Il Casanova di Federico Fellini – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 17 Aug 2025 20:00:38 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Uomini e Topor https://www.carmillaonline.com/2023/07/05/uomini-e-topor/ Wed, 05 Jul 2023 20:00:49 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78063 di Franco Pezzini

Roland Topor, La principessa Angina, prefaz. di Carlo Mazza Galanti, trad. dal francese di Federico Musardo e Lucrezia Pei, Cliquot, Roma 2022.

 

«È un romanzo dell’orrore. Il mio trentunesimo, il più riuscito. L’ispirazione mi è venuta da un libro che ho appena finito di leggere, l’ho seguito passo passo. Non può immaginare quanto tatto e quanta sofferenza mi ci siano voluti per eclissarmi dinanzi all’opera di un collega! A partire da una storia molto semplice, ho scritto uno dei vertici della letteratura universale, dove il lirismo più sfrenato si congiunge felicemente con la chiarezza dello stile. Stando [...]]]> di Franco Pezzini

Roland Topor, La principessa Angina, prefaz. di Carlo Mazza Galanti, trad. dal francese di Federico Musardo e Lucrezia Pei, Cliquot, Roma 2022.

 

«È un romanzo dell’orrore. Il mio trentunesimo, il più riuscito. L’ispirazione mi è venuta da un libro che ho appena finito di leggere, l’ho seguito passo passo. Non può immaginare quanto tatto e quanta sofferenza mi ci siano voluti per eclissarmi dinanzi all’opera di un collega! A partire da una storia molto semplice, ho scritto uno dei vertici della letteratura universale, dove il lirismo più sfrenato si congiunge felicemente con la chiarezza dello stile. Stando così le cose, come potrebbero interessarmi ancora gli odiosi microbi che si annidano nei vostri organismi? [N.B.: A parlare è un medico, il dottor Angosci.] Addio!»

«Addio. Lasci la bottiglia, per favore.»

 

Non c’entra direttamente con la citazione in incipit, ma in un episodio straordinariamente visionario e poetico del Casanova di Fellini (1976), il nostro eroe si trova alle prese con la fiabesca attrazione di un circo itinerante: la Grande Mouna, una sorta di immensa balena da esplorare come un tunnel dei misteri, dove il termine triestino mona – sesso femminile ma, nel parlato, sinonimo di stupido – si trasfigura in mouna al filtro linguistico del romagnolo Tonino Guerra e dell’accento inglese sul Tamigi dove la scena si svolge. (Proprio a Trieste, peraltro, da bambino avevo potuto vedere surrealmente esposto in un baraccone in Piazza Unità il corpo olezzante di una balena, con quel tanto di meraviglioso e improbabile che simili spettacoli popolari – oggi, immagino, vietatissimi – comportavano: ovviamente non si entrava dalla bocca ma da un condotto coperto laterale dotato di spioncini.) Memorabile nel Casanova il discorso dell’imbonitore, tra risate e colpi d’occhio della telecamera sul mondo circense onirico, magico (donne in giostra come streghe volanti) e vagamente allucinato che il protagonista ha intorno.

 

The Great Mouna! La regina delle balene! Il Leviatano di Giona! Tutti quanti possono entrare, il ventre è ancora caldo: è una balena femmina. Guardate, la sua bocca vi invita ad entrare. Avete paura? Chi non entra nel ventre della balena non troverà mai il suo tesoro: così dice l’antico libro della saggezza. Entrate e vedrete, giù per la gola e ancora più in fondo, nella pancia della Grande Mouna…

La Mouna è una porta che conduce chissà dove, un muro che devi buttare giù.  La Mouna è una ragnatela, un imbuto di seta, il cuore di tutti i fiori.

 

E così via, tra suggestioni varie mitiche e sessuali. L’entrata permette al protagonista in profonda crisi una sorta di fantasioso regressus ad uterum, in tutti i sensi possibili. Ma su un aspetto merita soffermarsi: all’interno della Great Mouna una lanterna magica – strumento eminente di un immaginario precinematografico – presenta una sequenza di tavole (surreali, inquietanti, fortemente oniriche nel cifrare la suggestione dell’organo femminile via via in riposo o dentato, maelstrom o mistero occhieggiante nel buio) di Roland Topor. Del resto un po’ tutto l’episodio, da in lato tanto felliniano, dall’altro può richiamare il tipo specifico di fantasie dell’artista francese di origine ebraica-polacca, nato a Parigi nel 1938. Sull’onda si una simile consonanza nel segno dell’onirico, altre sue tavole verranno preparate per La città delle donne (1980) e il mai realizzato e grondante spiriti Mastorna, e non sembra strano associare un artista tanto visionario a un film esistente solo nei sogni – o incubi – di Fellini e in fondo di un intero orizzonte cinematografico.

Per incontrare sugli schermi Topor in persona (almeno in film di grossa notorietà in Italia, era già stato attore e cosceneggiatore in Le Boucher, la star et l’orpheline, 1975) occorre attendere ancora tre anni, con Ratataplan di Nichetti e soprattutto con il Nosferatu di Herzog, entrambi 1979. Proprio quest’ultimo film, dove Topor interpreta un sovreccitato Renfield, che impazzisce e diventa il conduttore dell’esercito dei topi del conte, dà un po’ l’idea di cosa Topor sia diventato per un cinema che tra gli anni Sessanta e Settanta ha corteggiato in mille forme, autorali o popolari, le ragioni del sogno e del delirio. Anche se nel cinema non mancheranno successive comparsate del geniale artista, e se in generale la sua produzione su grande e piccolo scherma, ma anche a teatro, conoscerà ancora opere irriverenti e coraggiose (si pensi solo a Marquis, 1989, una storia di Sade riveduta e corretta in cui gli autori indossano grottesche maschere animali, e dove Topor è cosceneggiatore e art director), è chiaro che l’epoca a cui si rivolge nel modo più diffuso e di cui restituisce più radicalmente linguaggio e sberleffi è quella dei due decenni Sessanta e Settanta, dal suo primo libro di disegni Les Masochistes (1960) e dalla suo prima novella L’Amour fou (entrambi 1960) alla fondazione con Fernando Arrabal e Alejandro Jodorowsky dell’anti-movimento neosurrealista Panique (1962, in risposta a un surrealismo diventato mainstream) fino a una serie di pellicole d’animazione visionarie, corti o lungometraggi come il celebratissimo La Planète sauvage (1973).

Il che non significa ovviamente stralciare la produzione matura di Topor come scarsamente interessante (non sarebbe vero), dimenticare il suo ruolo di agitatore culturale (fino alla fondazione nel 1992 dell’associazione RomaliaisonParis, per l’amicizia fra artisti italiani e francesi e la realizzazione di iniziative comuni) o richiudere l’autore – morto nel 1997 – in modelli sui quali ha invece saputo fino alla fine costruire altro, con la sua esuberante, lisergica fantasia: ma solo cercar d’intercettare i maggiori punti di tangenza tra la sua opera e la nostra vita, l’immaginario in cui siamo stati diffusamente immersi in una certa stagione collettiva e che ci ha offerto miti e sensibilità in anni magari remoti.

Quel Topor inquilino chimerico della postmodernità (dal suo primo romanzo Le Locataire chimérique, 1964, da cui il film L’inquilino del terzo piano di Polański, 1976), nel mixare Arcimboldo e Freud, è anche capace di regalarci la fiaba nera, del tutto folle e a tratti esilarante La Princesse Angine (1967, era apparso in Italia la prima volta nel 1969 per Milano Libri): un testo che lascia incantati e ha il passo sghembo e pirotecnico delle sconclusionate filastrocche della nostra infanzia – o delle grottesche e crudeli nursery rhyme di tradizione anglosassone (chi scrive non conosce abbastanza del panorama della parallela chanson enfantine francofona). In copertina, una delle illustrazioni che ben rende lo spirito di Topor: un volto di profilo, dove i tratti sono formati proprio dalla scritta profil. E le altre tavole trasfigurano scene della storia nel modo più surreale, onirico e – in qualche punto – disturbante: l’eredità dell’antimovimento Panique, in fondo.

Ma, a dar conto di una dignità narrativa pienamente nel solco del surrealismo e della patafisica, il nonsense si fa scampagnata linguistica con continue trovate tradotte con meravigliosa, a tratti fanciullesca ironia dai bravissimi Musardo e Pei: e se i personaggi restano giustamente burattineschi, come enfatizzato nella lanterna magica dell’apparato di illustrazioni dove emerge il Topor più noto, surreale e spiazzante, è impossibile non restare incantati dalla protagonista eponima (dal nome di sindrome ma in radice da angor, afflizione), dalla sua dispettosa grazia infantile, dalla storia della sua fuga su un furgone a forma di elefante con pochi amici fidati, mentre i nemici della Corona tramano contro di lei…

 

«[…] Il Critico, sull’orlo della disperazione, iniziò a girare per le strade alla guida di un rullo compressore. Lo chiamava “fare antiscultura”.»

«Il senso di questo aneddoto mi sfugge. C’è una morale?»

«Ce ne sono molte. Morale, al singolare, è senz’altro immorale.»

«Dopotutto, le resta la letteratura!»

«Sì, però…»

 

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Bisogna scrivere sulle strisce pedonali per non farsi asfaltare dalla Critica.

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Cercheremo di ricordarcelo. Grazie davvero di tutto, signor Topor.

 

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Liberarsi dal “giogo dei ruoli” https://www.carmillaonline.com/2022/12/19/liberarsi-dal-giogo-dei-ruoli/ Mon, 19 Dec 2022 21:00:54 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75218 di Paolo Lago

S. Chemotti, M. Coglitore, Il giogo dei ruoli, Il Poligrafo, Padova, 2021, pp. 201, euro 23,00.

È difficile liberarsi dei “ruoli”, delle identità cristallizzate e incancrenite da dinamiche di tipo sociale, politico, economico e, perché no, anche letterario. È difficile perché il ruolo può presto trasformarsi in “giogo”, in una sorta di prigionia identitaria che cresce intorno ai singoli individui. E, probabilmente, risulta ancora più difficile quando i ruoli assumono le loro forme all’interno di una coppia, una struttura sociale appesantita da rigidità imposte dall’alto, dalle convenzioni di matrice borghese [...]]]> di Paolo Lago

S. Chemotti, M. Coglitore, Il giogo dei ruoli, Il Poligrafo, Padova, 2021, pp. 201, euro 23,00.

È difficile liberarsi dei “ruoli”, delle identità cristallizzate e incancrenite da dinamiche di tipo sociale, politico, economico e, perché no, anche letterario. È difficile perché il ruolo può presto trasformarsi in “giogo”, in una sorta di prigionia identitaria che cresce intorno ai singoli individui. E, probabilmente, risulta ancora più difficile quando i ruoli assumono le loro forme all’interno di una coppia, una struttura sociale appesantita da rigidità imposte dall’alto, dalle convenzioni di matrice borghese e cattolica ancora dure a morire nell’Italia di oggi, dove è stato creato addirittura un ministero “della famiglia, della natalità e delle pari opportunità”. Ma il “giogo dei ruoli” può trasformarsi anche in un vero e proprio gioco nel quale, per mezzo di una sottile ironia, si cerca di prendere a staffilate quelle antiquate e rigide convenzioni imposte dal potere. È ciò che si propongono di fare Saveria Chemotti e Mario Coglitore nel loro bel libro intitolato, appunto, “Il giogo dei ruoli”, in cui i due autori mettono in scena dei dialoghi fra personaggi letterari o reali che appartengono a coppie famose di innamorati o di amanti, cristallizzati dal tempo e dall’immaginario comune. All’interno di una struttura articolata in tre tempi, incontriamo, fra gli altri, Paolo e Francesca, Dulcinea e Don Chisciotte, Orfeo ed Euridice, Marianna e Sandokan ma anche Simone de Beauvoir e Jean-Paul Sartre, Mileva Marić e Albert Einstein, Sibilla Aleramo e Dino Campana. La scrittura si trasforma quindi anche in un gioco in cui la rigidità del giogo si rompe perché, come affermano gli stessi autori in una nota finale, “i momenti più divertenti di questa scrittura senza affanni sono consistiti nella stesura di quelli che abbiamo chiamato «ordini inversi», quando cioè ci siamo scambiati i ruoli, affidando al maschio di questa inusuale coppia di sorella e fratello per «elezione» il personaggio femminile e viceversa alla femmina il personaggio maschile. Un rovesciamento del «gioco delle parti» che ci è piaciuto particolarmente”.

I personaggi messi in gioco non dialogano soltanto fra di loro ma anche, metaletterariamente, con il lettore e con la sua epoca, con avvenimenti storici ancora di là da venire. Il “giogo” viene rotto anche in questo modo: le figure reali e letterarie messe in scena da Chemotti e Coglitore escono dal loro imprigionante contesto e si inseriscono all’interno di un immaginario comune non statico ma avvolto da un movimento continuo. Altre volte, come nel caso di Paolo e Francesca o di Alphonsine Plessis e Alexandre Dumas figlio non si instaura un vero e proprio dialogo ma una narrazione commentata attraverso la quale gli autori discutono sui personaggi, sul loro tempo e sul loro ambiente sociale, intervallando la narrazione con un andamento più riflessivo e saggistico. Ad esempio, come scrive Saveria Chemotti giocando sul significato del verbo “scambiare” e “scambiarsi”, “la colpa di Paolo e Francesca non è stata solo quella di scambiarsi di nascosto un tenero bacio, ma quella di aver scambiato la letteratura con la vita, cadendo nel più pacchiano degli errori”. Perché la stessa letteratura può trasformarsi in gabbia, in schema, in rigido meccanismo che consegna all’immaginario comune figure stereotipate. Gli stessi personaggi letterari (e mitici, come in questo caso) lottano per scrollarsi di dosso quegli stereotipi, quei gioghi arbitrariamente imposti, come Euridice (la cui voce è mediata da Chemotti) che, dopo essersi dichiarata una “preda del destino a cui mi hanno assoggettata gli dei”, afferma perentoria: “A nessuno viene in mente che io ero in grado di resuscitarmi da sola? Che potevo fare affidamento sulla mia sensibilità, sulla mia stessa natura per vincere le ombre e risalire al sole? Che potevo liberare la mia anima prigioniera dei gioghi di un potere che mi avrebbe incatenata a una ventura tragica e senza soluzione di continuità, secolo dopo secolo? Un giorno, nella primavera di molte ragazze io avrò finalmente consolazione e riscatto. Sarò una di loro e non mi volterò mai indietro”. Euridice, esprimendo la sua autoaffermazione di donna contro un potere invisibile che la vorrebbe sempre assoggettata, viaggia, se così si può dire, nel tempo fino a prefigurare le lotte femministe che verranno.

Bisogna infatti notare che tutti i personaggi femminili del libro possiedono in sé una forte carica di ribellione dalle connotazioni di genere, in quanto si oppongono costantemente al potere patriarcale rivestito e simboleggiato dalla controparte maschile della coppia. Penelope, sempre con le parole di Chemotti (che non a caso è una studiosa di letteratura di genere e delle donne), rivendica il suo diritto a raccontare la sua versione dei fatti perché ormai “stanca di essere additata a eroina del matrimonio consacrato”. Ebbene, secondo Penelope, Odisseo è tornato “per attuare la sua vendetta, non per raggiungere me”. E, sicuramente, nella rivisitazione del Giogo dei ruoli, l’eroina omerica avrebbe ceduto alla corte serrata dei pretendenti se avesse capito che l’intenzione di Odisseo era quella “di restare per una toccata e fuga capace di mettermi di nuovo incinta, cioè di imprimermi le stimmate del padrone”. L’eroe se n’è andato senza neanche salutarla: “egocentrico e avido di conoscenza se n’è andato alla ricerca dei confini del mondo”. Naturalmente, adesso non si tratta più del personaggio omerico ma di quello dantesco e, infatti, con spirito metaletterario, Penelope conclude che “si merita di finire all’inferno”. Ma non sono soltanto i personaggi femminili a rimproverare e, quasi, a maledire i propri uomini, in una sorta di libera rivisitazione delle Heroides di Ovidio; anche alcuni personaggi maschili sottolineano la condizione subalterna delle donne nella loro epoca. È il caso, ad esempio, di Alexandre Dumas figlio (non un personaggio letterario, quindi, ma uno reale, anche se legato all’immaginario della letteratura), a cui presta la voce Mario Coglitore. Quest’ultimo, attingendo alla sua vocazione di storico e studioso di dinamiche storico-sociali, dopo una digressione in cui descrive gli effetti nefasti della rivoluzione industriale (“L’età delle ciminiere. Che da giovane ho visto spuntare a una a una, sentinelle implacabili dell’economia di mercato e per converso dello sfruttamento indecente di uomini, donne e persino bambini”), pone l’accento su alcune dinamiche della “sessualità «vittoriana»”, in un periodo in cui le donne dovevano rivestire il ruolo di procreatrici “meglio se di maschi e non di femmine, naturalmente, specie nel caso dei primogeniti cui verrà affidato il patrimonio familiare”. Parlando di Alphonsine Plessis, la cortigiana divenuta amante dello scrittore al quale ha ispirato il personaggio di Marguerite Gautier per il suo romanzo La signora delle camelie, così Coglitore-Dumas figlio si esprime: “Lei, considerata né più né meno che una prostituta, ha preso tutto ciò che ha potuto dalla vita senza risparmiarsi, assaggiandone i frutti più dolci e soprattutto quelli più amari. Fino a che la malattia non ha spezzato l’insopportabile giogo che la teneva prigioniera di questi uomini dall’animo violento e dalla insaziabile bramosia. Gli stessi che la domenica frequentano la chiesa del quartiere o le grandi cattedrali, inginocchiandosi davanti agli altari e prendendo la comunione”.

Un altro personaggio letterario inchiodato al suo ruolo dalla tradizione è l’Angelica dell’Orlando furioso (la cui voce è quella di Chemotti) che giustifica la sua fuga continua dalla guerra (“Io scappo. Anche da questo scempio, ma lo tengo per me”) e da Orlando con il suo diritto ad innamorarsi: il cavaliere “non contempla neppure l’ipotesi che io mi sia finalmente innamorata, che in me sia sorto un sentimento sconosciuto e raro che mi spinge ad abbandonarmi senza l’aiuto di sortilegi”. Ciò che rifugge è, ancora una volta, il ruolo stereotipato: “Certo: alcuni dicono che io non ho davvero una vita mia propria, che sono un «sorridente fantasma» perché configuro un modello che è fin troppo facile convertire in stereotipo e destabilizzarlo”. Perché una donna non può essere un “soggetto del desiderio”. D’altra parte, Angelica conclude la sua ‘tirata’ appassionata con un appello alle donne musulmane, parole che valicano i confini del tempo per giungere fino ai giorni nostri, dense di significato politico e sociale se pensiamo ai tragici fatti che avvengono in Iran: “Perché allora noi, cristiane e mussulmane, non stringiamo un patto che ci sveli nella nostra essenza, con la pretesa di esser guardate oltre la pelle liscia o a rughe, i capelli al vento o sotto un velo, comunque sia?”. Una rivendicazione di sé e dei propri diritti che suona anche come una contestazione alla società tout court è anche quella che Mario Coglitore, dando la voce a Jane (nel ‘dialogo’, costruito dagli autori in un “ordine inverso”, dedicato a Tarzan e Jane, i personaggi inventati da Edgar Rice Burroughs nel suo romanzo Tarzan delle scimmie del 1914), fa risuonare con echi politici e sociali. La giovane, infatti, afferma che la società europea e occidentale ha da sempre avuto pregiudizi non solo nei confronti degli africani ma dell’Africa intera, vista come “il Continente Nero pieno di misteri, giungle soffocanti e umidità insopportabile, screpolata in alcune latitudini da un sole impietoso e da sabbie smosse dal Ghibli tormentoso”. E allora, l’inglese Jane, innamorandosi del misterioso “Tarzan delle scimmie”, riesce a spezzare “i vincoli opprimenti della società del mio tempo, ben poco seducente” e, finalmente, non sarà più costretta a “respirare i miasmi del carbone delle industrie della capitale che sbuffavano a pieno ritmo, nebbia puzzolente dentro alla nebbia che già saliva dal Tamigi”.

E i personaggi maschili? Anche loro, nonostante siano in alcuni casi staffilati ben bene dalla loro controparte femminile, riescono a liberarsi dal giogo che li vorrebbe imprigionati nel loro ruolo. Se, come abbiamo visto, Dumas figlio sottolinea la subalternità della condizione femminile, Tarzan, da parte sua, nelle parole di Saveria Chemotti, afferma che anche lui si sente un ‘diverso’ nella giungla e, alcune volte, è stato costretto a nascondersi perché cosciente della propria diversità rispetto alle scimmie. Forse, però, la figura maschile che viene presentata più slegata dal proprio ruolo è quella di Giacomo Casanova, irrigidito nello stereotipo del seduttore fino all’antonomasia. Mario Coglitore, da buon veneziano, ci presenta un Casanova vecchio e triste in una lontana Boemia, profondamente immalinconito dal ricordo della sua ormai irraggiungibile Venezia: “Venezia mi manca. Mi manca l’odore dell’acqua che ristagna, i rumori del remo che sciaborda, lo spettacolo della laguna in qualunque stagione”. In quest’immagine malinconica (che può ricordare il poetico finale del Casanova di Federico Fellini, in cui il personaggio sogna di danzare sulla laguna ghiacciata con una dama meccanica), Casanova si libera del suo ruolo, concedendosi finalmente un immaginario libero dagli stereotipi. Ed è lo stesso immaginario che ci regala Il giogo dei ruoli: un tentativo di resistenza – attuato per mezzo di una scrittura che valica i confini fra realtà e letteratura – ai gioghi imposti da qualsiasi potere.

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Uno spazio inquietante: “L’invenzione di Morel” di Emidio Greco https://www.carmillaonline.com/2022/08/15/uno-spazio-inquietante-linvenzione-di-morel-di-emidio-greco/ Mon, 15 Aug 2022 21:00:31 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73535 di Paolo Lago

L’invenzione di Morel, il film che Emidio Greco trae nel 1974 dal romanzo di Adolfo Bioy Casares, fin dall’inizio presenta una successione di spazi che avvolgono il protagonista (un naufrago che si ritrova su una misteriosa isola deserta, interpretato da Giulio Brogi) secondo modalità inquietanti e allucinatorie. Dapprima, il personaggio, esanime su una piccola imbarcazione, appare preda dell’immensa spazialità del mare che sembra sovrastarlo. Quello del mare è uno spazio fluido e magmatico, in continuo movimento, e le inquadrature iniziali mostrano la figura umana completamente avvolta e circondata dallo spostamento [...]]]> di Paolo Lago

L’invenzione di Morel, il film che Emidio Greco trae nel 1974 dal romanzo di Adolfo Bioy Casares, fin dall’inizio presenta una successione di spazi che avvolgono il protagonista (un naufrago che si ritrova su una misteriosa isola deserta, interpretato da Giulio Brogi) secondo modalità inquietanti e allucinatorie. Dapprima, il personaggio, esanime su una piccola imbarcazione, appare preda dell’immensa spazialità del mare che sembra sovrastarlo. Quello del mare è uno spazio fluido e magmatico, in continuo movimento, e le inquadrature iniziali mostrano la figura umana completamente avvolta e circondata dallo spostamento delle onde fra correnti e risacche. Successivamente, il personaggio (che si scoprirà in seguito essere un galeotto fuggito da un carcere) viene inglobato dalle concrezioni petrose dell’isola. Dopo aver abbandonato la barca, si insinua fra le gole di pietra, fra caverne e anfratti che lambiscono la costa rocciosa del luogo in cui si trova, ancora una volta prigioniero. L’inquietante suono del vento che incessantemente spira sull’isola è la manifestazione corporea di un tormento mentale che proviene da altre spazialità sconosciute, perdute negli anfratti di un’angoscia che sembra essersi trasformata in pietra, quella stessa pietra di cui è composta l’isola.

Vediamo infatti il primo piano del personaggio sferzato dal vento, abbandonato a una posa di lento e rassegnato dolore mentre, quasi stancamente, si incammina attraverso le lande desertiche dell’isola. Appare allora inglobato nello spazio desertico che racchiude e serra la sua figura, vestita di un povero abito dai colori chiari che sembrano quasi confondersi con i colori della terra e della sabbia pietrosa che egli solca con un’andatura incerta e innaturale. Sembra quasi un esploratore spaziale giunto su un pianeta sconosciuto, del quale percorre le lande desolate con angoscia e circospezione. E, come un esploratore straniero, improvvisamente si trova di fronte una strana costruzione dalla forma geometrica, una sorta di arcano e abnorme tempio, sul cui sfondo adesso si staglia la sua figura. Si può perciò così riassumere l’alternanza di spazi nei quali, in modo inquietante, è stato inglobato il personaggio: dapprima il magma del mare, poi le concrezioni cavernose e petrose dell’isola, successivamente le lande desertiche che sembrano quasi annullare e annichilire la figura umana e, infine, le costruzioni geometriche che, nuovo, angosciante sfondo, sembrano attirarlo verso di sé e nuovamente annichilirlo.

Di fronte a tali costruzioni, egli, mentre il vento continua incessantemente a soffiare e sibilare intorno al suo corpo, si muove lentamente, a scatti, come un automa, quasi divenuto, appunto, un “automa del pensiero” e una “mummia spirituale”, per utilizzare due espressioni di Gilles Deleuze. Avvolto dalla temporalità annullata dell’isola, il naufrago riesce soltanto a muoversi a scatti, mimando l’incedere di un tempo rarefatto su sé stesso, increspato di concrezioni mentali e angoscianti. Il vento che soffia ogni dove è il segno tangibile del deserto, dello spazio annichilente, lo stesso che incontriamo in molto cinema di quegli anni, dal Fellini-Satyricon (1969) di Federico Fellini fino a Porcile (1969) di Pier Paolo Pasolini e a Sotto il segno dello scorpione (1969) dei fratelli Taviani. In questi film, il vento è un corpo desertico che annichilisce i corpi stessi dei personaggi fino a trasformali in puri oggetti mentali, automi meccanizzati da inenarrabili spazialità abnormi. Anche in Zabriskie Point (1970) di Michelangelo Antonioni, i due personaggi appaiono totalmente avvolti dallo spazio desertico e barbarico, uno spazio “liscio”, per utilizzare un’espressione di Deleuze e Guattari, che si contrappone alla rigidità geometrica e irreggimentata dell’elegante villa satura di oggetti di consumo che nel finale esploderà come se fosse pervasa fino al limite di quel vento nomadico e annichilente.

Ne L’invenzione di Morel, nel momento in cui il personaggio si avvicina agli edifici geometrici, la macchina da presa si esibisce in una carrellata su di essi per poi entrare insieme a lui nello spazio interno, non meno inquietante di quello esterno. Mentre sentiamo l’incessante sibilo del vento, che continua in una dimensione sonora più allontanata, vediamo oggetti incastonati in rigidi contorni: un tavolo, una scrivania, delle lampade e dei libri posati sul tavolo. Tutto appare come cristallizzato in un passato ormai bloccato e segnato dall’angoscia mentre come cupi rintocchi risuonano i passi dell’uomo-mummia che si avventura all’interno di quegli edifici erosi dal tempo. I passi sono lentissimi e cadenzati, abnormi espressioni sonore di un tempo che sta per fermarsi, un tempo volto solo al passato, lontano dalle complicate plaghe di qualsiasi presente. Gli oggetti sono ricoperti di una polvere che proviene forse da altre ere, da altri lontani crepuscoli. Aggirandosi nelle stanze, il personaggio apre dei vecchi armadi e il suono ligneo delle porte stride con sonorità perdute in un passato dalle parvenze spettrali. In queste stanze, la macchina da presa, ad un certo momento, effettua una carrellata sul corpo del naufrago e quest’ultimo appare bloccato in una posa mummificata, abbandonata al proprio destino, figura umana completamente annichilita dalle spazialità degli esterni e degli interni dell’isola.

Successivamente, egli si reca in una stanza dove, al pari degli altri oggetti, si trovano bloccati dal tempo dei vecchi motori ed emerge perciò un altro spazio inquietante, quello ove macchinari imbambolati riposano senza requie in uno stupefatto, macchinico passato. E se appaiono estremamente diversi dalle spazialità ferine e ‘corporee’ dell’isola, dalle pietre e dalla terra, dal ribollire del magma marino, quelle macchine non sono altro che l’inquietante rovescio della medaglia. E, successivamente, dopo che è riuscito ad avviare il macchinario che permette la fuoriuscita dell’acqua corrente, il naufrago si siede sull’orlo di una piscina in un paesaggio segnato da linee geometriche mentre sullo sfondo riluce un angolo di mare che adesso pare inglobato esso stesso nella spazialità geometrica delle costruzioni. Del suo magmatico ribollire, ora rimane solo un lembo lontano e tremante.

Dopo essere penetrato in una stanza dove rintoccano ossessivamente grevi suoni metallici, il personaggio fugge verso la spazialità aperta dell’isola, come richiamato dalla ferinità del vento, della roccia, della pietra e del mare, degli sfondi azzurri del cielo. L’essere umano sembra non aver quindi del tutto rinunciato alla propria natura: rifugge gli ambienti geometrici e metallici, robotici e segnati da cupi rimbombi per tornare correndo verso spazialità ferine e corporee. Ed è dagli estremi lembi di queste ultime che il protagonista si accorge di alcune figure che danzano sinuosamente, al ritmo di un’elegante musica. Mentre il personaggio del galeotto sembra appartenere in tutto e per tutto agli spazi ferini e terrei dell’isola, le nuove figure che cominciano ad apparire sono immerse in cerei limbi, in falde di passato rapprese in colori pastello, come se fossero soltanto delle sovrapposizioni eteree e spettrali inserite nell’ambientazione dell’isola. Nello spazio inquietante di quest’ultima, infatti, c’è posto anche per le figure spettrali che sembrano adesso perseguitare il personaggio: è soprattutto una figura femminile, intrappolata nel suo limbo di un’era annegata in un passato lontano, a esercitare un fascino ambiguo e fantasmatico sul galeotto. Se quest’ultimo, poi, appartiene ormai all’universo afasico e barbarico dell’isola, le figure umane che lo circondano sono gli alfieri di una parola ripetuta in serie come in una catena di montaggio, essendo destinate a ripetere per sempre gli stessi gesti e a pronunciare le stesse frasi e gli stessi dialoghi. Muovendosi, i loro passi sono irrigiditi e meccanici, come nella sequenza che vede Morel camminare assieme al capitano della nave. Sono gli automi di un passato scardinato dallo stesso scorrere del tempo, un passato che non è tempo ma rigida ripetizione di uno spettrale spettacolo.

Il protagonista, infatti, si renderà conto che le figure umane improvvisamente apparse sull’isola sono solo delle proiezioni del passato, emerse dalla macchina di Morel, il quale ha intrappolato la sua immagine e quella di alcuni amici nel circuito senza requie del tempo. Morel e gli altri personaggi sono i fantasmi della ripetizione, sono gli ologrammi di un passato che non cesserà mai di ripetersi e il protagonista interagisce con essi come all’interno di un universo digitale. Se all’inizio crede che le figure siano reali, e si nasconde da esse, nel corso del film si rende conto che, invece, sono solo delle immagini proiettate dal macchinario creato dal genio mefistofelico di Morel. Il protagonista appare quindi circondato da immagini irreali che all’inizio egli scambia per vere: la sua vicenda non appare poi tanto diversa da quella degli individui contemporanei che, interagendo nel mondo digitale della rete, scambiano il falso per il vero e il vero per il falso. La confusione si è ormai generata e non ci sarà mai una interrelazione, mai una mescolanza autentica fra la corporeità ferina del protagonista e l’eleganza astratta e spettrale degli altri personaggi. Nello stesso modo, l’individuo contemporaneo, irretito dall’universo digitale, perde coscienza di sé e dei confini del proprio corpo e della propria coscienza.

Anche i personaggi intrappolati nel meccanismo della ripetizione sono vittima di una ‘decorporeizzazione’ che conduce all’annichilimento e alla morte. Infatti, chi viene sottoposto ai raggi della macchina di Morel, che hanno il potere di registrare le immagini dei corpi e di rendere pressoché immortale la loro immagine, è destinato a morire ricoperto di piaghe purulente. Quello sottoposto al processo di digitalizzazione, inserito nei meccanismi mostruosi di una macchina che condanna all’infinita ripetizione, è ormai un corpo putrefatto, inesorabilmente toccato dall’annientamento, destinato a trasformarsi in ombra inconsistente. Anche i personaggi del passato, intrappolati nel macchinario di Morel, in una illusione infinita come quella dei terribili marchingegni che David Cronenberg ci mostra in Videodrome (1983), sono gli inconsapevoli protagonisti di uno spettacolo che ha divorato il loro corpo e la loro anima, come gli utenti dell’universo digitale contemporaneo.

Lo stesso protagonista si renderà conto di essere fuggito da un carcere per capitare in un carcere ancora peggiore, in uno spazio inquietante e annichilente. Ormai trasformatosi definitivamente in automa e innamoratosi di una donna-immagine, simulacro spettrale di tutte le donne reali (come la bambola meccanica di cui si innamora il Casanova ne Il Casanova di Federico Fellini, che uscirà due anni dopo L’invenzione di Morel), sceglie di sacrificare il proprio corpo e la propria vita per consegnarsi volontariamente alla finzione, alla ripetizione, all’annichilimento del corpo e della coscienza per divenire ombra, spettro, immagine riproducibile all’infinito rischiando di restare imprigionato nella stanza dei macchinari, nella quale il sibilo barbarico del vento è sostituito da un cupo e insistente ronzio meccanico. E se alla fine il protagonista distruggerà, in un estremo impeto di ribellione, quelle crudeli macchine, lo spazio inquietante ha avuto ormai il sopravvento, uno spazio che avanza inesorabile e che renderà inquietante ogni lembo di qualsiasi presunta, sopravvissuta realtà.

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Divine Divane Visioni (Cinema porno 08/11) – 73 https://www.carmillaonline.com/2015/10/01/divine-divane-visioni-cinema-porno-0811-73/ Thu, 01 Oct 2015 20:02:26 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=25013 di Dziga Cacace 

ddv7301E pensare che io, fosse per me, chissà cosa farei

812 – Incazzarsi dibbestia per Noi credevamo di Mario Martone, Italia/Francia 2010 Noi credevamo che fosse un bel film. Perché quando è uscito in poche copie c’è stato il piagnisteo generale sulle pagine ufficiali della cultura di tutti i rispettabili quotidiani borghesi di questo paese: «Ma come! Questo film va visto! Anzi: va fatto vedere!», e del resto il reato di tortura non è ancora contemplato dal nostro ordinamento giuridico. Qualche critico altolocato e diversi colleghi hanno parlato di capolavoro penalizzato dalla [...]]]> di Dziga Cacace 

ddv7301E pensare che io, fosse per me, chissà cosa farei

812 – Incazzarsi dibbestia per Noi credevamo di Mario Martone, Italia/Francia 2010
Noi credevamo che fosse un bel film. Perché quando è uscito in poche copie c’è stato il piagnisteo generale sulle pagine ufficiali della cultura di tutti i rispettabili quotidiani borghesi di questo paese: «Ma come! Questo film va visto! Anzi: va fatto vedere!», e del resto il reato di tortura non è ancora contemplato dal nostro ordinamento giuridico. Qualche critico altolocato e diversi colleghi hanno parlato di capolavoro penalizzato dalla miopia nazionale e vai con la solita lagna – dove andremo a finire, signora mia! – che non sappiamo valorizzare le nostre opere e qui e là. La verità, la mia verità, però, è che Noi credevamo è un film inerte, intorcinato, plumbeo, girato in spazi angusti (perché pensato angustamente), senza rispetto per lo spettatore, pensando a sé come autore che fa un po’ il cazzo che gli pare coi soldi dello Stato e poi so’ cazzi tua capire cosa voglio dire. Che non è difficile intuire subito: il Risorgimento nasce in un clima torbido, tra attese e tradimenti, e questo continuo gioco sotterraneo e insincero è la base dell’Italia, un albero dalle radici marce. Solo che a raccontarlo così ti marciscono anche i coglioni e fin dai primi minuti. Allora: un film è un racconto, ma se fai di tutto perché non ti ascolti nessuno, amico mio, allora diventa un soliloquio e il problema è tuo, eh. E mica voglio limitare la voglia di sperimentare con la narrazione o di essere ostico, ci mancherebbe. Però se mi porti nel tuo carruggio e mi fai fare questo giro tortuoso, poi voglio arrivare davanti a un panorama magnifico. E invece qui è come se camminassimo per tre ore sotto il sole a picco, tra sterpi, merde di capra e vipere per arrivare a vedere Punta Perotti. Le vicende narrate precise ve le cercate in Rete – in due parole: tre giovani fanno il Risorgimento, con esiti diversi e comunque comune delusione – vi dico solo che il commissario Montalbano in una precedente incarnazione è stato Francesco Crispi, mafiosetto e coinvolto nell’attentato a Napoleone III che costò la vita a Orsini. Forse (io ci ho sempre creduto, m’è bastata la parola di quell’ira di Dio di Carlo Di Rudio, ecco). Comunque: a me è mancato clamorosamente una narrazione coerente e un’idea di cinema. Ho visto del teatro filmato e neanche bene, senza equilibrio nel racconto. Attori bravi, direi. Ma manca troppo altro: due ore e quaranta di un’opera che si voleva anche didattica, che sapesse celebrare criticamente l’unità d’Italia; e invece abbiamo una pallata, involuta, ostica, respingente. Non ho trovato neanche – perché poi son capace di accontentarmi di un po’ di plasticità, io, che diamine – alcuna invenzione visiva, nessuna immagine che mi abbia fatto sgranare gli occhi: tutto piattissimo, senza vita, inanimato. Che poi, no, qualche bella inquadratura c’è, ma proprio le conti sulle dita e su questa durata è pochissimo: io voglio notare quando l’inquadratura è sciatta, non il contrario. È come se andassi al ristorante e lo chef non si preoccupasse della freschezza delle materie prime, dell’uso dei condimenti e della cottura… a fine cena cosa dico? Però i grissini, buoni? Eddai, Marto’, eh. Giancarlo De Cataldo, cospiratore col regista, nel suo romanzo I traditori – che con Noi credevamo ha molto in comune – usa delle furbizie (sesso e carnazza, duelli etc.), degli accorgimenti, ma anche un controllo astuto della materia narrativa: le storie si aprono e si chiudono. Certo che col romanzo è più semplice, ma nessuno ha ordinato di farne un film: qui è tutto triste ed esangue, ripetuto mille volte, con alcune parti girate praticamente come 24, in tempo reale… C’è un episodio ambientato in un carcere che – giuro – potrebbe essere l’espediente per estorcere confessioni (l’episodio, non il carcere). Vabbeh: gli è venuto male? Forse. E non sarà un problema (anche se sulla faccenda dei soldi pubblici ci sarebbe da discutere, ma lo facciamo un’altra volta). O magari il problema è nostro, penso durante la visione, di fianco a Barbara che sbuffa anch’essa. E poi, all’improvviso, cosa ti vedo sul grande schermo? Una bella struttura scheletrica in cemento armato, a metà Ottocento. Non scherzo. Mi dico: no, un errore non può essere, sarebbe veramente al di là del bene e del male. E allora capisco: la METAFORA (bestemmione da scomunica censurato). L’Italia è il paese la cui edificazione è rimasta a metà, capisci?, coi tondini arrugginiti che escono ancora dai pilastri, aspettando di tirar su le pareti e di completare la costruzione. E allora quando ghigliottinano Orsini e percorrono una scalinata in griglia metallica con cent’anni di anticipo sulla sua concezione, lì, la metafora qual è? Che i francesi avevano direttori di cantiere avantissimo? O sono sciatterie che da Autori ci possiamo permettere, tanto chi se ne frega? Ecco, lì ho perso la testa, lo confesso. M’è venuto lo s’ciupun e ogni cosa, a quel punto è diventata fonte di irritazione, come la prima dell’Hernani o i garibaldini che nella vita combattono e recitano e lo fanno notare più volte… Martone, mabbasta! La mistica del teatro e il pubblico con la sciarpetta che partecipa al rito borghese e poi si va a scofanare un piatto de cozze, a te t’ha rovinato, credimi. Una consolazione, almeno, l’avrò trovata? Massì, la nasuta Francesca Inaudi, qui contessa di Belgiojoso, con quel collo da cigno, il petto affannato e l’aria smarrita come in una tela di Boldini… A tanto mi riduco. (Cinema Ariosto, Milano; 7/1/11)

ddv7302814 – Non è ancora domani (La pivellina) di Tizza Crovi e Rainer Frimmel, Austria/Italia 2009 e la mia intervista al Maestro Bernardo Bertolucci, o quasi
Film tenerissimo, quasi documentaristico: una messa in scena zavattiniana e minimale sovrastata da una ricchezza di sentimenti straripante. Nel quartiere di San Basilio a Roma la signora Patty trova una bimba abbandonata in un parco. Due anni di dolcezza innocente di cui si innamorano tutti, nel campo di roulotte dove Patty vive. E la pivellina cresce tra artisti di strada, improvvisati fratelli maggiori e Patty che vuole sapere di più. Grande intensità e nessun appeal commerciale, ma questo film sa aprirti il cuore, segnatevelo. Ah: in questi giorni s’è consumata una tragedia! Ricordo a quelli di Rolling Stone che il Maestro Bertolucci compie settant’anni a breve, il 16 marzo: urge articolo barra intervista barra celebrazione. Il direttore mi dice: bravo! Va e uccidi! Allora chiamo Bernardo a casa ed è gentilissimo, parla e ascolta il suo fan un po’ scemotto. Ci mettiamo d’accordo per un ulteriore appuntamento telefonico per definire giorno e ora, a Roma, per un’intervista vis-à-vis. Quando lo richiamo alla vigilia dell’incontro lo sento in grande difficoltà finché non mi chiede un po’ scocciato come funzionino le cose a Rolling Stone. Me lo chiedo anch’io, perché sarà Enrico Ghezzi a intervistarlo, nonostante io avessi già ottenuto consenso e stabilito tutto con la redazione. Grande imbarazzo – e di fronte a Ghezzi non mi metto certo a fare casino, anche se la sua intervista in ostrogoto sarà comprensibile a sole tre persone, BB, lui e io – ma il Maestro intuisce il mio disagio e anzi mi consola e mi racconta ancora, soddisfacendo ogni mia curiosità. Parlottiamo un po’ di tutto (anche di Jim Morrison e Agnès Varda o di Pink Floyd e David Gilmour a Sabaudia, suo ospite) però poi, a malincuore, tocca attaccare. Per cui, alla fine, è come se l’avessi intervistato, ma solo per me. Tiè, Ghezzi. (Dvd; 13/1/11)

ddv7303815 – Brutto forte, Jumanji di Joe Johnston, USA 1995
Film per bambini nonostante bordeggi l’horror (sempre per bambini). È ripetitivo, non simpatico, non coinvolgente, con effetti, trucchi e trucco – oltretutto – di scarso valore. La fotografia autunnale è bruttina e il cast presenta assortite facce da scemi su cui spicca Kirsten Dunst con la sua consueta espressione da procione, con gli occhi incavati. Robin Williams è un po’ Re pescatore, un po’ prof da Attimo fuggente, un po’ – insomma – lo stesso personaggio che interpreta sempre. A Sofia il film piace, a me per niente: spero di non doverlo vedere più di dieci volte. (Dvd; 15/1/11)

ddv7304816 – Per la serie “Cartoni che mi vorrei scopare”, Biancaneve e i sette nani di David Hand, USA 1937
La più bella del reame? Ma dove? Ma mille volte la Regina, mi piglio, io! Ma hai visto che occhietti sordidi, quella bella signora un po’ goth girl? E pure esperta in arti magiche… ma t’immagini i giochini che ti fa ‘sta qui se si beve il filtro? E la mela sai dove te la mette? E invece no, l’eroina è la benedetta Biancaneve che, a dispetto di un nome da cocainomane persa, è invece una verginella che rassetta casa, sempre con lo straccio in mano per togliere qualsivoglia filo di polvere, con gli occhioni sgranati e la boccuccia a cuoricino… giusto un principe necrofilo se la può baciare una così, una già morta dentro prima che addenti la renetta avvelenata. Naaa, no way, il Cacace non ci sta! Detto questo, il film è tecnicamente clamoroso, animato benissimo, con sfondi acquerellati da urlo e pieno d’invenzioni visive che danno ritmo a una vicenda esilissima e straconosciuta e comunque variata perché Disney vedeva lontano e conosceva bene la parola “adattamento”. L’avevamo negato a Sofia temendo reazioni scomposte (la cugina Anna non ha mangiato mele per un anno e diceva che mia nonna era la strega cattiva), invece è andata bene anche con la piccola Elena. Bisogna fortificarle fin da piccole, queste: non sanno cosa le aspetta là fuori. Il dvd è ricco di bonus e tra le diverse scene tagliate presenta anche quella clamorosa della gang bang dei sette nani con Biancaneve finalmente scatenata. No, scherzo, purtroppo. Comunque extra interessanti, se siete un po’ depressi e volete vedere come si realizza un cartone. (Dvd; 17/1/11)

ddv7305817 – Preferirei di no, ma Baciami ancora, di Gabriele Muccino, Italia 2010
Menami ancora, dovrebbe chiamarsi ‘sta roba, con riferimento particolare al regista. Non so neanche da dove cominciare… è il sequel de L’ultimo bacio e i difetti del predecessore sono esasperati fino al ridicolo. È tutto gonfiato all’inverosimile e risulta completamente fasullo, come il plot raccontato con nessuna attenzione alla crescita, allo sviluppo, alla definizione psicologica dei protagonisti in una successione di scene madri fuori controllo, montate velocissime, commentate da musiche mixate male, con un sacco di cantato che si sovrappone ai dialoghi. Abbiamo le corse forsennate sotto la pioggia, le urla disperate, i pianti a dirotto, i pentimenti accorati, Stefano Accorsi che canta la Vanoni o che in voce off enuncia perle come “è per la mancanza di cura nelle cose più semplici che facciamo gli errori più grandi” oppure “gli errori si pagano tutti”… Ma l’avete scritto scopiazzando dei Baci Perugina? Nei credits scopro che i cosceneggiatori del regista sono gli ineffabili Rulli e Petraglia, capaci di concepire una scena in cui una madre legge a un bimbo di dieci anni… Moby Dick. Giuro. Mica una versione semplificata, no, proprio Melville. Muccino e i due impuniti hanno presente Moby Dick? Letto a un bambino di dieci anni? E perché non l’Ulisse di Joyce, già che ci siamo? I fratelli Karamazov, no? Mah. (Gli farei l’assolo di Moby Dick, ma dei Led Zeppelin, in testa). Finisce in ulteriore vacca con parti concitate, promesse solenni e già la certezza che si faranno tutti nuove corna con annessi scazzi violenti, bimbi traumatizzati etc. etc. In questa corsa al ridicolo la regia infila due riferimenti kitschissimi a Il cacciatore (quando la compagnia di amici idioti canta in macchina e nelle scene della roulette russa), uno a C’eravamo tanto amati e un omaggio all’amico americano Will Smith, come a rimpiangere qualcuno che, almeno, sa recitare. Perché il vero crollo di un film ambientato in questa città magica, Roma, dove c’è sempre il parcheggio libero sotto casa, sono gli attori. Salvo per amore incondizionato Vittoria Puccini e per simpatia Pierfrancesco Favino, ma il resto del cast sembra una combriccola di amatori in gara per la peggiore interpretazione possibile. Ma non c’è gara, vince con distacco abissale Accorsi: “Quando un attore è stonato e senza talento viene definito cane… ecco il termine è perfetto nel caso specifico”. Infatti, meglio di così era impossibile sintetizzare ciò che si pensa dell’attore che questa frase la pronuncia, un Accorsi, appunto, con la faccia sempre perplessa, come se si chiedesse – giustamente – come sia finito lì. Quanto è carogna Muccino, a fargli enunciare questo epitaffio? Gli altri: il giovane Giannini, Adriano, recita sempre ingobbito, sembrando un incrocio tra sua padre Giancarlo e Silvio Orlando; Giorgio Pasotti è truccato come Giovanni di Aldo, Giovanni e Giacomo quando interpretava Johnny Glamour, ed è francamente inguardabile. Del resto Accorsi è pettinato come Donald Sutherland nel Casanova, per cui tutto torna. Ah: e poi c’è Valeria Bruni Tedeschi, il mistero gaudioso del cinema francese e italiano, l’imbarazzo puro, una che eviteresti di riprendere anche nel filmino delle vacanze. Un solo pregio consolatorio per il pubblico che ha speso i soldi del biglietto di questa troiata: lo vedi e ti senti tutto il tempo Einstein. (Dvd; 22/1/11)

ddv7306818 – Io non ho capito granché Basilicata coast to coast di Rocco Papaleo, Italia 2010
Film che ha ricevuto tanta simpatia critica e anche un discreto riscontro di pubblico. Lo proviamo in una sera in cui Barbara rifiuta i miei documentari bellissimi perché vuole ridere. Figurati! Un gruppo di amici suonatori decide di attraversare a piedi la Basilicata dal Tirreno allo Ionico (o il contrario, ho già rimosso) per arrivare a suonare in una festa di piazza. Contrattempi, amori, canzoni indolenti, incontri, destini che si incrociano e scoperte. Basilicata coast to coast è inerte e inoffensivo, ha lo scatto del ronzino che porta gli strumenti dei nostri eroi, ma come se gli avessero segato i garretti. È un film civile e come fai a parlarne male? Un inno alla Basilicata, alla sua gente discreta, alla sua cucina stratosferica, ai paesaggi clamorosi. Però, ragazzi, manca la storia, c’è solo l’idea. Non una battuta memorabile, canzoni gradevoli che ti passano senza lasciarti nulla, attori con belle facce, costretti da un copione senza nerbo a farci intuire tutto: è un attimo che ti cresca il terzo coglione, eh, e bello gonfio. (Vi do un consiglio: se volete una grande storia d’ambientazione lucana, e ridere e pensare, allora regalatevi un libro di Gaetano Cappelli, datemi retta). (Dvd; 24/1/11)

ddv7307819 – Basito di fronte a Il volatore di aquiloni di Renato Pozzetto, Italia 1987
Surreale è dir poco. Pozzetto (Urca; sì, si chiama così) vola in deltaplano dal suo Lago Maggiore verso il mare, ma rimane incantato da Milano (e avvelenato dallo smog) e atterra a San Siro dove para diversi rigori a Rummenigge. Da qui si dipana un viaggio/omaggio attraverso la città dove la concatenazione degli eventi ricorda più Entr’acte che altri film interpretati dal comico di Laveno. Qui Renato scrive e dirige e si sente: l’omaggio a Milano è personale, nel senso che per quanto si citino e si visitino le opere dei finanziatori (Rinascente, Cariplo – con la presentazione dello straordinario Bancomat! -, Montedison, Metro Milanese, Comune e Max Meyer) il racconto prende deviazioni fantastiche in cui non mancano atti d’accusa allo smog meneghino o alla mancanza di spazi per i bimbi, sempre espressi nel tono sognante e poetico del regista. Detto questo, poi, la pellicola (poco più di un’ora di durata) è pressoché indigeribile nella sua follia. Ci sono momenti più riusciti (la parte con Boldi, con una gara a chi raggiunge le più alte vette del nonsense) e altri sinceramente noiosi, con gag gelide e il ritmo questo sconosciuto. Però Il volatore di aquiloni (da una canzone di Jannacci) è una cosa talmente stramba che alla fin fine gli vuoi bene, come a un figlio scemo, e pure bruttarello. Uscì direttamente in vhs e credo che non l’abbia visto nessuno. (Dvd; 26/1/11)

ddv7308820 – Ancora agghiacciante: Children of the Stones di Jeremy Burnham, Trevor Ray, Peter Graham Scott, Gran Bretagna 1976
Questo Prigionieri delle pietre lo dava al pomeriggio RaiDue, credo nel 1979. Sul mitico televisore Voxson in bianco e nero avevo visto tutti gli episodi fuorché l’ultimo e la cosa mi bruciava da più di trent’anni, anche perché nessun mio coetaneo ne aveva un ricordo utile. Poi, con la magia della Rete ho ritrovato i sette episodi in una versione scintillante, con sottotitoli in italiano (e Dio ringrazi i volenterosi anonimi). Ricordavo poco dell’impianto narrativo generale, ma una marea di particolari che, puntualmente ho ritrovato: le musiche angoscianti (tutte sospiri asmatici e urla), il senso di mistero, le luci allucinate, il costante senso di smarrimento e pericolo. Trama: l’astrofisico Adam Brake e il figlio Matthew raggiungono il paesino di Milbury, un borgo da 50 anime sorto su un antichissimo cerchio megalitico. La popolazione è decisamente ebete e il circo è condotto dal sinistro astronomo Hendrick. Gli estranei si insospettiscono e tentano la fuga e… E mo’ vi cercate voi l’ultima puntata. Che questa roba che mescola paganesimo, buchi neri, altre dimensioni e bolle temporali fosse pensata per un pubblico infantile ha dello straordinario: da molti quarantenni inglesi (fonte Wiki https://en.wikipedia.org/wiki/Children_of_the_Stones) lo sceneggiato viene tuttora ricordato come un’esperienza terrificante. Discreta fattura (anche se le luci negli interni sono sempre smarmellate… “Everything open!” avrà detto il direttore della fotografia, alla Boris), attori bravi, inglese limpido, abbigliamento seventies semplicemente vomitorio, oltretutto cromaticamente rallegrato dal consueto buongusto albionico. Ambientato nel paesino di Avebury (che adesso non visiterei manco se pagato) gli episodi sono sette e durano 25 minuti, con pausa intermedia (!): generalmente Barbara cominciava a rantolare verso i 15 minuti per crollare presto prigioniera di un sonno di pietra. Ad ogni modo: mini-serie che è una figatina, anche dopo tutti questi anni e seppur indirizzato a un pubblico di ragazzini, come me, del resto. (Gennaio 2011)

ddv7309821 – Piccolo e bello: L’uomo fiammifero di Marco Chiarini, Italia 2009
Sincero, toccante, realizzato con poco – materialmente – ma mettendoci tantissimo cervello, idee, invenzioni. Fin troppe. L’universo fantastico di un bimbo che vive con un padre tanto distante quanto bestialmente affettuoso. Pannofino (il papà, già inarrivabile René Ferretti in Boris) è bravo anche in un ruolo drammatico, così come i piccoli attori (anche se ridoppiati). Dell’infanzia, questo film ci restituisce lo stupore per il meraviglioso, con effetti magici nella loro semplicità, come faceva certo cinema d’inizio secolo, ma quell’altro. È un film per bambini per adulti (è piaciuto più a me che a Sofia, per capirci) e non saprei come definirlo altrimenti, se non come intelligente e meritevole. Forse non riuscito fino in fondo ma molto più che dignitoso. Non è vero che il cinema italiano sia in crisi, sono in crisi gli italiani, spettatori e non al cinema. (Dvd; 28/1/11)

ddv7310822 – Truffa truffa ambiguità: Valzer con Bashir di Ari Folman, Israele/Germania/Francia 2008
La strage di Sabra e Chatila, come incubo rimosso. Non solo dal protagonista del film, anche dal regista, direi, che alla fine assolve se stesso e in qualche modo quella generazione di israeliani che combatté l’ennesima sporca guerra. Del conflitto sembrano non capirci niente lui e i suoi commilitoni, che assistono sgomenti al prevalere della follia, della paura e del cinismo dei generali. Il film è amaro, plasticamente splendido, inventivo, spiazzante e crudele e riesce a farti provare pietà e costernazione con dei disegni animati, forse l’unico modo impensabile per mettere in scena un orrore che ci si è rifiutato di vedere per troppi anni. Però la sensazione di un discorso autoassolutorio mi mette in difficoltà e nel cervelletto, incastonata come una pietruzza dell’Intifada, rimane parecchia insoddisfazione. In termini puramente estetici, il film è comunque notevolissimo. Saran contenti i palestinesi. (Dvd; 29/1/11)

ddv7311824 – Il disincanto sia con te: Guerre stellari di George Lucas, USA 1977
Questo l’ho visto la prima volta nell’estate del 1978 in un cinema di Rapallo, con mia madre. Dovevo, se no ero fuori dal dibattito. Non ero rimasto folgorato come invece era avvenuto a molti miei coetanei (però mia madre mi offrì cinquemila lire dell’epoca pur di uscire tra primo e secondo tempo e io rifiutai testardamente, rinunciando a una fortuna) e oggi son curioso di capire che reazione possa avere Sofia che però di anni ne ha due meno di me – all’epoca – ed è decisamente più sveglia – di me, oggi. E apprezza. E io? Mah! Film lineare, sempliciotto, con effetti speciali allora innovativi e oggi ingenui, continua a sembrarmi narrativamente troppo easy, ma anche popolare nel senso migliore: epico, archetipico, con diversi richiami alla cultura pop USA (Il mago di Oz, il cinema western – vedi Han Solo). Elegantissime le guardie imperiali, evidenti i rimandi iconografici al nazismo per le divise dei comandanti dell’Impero Galattico, molto anni Settanta le capigliature, squallido – quasi casual – l’abbigliamento dei ribelli, con una predominanza arancione da operaio dell’autostrada e caschi che sembrano dei wok rovesciati. Alec Guinness è il miglior Padre Pio della galassia, Luke esibisce un kimono felpato (ma a un certo punto tira fuori un poncho alla Eastwood) e la principessa Leila ha due grossi bagel di trecce sopra le orecchie. Non c’è mai sangue, mai mai mai, e aleggia una sottile tensione amorosa tra Luke e Leila che subito Sofia individua – ah, l’intuito femminile – e mi sa che qui ci scappano anche i due seguiti, maledizione. (Dvd; 9/2/11)

(Continua – 73)

@DzigaCacace usa Twitter male

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