per accontentarsi del fatto che ciò che questa riporta risulti verosimile.

Con tali premesse, nulla può essere dato per scontato, dunque, allo stupore indignato derivato dal sentire che erano state spacciate da un telegiornale immagini di un videogioco per fatti di guerra reale dovrebbe accompagnarsi il dubbio circa la veridicità della telefonata. La notizia della presenza di frammenti di War Thunder in un servizio del Tg2 la si ritrova non solo sui social, ove è indubbiamente difficile verificare l’attendibilità delle notizie, ma anche su alcune testate giornalistiche tradizionali che però, al di là di eventuali torsioni volontarie dei fatti riportati, derivando sempre più frequentemente notizie dal Web, potrebbero aver dato credito a una telefonata messa in scena semplicemente per screditare la testata giornalistica televisiva insinuando dubbi su ciò che viene raccontato circa la guerra in corso.

Occorrerebbe pertanto risalire al servizio del Tg2 e verificare la presenza o meno dei frammenti di videogioco – ammesso di conoscerlo – per togliersi i dubbi residui. Nel frattempo altre ondate di informazioni, immagini e notizie rendono obsoleta la questione: risolto il dubbio circa l’autenticità della telefonata e della presenza o meno di frammenti di un videogame tra le immagini reali della guerra, in un modo o nell’altro, sarebbe già troppo tardi anche solo per commentare conoscendo i fatti anziché, come sempre più d’uso, farlo emotivamente, senza verificare nulla.

Intanto sul Web imperversano discussioni  circa la credibilità o meno di notizie e video relativi alla guerra in Ucraina e non mancano, ovviamente, mirabolanti collegamenti smascheranti complotti orditi contro l’umanità credulona e serva, ça va sans dire, che nemmeno una serie distopica giunta alla decima e trascinata stagione si azzarderebbe a propinare, mentre negli studi televisivi e sulle pagine dei quotidiani, tra una pubblicità e l’altra, gli “esperti militari” si sostituiscono ai “virologi” nel dare la linea con cui interpretare l’attualità e prevedere il futuro aggiornandola, per mantenerla verosimile, a ritmi sempre più frenetici.

Diviene difficile dire cosa si conosce davvero (anche) di questa (ennesima) tragica e infame guerra nonostante la valanga di servizi giornalistici e di testimonianze, più o meno dirette, più o meno in favore di telecamera, circolanti tanto sui media tradizionali quanto sul Web.

Non si tratta soltanto dell’estrema facilità con cui vengono create e diffuse fake news e di come queste possano far presa facilmente sulla gente, ma anche di come l’informazione si sia sempre più ibridata con l’intrattenimento divenendo così una sorta di inserto – a suon di ospitate di esperti – che attraversa l’intero palinsesto mediatico modificandolo e restandone a sua volta modificata desumendone le logiche dello spettacolo a caccia di facile audience.

Spalmata all’interno di programmi di cucina o sportivi in tv o tra un selfie-aperitivo e un crazy-video sui social, l’informazione non può che farsi veloce, sloganistica, iperbolica e sufficientemente versosimile. A rendere sostanzialmente inutile la mole di informazione  disponibile concorre anche la mancanza di una solida griglia interpretativa d’insieme: tra gli esiti dell’epocale fine delle grandi narrazioni vi è forse anche questo tipo di informazione postmoderna.

Con l’affermazione di Internet i media informativi tradizionali hanno indubbiamente diminuito la loro capacità di indirizzare i cittadini. Questi ultimi risultano piuttosto attratti delle promesse partecipative dalla Rete, che in realtà, il più delle volte, si risolvono in dibattiti in cui gli interlocutori non entrano nel merito di ciò che commentano, limitandosi a sfruttare l’occasione per ribadire fugacemente punti di vista e credenze già posseduti.

L’utente digitale pare insomma spesso essere alla ricerca di un pretesto per ribadire, frequentemente in maniera iperbolica, le proprie credenze in maniera tangenziale rispetto alla questione specifica su cui dovrebbe ragionare. E di ciò, occorre dirlo, non sono immuni nemmeno i network più critici.

I media tradizionali, gerarchici e unidirezionali, necessitano della fiducia dei fruitori e di una realtà sociale il più possibile omogenea. Al diminuire della loro credibilità e all’aumentare della frammentazione sociale, tali tipi di media faticano a rispondere a interessi e necessità a loro volta frammentate e differenziate.

Secondo una ricerca del Reuters Institute il ricorso ai social come fonte di informazione è passato in Italia dal 27% del 2013 al 50% del 2020 (tra i più giovani la percentuale sale ulteriormente). Negli ultimi due anni, segnati dagli allarmi sindemici, il ricorso ai social come fonte di informazione è aumentato ulteriormente ma questa “emancipazione” dai canali e dalle logiche dell’informazione cosiddetta mainstream lungi dall’essere garanzia di veridicità come tanti desiderano credere sentendosi cooprotagonisti all’interno dei network.

L’informazione via social risulta più attraente rispetto a quella dei media tradizionali perché più in linea con la frammentazione sociale e tende a essere percepita come più credibile rispetto a quella diffusa dai media istituzionali in quanto veicolata da “parigrado”. Nel suo complesso la Rete viene ritenuta capace di rappresentare equamente la pluralità dei punti di vista anche se, in realtà, la percentuale di utenti attivi sul Web nel produrre contenuto è molto bassa rispetto a quella dei semplici fruitori che spesso si limitano a fare da amplificatori/diffusori.

Se in generale la valutazione della veridicità dell’informazione dipende dalla credibilità della fonte di provenienza, nelle reti sociali facilmente si condividono informazioni senza alcuna verifica semplicemente perché si ritiene che lo abbia fatto qualcuno degli altri appartenenti al network di cui si è parte. Più la fonte di informazione è ritenuta “vicina”, maggiore è la credibilità che si è disposti a concederle. Non a caso i principali operatori tecnologici della Rete da tempo operano filtrando il flusso di informazioni ritenute rilevanti per i singoli utenti costringendoli all’interno di vere e proprie bolle in cui circolano quasi esclusivamente informazioni che confermano e rafforzano ciò in cui credono i partecipanti. La bolla, inoltre, tende a rafforzare il ricorso dell’individuo a quelle scorciatoie mentali proprie del cosiddetto “pensiero veloce” fortemente dipendente dalle emozioni.

Diversi studi hanno dimostrato come nei social si condividano materiali senza prestare grande attenzione alla loro veridicità. Contenuti affidabili e inaffidabili hanno la medesima probabilità di essere condivisi sul Web, tanto che la vita media di un’argomentazione scientifica e di una teoria complottista online sono del tutto equivalenti; si concentrano in un arco temporale estremamente breve anche a riprova della limitata capacità di attenzione che contraddistingue l’universo online e dello scarso tempo a disposizione per verificare l’accuratezza delle informazioni condivise.

La comunicazione online tende ad essere vissuta come se si trattasse di una forma di interazione offline: nell’interagire con individui specifici si ha l’impressione di conoscere gli interlocutori e quanto viene diffuso sui social tende ad essere considerato come una rappresentazione genuina della comunità da cui proviene. Rispetto a ciò che avviene con i media tradizionali, le voci veicolate dai social le si considera rappresentative delle opinioni di una intera comunità. Una scarsa fiducia in qualche singolo non intacca la fiducia nel collettivo in quanto ogni membro della comunità online viene considerato come indipendente, dunque non condizionato dai singoli privi di credibilità.

Sulla Rete hanno maggiore possibilità di condivisione contenuti di natura emotiva, umoristica e che toccano interessi e aspetti ritenuti importanti in quel particolare frangente. L’illusione dell’orizzontalità della comunicazione online, ossia che esistano le medesime opportunità per i singoli di diffondere informazioni, si infrange di fronte ai dati che mostrano come mentre pochi individui risultano in grado di raggiungere sui social milioni di soggetti, i più devono accontentarsi di fare da ricettori, da cassa di risonanza o di trasmettere i propri contenuti ad un numero davvero esiguo di altri individui. In altre parole la possibilità che un contenuto diventi “virale” è decisamente più asimmetrica di quel che si crede.

La percezione di autenticità (e democraticità) trasmessa dalla Rete, tende a trasformare qualsiasi notizia in notizia vera almeno finché non viene provato il contrario, ammesso che quando ciò avviene interessi ancora. Nell’universo di Internet, una notizia sembrerebbe corrispondere a un fatto reale solo per il fatto di circolare ed a partire dal suo entrare nei meccanismi della diffusione online, può farsi virale, dunque vera, o almeno verosimile e ciò sembra oggi poter bastare.

L’influenza del Web non si esercita però soltanto sui suoi destinatari diretti; come detto in precedenza, dalla Rete attinge ampiamente anche l’informazione tradizionale. Internet è infatti individuato sia come “luogo”, al pari di altri, in cui accadono eventi che possono diventare notizie sui media tradizionali che come spazio da cui captare gli umori dell’opinione pubblica senza dover affrontare dispendiose inchieste sul campo. Il Web diviene così una sorta di simulacro dell’opinione pubblica su cui si imbastiscono ragionamenti quanto mai campati per aria. É il caso di dire che al nuovo (dis)ordine mondiale pare corrispondere un nuovo (dis)ordine mediale.

In un tale contesto è sempre più diffusa la sensazione che tante cose che sembrano vere possano non esserlo, o almeno non esserlo del tutto. La realtà appare verosimile come quella messa in scena dalla fiction che ambisce a ricreare scenari e situazioni verosimili. Dopo averla introdotta nel suo Magia nera. Il fascino pericoloso della tecnologia (Luiss University Press, 2020) [su Carmilla] la questione del verosimile è al centro del nuovo saggio di Carlo Carboni, La vita verosimile (Luiss University Press, 2022), ruotante attorno alla convinzione che nelle rappresentazioni mentali contemporanee ormai la realtà sia divenuta soltanto una compia del verosimile.

Se è pur vero che il tema del verosimile è antico, di questi tempi, contraddistinti da un’idea di futuro assi incerta in cui evidenza e ragione sembrano collassare, viene a galla, sostiene Carboni, una realtà verosimile ormai fuori controllo. «Nel verosimile ci sono più artefatti che fatti, vero e falso perdono la loro importanza rispetto alla dimensione cruciale narrativa, quella che fa leva sull’emotività dei pubblici e sull’esistenza di un profondo knowledge gap tra gli uomini: è la riprova di come il potere riesca a manipolare le persone» (p. 15).

Secondo l’autore nel verosimile le percezioni degli esseri umani si discostano dalla cosiddetta “realtà dei fatti” soprattutto per tre cause: le culture neoliberiste che hanno determinato un ripiegamento del sociale in senso sempre più individualista-narcisista; i media che hanno reso sempre più indistricabile il confine tra reale e messa in scena; l’irruzione improvvisa del reale (come nel caso della guerra) in quel verosimile vissuto ormai come realtà.

La vita verosimile è il frutto della relazionlaità sociale costruita in ambienti sempre più tecnologici dove scorrazzano percezioni, bias cognitivi e significati di riconoscimento identitario. È il risultato di una disinformazione che, a differenza della censura nel passato, si basa su un effluvio eccessivo quanto intenzionale di informazioni irrilevanti, di bassa qualità e spesso distorte e false: in breve, sembra che l’ignoranza sia intenzionalmente indotta (p. 64).

In una società altamente tecnologizzata come l’attuale,

l’overload informativo che intenzionalmente crea disinformazione e violenza simbolica […] implica la creazione di immagini visuali che amplificano la realtà virtuale, dando un connotato verosimile alla nostra realtà sociale di riferimento. È il regno del non sapere di non sapere, dei bias cognitivi accecanti, uno pseudo-ambiente in cui mancano sempre più conoscenze dirette dei fatti. […] L’era del verosimile è la nuova vita di percezioni della realtà fisica e sociale, che gira, sempre più velocemente con quella virtuale. Tanto veloce e meticcia da ignorare l’incertezza e, in definitiva, la direzione di corsa: anestetizzata da un presentismo tanto programmato razionalmente quanto verosimilmente distorto. Si vive la presente attingendo alla massa enorme di informazioni che ci vengono propinate nelle ventiquattro ore. Questo overload informativo non solo indebolisce la nostra attenzione e la nostra memoria […] ma ci affatica al punto di privarci dell’immaginazione del domani (pp. 66-68).

In tale contesto l’Olimpo di Internet, con il suo “metaverso”, un’idea dei monopoli della conoscenza edificati dal capitalismo della sorveglianza, sostiene Carboni, si fa inventore e garante di un’architettura alternativa alla realtà promettendo attraenti esperienze tridimensionali.

La necessità di non accontentarsi di un surrogato di alternativa artificiale, ma di determinare un cambiamento radicale, inevitabilmente indigesto agli interessi dell’establishment, si fa sempre più urgente. Per certi versi nell’irruzione del reale (sindemico o bellico) nel verosimile contemporaneo potrebbe essere vista un’occasione per tentare almeno di recuperare quelle capacità relazionali senza le quali non è possibile una vita socialmente condivisa. «La verità si manifesta come comunità, una vita altra, un mondo differente [davvero] da reimmaginare» (p. 157).


Sulle caratteristiche dell’informazione online si veda Giuseppe A. Veltri, Giuseppe Di Caterino, Fuori dalla bolla. Politica e vita quotidiana nell’era della post-verità (Mimesis, 2017) [Su Carmilla].

Circa il rapporto tra immagini e conflitti bellici si veda Maurizio Guerri (a cura di), Le immagini delle guerre contemporanee (Meltemi, 2018), libro in cui vengono indagate la modalità con cui si guarda alle guerre nell’era della manipolazione domestica delle immagini e delle notizie, della loro produzione e condivisione sui social. A come i media contribuiscono a mutare il modo di guardare gli eventi bellici è dedicata la serie di scritti Guerrevisioni su Carmilla.

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