Houria Bouteldja – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 17 Aug 2025 20:00:38 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Avanti barbari!/7 – Contro lo Stato razziale integrale https://www.carmillaonline.com/2024/10/09/avanti-barbari-7-contro-lo-stato-razziale-integrale/ Wed, 09 Oct 2024 20:00:10 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84745 di Sandro Moiso

Houria Bouteldja, Maranza di tutto il mondo unitevi! Per un’alleanza dei barbari nelle periferie, DeriveApprodi, Bologna 2024, pp. 168, 17,00 euro

A giudizio dell’autore di questa recensione, e nonostante i dubbi su alcune delle proposte contenute nel testo appena pubblicato da DeriveApprodi nella collana hic sunt leones, Houria Bouteldja, della quale proprio qui su Carmilla era stato recensito anche il precedente testo pubblicato in Italia I bianchi, gli ebrei e noi (qui), rappresenta una delle voci più interessanti tra tutti/e coloro che hanno deciso di fare i conti non soltanto con il fallimento delle proposte [...]]]> di Sandro Moiso

Houria Bouteldja, Maranza di tutto il mondo unitevi! Per un’alleanza dei barbari nelle periferie, DeriveApprodi, Bologna 2024, pp. 168, 17,00 euro

A giudizio dell’autore di questa recensione, e nonostante i dubbi su alcune delle proposte contenute nel testo appena pubblicato da DeriveApprodi nella collana hic sunt leones, Houria Bouteldja, della quale proprio qui su Carmilla era stato recensito anche il precedente testo pubblicato in Italia I bianchi, gli ebrei e noi (qui), rappresenta una delle voci più interessanti tra tutti/e coloro che hanno deciso di fare i conti non soltanto con il fallimento delle proposte politiche ancorate alla critica del capitalismo e alla necessità di superamento dello stesso ad opera della lotta di classe, ma anche con i bagliori di razzismo ancora presenti all’interno dei medesimi percorsi di analisi politica.

Per iniziare occorre ricordare che «razza e razzismo sono le grandi questioni della modernità globale. Hanno forgiato il mondo per come lo conosciamo, con il suo carico di diseguaglianze, oppressione, discriminazioni, orrori.[…] La nuova collana prende di petto il tema, proponendosi di affrontarlo fuori da stereotipi e luoghi comuni, a partire da un presupposto: il razzismo non riguarda l’”altro”, ma ognuno di noi». Mentre il titolo italiano del testo traduce con il termine maranza quel Beaufs et barbares che ne costituisce il titolo originale francese. Come viene spiegato nella nota in apertura, se i barbari sono

i soggetti razzializzati e non addomesticabili delle banlieue, il termine beaufs – come viene argomentato nel libro – ha una forte specificità legata al contesto francese. Cosi vengono definiti, con uno stigma di classe, i proletari bianchi delle periferie, ancor più umiliati, impoveriti e marginalizzati dalla crisi. Se dovessimo trovare un termine italiano che, con altre radici storiche, si approssima a questa definizione, potremmo pensare a bifolchi. Mentre «Nel giro di pochi anni il termine maranza (neologismo nato a Milano dalla combinazione di «marocchino», nel gergo popolare sinonimo di immigrato, e «zanza», ossia «tamarro») è andato oltre l’identificazione «etnica», per definire quei ragazzi e quelle ragazze che, nel modo di vestire e di comportarsi, non si conformano ai codici della normalità sociale. Sono le nuove classi pericolose. Nel ribaltamento degli immaginari dominanti, l’essere maranza è tuttavia diventato una complessa, certo ambigua ma terribilmente concreta rivendicazione di potere da parte di chi, giovani neri e non delle periferie metropolitane, potere non ne ha mai avuto. Una rivendicazione non traducibile nel lessico della politica tradizionale.»(( Nota editoriale. Perché maranza in Houria Bouteldja, Maranza di tutto il mondo unitevi! Per un’alleanza dei barbari nelle periferie, DeriveApprodi, Bologna 2024, pp. 7-8. )).

Ed è proprio in questo vuoto di rappresentanza del linguaggio politico tradizionale, soprattutto a sinistra, che si inserisce il discorso dell’autrice. Che fa della possibile e auspicabile alleanza tra bifolchi bianchi metropolitani e giovani e ribelli barbari immigrati il cuore della sua analisi e del suo programma. Una sfida di cui il titolo, che sostituisce il più tradizionale proletari con maranza, restituisce bene l’idea.

Un’analisi che si sviluppa, orizzontalmente, attraverso i concetti di razza, classe e genere per individuare come questi siano, nel contesto dell’attività di controllo del capitale sulla società e delle resistenze che gli si oppongono dal basso, perfettamente sovrapponibili. In un contesto in cui la razzializzazione è servita anche a definire i limiti di classe e di genere.

In senso verticale si sviluppa invece l’analisi storica di come il capitale sia riuscito, all’interno di una repressione diffusa di ogni tipo di resistenza e di impoverimento progressivo messo in atto nei confronti di interi continenti, popoli, donne e classi sociali deprivate di qualsiasi forma di effficace rappresentanza o di potere reale, per quanto limitato nel tempo e nello spazio, a separare tra di loro i soggetti e in particolare il proletariato bianco da quello proveniente da altri contesti culturali. Insomma di come sia riuscito a contrapporre i bifolchi ai barbari.

Un’analisi che inizia dall’espansione coloniale europea e dal susseguente sterminio di interi popoli oppure della loro riduzione in schiavitù e che vede, con Marx, come questa sia stata la base della modernità dello sviluppo capitalistico e non una permanenza del passato in una società che si voleva moderna. Una rilettura della Storia ormai assodata non solo dagli studi de-coloniali, cui si fa ampio riferimento, ma anche prima dalle interpretazioni più radicali, sia in ambito “bianco” che “nero”, delle trasformazioni avvenute, a vantaggio del capitalismo occidentale e coloniale, nel periodo intercorso tra il 1492, data simbolo della “scoperta” e conquista del continente americano, e la Rivoluzione industriale con tutti i suoi effetti sulle società sia nell’Ovest che nell’Est, nel Sud come al Nord del pianeta.

E’ un punto questo che chi qui scrive tiene particolarmente a sottolineare, poiché praticamente attraverso l’instaurazione dei confini, ma ancor prima dei diritti monarchici e imperiali, sia laici che ecclesiastici, tutto il pianeta e suoi abitanti sono stati progressivamente colonizzati dal capitale prima mercantile, poi industriale e, successivamente, finanziario proprio a partire da quello che, nell’immaginario storico-politico, è stato il principale beneficiario di quella espansione: l’Europa, prima, e l’Occidente Atlantico, poi.

Un processo in cui l’unione tra azione repressiva armata e religiosa di carattere inquisitoriale ha posto le basi di ciò che la Bouteldja definisce, sulla base dell’uso di alcune categorie gramsciane, come “Stato razziale integrale”. Una forma sociale di organizzazione e controllo, soprattutto della forza lavoro, in cui il razzismo non è un errore, ma uno, e forse il principale, degli elementi fondativi.

Elemento che, una volta avviati i processi di formazione, e contemporanea resistenza, della classe operaia o, più genericamente, del proletariato industriale e non, diventerà essenziale al fine di dividere ciò che, una volta unito, potrebbe diventare il definitivo affossatore del modo di produzione capitalistico e dei suoi funzionari in doppio petto e in divisa.

Questa divisione, che si affermerà nel tempo attraverso quello che l’autrice definisce come il “salario della bianchezza”, ovvero forme di vantaggio di carattere economico e politico-giuridico, ha inizio, si potrebbe dire, con la fine del capitalismo mercantile e l’inizio di quello prettamente industriale, di cui la rivoluzione della macchina a vapore e e quella francese segneranno l’inizio. Proprio la seconda, con tutti i suoi roboanti proclami a favore di Liberté, Égalité, Fraternité, affondava però le sue radici in una ricchezza accumulata con lo sfruttamento del lavoro schiavistico nelle colonie che in quell’epoca vide anche la magnifica, e per un periodo vincente, rivoluzione degli schiavi haitiani guidati di Toussaint Louverture.

Era chiaro che l’eventuale alleanza tra proletariato in formazione “bianco”, che già era stato protagonista delle spinte più avanzate della Grande rivoluzione1, e schiavi “neri” o, se si preferisce anche in questo caso, “proletariato in formazione razzializzato” avrebbe potuto rappresentare un pericolo mortale per l’emergente società della borghesia produttiva.

Ma, non a caso, sarà soltanto la Terza repubblica, sorta in Francia dopo la sconfitta di Sedan nel 1870 e l’esperienza della comune di Parigi, a rivelare la sua identità razziale e coloniale per eccellenza, sorta su quello che Sadri Kiari chiama il “patto razziale”.

Una repubblica che dà vita allo Stato-nazione, la sovrastruttura che condensa i nuovi rapporti di forza all’interno dello Stato, ripartiti come segue: predominio della borghesia sulle classi subalterne, predominio delle classi subalterne sulle razze inferiori. Da queste asimmetrie nasceranno poi le due grandi opposizioni al blocco borghese: con l’emergere della classe operaia, certamente integrata nel progetto nazionale ma economicamente antagonista al polo borghese, e con quella dei dannati della terra, esclusi dal progetto nazionale e antagonisti ai poli borghese e proletario in virtù della loro funzione nella divisione internazionale del lavoro2.

Un patto razziale che storicamente ha avuto origine, come già si accennava precedentemente, ancor prima delle Terza repubblica e che si è articolato attraverso una serie di “conquiste”, non solo in Francia, che daranno vita al “patto sociale” necessario per la diffusione dell’idea di “popolo sovrano” sorta dalla Rivoluzione francese.

L’unita nazionale è un imperativo economico, ma anche un imperativo di guerra. E’ proprio in questo periodo che all’interno delle metropoli coloniali si crea il patto sociale, corollario del patto nazionale, sotto forma di diritti sociali e politici. Si considerino dunque:
1789: Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino – Francia
1825: Riconoscimento dei sindacati – Gran Bretagna
1841: Divieto di lavoro per i bambini sotto gli 8 anni – Francia
1853: Limitazione della giornata lavorativa a 8 ore per donne e bambini – Gran Bretagna
1864: Diritto di sciopero – Francia
1875: Diritto di sciopero – Gran Bretagna
1884: Riconoscimento dei sindacati – Francia
1890: Riposo settimanale il sabato e la domenica – Gran Bretagna
1906: Un giorno di riposo settimanale – Francia
1910: Generalizzazione della giornata lavorativa di 10 ore – Francia3.

Ed è intorno a queste conquiste, pur dovute alle lotte dei proletari di fabbrica e non, che si articolerà il progetto di una democrazia razziale che vedrà esclusi i dannati della terra dai “privilegi” conquistati dai lavoratori e le lavoratrici bianchi/e. Sia nelle metropoli che nelle colonie. Una divisione che spingerà i lavoratori presunti nativi e bianchi a prendere sempre più le distanze dai loro fratelli “colorati” e a vederli come nemici e competitori proprio sulla base di salari e trattamenti destinati ad abbassare il costo di un parte della forza lavoro e forzatamente accettati.

Su questa differenziazione si creerà una situazione di presunta superiorità che i partiti dell’opportunismo socialdemocratico, alla fine del XIX secolo, e “comunisti”, nel corso del XX fino ed oltre la guerra d’Algeria, che soltanto la ripresa delle lotte generalizzate della fine degli anni ‘60, si pensi a quelle degli operai della Renault di Flins, avrebbe momentaneamente superato.

Proprio il 1945, data dell’ipotetica “liberazione” dal giogo nazista sulla Francia e sull’Europa e che aveva visto la subalternità d’azione delle forze della sinistra tradizionale agli interessi della borghesia nazionale, avrebbe segnato la data di un’ulteriore svolta nella storia del patto sociale/razziale.

L’8 maggio viene ripristinata la Repubblica, lo Stato di diritto succede a Vichy, ma si commettono ancora massacri coloniali, questa volta a Setif e Guelma in Algeria, che causano decine di migliaia di morti, cosi come in Siria e successivamente in Madagascar e in Camerun. Tutte le contraddizioni dello Stato razziale si cristallizzano in questa data dell’8 maggio 1945. Mentre i lavoratori francesi hanno ottenuto le ferie pagate nel 1936, il «piano completo» di sicurezza sociale volto a garantire a tutti i cittadini i mezzi di sussistenza in tutti i casi in cui non siano in grado di procurarseli mediante il lavoro, proposto dal Consiglio nazionale della Resistenza, viene adottato nell’ottobre 1945. Il preambolo della Quarta Repubblica riconosce a tutti il diritto alla protezione della salute, alla sicurezza materiale, al riposo e al tempo libero. Non c’è dubbio che la lotta di classe abbia pagato di fronte a un padronato indebolito da cinque anni di leale e zelante collaborazione con i nazisti (importanti movimenti di sciopero operaio si verificano soprattutto nel 1947), ma l’oppressione dei popoli colonizzati non viene messa in discussione, cosi come il privilegio della classe operaia bianca. Proprio come la Rivoluzione haitiana prima di esse, le Rivoluzioni vietnamita e algerina scuotono l’architettura dello Stato razziale senza tuttavia abbatterla4.

Privilegi e differenziazioni che, come spiega ancora bene l’autrice saranno progressivamente spazzati via dalla crisi di competitività del capitalismo occidentale e dalle politiche economiche dell’Unione Europea che si rivelerà, per un lato, un vero e proprio super-Stato razzial

L’Unione europea svolgerà un ruolo centrale nel rafforzare l’Europa bianca nel mondo. La modifica, il 10 settembre 2019, della denominazione della carica da “commissario europeo per la migrazione” a “commissario per la protezione del modo di vita europeo“ è stata una sorta di consapevole ammissione. Poiché questo è ciò che rappresenta il progetto di costruzione europea: un mezzo per gli Stati europei di trovare un’altra via per rafforzare e garantire la propria posizione egemonica nel mondo, mentre vedono svanire le loro colonie. Le istituzioni europee sono solo l’espressione cristallizzata delle classi dominanti nazionali, il cui potere e in parte trasferito a livello sovranazionale. […]. Il consolidamento economico e politico degli Stati nazionali europei passa quindi senza dubbio attraverso il consolidamento della Ue. I gruppi identitari mobilitati dietro lo slogan «Difendi l’Europa» non si sbagliano, la difesa della bianchezza non spetta più ai soli Stati nazionali. Pertanto, il rafforzamento del razzismo e dell’estrema destra nella Ue non avviene nonostante le politiche dell’Unione, ma proprio a causa di esse… Inoltre, l’estrema destra si accomoda perfettamente nella Ue, sperando addirittura di diventare maggioritaria (in Svezia, Polonia, Ungheria, Italia, forse in Francia…)[…] Diviene esplicito un aspetto già evidenziato negli anni Ottanta da René Gallissot, che ricordava come, di fronte ai processi di decolonizzazione e alle migrazioni, l’identità nazionale dovesse essere accompagnata da un’identità di “natura culturale”: «la difesa dell’identità francese è allo stesso tempo quella dell’identità europea, quella di una civiltà superiore la cui essenza è attribuita per eredità»5.

Mentre dall’altro, a fronte di un blocco occidentale in declino, per la prima volta:

Se esiste un doppio processo in atto nella costruzione europea, il rafforzamento da un lato di «questa identità intorno alla chiusura europea, bianca e cristiana» […] questo processo avviene a scapito del patto sociale. Se le borghesie nazionali erano finora riuscite a universalizzare i propri interessi associando la classe operaia a un patto sociale/razziale relativamente equilibrato, la Ue non permette più, nell’ambito della competizione serrata con le potenze capitalistiche emergenti, di offrire gli stessi vantaggi alle classi subalterne a livello europeo. La Ue è tecnocratica, antidemocratica e antisociale. In breve, essa mette in discussione il dispositivo generale dello Stato razziale integrale, che tra l’altro traeva legittimità anche dal suo braccio sociale. In tal modo, rompe il consenso che ha fatto la fortuna dello Stato-nazione e crea dissensi sia nell’estrema sinistra che nell’estrema destra dello spettro politico, cosi come all’interno delle classi sacrificate.
Lo Stato non si fonda più soltanto sul patto razziale, di cui i governanti lucidi temono l’usura. La nuova questione è: come mantenere il potere e proseguire la metodica demolizione del compromesso storico tra capitale e lavoro a vantaggio del primo, mentre cresce una rabbia sociale che prende di mira anzitutto la politica liberale del governo e le istituzioni dello Stato? Ecco la risposta: il razzismo6.

E proprio a questo punto può prendere avvio la proposta rivoluzionaria della Bouteldja ovvero quella di cercare di riunire beaufs e barbares, apparenti nemici per la pelle, soprattutto i primi nei confronti dei secondi anche al di fuori dell’Europa, per rivitalizzare un’unità di classe dal basso che sola potrà offrire qualche speranza di superamento dell’attuale esistente. E proprio qui sta l’interesse della proposta analitica dell’autrice e militante.

Purtroppo, a parere di chi scrive, tale proposta è inficiata a livello teorico e programmatico da alcune lacune non di poco conto. Prima di tutto il riferimento, per quanto riguarda l’interpretazione marxista, ad autori come Antonio Gramsci (per il passato) o Domenico Losurdo (per il presente) che dall’ambito del capitalismo nazionale e del socialismo nazionalistico non hanno mai saputo uscire, a differenza di altri come, mi perdonino i lettori la sua ennesima riproposizione, Amadeo Bordiga che già negli ‘50 e ‘60 aveva saputo trattare differentemente la questione dell’internazionalismo, del colonialismo e dei fattori di razza e nazione nell’ambito della Sinistra comunista7. Autore, Bordiga, rimosso dalla storiografia comunista proprio da quelle stesse forze che, in Italia col PCI togliattiano e il PCF in Francia, avevano così tanto aderito, così come i loro tremuli e liberali epigoni, al patto sociale erazziale criticato dalla Bouteldja.

Proprio questo può essere anche il motivo di una lettura sostanzialmente errata sia del ruolo della controrivoluzione nazista e fascista che più che spingere all’indietro la ruota della Storia, come pare di capire dalle righe che l’autrice franco-algerina dedica loro, costituirono invece potenti mezzi di ammodernamento e centralizzazione del capitale, di cui la “nazionalizzazione razziale delle masse” costituì un elemento con cui siamo costretti a fare i conti ancora oggi e non solo per merito delle scelte politiche della UE.

Politiche cui l’autrice guarda con un occhio ancora ispirato a un socialismo nazionale, ovvero affascinato dal mito del “socialismo in un solo paese”, che già ha impedito in passato alle rivoluzioni anti-coloniali di eliminare lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e sulla donna realizzandone soltanto le istanze borghesi e che, oggi, appare non più proponibile, e con l’altro influenzato da istanze elettorali portate avanti da compagini “politiche” improvvisate e prive di una chiara visione del divenire delle attuali contraddizioni interimperialistiche, capitalistiche e di classe, come la France insoumise di Jean-Luc Mélenchon e il fronte popolare ad essa riconducibile hanno dimostrato nelle recenti elezioni francesi che, dopo tanto berciare antifascista, hanno contribuito soltanto a mantenere ancora in sella un Macron già di per sé finito nella pattumiera della Storia.
Un’influenza, quella elettorale, che ha contribuito forse ad appannare lo sguardo, di solito estremamente lucido, della Bouteldja e l’efficacia di un testo comunque interessante e, per molti versi, necessario.


  1. Si vedano il sempre utile A. Mathiez, Carovita e lotte sociali nella rivoluzione francese. Dalla Costituente al Terrore, Edizioni Res Gestae, Milano 2015 (ed. originale francese 1973 con il titolo La vie chère et le mouvement social sous le Terreur) e D. Guérin, Borghesi e proletari nella rivoluzione francese, Vol. I e II,La Salamandra, Milano 1979 (ed. originale francese 1973: Bourgeois et bras nus 1793-1795).  

  2. H. Bouteldja, op. cit., p.50.  

  3. Ivi, p. 52.  

  4. Ibidem, p. 55.  

  5. Ivi, pp. 56-57.  

  6. Ibid, pp. 57-58.  

  7. Si vedano soltanto, ma gli articoli sarebbero innumerevoli, A. Bordiga, I fattori di razza e nazione nella teoria marxista, serie di articoli comparsi sul quindicinale «il programma comunista» dal n. 16 (11-25 settembre) al n. 20 (6-20 novembre) del 1953 e in seguito raccolti in un volume dallo stesso titolo dalle Edizioni Iskra, Milano 1976.  

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Avanti barbari!/6 – L’Occidente e il capitalismo sono razzisti (l’Italia anche) https://www.carmillaonline.com/2024/10/02/avanti-barbari-6-loccidente-e-razzista-e-litalia-anche/ Wed, 02 Oct 2024 20:00:58 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84539 di Sandro Moiso

Anna Curcio, L’Italia è un paese razzista, DeriveApprodi, Bologna 2024, pp. 142, 16,00 euro

I popoli che vivono nelle regioni fredde e quelli europei sono pieni di coraggio e passione ma mancano di abilità pratiche e intelletto; per questa ragione, pur rimanendo in genere indipendenti, essi mancano di coesione politica e della capacità di governare gli altri. D’altra parte i popoli asiatici hanno sia intelletto che abilità pratica ma mancano di coraggio e forza di volontà; per questo essi sono rimasti in schiavitù e sottomessi. Il popolo ellenico, che occupa una posizione intermedia, è dotato di [...]]]> di Sandro Moiso

Anna Curcio, L’Italia è un paese razzista, DeriveApprodi, Bologna 2024, pp. 142, 16,00 euro

I popoli che vivono nelle regioni fredde e quelli europei sono pieni di coraggio e passione ma mancano di abilità pratiche e intelletto; per questa ragione, pur rimanendo in genere indipendenti, essi mancano di coesione politica e della capacità di governare gli altri. D’altra parte i popoli asiatici hanno sia intelletto che abilità pratica ma mancano di coraggio e forza di volontà; per questo essi sono rimasti in schiavitù e sottomessi. Il popolo ellenico, che occupa una posizione intermedia, è dotato di tutte queste qualità e perciò ha continuato ad essere libero, ad avere le migliori istituzioni politiche e a essere capace di governare per mezzo di una sola costituzione. (Aristotele – Politica)

Come rende evidente l’epigrafe, il razzismo su cui si fondano l’Occidente e i suoi ideali filosofici e politici è cosa di vecchia data considerato che il brano di Aristotele appartiene al settimo libro della Politica e, come il suo autore, al IV secolo avanti Cristo. La scrittura alfabetica era invenzione recente (V secolo), ma già era utilizzata per marcare la differenza tra chi era civile e ben governato e tutti gli altri popoli che, nel greco antico, erano definiti come βάρβαρος. bárbaros ovvero barbari.

Saranno poi degli ex-barbari a “civilizzare” gran parte del continente europeo partendo dalla città dei sette colli e giungendo ai margini di quelle aree nordiche e orientali che delimiteranno con un limes: di qua la civiltà mentre chi fosse al di là sarebbe stato definito questa volta come barbarus.

Di tutti questi passaggi, che poi andranno avanti ancora per un millennio e più prima di giungere alla tanto decantata Europa dalle radici cristiane da cui deriverebbero le magnificenze politiche e ideali dell’attuale, non si potrebbero contare ancora oggi le stragi di popoli “altri” interni al continente e di eretici e di ribelli all’ordine delle leggi, delle lingue, della divisione delle ricchezze imposte dai popoli civili e superiori per ordinamento sociale e statuale.

Sono passate e defunte quelle civiltà, ma il senso di superiorità razziale e di classe che avevano portato con sé nel corso dell’opera di civilizzazione non è ancora scomparso e rappresenta, forse, ancora il prodotto più durevole di epoche considerate “classiche”. Certo, l’idea che permetteva di trarre in schiavitù interi popoli, o almeno quel che ne rimaneva dopo l’opera educativa della civiltà greco-romana, non aveva ancora pretese scientifiche come invece sarebbe accaduto a partire dal XVIII e dal XIX secolo, quando l’espansione occidentale del concetto di impero avrebbe letteralmente falcidiato società, popoli, culture prima di integrarli nel mercato mondiale sviluppatosi a partire dal ’500.

Anna Curcio, con il suo testo appena pubblicato da DeriveApprodi, fa riflettere i lettori sui concetti di razza e razzializzazione attraverso gli eventi che li hanno definitivamente fondati e che vanno, in sintesi, dalle leggi approvate nella Virginia del 1600 fino al finto anti-razzismo di tanta intellettualità liberal di oggi. E lo fa tenendo come centrale la riflessione di come quello di razza non sia soltanto indissolubile da quello di classe, ma anche di come tale concetto abbia prevalso nell’organizzazione socio-economica di un paese, l’Italia, che si ostina, soprattutto a sinistra, a ritenersi come tutt’altro che razzista, anzi un paese di brava gente. Gli italiani appunto.

L’opera può essere affiancata ad altre già pubblicate in Italia, come quelle di Houria Bouteldja1 e di Tommaso Palmi2, ma ha il grosso pregio di riportare il dibattito nello specifico dell’Italia contemporanea, proprio mentre i fatti recenti, come quelli legati alla recente visita del primo ministro laburista Starmer, durante la quale la “destra di governo” di Giorgia Meloni e la “sinistra di governo” inglese si sono date la mano sulla pelle dei migranti e sulle modalità da adottare per il loro “respingimento”, confermano l’allineamento di posizioni politiche che solo per motivi elettorali e mediatici possono essere presentate come “nemiche”.

Motivo per cui, nel recensire un libro che con dovizia di particolari e dati approfondisce il tema dello sviluppo e dell’affermazione del discorso razziale in Italia, dalle sue origini nell’Italietta coloniale e liberale seguita all’unificazione nazionale, attraverso la Grande Crisi e il Fascismo, per proseguire con un ambiguo dopoguerra e fino agli attuali “fasti razziali” riconducibili alle conseguenze della globalizzazione e delle grandi migrazioni in atto, sembra importante sottolineare come il tema del razzismo non sia mai disgiunto da quello della svalutazione e repressione della forza lavoro, sia che si trattasse dei lavoratori provenienti dal Sud del paese negli anni successivi al secondo conflitto mondiale oppure che si tratti della attuale forza lavoro migrante.

Cui fa da corollario l’attenzione rivolta, come si è già accennato più sopra, alla falsità di un discorso anti-razzista in cui alla mera assistenza solidale, mirata soprattutto all’integrazione nel sistema degli immigrati “buoni”, si affianca un discorso liberale che separa nettamente il discorso della forza lavoro da quello della sua razzializzazione o, per meglio dire, della “razza” dalla “classe”.

Prendendo a spunto un editoriale comparso nel 2014 sul «Corriere della sera», l’autrice sottolinea come «prendere la parola contro il razzismo vuol dire soprattutto combattere lo sfruttamento e la precarietà di tutti i giorni»3. Mentre un noto docente universitario, dalle pretese etiche liberal-progressiste, nel difendere l’editoriale di cui era stato autore, sosteneva che quell’articolo non «riguardava certo i profughi» ma «i flussi di forza-lavoro». Confermando così con quella dichiarazione, anche se fino a quel momento era stato possibile non vedere e lasciarsi distrarre dalle necessità immediate dei salvataggi in mare o dell’uso indiscriminato dei Centri di permanenza per il rimpatrio (CPR), come l’ordine del discorso potesse assumere una forma più esplicita e problematica. Rivelando come la matrice di fondo del discorso di tanta parte dell’accademia e degli operatori dell’informazione consistesse semplicemente in una sorta di separazione della “pula del razzismo” dal “grano della condizione di classe” e dell’organizzazione del lavoro.

Per i profughi non vale la pena sprecare analisi sulle pagine di un prestigioso quotidiano, basta un po’ di pelosa compassione e lacrime di coccodrillo da sfoggiare all’indomani di stragi sempre annunciate; quella della forza lavoro è invece una materia ben più sostanziale e, a differenza di quattro straccioni tutelati dalle leggi internazionali, chiama in causa l’organizzazione del lavoro e dei rapporti sociali di produzione e riproduzione. Il razzismo […] non è un vizio ideologico […] né una patologia sociale che colpisce la classe dirigente nella crisi, il razzismo è un potente dispositivo di organizzazione delle nostre società, fondamento della stessa razionalità del capitale4.

Una logica, ripresa nell’editoriale in questione e nelle repliche alle critiche pervenute dal movimento, soprattutto bolognese, degli studenti universitari, che si prodiga nella costruzione di “differenze”, invocando “interventi selettivi” in materia di immigrazione:

per lanciarsi poi a stabilire una gerarchia tra migranti buoni e migranti cattivi. Dove i buoni sono quelli che si integrano, quelli che sono disposti ad annullare la propria identità sociale e culturale sullo sfondo del primato della whiteness e di un sistema di relazioni verticali costruito dentro le gerarchie della razza. Quelli, soprattutto, che accettano senza batter ciglio forme feroci di sfruttamento sul lavoro, dequalificazione e marginalizzazione5.

Un discorso fondamentalmente razzista, perché mette a lavorare la razza:

che come ci insegna Frantz Fanon non è un attributo biologico ma una costruzione sociale e discorsiva orientata alla marginalizzazione e discriminazione «di un gruppo di uomini da parte di un altro», per costruire segmenti segregati e tra loro in competizione della forza-lavoro. Tanto più resisti all’assimilazione e combatti lo sfruttamento tanto più sei cattivo, destinato ad occupare le posizioni sociali e produttive più precarie, peggio retribuite e maggiormente dequalificate […] Per questo la strategia degli intellettuali neoliberali, in questo paese e non solo, è sempre quello di alzare una cortina fumogena che fa perdere di vista la realtà, che permette di mescolare le carte e rendere indecifrabili le differenze tra «accoglienza» e «convenienza» del lavoro migrante […], tra profughi e «clandestini», tra migranti «buoni» e migranti «cattivi»6.

Una pratica, per molti versi, non troppo diversa dalla criminalizzazione di qualsiasi forma di resistenza di classe e delle forme più avanzate e radicali della sua teorizzazione. Lontana da quella convinzione di Karl Marx, contenuta nei testi sulla religione, spesso citati a sproposito e con intento puramente laico e borghese, secondo cui quello che interessa al proletariato internazionale e ai rivoluzionari non è togliere o aggiungere petali alle catene, ma spezzarle una volta per tutte.

Relegare il razzismo ad altri momenti storici o ad altre latitudini è senz’altro più conveniente che discuterlo nella sua attualità. Il presente ci parla di un sistema di sfruttamento diffuso e strutturale che il razzismo alimenta e rende possibile nelle sue differenti gradazioni. Un dispositivo intrinseco alla produzione capitalistica che riguarda tutte e tutti, razzializzati e non. Il razzismo è, detto altrimenti, la sintesi più infame e violenta di uno sfruttamento che tutte e tutti conosciamo e viviamo. E’ per questo allora che combattere il razzismo non è mera solidarietà ma una lotta comune che ci riguarda da vicino, forse a volte più di quanto crediamo7.


  1. H. Bouteldja, I bianchi, gli ebrei e noi, Edizioni Sensibili alle foglie 2017.  

  2. T.Palmi (a cura di), Decolonizzare l’antirazzismo. Per una critica della cattiva coscienza bianca, DeriveApprodi, Roma 2020.  

  3. A. Curcio, L’Italia è un paese razzista, DeriveApprodi, Bologna 2024, p. 89.  

  4. A. Curcio, op. cit., pp. 89-90.  

  5. Ibidem, p. 90. 

  6. Ibid. , pp. 90-91.  

  7. Ivi, p. 90.  

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Avanti barbari! https://www.carmillaonline.com/2024/08/07/avanti-barbari/ Wed, 07 Aug 2024 20:00:45 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83798 di Sandro Moiso

Louisa Yousfi, Restare barbari. I selvaggi all’assalto dell’Impero, DeriveApprodi, Roma 2023, pp. 96, 12 euro

Alle 22 in punto la radio della polizia penitenziaria gracchia frasi in arabo. Carcere minorile Ferrante Aporti di Torino: la rivolta iniziata poco dopo le 20 è in atto ormai da più di due ore. Incendio nelle celle, negli uffici, nei corridoi. Botte agli agenti. «Si sono presi una nostra radio, attenti alle comunicazioni: sentono tutto» dice quello della penitenziaria. No, è peggio. I detenuti del minorile – una cinquantina, forse appena di più – si sono impossessati di gran parte [...]]]> di Sandro Moiso

Louisa Yousfi, Restare barbari. I selvaggi all’assalto dell’Impero, DeriveApprodi, Roma 2023, pp. 96, 12 euro

Alle 22 in punto la radio della polizia penitenziaria gracchia frasi in arabo. Carcere minorile Ferrante Aporti di Torino: la rivolta iniziata poco dopo le 20 è in atto ormai da più di due ore. Incendio nelle celle, negli uffici, nei corridoi. Botte agli agenti. «Si sono presi una nostra radio, attenti alle comunicazioni: sentono tutto» dice quello della penitenziaria. No, è peggio. I detenuti del minorile – una cinquantina, forse appena di più – si sono impossessati di gran parte del carcere. (Notte tra i 1° e il 2 agosto 2024, da un articolo di Federico Femia e Caterina Stamin su “La Stampa”)

Come sempre, ad essere sinceri, le recensioni di libri altrui non possono che costituire dei pretesti per parlare di argomenti che premono ai recensori. Tale osservazione vale anche in questa occasione, in cui il bel saggio di Louisa Yusufi, pubblicato lo scorso anno da DeriveApprodi in Italia, ma uscito originariamente in Francia nel 2022, permette a chi scrive di trattare un problema che travalica la “linea del colore” e della “barbarie” inclusa nei confini delle banlieue francesi per mettere in discussione il concetto di civiltà tout-court, all’interno di tutto il modo di produzione e riproduzione basato sui principi del capitale e dell’appropriazione privata della ricchezza socialmente prodotta.

Il titolo del testo della Yousfi rinvia, inevitabilmente, al motto “rimanere umani” che da anni accompagna manifestazioni e proposizioni ricollegabili alla rivendicazione in difesa dei diritti delle fasce più deboli e povere della popolazione e, in particolare, delle condizioni di vita dei migranti e degli immigrati, accompagnandosi spesso anche ai discorsi sulla guerra e le sue cruente e spietate logiche di violenza e sterminio. Non a caso il suo presunto ideatore, Vittorio Arrigoni noto come Vik, proprio a Gaza era stato ucciso nell’aprile del 2011 da una cellula jihadista salafita che si opponeva a qualsiasi tipo di intervento umanitario occidentale nell’enclave palestinese.

Quell’atto, per molta parte della sinistra, aveva finito col confondersi con una sorta di frattura tra ciò che è accettabile e ciò che non lo è dell’azione dei popoli in rivolta e delle loro, spesso squinternate e ambigue, milizie. Un episodio drammatico che, certamente, ha contribuito ad approfondire il solco tra coloro che contestano l’attuale modo di produzione senza peraltro uscirne dai limiti delle leggi e dei “diritti” e coloro che che in quei limiti non sono compresi in quanto esclusi per ragioni di classe mascherate da colore della pelle, etnia, religione e quant’altro finisce col contribuire a definire una condizione di “barbarie”, sia nell’agire politico e quotidiano che nella formulazione delle idee che l’accompagnano.

Una separazione che ha finito col rafforzare l’idea che soltanto l’accettazione di certe regole e una certa visione del mondo di stampo liberale e occidentale possa far sì che l’altro sia accettato sul piano della comunicazione e dell’inserimento nella comunità degli “individui aventi diritto”. Una superficiale e opportunistica valutazione in cui può essere considerato umano soltanto chi accetta le regole dettate dal migliore dei mondi possibili, quello bianco, occidentale e liberale, e dalle sue leggi “universali”. Obiettivo per cui, come afferma l’autrice, “i civilizzati” si sforzano di creare dei ponti.

Ah, i ponti… […] vediamo un’intera cricca di sociologi che annuisce con aria di intesa. Sono coloro che lavorano sulla questione […] Il nostro sudiciume, le nostre depravazioni, la nostra presunta predisposizione ad accumulare tutti i vizi dell’umanità, a cedere i nostri atavismi bellicosi, a picchiare coloro che amiamo, donne e bambini, ad andare in cerca di crimini, a sparare in mezzo alla folla, a linciare gli omosessuali e sputare sugli ebrei, non sarebbe altro che la storia di una mancanza. Tutte le cose che abbiamo perso, tutte le opportunità che non ci si sono presentate, tutti i riconoscimenti di cui siamo stati privati, tutto l’amore che non abbiamo ricevuto. Sgocciolano compassione quando credono di restituirci la nostra dignità, quando tremano di commozione nel recitare la triste storia che raccontano di noi: come se non fossimo mai stati abbastanza amati […] Asciugate le lacrime. I barbari non sono selvaggi che si sarebbe dovuto frustare di meno, umiliare di meno e coccolare di più; selvaggi maltrattati dalla civilizzazione […] Questa è la loro grande scoperta: il nostro «imbarbarimento» è il fallimento dell’integrazione1.

Ma Louisa Yousfi, giovane giornalista francese di origine algerina, dopo aver ironizzato sulle condizioni dell’oppressione che contribuiscono a definire la barbarie, come ha già avuto modo di sottolineare su Carmilla Jack Orlando, coglie ancora nel segno:

seguendo le liriche dei trapper Booba e PNL, per aprire uno squarcio nella cattiva coscienza francese e farne sgorgare il sangue delle banlieue, del lato cattivo.
Tutta questa roba, questa poesia trucida, ha un unico scopo: restare barbari. Laddove la cosiddetta integrazione non solo ha fallito, ma ha scientemente prodotto una specifica forma di colonizzazione interna alle metropoli democratiche e generato una subalternità cui si imputa quotidianamente un’inferiorità colpevole e, paradossalmente, congenita; ribaltare l’accusa è una pratica di resistenza, risignificare la propria mostruosità vuol dire aumentare la propria potenza, sottolineare l’alterità è ricomporre i pezzi smembrati della propria anima.
È una vendetta contro la dominazione e un assalto alla conquista della propria condizione umana2.

Restare barbari, sola e unica condizione per rimanere umani. Questa la sfida lanciata dalla riflessione della giovane autrice che, nelle settimane scorse, ha avuto modo di partecipare al dibattito promosso dall’Intifada studentesca di Torino al Festival Alta Felicità svoltosi a Venaus dal 26 al 28 luglio e che ha dedicato il suo libro: «ai barbari contemporanei la cui vita e opere ci spiegano, più di qualsiasi altro resoconto, ciò che l’Impero chiama “imbarbarimento”. Si comincia dalla strada e dai suoi profeti. Perché tutti i racconti sul presente […] ci arrivano dai margini dell’impero e dai suoi recalcitranti abitanti»3.

Rovesciare, dunque, l’umanitarismo occidentale dell’integrazione e dell’accettazione delle sue regole del buon viver civile nel suo contrario, dimostrandone l’implicita disumanità e, allo stesso tempo, rovesciando lo stereotipo del barbaro in quello dell’unica forma residua di umanità possibile. «Il trucco della civilizzazione riproduce continuamente l’illusione. Francamente, per cosa vuoi competere con l’Occidente? Hanno inventato l’innocenza. Hanno massacrato interi popoli e, nel frattempo, inventato Walt Disney»4.

Stiamo però ben attenti; non si tratta di una battaglia di civiltà, come la peggiore saggistica filo-occidentale vorrebbe; qui si tratta proprio di stabilire ciò che permetterà alla specie di mantenere la sua umanità. Indipendentemente dal colore della pelle o delle tradizioni passate e delle aree di provenienza geografica e sociale. Come sostiene ancora l’autrice:

L’imbarbarimento è un processo di integrazione […] i nostri mostri non nascono da una mancanza di voi, ma da un eccesso di voi […] Nulla di questo mondo può salvarci, non solo perché una cosa non può essere al contempo il veleno e la sua cura, ma anche perché non siamo noi a dover essere salvati […] Che i civilizzati evitino dunque di insistere sul nostro destino. Siamo noi che dovremmo piangere per loro. Siamo noi che possiamo salvarli. Non è mai successo il contrario, in nessun modo e in nessun momento della storia5.

Soprattutto in un’epoca in cui un ciclo, quello del dominio occidentale sul resto del mondo, ha iniziato a venir meno e a veder disgregarsi le sue forme politiche e militari. Spingendo spesso gli osservatori a tracciare paragoni con la fine dell’Impero Romano.
Impero che, come ebbe modo di osservare lo stesso Marx, finì «con la comune rovina delle classi in lotta», incapaci entrambe sia di mantenere che di rovesciare le strutture economiche e sociali su cui lo stesso si fondava. Entrambe travolte dall’arrivo dei “barbari”, destinati a destrutturare definitivamente e a rifondare quelle stesse basi sociali e legislative su cui si erano retti i rapporti di forza fino ad allora.

Ecco allora che come unica soluzione possibile, anche, per il proletariato bianco ci sarebbe quella di farsi, più che rimanere, barbaro. Criticando e contribuendo a distruggere quella presunta civiltà di cui troppo spesso la Sinistra, anche radicale, ha sposato le intrinseche ragioni. Ancora una volta è Amadeo Bordiga, con un articolo del 1951, a permetterci di riallacciare il filo di un ragionamento non estraneo ma soltanto interrotto all’interno del movimento antagonista di classe, affermando, con Friedrich Engels, che la civiltà, in fin dei conti, non si riassume in altro che:

“nello Stato che, in tutti i periodi tipici, è, senza eccezione, lo Stato della classe dominante ed in ogni caso rimane essenzialmente una macchina per tenere sottomessa la classe oppressa e sfruttata”. Questa civiltà […] deve vedere la sua apocalisse prima di noi. Socialismo e comunismo, sono oltre e dopo la civiltà […] Essi non sono una nuova forma di civiltà. “Poiché la base della civiltà è lo sfruttamento di una classe da parte di un’altra, l’intero sviluppo della civiltà si muove in una contraddizione permanente”. [Così] con Marx Engels e Lenin noi ultimi ne stiamo fuori.
Può essere conturbante che dalla caduta della civiltà non sia ancora sgorgato il comunismo, ma è ridicolo voler conturbare la soddisfazione capitalistica con la minaccia di alternative barbare6.

Ritornando, poco dopo, a fare la seguente affermazione a proposito della fine dell’ordine imperiale romano:

Furono le giovani forze barbare ad uccidere una marcia burocrazia. “Lo Stato romano era diventato una macchina gigantesca e complicata, esclusivamente per lo sfruttamento dei sudditi. Al di là dei limiti della sopportazione fu spinta l’oppressione con le estorsioni di governatori, di esattori di imposte, di soldati. Lo Stato romano fondava il suo diritto ad esistere sulla difesa dell’ordine all’interno, sulla difesa contro i barbari dall’esterno. Ma il suo ordine era peggiore del peggiore disordine, e i barbari, da cui pretendeva difendere i cittadini, erano da questi considerati come salvatori!”. Sembrò con le vittoriose invasioni, che per quattro secoli, ordinandosi l’Europa strappata a Roma nelle forme della teutonica costituzione di gentes, la storia si fosse fermata, e con essa la civiltà e la cultura. Ma così non fu. […] “Le classi sociali del IX secolo si erano formate non nella putrefazione di una società in decadenza, ma nelle doglie del parto di una civiltà nuova. La nuova generazione, sia padroni che servi, era una generazione di uomini, paragonata a quella dei suoi predecessori romani”.
“Ma che cosa fu quel misterioso incanto con cui i barbari infusero nuova vita all’Europa morente? Era forse un potere miracoloso innato nella stirpe tedesca, come ci vengono predicando i nostri storici sciovinisti? In nessun modo. Non furono le specifiche qualità nazionali dei popoli germanici a ringiovanire l’Europa, ma semplicemente la loro costituzione delle gentes, la loro barbarie”.
“Tutto ciò che di forte e vitale i Tedeschi innestarono nel mondo romano fu la barbarie. Solo dei barbari sono in grado di ringiovanire un mondo, che soffre di civiltà morente”7.

Resta evidente che il pericolo del ritorno alla barbarie insito in tante minacce contenute nei discorsi in difesa della civiltà e del liberalismo, non è costituito da altro che dal ritorno ad una lotta di classe in grado di porre fine al più spietato modo di produzione e appropriazione mai comparso sulla faccia della terra. L’unico ad avere domato prima i propri barbari interni per poi trasformarli in carnefici di quelli esterni con l’avventura colonialista, la promessa del benessere egualitario per i bianchi e l’illusione del mantenimento di un unico impero permanentemente al comando degli affari del mondo.

Nessuna società decade per le sue leggi interne, per le sue interne necessità, se queste leggi e queste necessità non conducono – e noi lo sappiamo e attendiamo – a far levare una moltitudine di uomini, organizzata con armi in pugno. Non vi è per nessuna “civiltà di classe”, per corrotta e schifosa che essa sia, morte senza traumi.
Quanto alla barbarie, che a tale morte del capitalismo per dissoluzione spontanea andrebbe a succedere, se la sua scomparsa fu da noi considerata una necessaria premessa dell’ulteriore sviluppo, che inevitabilmente doveva passare per gli errori delle successive civiltà, i suoi caratteri come forma umana di convivenza non hanno nulla di orribile, che ne faccia temere un impensabile ritorno.
Come occorrevano a Roma, perché non si disperdesse il contributo di tanti e tanto grandi apporti alla organizzazione degli uomini e delle cose, le orde selvagge che calassero apportatrici inconsce di una lontana e più grande rivoluzione, così vorremmo che alle porte di questo mondo borghese di profittatori oppressori e sterminatori urgesse poderosa un’onda barbarica capace di travolgerla.
[…] Ben venga dunque, per il socialismo, una nuova e feconda barbarie, come quella che calò per le Alpi e rinnovò l’Europa8.

Un passo lungo e audace, ancora ben distante dall’essere accettato e fatto proprio sia dagli oppressi delle periferie razzializzate che da quelli che si illudevano di aver toccato con mano il sogno capitalista del benessere “per tutti”, senza dover abolire proprietà privata e interesse individuale, ma che può costituire un valido strumento per la rimozione delle barriere del perbenismo e del tradizionalismo e della sfiducia, quest’ultima più che motivata, che ancora separano in parti diverse, e spesso nemiche, il corpo unico e pericoloso della moderna creatura proletaria e prometeica creata dal Frankenstein imperialista.

Proprio per questo motivo opere come quella di Louisa Yousfi e Houria Bouteldja9, che l’ha direttamente ispirata, dovrebbero trovare spazio nella biblioteca di chiunque voglia davvero contribuire al superamento di questo mondo orrendo anche se travestito di democrazia elettoralistica e umanitarismo.


  1. L. Yousfi, Restare barbari. I selvaggi all’assalto dell’Impero, DeriveApprodi, Roma 2023, pp. 24-25.  

  2. J. Orlando, Gang gang gang! Immaginari e tensioni della metropoli – Ep. 1, «Carmillaonline», 10 maggio 2023.  

  3. L. Yousfi, op. cit., pp.19-20.  

  4. Ibidem, p.27.  

  5. Ivi, pp. 29-31.  

  6. A. Bordiga, Avanti Barbari!, «Battaglia Comunista», n. 22 del 1951.  

  7. Ibidem, le citazioni tra virgolette sono da F. Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, 1884.  

  8. Ivi. 

  9. H. Bouteldja, I bianchi, gli ebrei e noi. Verso una politica dell’amore rivoluzionario, Sensibili alle foglie 2017.  

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Fucilate Sartre https://www.carmillaonline.com/2020/11/04/contro-lopportunistica-accettazione-del-discorso-antirazzista-di-sinistra/ Wed, 04 Nov 2020 21:50:04 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=63345 di Sandro Moiso

Tommaso Palmi (a cura di), Decolonizzare l’antirazzismo. Per una critica della cattiva coscienza bianca, DeriveApprodi, Roma 2020, pp. 128, 9,00 euro

“Militante è colui che non smette mai di crescere e quindi di formarsi. Militante è colui che non si accontenta mai di ciò che ha già a disposizione, ma che si proietta costantemente verso la sfida e la messa a verifica delle sue insufficienze” (Tommaso Palmi)

Sulla base di quanto affermato dal curatore del testo appena pubblicato da DeriveApprodi, può essere utile e necessario sottolineare come, troppo spesso, [...]]]> di Sandro Moiso

Tommaso Palmi (a cura di), Decolonizzare l’antirazzismo. Per una critica della cattiva coscienza bianca, DeriveApprodi, Roma 2020, pp. 128, 9,00 euro

“Militante è colui che non smette mai di crescere e quindi di formarsi. Militante è colui che non si accontenta mai di ciò che ha già a disposizione, ma che si proietta costantemente verso la sfida e la messa a verifica delle sue insufficienze” (Tommaso Palmi)

Sulla base di quanto affermato dal curatore del testo appena pubblicato da DeriveApprodi, può essere utile e necessario sottolineare come, troppo spesso, anche il razzismo endemico del modo di produzione vigente e dell’immaginario che ne deriva sia presentato come un’eccezione, un errore di carattere prevalentemente culturale risolvibile con la forza della ragione. Quel crescere e formarsi dei militanti di cui parla Palmi si riferisce quindi esplicitamente alla necessità di superare una visione stereotipata del mondo e delle sue insufficienze, troppo spesso ispirata da una cattiva coscienza di origine borghese e falsamente democratica. Visione del mondo in cui il razzismo sembra solo più costituire una sorta di sogno o di incubo ritornante da un passato che la società moderna avrebbe già da tempo superato e accantonato.

Non a caso, proprio per chiarire la necessità di fare i conti con un passato che è invece ferocemente parte del nostro presente, il curatore inizia la sua recensione proprio con una citazione da Karl Marx (mica da individui insignificanti come Salvini o Giorgia Meloni oppure dai soliti dei malvagi di cui sono piene le pagine di libri di Storia scolastici) in cui il fondatore del comunismo moderno si lascia andare ad una serie di considerazioni tutt’altro che politically correct sui popoli delle colonie europee in Asia e Africa.

Lo fa, Palmi, non per sottoporre a critica severa l’autore originario di Treviri, ma piuttosto per storicizzarne le formulazioni e per dimostrare come alcuni assunti sulle condizioni di presunta “arretratezza”, non solo economica ma anche politica e culturale, dei popoli oppressi degli altri continenti abbiano finito per condizionare pesantemente la riflessione e la conseguente azione politica di coloro che pur si ritengono antirazzisti e di sinistra.

Le considerazioni del curatore, contenute nella bella introduzione, e quelle degli altri testi contenuti nel libro sono il risultato di un corso di formazione politica che si è svolto a Bologna, presso la Mediateca Gateway, nell’autunno/inverno 2019, con l’intento di fornire chiavi di lettura e categorie interpretative per decolonizzare il discorso e la pratica dell’antirazzismo italiano ed europeo. Cinque interventi ed un’intervista a Houria Buteldja1, che si focalizzano sulla compassionevole e falsificatrice rimozione della “razza” dal discorso storico e politico non solo ufficiale, ma anche di un certo antagonismo.

Qual è il presupposto da cui si dipanano le riflessioni contenute nel testo collettaneo? Sostanzialmente quello che il razzismo non sia una componente secondaria della società capitalistica e del suo prodotto sociale, ma piuttosto ne costituisca un fondamento essenziale. Forse il più importante insieme a quello della divisione in classi della società stessa. Ma mentre per la seconda si potrebbe affermare che in fin dei conti questa sia esistita in forme diverse fin dalla fine della comunità primordiale e dall’apparizione della proprietà privata della terra e dei mezzi di produzione, del primo si può dire che esso nasca con l’occidente moderno. Ed è per questo che tra le sue pagine si legge più volte che per coloro che si oppongono al razzismo la data di riferimento non può essere il 1789 ma il 1492.

D’altra parte, e non soltanto per salvaguardane il buon nome, fu lo stesso Marx a sottolineare, fin dal 1846, come:

La schiavitù diretta è il cardine del nostro industrialismo attuale proprio come le macchine, il credito ecc. Senza schiavitù niente cotone. Senza cotone niente industria moderna. Solo la schiavitù ha conferito alle colonie il loro valore, solo le colonie hanno creato il commercio mondiale e il commercio mondiale è la condizione necessaria della grande industria meccanizzata. Così le colonie, prima della tratta dei negri, fornivano al vecchio mondo pochissimi prodotti e non cambiarono in modo percepibile il volto del mondo. Perciò la schiavitù è una categoria economica della massima importanza. Senza la schiavitù l’America del nord, che è il paese più progredito, si trasformerebbe in un paese patriarcale. Si cancelli l’America del nord dalla carta delle nazioni e si avrà l’anarchia, la decadenza totale del commercio e della civiltà moderni. Ma fare scomparire la schiavitù vorrebbe dire cancellare l’America dalla carta delle nazioni2.

Schiavitù che nello “sviluppo” coloniale non assunse soltanto le caratteristiche dell’oppressione dell’uomo sull’uomo ma, anche e soprattutto, di una razza sulle altre. Far finta che questo abbia costituito soltanto un errore sul percorso del progresso significa rimuovere uno dei macigni che ancora tengono ancorata una parte consistente della classe operaia e del proletariato europeo, o più genericamente “bianco” come vediamo drammaticamente oggi negli Stati Uniti, agli interessi e all’immaginario del capitale. Anche quando di pensa progressista.

Non si tratta infatti di rimuovere una colpa attraverso la compassione o il soccorso umanitario (sia in loco che in mare), ma di prendere coscienza che la lotta antirazzista, esattamente come quella di genere, è un fattore dirimente all’interno del conflitto di classe e che, sostanzialmente, lo sopravanza. Come afferma infatti Palmi nell’introduzione:

questo libro vuole porsi in netta discontinuità con una lunga tradizione di studi sul razzismo che non ha mai fatto i conti con la sua matrice coloniale e ha scelto deliberatamente di non nominare la razza, rimuovendo dal discorso la materialità delle condizioni di subordinazione e sfruttamento dei soggetti razzializzati. Rovesciando questa impostazione, la volontà è quella di fornire alcuni strumenti fondamentali per leggere la realtà della composizione sociale razzializzata, senza ricrearne una rappresentazione edulcorata, eterodiretta e costruita introno a un’idea di vulnerabilità e dipendenza.
È su questo crocevia che si colloca la nostra critica della cattiva coscienza bianca. Lì dove la rimozione della storicità della razza significa occultamento della sua funzione strutturale e strutturante dell’ordine sociale.
Un antirazzismo che si dica ancorato alla materialità dei processi di razzializzazione non può prescindere da questo punto. Sacrifichiamo il moralismo pedagogico sull’altare di accademici e preti del conflitto. Non c’è nessuno a cui dobbiamo insegnare cos’è il razzismo, come non saremo noi, dall’alto del nostro paternalismo bianco e coloniale, a fornire ai soggetti razzializzati gli strumenti necessari a risollevarsi dalla propria condizione materiale e soggettiva. La ricomposizione della frattura razziale non è un dato sovrastrutturale di cui basta prendere coscienza, ma u n obiettivo politico da perseguire secondo processualità diverse e autonome 3.

Nella narrazione tradizionale, stereotipata e tossica, poi « Il regime fascista e le leggi razziali vengono assunti come forme idealtipiche del razzismo proprio in virtù del loro carattere di eccezionalità, che relega così le gerarchie della razza al ruolo di fugace comparsa nel processo di costruzione dell’italianità. Una coscienza lava l’altra e il dibattito pubblico italiano ci parla di un passato senza macchie», facendo così che

l’antirazzismo ha, in tempi recenti, preso dapprima la piega dell’educazione universale ai diritti dell’uomo e poi del richiami umanitario, definito nella crescita ipertrofica del sistema dell’accoglienza ed esacerbato dall’esplosione della cosiddetta «crisi dei rifugiati» […]
Quella umanitaria è divenuta a tutti gli effetti un’industria, entro cui il dispositivo razziale lavora senza sosta nella sua opera di valorizzazione e gerarchizzazione delle differenze. La retorica di cui questi contenitori si ammantano è spesso e volentieri quella delle forze della sinistra antirazzista, comprese quelle della cosiddetta sinistra radicale e dei movimenti sociali. Alternando un registro tragico e vittimizzante a uno paternalista, la figura del soggetto migrante viene metabolizzata per rispondere positivamente ai criteri di gestione e governo delle migrazioni internazionali. Quella che si spaccia per integrazione non risulta altro che la precisa collocazione dei e delle migranti all’interno di una più complessa catena di sfruttamento ed estrazione del valore […] La riproduzione dei rapporti sociali razzializzati passa innanzitutto attraverso forme di assimilazione dalle tinte arcobaleno, che parlano di educazione all’intercultura e rispetto dei diritti umani. Tirocini, stage, lavori socialmente utili e infinite altre tipologie di mansioni non retribuite, formalmente indirizzate all’inserimento del migrante nella società bianca e spesso sovvenzionate direttamente dallo Stato o dall’Unione Europea, agiscono in maniera ben più profonda e capillare nell’incanalare i soggetti razzializzati verso la loro collocazione subordinata e marginale di qualunque squadraccia dalle simpatie neonaziste. Non è il mercato degli schiavi di Lisbona e nemmeno il porto di Ellis Island. È l’etica illuminata della sinistra bianca, che generosamente raccoglie naufraghi in balia del Mediterraneo, per poi condannarli a una vita d’inferno fra galera, marginalità sociale e caporalato 4.

Negli altri contributi Miguel Mellino definisce la «crisi dell’antirazzismo europeo»; Anna Curcio ripercorre il filo rosso che tiene assieme la storia nazionale dal primo processo di unificazione fino all’incontro-scontro, piuttosto recente, con i grandi flussi delle migrazioni postcoloniali e con le nuove forme di gerarchizzazione fra Nord e Sud Europa, mentre Jamila Mascat propone una riflessione che punta a identificare razza e genere come forme specifiche della modernità capitalistica e Alvise Sbraccia propone una trattazione della relazione fra razzismo, crimine e criminologia, dove si individua la stretta relazione tra le matrici disciplinari della criminologia e la gerarchizzazione razziale figlia dell’esperienza coloniale, che insiste su l’attitudine delinquenziale del colonizzato. Infine Dhanveer Singh Brar, nel penultimo contributo, affronta il tema del pensiero politico legato alla blackness a partire dall’esperienza della diaspora, attraverso il richiamo a tre differenti prospettive, quella afroamericana,quella caraibica e quella britannica. A conclusione del volume un dialogo fra Anna Curcio e Houria Bouteldja fa il punto sull’antirazzismo decoloniale proposto dalla prassi teorico-politica del Parti des Indigènes de la République di cui è la portavoce. La conversazione ripercorre il rapporto con la sinistra francese, il rimosso coloniale e la narrazione eurocentrica della modernità e propone una critica tagliente all’astratto universalismo del femminismo bianco.

Occorre poi dire che proprio la Bouteldja riesce a coronare degnamente la raccolta di testi con un intervento radicale e interessante. Riuscendo a dare in sintesi alcune indicazioni politiche di cui coloro che si definiscono oggi nemici del capitale e del suo Stato dovrebbero tenere profondamente conto.

Noi indigeni affermiamo di non riconoscere la differenza fra sinistra e destra. Lo diciamo dall’inizio della nostra storia politica. Questa frattura della politica bianca non è un nostro problema. Per noi la distinzione fra sinistra e destra non ha alcun significato pregnante. Noi situiamo il nostro discorso sulla questione razziale, per questo «non 1789, ma 1492». Ma non è perché non la riconosciamo che questa differenza sparirà. Noi abbiamo la necessità imprescindibile di essere pragmatici e quando i membri della sinistra bianca si mobilitano contro i crimini della polizia diventano nostri alleati.
Tuttavia, perché questa sinistra possa posizionarsi rispetto alla questione decoloniale, deve in primo luogo operare una sorta di rivoluzione culturale e finalmente prendere in considerazione la questione razziale per intero. Deve far sua la critica all’eurocentrismo che pervade gli ambienti di sinistra. Nel libro ho scritto «fucilate Sartre». Perché le figure come la sua sono quelle che hanno permesso di perpetuare il crimine coloniale. Sartre è stato a lungo considerato fra i migliori esponenti del pensiero anticoloniale bianco ed europeo e negli anni Sessanta, ha ricevuto vari attacchi dall’estrema destra. In un certo senso i primi a fucilare Sartre sono stati loro, per la sua posizione a favore dell’indipendenza algerina e solidale alla causa vietnamita. Tuttavia, Sartre non è mai riuscito a farsi veramente carico del suo ruolo di intellettuale anticoloniale, poiché non è stato in grado di abbandonare la causa di Israele e sostenere il popolo palestinese. Per questo è rimasto bianco a tutti gli effetti. «Fucilare Sartre» ha precisamente il significato di fucilare la sinistra bianca5.

Nel corso del dialogo, Anna Curcio, infine, afferma: « Si potrebbe dire, riassumendo, che per abolire la razza bisogna innanzitutto nominarla, mettere le gerarchie razziali al centro del discorso politico antirazzista…» dando così modo alla Boutreldja di concludere:

Esattamente. Mettere la razza al centro per abolirla. Mettere in evidenza che esiste un razzismo strutturale dentro la società per combatterlo […] C’è la necessità di arrivare a un momento in cui la classe operaia bianca capisca che ha più interessi ad allearsi con noi, piuttosto che con la borghesia bianca. Si possono prendere molti esempi di questa dinamica, soprattutto rispetto ai Gilet Gialli, in quanto specificità francese. Avevamo molta paura all’inizio che il movimento dei Gilet Gialli si indirizzasse verso l’estrema destra, ma al contrario si sono progressivamente radicalizzati verso sinistra e hanno avuto modo di provare sulla propria pelle, attraverso l’attività politica, cosa volesse dire diventare bersaglio delle sistematiche persecuzioni della polizia. In questo modo è stato possibile trovare un punto di convergenza, nella violenza dello Stato e della polizia […]
Se si va alla ricerca del popolo perfetto, sempre pronto ad alzare la voce in nome della questione sociale, come piace pensare alla sinistra, la rivoluzione difficilmente sarà mai realizzabile. Noi non abbiamo problemi con quello che è l’essere «reazionario » delle classi indigene, perché siamo perfettamente consapevoli di quello che è lo stato politico dell’indigenato […] Diciamo a chiare lettere di essere un’organizzazione anti-integrazionista. Per noi la condizione di partenza per un movimento decoloniale è quella di mettere in discussione le strutture fondanti dello Stato-nazione e dell’imperialismo. Il nostro progetto e la nostra ambizione non è quella di diventare francesi6.

Ancora una volta con tanti saluti alle anime candide e alle belle addormentate nel bosco (sugli allori delle sconfitte passate), che dovrebbero almeno sforzarsi di imparare qualcosa dalle parole della Canzone del maggio di Fabrizio De André:

anche se voi vi credete assolti
siete lo stesso coinvolti.


  1. Della quale su Carmilla è stato recensito l’unico testo tradotto in Italiano, I bianchi, gli ebrei e noi (qui)  

  2. Karl Marx, Lettera a Pavel Valisevič Annenkov del 28 dicembre 1846 

  3. T. Palmi, Introduzione a Decolonizzare l’antirazzismo, p. 11  

  4. T. Palmi, cit., pp. 8-9  

  5. H. Bouteldja, Decolonizzare l’antirazzismo, conversazione con Anna Curcio in op. cit. pp. 111-112  

  6. H. Bouteldja, cit., pp. 114-117  

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Rivolta e “negritudine” https://www.carmillaonline.com/2019/09/11/rivolta-e-negritudine/ Wed, 11 Sep 2019 21:01:17 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=54237 di Sandro Moiso

Gioacchino “Jack” Orlando, No Justice No Peace. Storia militante delle lotte per l’autodeterminazione afroamenricana, Red Star Press, Roma 2019, pp. 224, euro 16,00

Molte sono state le attenzioni, e le pubblicazioni, rivolte negli ultimi anni alla ricostruzione storica, sociologica e politica delle esperienze di lotta e organizzazione degli afroamericani nel ventre della bestia rappresentata dalla società americana, dalla sua struttura economica e dalla sua compartimentazione razziale e di classe. Ma l’autore di questo libro è il primo a dichiarare esplicitamente che il suo intento non è né storiografico né [...]]]> di Sandro Moiso

Gioacchino “Jack” Orlando, No Justice No Peace. Storia militante delle lotte per l’autodeterminazione afroamenricana, Red Star Press, Roma 2019, pp. 224, euro 16,00

Molte sono state le attenzioni, e le pubblicazioni, rivolte negli ultimi anni alla ricostruzione storica, sociologica e politica delle esperienze di lotta e organizzazione degli afroamericani nel ventre della bestia rappresentata dalla società americana, dalla sua struttura economica e dalla sua compartimentazione razziale e di classe. Ma l’autore di questo libro è il primo a dichiarare esplicitamente che il suo intento non è né storiografico né etnografico e che, piuttosto, è quello di voler fornire ai lettori un modello di auto-organizzazione, riflessione e di lotta ancora utile, forse più che mai, ai nostri giorni, in un contesto di frammentazione sociale e impoverimento che se da un lato vede un ritorno massiccio della propaganda razzista e nazionalista tra le file di quello che potremmo descrivere come il “fu proletariato bianco”, dall’altro vede svilupparsi un contesto di solidarietà che più che basarsi sulla lotta sembra orientarsi sempre più verso una “disarmante” pietà e carità cristiana.

Gioacchino “Jack” Orlando, classe 1992, è calabrese d’origine, romano d’adozione oltre che militante autonomo, lavoratore precario, studioso del movimento operaio, e saltuario collaboratore di Carmilla. Con la tesi di laurea che si è trasformata nell’opera appena pubblicata da Red Star Press ha vinto il premio Lorusso attribuito dal CUA (Collettivo Universitario Autonomo di Bologna).

Al centro della riflessione di Orlando, dichiaratamene, brilla la stella polare del pensiero di Franz Fanon, in particolare quello dedicato alla riappropriazione della violenza come strumento costituente/destituente attraverso cui il “dannato”, tale ancora troppo spesso per il colore della pelle o identità etnica, può “attivare un percorso di riappropriazione identitora aria e presa di coscienza politica, preliminare all’organizzazione antagonista”1. Riappropriazione che passa anche attraverso il concetto di negritudine, ovvero del riconoscimento di una condizione di sfruttamento ed emarginazione che può però rinchiudere in sé anche le radici culturali e politiche di una ridefinizione del sé individuale e collettivo, tesa a fare della stessa categoria uno strumento per la costruzione di una soggettività autonoma ben definita e antagonista del sistema che l’ha prodotta.

Le riflessioni di Fanon, secondo l’autore, servono ad ampliare ed integrare la griglia di interpretazione marxista e permettono di comprendere meglio la dimensione di violenza sistemica e multiforme (poliziesca, culturale, giuridica, psichica, economica) che agisce all’interno di un contesto segregato come quello americano. Ma non solo.
Non a caso nel primo dei due intermezzi che separano tra di loro i tre capitoli della ricerca, l’attenzione è rivolta tutta all’influenza che sugli afroamericani, e sul Black Panther Party in particolare, ebbero l’azione e il pensiero dei principali leader dei movimenti di liberazione in Africa: Patrice Lumumba, Kwame Nkruma, Sékou Touré, Amilcar Cabral.

Nel primo capitolo, «Burn Baby Burn!» Le origini della protesta nera, l’autore non dimentica però il percorso che da Rosa Parks, passando attraverso il pensiero e l’azione di W.E.B. Du Bois, Aimé Césaire e Martin Luther King, ha condotto al radicalismo di Malcom X, ultima fermata dell’evoluzione della strategia afroamericana per il riconoscimento di “diritto” della propria soggettività prima del salto verso l’ipotesi anti-coloniale, rivoluzionaria e insurrezionale sviluppata dal B.P.P.2

Tale scelta di lotta viene inserita da Jack all’interno di una tradizione di lotte e rivolte, in cui il pensiero torna inevitabilmente alle riflessioni fanoniane sulla violenza come strumento di riscoperta di un’identità politica, che hanno caratterizzato le comunità afroamericane nel corso dei quattro secoli intercorsi tra lo sbarco dei primi schiavi americani in Virginia e l’attuale America di Trump.
Tale tema viene trattato nel secondo intermezzo: «Roots!» La lunga resistenza contro la schiavitù.

L’ultimo capitolo3, riprende il discorso della lotta e della organizzazione dal basso là dove la momentanea sconfitta delle Pantere nere, dovuta sia all’azione implacabile del Cointelpro (acronimo di Counter Intelligence Program) che all’introduzione massiccia delle droghe nei ghetti come fattore di disgregazione sociale e politica, l’aveva lasciato.

Ecco allora, oltre che allo sviluppo di un movimento come Black Lives Matter, l’attenzione si sposta sulla funzione dell’Hip-hop e delle gang come possibili strumenti di aggregazione, anche politica, proprio nei luoghi in cui la disgregazione sociale precedente avrebbe potuto far pensare ad una sconfitta definitiva delle istanze afro-americane di riconoscimento dei propri diritti e, soprattutto, di quelle più radicali tra queste.

Lo slogan che dà il titolo al libro, sviluppatosi a partire dalla rivolta losangelena dei primi anni Novanta e poi diffusosi a macchia d’olio in tutti i ghetti del pianeta, da Detroit alle banlieu parigine, diventa a questo punto il vero filo conduttore di tutta la ricerca. Ricerca, come rivendica più volte l’autore, militante che più che incasellare nella ricerca storica e sociologica un materiale ancora rovente, in attesa che il tempo lo faccia raffreddare, intende piuttosto rilanciarne l’attualità per soffiare ancora sul fuoco delle rivolte che, nella crisi generalizzata dell’attuale modo di produzione, covano ovunque sotto le ceneri. Anche là dove il concetto di negritudine sembra essere più lontano, meno compreso e più osteggiato. Così come, per altre vie, sembra suggerire anche un’altra, e discussa, fanoniana: Houria Bouteldja.

“Negritudine” diventa allora sinonimo di emarginazione, sfruttamento. miseria economica e culturale, perdita di identità collettiva, ma allo stesso tempo può diventare strumento per una nuova ricerca identitaria che solo la lotta potrà realizzare, al di là, anche, delle fratture sociali e delle linee del colore e dei confini nazionali. In questo possibile percorso risiede l’utilità e l’attualità del testo di Orlando, di cui mi perito di suggerire la lettura a chiunque voglia veramente comprendere le contraddizioni del presente e le possibili vie per il superamento dalle stesse. Al di fuori di concezioni partitiche ed ideologiche che più che a unire contribuiscono soltanto a dividere ulteriormente un corpo sociale che sembra aver perso, in nome della redditività e del consumo, qualsiasi carattere di classe e qualunque aspetto di antagonismo rivoluzionario.

Un’opera che nel suo percorso ed impostazione risponde proprio a quella necessità di “promuovere all’interno delle università italiane un dibattito che sappia far emergere il patrimonio collettivo costituito da tutte quelle storie di lotta e militanza che troppo spesso sono costrette all’oblio da un’organizzazione del sapere che privilegia il punto di vista del potere costituito”, indicata come prioritaria tra le motivazioni finali per l’istituzione del Premio di laurea Francesco Lorusso, di cui quest’anno è stata insignita.


  1. G.J. Orlando, No Justice No Peace, p. 11  

  2. Di cui si occupa il secondo capitolo: «Move On!» Un socialismo dal ghetto, il caso del Black Panther Party.  

  3. «Terrordome!» Ghetti e resistenze nella contemporaneità.  

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Una modernità migrante https://www.carmillaonline.com/2018/11/28/una-modernita-migrante/ Wed, 28 Nov 2018 21:01:28 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=49599 di Sandro Moiso

Iain Chambers, Paesaggi migratori. Cultura e identità nell’epoca post-coloniale, Meltemi, Milano 2018, pp. 180, euro 15,00

Il testo appena ripubblicato da Meltemi è comparso per la prima volta in lingua inglese nel 1994, mentre la sua prima edizione italiana risale al 1996 per l’editore Costa & Nolan. E proprio lo stesso editore aveva già avuto il merito di far conoscere al pubblico italiano un altro testo di Iain Chambers, Ritmi urbani. Pop music e cultura di massa, comparso originariamente in lingua inglese nel 1985. Anch’esso ripubblicato oggi da Meltemi.

L’attuale riedizione di “Paesaggi migratori”, già preceduta da [...]]]> di Sandro Moiso

Iain Chambers, Paesaggi migratori. Cultura e identità nell’epoca post-coloniale, Meltemi, Milano 2018, pp. 180, euro 15,00

Il testo appena ripubblicato da Meltemi è comparso per la prima volta in lingua inglese nel 1994, mentre la sua prima edizione italiana risale al 1996 per l’editore Costa & Nolan. E proprio lo stesso editore aveva già avuto il merito di far conoscere al pubblico italiano un altro testo di Iain Chambers, Ritmi urbani. Pop music e cultura di massa, comparso originariamente in lingua inglese nel 1985. Anch’esso ripubblicato oggi da Meltemi.

L’attuale riedizione di “Paesaggi migratori”, già preceduta da un’altra, sempre per Meltemi, del 2003, costituisce ancora una scelta valida proprio per la persistenza degli argomenti e delle riflessioni che ne costituiscono il centro gravitazionale d’attenzione. Tali argomenti sono costituiti dalla realtà storica attuale delle migrazioni e delle immigrazioni dei popoli ex-coloniali verso quelle che un tempo costituivano allo stesso tempo il cuore delle metropoli coloniali (Europa e America del Nord) e dell’Occidente, inteso qui non soltanto come luogo geografico, ma, soprattutto, come luogo dell’immaginario culturale, filosofico e politico che dello stesso ha fatto il simbolo della modernità e dei suoi valori.

In realtà, come sottolinea ripetutamente l’autore, le attuali migrazioni rappresentano un fenomeno storico destinato non solo a cambiare i volti e i confini delle nazioni che ne sono toccate, ma anche un radicale sovvertimento dell’ordine disciplinare e delle gerarchie culturali che proprio sui “progressi dell’Occidente” hanno fondato le proprie ricerche, ipotesi e conclusioni. Sia nel campo del diritto che della storia e della sociologia.

Iain Chambers è ascrivibile al novero degli studiosi esponenti dei postcolonial studies. Insegna Studi culturali e media e Studi culturali e post-coloniali del Mediterraneo presso “L’Orientale” dell’Università di Napoli e ha sempre dedicato un’estrema attenzione alla frammistione tra le culture metropolitane e le culture importate dalle realtà a queste esterne, un tempo colonizzate ed oggi postcoloniali.

Lo ha fatto inizialmente attraverso la musica giovanile o pop e le sue contaminazioni derivate dall’incrociarsi della musica ‘bianca’ con quella ‘nera’ proveniente dall’Africa e/o dai Caraibi.
Oggi, come in parte in questo testo e in particolare in Mediterraneo blues. Musiche, malinconie postcoloniali, pensieri marittimi (pubblicato da Bollati Boringhieri nel 2012), continua ad occuparsi di musiche meticce e dei loro sviluppi in ambito mediterraneo, ma la sua ricerca non si sofferma soltanto sugli aspetti sociologici e musicologici dell’incrocio tra musiche e culture diverse e lontane per radici e tecniche.

Piuttosto Chambers intende partecipare al sovvertimento radicale dei presupposti culturali che fondano la cosiddetta “modernità occidentale” dimostrando come tale sovvertimento epistemologico non derivi da un parto cerebrale ma, piuttosto, dal fatto concreto del presentarsi sulla scena della Storia di un fatto che è allo stesso tempo nuovo e vecchio di almeno cinquecento anni. Quello del contatto diretto con uomini, donne, culture che si rifiutano di essere oggetti, come gli studi accademici vorrebbero per comodità di ricerca, pretendendo materialmente di essere soggetti attivi della trasformazione delle società e degli immaginari che le sottendono.

Chambers chiede al lettore, come altri autori recentemente presi in esame dal sottoscritto proprio sulle pagine di Carmilla (Daniel Lord Smail, Frantz Fanon, Sandro Luce, Houria Bouteldja), di allontanarsi da quell’Io occidentalizzato che sta alla base di una ormai superata ma allo stesso tempo ostinata rappresentazione del mondo e del suo divenire, per prendere coscienza di come tale formulazione in chiave ‘progressista’ del dominio occidentale e dell’uomo bianco sulle culture altre non costituisca altro che la giustificazione di quel razzismo e di quel nazionalismo che certo presunto progressismo finge di combattere.

Dopotutto, i migranti sono letteralmente prodotti dall’ordine del nostro legiferare sul mondo. Si produce il soggetto legale in contrapposizione a quello che non viene riconosciuto. In altre parole, la rappresentazione legale e politica richiede la rimozione e la repressione di altri corpi umani, facendo di loro degli oggetti esclusi.1

Semplificando, se l’essere umano proviene da un paese in cui il diritto occidentale non si è ancora del tutto affermato, dovrà essere educato al nostro sistema di diritto oppure escluso. Cosa, la seconda, che avviene quasi sempre. Ma, come afferma lo stesso autore, «nessuno nasce illegalmente o migrante» ed è proprio su questo fulcro che le idee astratte di giustizia, identità e appartenenza acquisiscono il loro volto concreto e troppo spesso nefando mentre, proprio in grazia dell’essere corpi reali e in carne ed ossa, i migranti che attraversano i confini sovvertono l’ordine stabilito poiché non possono essere registrati o assorbiti senza sovvertire quell’ordine. Anche epistemologico, come si è affermato prima.
Afferma dunque l’autore che si rende oggi necessario pensare con la migrazione:

Così che da oggetto di indagine sociologica o culturale – e dunque ridotta a un fattore esclusivamente economico o a una crisi politica – la migrazione venga interrogata come presenza complessivamente ben più profonda e ben più ampia nella comprensione della modernità. […] E questo implica, in ultima analisi, che la questione non può essere semplicemente concentrata sul corpo del migrante reso spettacolo – che vive, annega e muore ogni giorno nei notiziari – ma ci trascina nel cuore dell’attuale economia politica, nei suoi modi di dirigere e disciplinare l’ordine del mondo.2

Le vite precarie dei migranti contemporanei, affermando il diritto di muoversi, migrare, fuggire, non solo scardinano il modo in cui dovrebbero rispettare il posto assegnato loro dalla storia; ma segnalano anche la modalità precaria contemporanea della vita planetaria (sia umana che non).3

La migrazione non soltanto sfida l’ordine neo-liberale del mondo e la sua convinzione che tutto possa sempre essere riportato sotto controllo, ma ci sfida anche ad uscire da quella che consideriamo la “nostra cultura”.

Essere ‘italiano’, ‘inglese’ o ‘americano’ non è il risultato di una decisone autonoma. Ci viene insegnato come esserci e rispondere a questa posizione. E’ una pedagogia, sia nel senso ovvio della scuola e dell’istruzione, ma anche nelle pratiche politiche, pubblicamente amplificate, dell’immaginare e celebrare la nazione. Fa parte di chi pensiamo di essere, come rispondiamo, e perciò profondamente sedimentata nelle metodologie più ristrette delle discipline – storiografia, geografia, letteratura, scienze politiche, antropologia, sociologia…- che applichiamo nel fare senso del mondo.4

La migrazione, inoltre, non sfida solo la divisione territoriale, culturale e politica del pianeta, ma ci impone di uscire da quel ‘noi’ identitario, sotteso e latente, su cui alla fine fanno leva i peggiori aspetti del nazionalismo e del razzismo, troppo spesso travestiti di progressismo e dozzinale classismo, per « rinegoziare la propria eredità e radicalmente riorientare i propri linguaggi di appartenenza e di comprensione».


  1. I.Chambers, Paesaggi migratori, Meltemi 2018, pag. 9  

  2. I. Chambers, op. cit., pag. 8  

  3. Ibidem, pag. 11  

  4. Ibid., pag. 12  

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Contro l’unilaterale racconto della modernità https://www.carmillaonline.com/2018/09/27/contro-lunilaterale-racconto-della-modernita/ Wed, 26 Sep 2018 22:01:58 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=48746 di Sandro Moiso

Sandro Luce, Soggettivazioni antagoniste. Frantz Fanon e la critica postcoloniale, Meltemi editore, Milano 2018, pp. 308, € 20,00

A quasi sessant’anni dalla prematura scomparsa dell’autore, l’opera di Frantz Fanon (1925 – 1961) sembra acquisire una sempre maggior importanza nell’ambito degli studi post-coloniali e una ancor più significativa nell’ambito della più generale riflessione sui temi dei rapporti tra dominatori e oppressi, cultura e nazione e, soprattutto, sui concetti di modernità, progresso e diritti così come ci sono stati trasmessi da una vulgata storica, politica e filosofica ancora troppo influenzata dai miti e dagli scopi indicibili del colonialismo europeo [...]]]> di Sandro Moiso

Sandro Luce, Soggettivazioni antagoniste. Frantz Fanon e la critica postcoloniale, Meltemi editore, Milano 2018, pp. 308, € 20,00

A quasi sessant’anni dalla prematura scomparsa dell’autore, l’opera di Frantz Fanon (1925 – 1961) sembra acquisire una sempre maggior importanza nell’ambito degli studi post-coloniali e una ancor più significativa nell’ambito della più generale riflessione sui temi dei rapporti tra dominatori e oppressi, cultura e nazione e, soprattutto, sui concetti di modernità, progresso e diritti così come ci sono stati trasmessi da una vulgata storica, politica e filosofica ancora troppo influenzata dai miti e dagli scopi indicibili del colonialismo europeo e dei rapporti di produzione/sopraffazione di stampo occidentale.

La figura e l’azione dell’intellettuale originario della Martinica hanno infatti influenzato non soltanto i movimenti di liberazione nazionale dell’Africa e di quello che un tempo veniva definito, con un termine che derivava ancora da uno schema classificatorio figlio della concezione di progresso tipica dell’Occidente conquistatore, Terzo Mondo e dei suoi leader . Non solo ha influenzato Che Guevara e il Black Panther Party, ma anche, guardando con più attenzione, l’opera successiva di Michel Foucault oppure il radicalismo di una intellettuale e militante come Houria Bouteldja (qui).

Le sue opere principali,1 scritte sostanzialmente nel decennio 1951- 1961 e pubblicate in gran parte dopo la sua morte per leucemia, sono ancora di grandissima attualità e utilità, soprattutto per chi voglia adoperare e applicare nelle proprie ricerche il concetto di post-moderno così come è stato definito da Jean-François Lyotard.

Se infatti appare sempre più evidente come le grandi narrazioni globali prodotte dall’Illuminismo, dal Positivismo e da un troppo male inteso Marxismo, che Karl Marx per primo avrebbe rigettato, siano sempre meno adeguate per spiegare e ricostruire le vicende che hanno portato agli attuali rapporti di potere e dominazione tra classi sociali, generi e nazioni e se è sempre più evidente come il concetto di razza e nazione siano sempre più fragili di fronte alla reale esperienza storica e alle più moderne ricerche e conferme della genetica,2 l’opera di Fanon può ancora costituire non soltanto una guida per la ricerca e per l’azione, ma anche un autentico grimaldello per scardinare troppo facili certezze e assunti che finiscono spesso per l’inquinare ancora la riflessione e il pensiero politico di un malinteso antagonismo ancora influenzato dalle teorie tardo ottocentesche. Di fatto dal liberalismo e dal razionalismo positivista di stampo borghese ed eurocentrico.

E’ per questo motivo che l’opera di Sandro Luce, pubblicato da Meltemi in una collana, Linee, che da tempo presta particolare attenzione alle ricerche prodotte dai Postcolonial Studies e da quelle degli studiosi dei Subaltern Studies, è interessante, utile e necessaria.
L’autore, dottore di ricerca presso l’Università di Salerno e autore di un saggio su Michel Foucault3 e di numerosi altri pubblicati su riviste e volumi collettanei, nella prima parte del testo sottopone il pensiero di Fanon alla “prova della modernità” mentre nella seconda analizza la sua influenza sugli studi postcoloniali aprendo una sorta di serrato confronto tra gli autori di questa corrente e le principali intuizioni e formulazioni dello stesso, in particolare sui temi dell’idea di nazione e di cultura, dell’anticolonialismo e degli intrecci tra corpi, psiche e dominio coloniale.

Quest’ultimo punto si rivela particolarmente significativo, considerato che il “vissuto”, individuale e collettivo, assume nella riflessione fanoniana una centralità decisiva. Da qui

i suoi ripetuti appelli alla rivolta degli oppressi, le sue invocazioni contro il dominio dei saperi – si pensi a quello psichiatrico – che si affermano ineludibilmente come verità assoggettanti. Sono analisi potenti, prive di eufemismi, che rinviano sempre ad una realtà violenta e drammatica nella quale la condizione degli oppressi emerge innanzitutto dai loro corpi umiliati, segnati dalla brutalità coloniale, privati della loro voce, eppure inquieti, attraversati dal desiderio di ribellione e dall’ambizione di contrapporre al dominatore la forza della propria azione.
Fanon mette in campo una vera e propria “fenomenologia del corpo” che, nell’evidenziare quanto i meccanismi di disumanizzazione siano inscindibili dall’oggettivazione e dalla bestializzazione dei corpi dei soggetti colonizzati, ne preannuncia anche le capacità metamorfiche e la potenza eversiva.4

Ma Fanon apre anche la riflessione su come la violenza sui corpi si accompagni ad una forse ancora più pericolosa: quella esercitata sulle culture “altre” attraverso un’assimilazione al canone europeo «per mezzo di una vasta operazione di culturalizzazione che va tenacemente combattuta». Motivo per cui la lingua, il velo delle donne, l’uso degli strumenti di comunicazione di massa possono diventare strumenti di rivendicazione culturale, utili a diffondere il verbo rivoluzionario proprio rovesciando e mostrando la reale funzione degli assunti di un’unilaterale narrazione della modernità, bianca e occidentale.

«Strappare la maschera bianca significa per l’oppresso rifiutare la figura dell’alterità nella quale viene incapsulato e liberarsi così dai complessi di inferiorità e dai meccanismi nevrotici che lo assillano».5 Allo stesso tempo

l’obiettivo fanoniano non è però quello di riattivare figure arcaiche attraverso le quali plasmare identità essenzializzate e comunitarie da opporre, secondo la logica binaria Noi/Loro, a quella del colonizzatore occidentale. I comportamenti e le pratiche culturali vanno sempre pensate all’interno di precise articolazioni storiche e non possono che essere l’esito mai definitivo di un movimento incessante ed indefinito.6

Questo aspetto, naturalmente, finisce col riguardare la definizione del concetto di Nazione, che rischia, una volta assunto un canone identitario “stretto”, di assumere i connotati in esso infusi dal canone europeo, con tutte le conseguenze inerenti la repressione delle minoranze o di coloro con non appartengono alle etnie o alle classi dominanti una volta raggiunta la liberazione dall’assoggettamento coloniale. Contribuendo così a diffonderne, ancora ed ancora, le sue velenose radici. Tema particolarmente importanti all’interno degli studi postcoloniali e motivo per il quale, secondo Luce:

Solo attraverso un’operazione di ‘provincializzazione’ del lessico politico-giuridico della modernità occidentale e della sua attitudine generalizzata e formalizzante, dietro le quali si nascondono inevitabili forme di gerarchizzazione ed esclusione, sarà possibile provare ad immaginare quelle […] ‘sfere pubbliche diasporiche’, crogiuoli di un ordine politico post e trans-nazionale nel quale le soggettivazioni politiche saranno l’esito, mai definitivo, di rivendicazioni e di antagonismi che nascono dalla relazione tra elementi eterogenei e da un’attività di immaginazione, che sia capace di “strappare il velo del reale” e trasformarsi in impulso per l’azione.7

A questo punto però, anche se il testo di Sandro Luce non si addentra in questo discorso, sarebbe d’uopo sottolineare che i Postcolonial Studies e le formulazioni di Fanon potrebbero costituire sicuramente anche un ottimo punto di partenza per ripercorrere la storia dello stesso Occidente e della stessa Europa in cui una mai abbastanza discussa unità culturale e cristiana nasconde, in realtà, un lungo processo di sradicamento e repressione di tutte le forme comunitarie, di tutte le culture e di tutti i modi di produzione che hanno preceduto l’avvento prima della società mercantile e del suo dominio formale e, successivamente, di quella capitalistica, industriale e finanziaria, e del suo dominio totale sulle genti, le culture e l’immaginario, Una battaglia durata secoli, iniziata molto prima dell’avvento della rivoluzione industriale e spesso liquidata troppo facilmente a ‘sinistra’ con la riduttiva formula dell’“accumulazione originaria”.

In cui il moderno concetto di nazione «colma il vuoto lasciato dallo sradicamento di comunità e gruppi parentali, trasformando quella perdita in linguaggio della metafora.»8 Linguaggio in cui l’idea dello Stato-nazione ha costituito la metafora più potente, per cui la violenza esercitata sui corpi e sul corpo sociale nel suo insieme ha finito col sostituire la sacralità del corpo e dei corpi (compresi quelli dei re e dei santi) con il corpo sacro e intangibile dello Stato nazionale.

In questo modo l’individuo europeo potrebbe scoprire di aver vissuto con molto anticipo i drammi vissuti successivamente dai popoli colonizzati e dati per scontati come conseguenza dell’”inevitabile” progresso e della modernità e ritrovarsi così davanti alla necessità di strapparsi anch’egli dal volto la “maschera bianca” impostagli ormai da lungo tempo. Cancellando così in un sol colpo le panzane di cui si nutrono non solo i sovranismi e i nazionalismi, ma anche i socialismi e le democrazie nazionali e contribuendo alla riscrittura di un discorso di lotte che, una volta liberato anche dagli identarismi partitici non solo parlamentari, possa realmente aprirsi ad una maggiore integrazione tra comunità, generi, etnie, culture accomunate dalla volontà/necessità di opporsi all’oppressione politica, economica e culturale odierna.
Superando in questo modo anche l’annosa questione del “soggetto rivoluzionario” per riscoprire i ‘soggetti’. In ogni angolo del mondo.
Pensiamoci.


  1. F. Fanon, I dannati della terra, Einaudi, Torino 1962; F. Fanon, Pelle nera, maschere bianche, ETS, Pisa 2015 e tutti gli altri scritti raccolti sia nelle opere selezionate curate da Giovanni Pirelli e raccolte in Fanon, voll. 1 e 2, Einaudi, Torino 1971, che negli Scritti politici volume I. Per la rivoluzione africana, DeriveApprodi, Roma 2006 e Scritti politici volume II. L’anno V della rivoluzione algerina, Derive Approdi, Roma 2007  

  2. Occorre a questo proposito qui ricordare la figura di Luigi Luca Cavalli Sforza, recentemente scomparso, che con la sua ricerca sul genoma umano ha sicuramente contribuito a demolire definitivamente il concetto di “razza”, così come il colonialismo e l’imperialismo occidentali avevano contribuito a creare a partire dalla seconda metà del XVIII secolo proprio allo scopo di creare una separazione netta e un muro invalicabile tra dominatori e dominati, tra popoli bianche a popoli altri secondo una linea del colore assolutamente insignificante in Natura. Si consiglia a questo proposito la lettura o la consultazione di L.L. Cavalli Sforza, Geni, popoli e lingue, Adelphi, Milano 1996 sintesi del ben più ampio L.L. Cavalli Sforza, A. Piazza, P. Menozzi, Storia e geografia dei geni umani, Adelphi, Milano 1997  

  3. S. Luce, Fuori di sé. Poteri e soggettivazioni in Michel Foucault, Mimesis, Milano 2009  

  4. S. Luce, Soggettivazioni antagoniste. Frantz Fanon e la critica postcoloniale, Meltemi editore, Milano 2018, pp. 9-10  

  5. S. Luce, Soggettivazioni antagoniste, op. cit., p.10  

  6. Ivi, p. 11  

  7. Ivi, pp. 186-187  

  8. H.K. Bhabha, I luoghi della cultura in H.K. Bhabha (a cura di), Nazione e narrazione, Meltemi, Roma 1997, p. 196 cit. in S. Luce, Soggettivazioni antagoniste, op. cit., p. 180  

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