Hollywood – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 14 Jun 2025 20:00:29 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Proletariato intellettuale e lavoro manuale nella fabbrica dei sogni https://www.carmillaonline.com/2025/06/05/le-basi-materiali-della-macchina-dei-sogni/ Thu, 05 Jun 2025 20:00:42 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=88445 di Sandro Moiso

David Mamet, Bambi contro Godzilla. Teoria e pratica dell’industria cinematografica, Edizioni minimum fax, Roma 2025, pp. 300, 18 euro

In un grande studio cinematografico, chi seleziona veramente le sceneggiature da trasformare in film? Come si sottopone un soggetto a un produttore? Quali sono gli ingredienti per una perfetta scena di inseguimento? Come mai nei titoli compaiono così tanti produttori? E soprattutto: cosa diamine fanno, esattamente? Sono domande che tutti i cultori del cinema, ma anche i semplici spettatori devono essersi posti almeno una volta e a cui David Mamet cerca di dare risposta all’interno del testo appena [...]]]> di Sandro Moiso

David Mamet, Bambi contro Godzilla. Teoria e pratica dell’industria cinematografica, Edizioni minimum fax, Roma 2025, pp. 300, 18 euro

In un grande studio cinematografico, chi seleziona veramente le sceneggiature da trasformare in film? Come si sottopone un soggetto a un produttore? Quali sono gli ingredienti per una perfetta scena di inseguimento? Come mai nei titoli compaiono così tanti produttori? E soprattutto: cosa diamine fanno, esattamente? Sono domande che tutti i cultori del cinema, ma anche i semplici spettatori devono essersi posti almeno una volta e a cui David Mamet cerca di dare risposta all’interno del testo appena tradotto da Giuliana Lupi per le edizioni minimum fax.

David Mamet, nato a Chicago il 30 novembre del 1947, con ironia e perspicacia, fornisce risposte dirette, illuminanti e spesso sconcertanti a tali domande, rivelando allo stesso tempo le disfunzioni e i processi reali dell’industria cinematografica, la più grande e redditizia «macchina dei sogni» del pianeta. Mamet, di cui minimum fax ha già pubblicato in precedenza Note in margine di una tovaglia. Scrivere (e vivere) per il cinema e per il teatro (2012) e I tre usi del coltello. Saggi e lezioni sul cinema (2023), può farlo perché ha ricoperto praticamente tutti i ruoli più importanti che ruotano intorno alla “settima arte”: sceneggiatore, regista, attore, produttore, dedicando tutta la sua vita al cinema e alla scrittura.

E’ stato infatti lo sceneggiatore di film celebri come Il postino suona sempre due volte di Bob Rafelson (1981), Il verdetto di Sidney Lumet (1982), Gli intoccabili di Brian De Palma (1987) e Hannibal di Ridley Scott (2001), solo per citarne alcuni, ma complessivamente ha al suo attivo 28 film (di 9 dei quali è stato anche regista), 34 opere teatrali, 3 fiction per la televisione, 21 saggi, 2 raccolte di poesie, 5 libri per bambini, 11 canzoni. Mentre il suo primo importante riconoscimento era arrivato con l’opera tetrale Glengarry Glen Ross, una feroce rappresentazione del mondo degli affari americano, vincitrice del Premio Pulitzer nel 1984 e dalla quale avrebbe poi tratto la sceneggiatura per il film Americani, con Al Pacino, Jack Lemmon, Alec Baldwin e Kevin Spacey nel 1992.

Tutto questo, però, non è stato qui ricordato soltanto per sottolineare il medagliere dell’autore e l’importanza della sua personalità per il mondo del cinema statunitense, ma piuttosto per sottolineare come i suoi saggi sul mondo del cinema e della scrittura cinematografica affondino le loro radici in una vasta e pluridecennale esperienza e una profonda conoscenza dello stesso ambiente culturale, economico e sociale che lo circonda e permea.

In tempi di dazi trumpiani che mettono in risalto come i prodotti del cinema non siano in fondo che merci e prodotti destinati al consumo di massa e in un paese, l’Italia, in cui si parla, troppo spesso e senza riguardo per la realtà, di “cinema d’autore”, Mamet si rivela utilissimo, lui che certamente “autore” è stato sia come sceneggiatore che come regista, per comprendere i meccanismi di quella che, in fin dei conti, non è altro che la più importante industria dell’immaginario collettivo, cosa già compresa all’inizio del XX secolo da rivoluzionari come Lenin e Trockij1.

Ma, probabilmente, non ancora qui da noi: in un ambiente socioculturale in cui non solo le tv, pubbliche e private, ma anche le sale cinematografiche snobbano quasi sempre i titoli di coda dei film tagliandoli o eliminandoli del tutto, quasi che il film fosse una sorta di magico prodotto del pensiero dei registi e degli sceneggiatori più celebri oppure, ancor peggio, della fisicità degli attori e delle attrici. Contribuendo così a coltivare nel pubblico il mito borghese e fetente dell’individuo e della sua “creatività”, avulso comunque dai processi della produzione sociale e della collaborazione collettiva. Continuando a separare il lavoro intellettuale da quello manuale, per mera convenienza ideologica di classe, mentre il prodotto di qualsiasi attività umana non deriva che dalla sintesi concretizzante tra i due2.

Non è un caso quindi che il saggio di Mamet inizi proprio da lì, dall’ambiente cinematografico come “fabbrica” in cui il contributo di tutti (operai, costumisti, scenografi, fotografi, attrezzisti, fonici, elettricisti, falegnami, tecnici degli effetti speciali, facchini, montatori, segretarie e segretari di produzione e tanti altri ancora) è fondamentale per la riuscita dell’impresa. Proprio per evitare quell’ignominia del ricordare i marchi delle auto o delle merci senza ricordare la manodopera che ha contribuito a realizzarle oppure le grandi battaglie parlando soltanto dei generali e dei “condottieri” senza ricordare i soldati che le hanno combattute sul campo e le loro sofferenze.

Certo, per gli amanti del “cinema d’autore” così come per i filosofi del demiurgo borghese, è utile alimentarne il culto rimuovendo il sudore, le fatiche, i sacrifici e i contributi, spesso altrettanto creativi, delle maestranza sui suoi luoghi di produzione come Hollywood o Cinecittà, ma non lo è per Mamet che, invece, vuole proprio sottolineare sia il contributo degli “altri” che le pecche dello star system e dei suoi “eroi” e delle sue “eroine”.

Lo diceva Billy Wilder: sai di aver finito di dirigere quando non ti reggono più le gambe […] Ma si affronta il giorno o la notte con un senso di responsabilità verso i propri collaboratori e con il terrore di deluderli. Perché la gente che lavora a un film si spacca il culo.
L’attore protagonista può protestare, e spesso lo fa. Viene coccolato. Giustificato e incoraggiato (con tanto di compenso in denaro) a coltivare la mancanza di controllo dei suoi impulsi. Quando la star fa una scenata […] la troupe rimane impassibile e il regista, io, osserva quello straordinario autocontrollo e pensa: «Ti ringrazio, Signore, di questa lezione».
Il regista, gli attori, il produttore e lo sceneggiatore sono sopra la riga, tutti gli altri sotto.
Esiste un sistema a due livelli nel cinema, proprio come nell’esercito. Chi sta sopra la riga si presume contribuisca al finanziamento o ai potenziali proventi del film molto più delle «maestranze» – cioè i tecnici – che lavorano sul set, in ufficio o nei laboratori.
[…] Parlavo di cattivi comportamenti, qualche film fa, con l’attrezzista capo. Lui mi raccontò di aver lavorato con una star maleducata che, per rallegrare l’atmosfera o in un eccesso di buonumore, si era messa a ballare con gli anfibi sul tetto di una Mercedes nuova di zecca. «Fece quasi diecimila dollari di danni», mi disse, «e ci rimasi davvero male, perché avevo rinunciato al mio giorno libero per cercare un attrezzo di scena: neanche ero pagato».
In alcuni divi non c’è solo belligeranza, ma anche la tendenza a litigare. Ne ho visto uno misurare con un metro a nastro la propria roulotte perché sospettava che non fosse perfettamente uguale (come da contratto) a quella del suo coprotagonista.
E intanto l’attrezzista rinuncia al suo giorno libero per garantire che, lunedì, il portafoglio, il coltello, la valigetta o l’orologio siano perfetti.
Questo, secondo la mia esperienza, non è un esempio isolato, bensì la norma nel mondo del cinema. Mentre la star esce in ritardo dalla sua roulotte, mentre il produttore sbraita al cellulare gridando oscenità all’assistente che, con ogni probabilità, ha fatto un errore nel prenotargli il ristorante, la gente sul set dà il massimo per realizzare un film perfetto. Non credo di esagerare.
[…] Alcuni uomini d’affari ritengono di poter realizzare un film pefetto (vale a dire con un buon ritorno economico) in generale, facendo a meno del rispetto, dell’abilità o dell’umiltà necessari, e ispirati e sostenuti soltanto dall’amore per il denaro.
[…] Mi torna in mente il vecchi adagio: in migliaia hanno lavorato negli anni per erigere le cattedrali, e nessuno ha messo il proprio nome su una sola di quelle costruzioni.
Noi, ovviamente, apprezziamo il film per il lavoro degli identificabili, gli attori, ma non potremmo goderne se non fosse per il lavoro degli anonimi, la troupe.
[…] Mentre riflettevo su questo, pensando alla star, pagata venti milioni di dollari che rovina il tetto di un’auto, e all’attrezzista, pagato ventimila dollari, che rinuncia al suo giorno libero per la riuscita dell’opera, credo di aver iniziato davvero a capire la teoria marxista del plusvalore. Domanda: di chi è il film? Passate una giornata sul set e lo saprete3.

Il saggio di Mamet parla di molto altro ancora e può funzionare come autentico viatico per chiunque voglia avvicinarsi al cinema anche da un punto di vista professionale, occupandosi di produzione, sceneggiatura (e di come presentarla) oppure di come siano state realizzate le migliori scene di film di azione o di guerra e perché, ma è l’attenzione rivolta al lavoro “anonimo” oppure al tentativo di Ronald Reagan di distruggere il movimento sindacale americano per abbassare i costi del lavoro, compreso quello delle troupe cinematografiche, per impedire il trasferimento delle attività produttive all’estero e a minor costo, che fa di questo saggio un testo da cui davvero non si può prescindere per comprendere, con i piedi saldamente piantati in terra, quali siano le basi materiali della “creazione” dell’immaginario contemporaneo.

In cui, però, come ricorda proprio in apertura l’autore, la standardizzazione della produzione industriale di stampo ancora fordista, spinge a ridurre sia la qualità del prodotto che quella delle attività di quel proletariato intellettuale di cui lo sciopero lungo degli sceneggiatori hollywoodiani ha rappresentato la più concreta e visibile manifestazione dello scontento.

Tutti i fiumi sfociano nel mare. Eppure il mare non si riempie. Il cinema, nato come l’ultima trovata commerciale in fatto di divertimento popolare, sembra essere tornato al punto di partenza. I giorni della sceneggiatura volgono al termine. Al suo posto troviamo una premessa alla quale appiccicare le varie gag. Questi eventi, che una volta non erano che ornamenti della storia vera e propria, sono ormai quasi l’unica ragione d’essere del film. Nei thriller gli eventi sono le scene d’azione e le esplosioni; nei film dell’orrore gli squartamenti; nei film polizieschi e di guerra le sparatorie e i bombardamenti. Il cinema basato soltanto sui “punti culminanti” è figlio del cinema porno.
[…] Oggi le case di produzione puntano tutto sui franchise movie, vale a dire sul richiamo di un pubblico che si è già creato autonomamente. Ed è sempre più difficile collocare sul mercato film non quantificabili, man mano che il modello del franchising prosegue la sua avanzata verso il controllo totale dei budget della casa di produzione e , quindi, del mercato. Tutte le attività industriali migrano infatti verso il monopolio, e la ridotta concorrenza provoca inevitabilmente un calo di qualità4.


  1. Si veda L. Trockij, Vodka, chiesa e cinema, «Pravda», 12 luglio 2023, ora in L. Trockij, Opere scelte, vol. 13, Cultura e socialismo, Roma 2004, pp. 87-90.  

  2. In proposito si veda il sempre attuale A. S. Rethel, Lavoro intellettuale e lavoro manuale. Per la teoria della sintesi sociale, Feltrinelli editore, Milano 1977.  

  3. D. Mamet, Il duro lavoro in D. Mamet, Bambi contro Godzilla. Teoria e pratica dell’industria cinematografica, Edizioni minimum fax, Roma 2025, pp. 15-20.  

  4. D. Mamet, op. cit., pp.9-10.  

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C’era una volta Sergio Leone https://www.carmillaonline.com/2025/02/12/cera-una-volta-sergio-leone/ Wed, 12 Feb 2025 20:04:25 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86613 di Sandro Moiso

Diego Gabutti, Nel West con Sergio Leone. Dollari, armoniche e pistole a Cinelandia, Giulio Perrone Editore, Roma 2024, pp. 146, 16 euro

Be’, c’è un film che ho visto una volta / su di un uomo che cavalcava nel deserto, l’attore era Gregory Peck. / Veniva ucciso da un ragazzino affamato che bramava di farsi un nome. / Gli abitanti della cittadina volevano prendere il ragazzo e appenderlo per il collo. / Be’, lo sceriffo lo pestò per bene / mentre il pistolero morente era sotto il sole ed esalava l’ultimo respiro. / «Lasciatelo libero, lasciatelo andare, [...]]]> di Sandro Moiso

Diego Gabutti, Nel West con Sergio Leone. Dollari, armoniche e pistole a Cinelandia, Giulio Perrone Editore, Roma 2024, pp. 146, 16 euro

Be’, c’è un film che ho visto una volta / su di un uomo che cavalcava nel deserto, l’attore era Gregory Peck. / Veniva ucciso da un ragazzino affamato che bramava di farsi un nome. / Gli abitanti della cittadina volevano prendere il ragazzo e appenderlo per il collo. / Be’, lo sceriffo lo pestò per bene / mentre il pistolero morente era sotto il sole ed esalava l’ultimo respiro. / «Lasciatelo libero, lasciatelo andare, lasciategli dire che mi ha sconfitto con lealtà. / Voglio che sappia che cosa si prova ad affrontare la morte in ogni momento.» (Bob Dylan, Brownsville Girl)

A partire da C’era una volta il West, il film di Sergio Leone del 1968, Diego Gabutti ci consegna ancora una volta un’opera-mondo, definizione certamente usata a sproposito al giorno d’oggi per troppi romanzi e saggi, ma che serve perfettamente a riassumere il lavoro del saggista e giornalista torinese appena pubblicato da Perrone Editore nella collana Passaggi di dogana.

Come ogni opera realmente degna di questa definizione, a partire dal quarto film western realizzato da Leone, il sintetico saggio di Gabutti mette a fuoco ed esplora, aprendosi a riflessioni che procedono per cerchi concentrici, sia lo storia del cinema western che quella del regista italiano, allargandosi progressivamente a tutto l’immaginario cinematografico, hollywoodiano e non, e pop del secolo appena trascorso, con qualche puntata anche negli anni più recenti, per poi tornare alle origini e al suo centro reale: la novità rappresentata dal regista stesso e dal suo cinema.

Cinema innovativo che ha anticipato, si scusi ancora l’utilizzo di un altro termine fin troppo abusato, tutto ciò che è stato definito postmoderno, sia nella letteratura che nell’arte e nel cinema, nei decenni successivi. Un cinema totale, ma non reale o realistico, in cui tutto l’immaginario, popolare e dotto, a partire da Omero fino a Popeye passando per la letteratura picaresca e il vaudeville oppure Tex Willer e John Ford e dalla commedia dell’arte alla commedia all’italiana, ma l’elenco potrebbe continuare all’infinito, è stato riassunto, sintetizzato e magnificamente portato sugli schermi con un successo di pubblico, anche se non sempre di critica, enorme e, probabilmente, mai raggiunto da tutto il cinema italiano precedente e successivo. Con buona pace di tutti gli estimatori, spesso sfegatati e immotivati, del neorealismo.

E proprio su questo punto è giusto sottolineare le pagine autobiografiche in cui l’autore ricorda, con la sua solita ironia, un esame di Storia del cinema sostenuto col vate del realismo “critico” e dell’intellighenzia cinematografica italiana di un tempo ormai lontano: Guido Aristarco. Critico cinematografico e docente universitario, fondatore della rivista “Cinema Nuovo”, esponente della critica materialista e avverso al cinema di Leone, ma i cui dettami della sua idea di cinema sono probabilmente rappresentati ancora oggi da film assolutamente improponibili e inguardabili di molto cinema italiano e da un’erronea concezione di ciò che dovrebbe essere considerato cinema d’autore (con tutte le ambiguità e le pretese intellettualistiche che tale definizione reca con sé). D’altra parte, come avrebbe avuto modo di affermare lo stesso Gabutti in un’intervista rilasciata diversi anni or sono:

Non c’è mai stata un’influenza dei film di Leone sul cinema italiano, tranne che al tempo degli spaghetti-western, quando i suoi film erano banalizzati e fraintesi da una pletora d’imitatori. Leone è stato un esempio per il giovane cinema americano degli anni sessanta e settanta. Era il regista preferito di Coppola, di Scorsese, di Lucas e di Spielberg. Chi ne apprezzava l’umorismo, chi l’arte di dirigere gli attori, chi gli eleganti e solenni movimenti di macchina, chi la natura aforistica dei dialoghi. Clint Eastwood, che gli deve tutto anche come regista, non è tra i suoi ammiratori dichiarati, anche se in ogni suo film, naturalmente, c’è qualcosa di Leone (a cominciare dalla sua faccia, dai suoi primi piani). In Italia – anche dopo C’era una volta in America, che non è il suo film migliore (il miglior film di Leone è senza discussioni C’era una volta il west) ma che è il suo solo film esaltato dai nostri critici parrucconi – è stato sempre amato dal pubblico e detestato dal milieu cinematografico. Critici che considerano Pasolini un regista cosa possono capire di Leone? (E di letteratura, e di politica, e di qualunque altra cosa?)

Ma ritorniamo alla tesi e al tema centrale del testo, da cui poi si diramano tutte le altre riflessioni: C’era una volta il West come ultima, unica e potentissima espressione del western classico e della sua fine. Dopo il quale non solo Leone non realizzerà più film alla stessa altezza, pur rimanendo fino all’ultimo uno dei registi dell’Olimpo della storia del cinema, non solo italiano, ma non sarà più possibile realizzare film western dello stesso livello, esclusi forse i due capolavori di Sam Peckimpakh: Il Mucchio Selvaggio e Pat Garrett e Billy the Kid.

Tutti e tre, anche se il film di Leone del 1968 rimane il più innovativo e il più radicale dal punto di vista della riscrittura delle saghe western, parlano della fine del West e del western tradizionale allo stesso tempo. Ferrovie, automobili, filo spinato per dividere le proprietà, grande finanza (non le banche che comunque si potevano ancora tranquillamente rapinare fuggendo a cavallo oppure con l’auto come avrebbe fatto la banda Cavallero proprio negli anni della leoniana Trilogia del Dollaro1 ), avevano finito per chiudere definitivamente gli spazi dei cavalieri, degli sceriffi e dei banditi romantici. La ferrovia sarebbe arrivata fino all’Oceano Pacifico finendo di unificare l’unica potenza che si sarebbe potuta affacciare contemporaneamente sui due Oceani maggiori, rendendo meno ”avventuroso” e quindi niente affatto mitico quel «Go West, Young Boy!» da cui la leggenda aveva avuto inizio. Almeno sugli schermi e nella narrativa popolare.

Ancora una volta la lettura del testo di Gabutti si presenta come una cavalcata, e in nessuna altra occasione il paragone potrebbe essere più adatto, attraverso la storia del cinema western, da The Great Train Robbery (film della durata di 11 minuti realizzato nel 1903) fino a Quentin Tarantino, ma anche attraverso la vita dello stesso Leone, che l’autore ebbe modo di conoscere ed intervistare più volte e sul quale aveva già pubblicato quarant’anni prima un altro libro altrettanto bello e importante: C’era una volta in America2.

Nello specifico vanno comunque segnalate le pagine dedicate alle superbe intepretazioni di Charles Bronson (Armonica), che mai avrebbe più raggiunto tale intensità espressiva; Henry Fonda (Frank) nella sua forse unica e credibilissima interpretazione del villain di turno; Jason Robards (Cheyenne), il più bravo tra i protagonisti e il più romantico dei banditi e, infine, di Claudia Cardinale (Jill), all’apice della sua bravura, bellezza e sensualità istintiva.

Cinema e volti di un tempo che fu e che, nonostante gli sforzi successivi, non sarebbero mai più tornati ad essere visti sugli schermi, considerato anche che, come afferma Gabutti, quel film aveva di fatto «esaurito il genere» e, aggiunge chi scrive, il cinema del mito. Quello di Hollywood o comunque ispirato dagli studios dell’epoca d’oro che, come aveva scritto da qualche parte Amadeo Bordiga in una frase raccolta in epigrafe dall’autore torinese, copiava «dal paradiso terrestre».

E’ giusto, però, far scorrere i titoli di coda di un libro che ogni amante del cinema dovrebbe leggere accompagnandoli con le chitarre distorte e l’armonica minacciosa del tema dell’uomo dell’armonica o da quello romantico di Jill oppure, ancora, dalle note della marcetta dedicata a Cheyenne o quelle tristi che accompagnano la sua morte. Autentici capolavori di un compositore, Ennio Morricone, che legò indissolubilmente il suo nome a quello di Leone, conosciuto ancora sui banchi di scuola, e al successo planetario dei suoi film.


  1. Sostanzialmente composta dai primi tre film del regista: Per un pugno di dollari (1964), Per qualche dollaro in più (1965) e Il buono, il brutto e il cattivo (1966)  

  2. D. Gabutti, C’era una volta in America. Dollari, cowboys, whisky, donne, oppio, gangster e pistole… Un’avventura al saloon con Sergio Leone, Rizzoli Editore, Milano 19844.  

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La doppia anima del cinema di Soderbergh https://www.carmillaonline.com/2024/01/09/la-doppia-anima-del-cinema-di-soderbergh/ Tue, 09 Jan 2024 21:00:31 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80496 di Gioacchino Toni

Gabriele Fadini, Mosaico Soderbergh. Per un cinema del passaggio, Mimesis, Milano-Udine 2023, pp. 128. € 12,00

Il dovere di un cineasta rivoluzionario è fare la rivoluzione nel cinema. La realtà del cinema non è solo quella che esso riflette. La realtà fondamentale del cinema è il cinema stesso ma, mentre la realtà riflessa è evidente, il cinema come realtà risulta quasi sempre assente. Garcìa Solanas, La doppia morale del cinema.

Le opere di Steven Soderbergh si rivelano capaci di rivolgersi a una platea molto ampia, grazie all’intrattenimento di qualità offerto dai suoi film, e al contempo di solleticare [...]]]> di Gioacchino Toni

Gabriele Fadini, Mosaico Soderbergh. Per un cinema del passaggio, Mimesis, Milano-Udine 2023, pp. 128. € 12,00

Il dovere di un cineasta rivoluzionario è fare la rivoluzione nel cinema. La realtà del cinema non è solo quella che esso riflette. La realtà fondamentale del cinema è il cinema stesso ma, mentre la realtà riflessa è evidente, il cinema come realtà risulta quasi sempre assente. Garcìa Solanas, La doppia morale del cinema.

Le opere di Steven Soderbergh si rivelano capaci di rivolgersi a una platea molto ampia, grazie all’intrattenimento di qualità offerto dai suoi film, e al contempo di solleticare gli sguardi critici più analitici. Regista, produttore, direttore della fotografia, montatore e sceneggiatore, lo statunitense muove i primi passi nel cinema indipendente per poi sbarcare ad Hollywood manifestando quella che Fadini definisce efficacemente la sua “natura ibrida” che si palesa nella sua propensione a “indipentizzare” Hollywood e, allo stesso tempo, “hollywoodizzare” il cinema indipendente.

Dunque, un cinema dalla doppia anima capace di rivolgersi tanto a chi si lascia più facilmente attrarre dai meccanismi hollywoodiani quanto a chi, invece, va alla ricerca di una «messa in discussione degli aspetti economici, politici, industriali di potere di cui anche proprio quegli apparati hollywoodiani possono trovarsi a fare parte» (p. 10). Pur ricorrendo a budget elevatissimi, a star di primo piano e non mancando di cooperare con le grandi piattaforme dello streaming, Soderbergh non rinuncia a portare avanti la sua originale critica al capitalismo, anzi, si può dire che la muove ricorrendo proprio a quanto intende prendere di mira.

Riprendendo gli studi sull’“immagine-personaggio” di Geoff King (New Hollywood Cinema, 2002), estesi a livello del corpo in Soderbergh da parte di Andrew de Waard e R. Colin Tait (The Cinema of Steven Soderbergh, 2013), Fadini si sofferma su come il regista statunitense ami che nei suoi film le star a cui ricorre mettano in discussione il loro status attoriale, come avviene con George Clooney, soprattutto in film come Solaris (2002) – remake dell’omonima opera di Andrej Tarkovskij – e Intrigo a Berlino (The Good German, 2006), e con Meryl Streep in Panama Papers (The Laundromat, 2019), ove secondo lo studioso è possibile «riscontrare l’elemento che è tipico della critica al capitalismo del cinema soderberghiano, ovvero il far agire il “capitale” cinematografico – attori famosi, alti budget etc. – contro sé stesso in una maniera che non si era mai spinta così in avanti, quando a parlare direttamente in macchina denunciando il sistema non è più il personaggio, sia esso Helena, Ellen o John Doe, ma la stessa Meryl Streep che non rappresenta più nessuno tranne che sé stessa» (p. 27).

Rifacendosi alle riflessioni di Gilles Deleuze (Cinéma 2. L’Image-temps, 1985), Fadini si sofferma sulla saga degli Ocean’s (dal 2001) ove l’“immagine-finzione” palesa all’interno della produzione dello statunitense la sua concretizzazione maggiore nel giocare costantemente tra il vero ed il falso.

In tali film, ove ladri e derubati manifestano un rapporto costitutivo con la visione, è proprio l’“effetto finzione” che permette ai primi di eludere i sistemi di sicurezza posti a protezione di ciò che intendono rubare. Guardando all’opera di Soderbergh ricercandone elementi di critica al capitalismo Fadini si domanda se nel trittico Ocean’s le tecniche sofisticate con cui operano i truffatori riescano davvero a praticare una critica radicale a quel capitalismo di cui è simbolo la città di Las Vegas o se tali gesta non siano altro che «l’ennesima ristrutturazione e riaffermazione del capitalismo stesso» (p. 41). Quanto insomma, per dirla con i «Quaderni rossi», le lotte condotte contro il capitale comportino lo sviluppo di questo ultimo.

Analizzando Schizopolis (1996) è possibile cogliere l’elaborazione da parte di Soderbergh di quella che può essere definita “schizo-immagine”.

Lungo tutto il film, infatti, troviamo costanti inversioni di causa ed effetto nella narrazione dovute al fatto che Soderbergh stesso interpreta non solo due personaggi che sono l’uno il sosia dell’altro ma addirittura alla fine del film un terzo personaggio che parla una lingua differente dai due precedenti. Gli stessi linguaggi parlati si articolano o in un contenuto irrelato rispetto alla forma, o in una forma che non rimanda a nessun contenuto immediatamente riconoscibile per lo spettatore. In Schizopolis Soderbergh elabora temi e tecniche che saranno presenti in tutta la sua successiva filmografia. Ci riferiamo all’alternanza di analessi e prolessi che si caratterizza per il mostrare successioni di eventi da più punti di vista; alla presenza di pastiche tecnici come alternanza di riprese con la camera fissa e la camera a mano e alla presenza di un film che si avvolge attorno alle riprese dello stesso farsi di questo medesimo film (p. 44).

La critica al capitalismo portata avanti dal cinema di Soderbergh viene indagata da Fadini seguendo tre direttrici principali: il rapporto tra corpo e capitale, il capitalismo finanziario e il capitalismo come forma di potere.

Circa il primo aspetto, a essere analizzato dallo studioso è in particolare High Flying Bird (2019), film sul mondo del basket statunitense – nei suoi livelli politico, economico e razziale – incentrato sul blocco dell’avvio della stagione agonistica derivato dal contenzioso tra proprietari delle squadre, networks televisivi e giocatori.  «Si tratta di un dramma sportivo di classe sulla relazione tra il gioco e l’economia, ma in termini potremmo dire marxiani se non proprio marxisti. Il lockout è, infatti, visto dalla parte delle matricole e dalla parte di quei giocatori che non arrivano alla fine del mese di contro alle grandi star del gioco o di chi si approfitta dei più deboli» (p. 58).

La denuncia nei confronti dello “sfruttamento” dei corpi, privati di autonomia e assoggettati alla logica dello spettacolo, è rintracciabile anche nella saga Magic Mike (dal 2012 al 2023).

È certamente corretto affermare, come fatto da alcuni, che Magic Mike sia un film sul plusvalore estratto dai corpi al lavoro, tuttavia dobbiamo ricordare che è l’immaginario il luogo in cui questo plusvalore viene estratto poiché il film è una critica proprio a questo autodeterminarsi dell’immaginario separato dall’incontro con il reale del corpo dell’Altr*. Da questo punto di vista, in tutta la saga Magic Mike i corpi “lavorano” completamente all’interno di un orizzonte immaginativo femminile per chi assiste allo show del gruppo ed il contatto con il reale per loro è dato dal denaro che le spettatrici lanciano sul palco durante i numeri dello spettacolo (p. 64).

La critica al capitalismo condotta da Soderbergh sul versante finanziario si manifesta attorno alla figura del “flusso” declinata in diversi modi. Panama Papers, ad esempio, ruota attorno ai flussi finanziari mostrando come alla smaterializzazione del denaro si affianchi una smaterializzazione dello scontro di classe, tanto che si può parlare di un film sulla “fantasmaticità” dell’intero sistema.

Paradossalmente la critica proposta dal regista è mossa attraverso un film prodotto e diffuso da Netflix, piattaforma simbolo dell’attuale capitalismo globale. La messa in discussione dello status quo viene portata avanti da Soderbergh, più che attraverso un montaggio destrutturante, con «il far agire il “capitale” cinematografico – attori famosi, alti budget etc. – contro sé stesso in una maniera che non si era mai spinta così in avanti» (p. 71). Difficile dire quanto tale deragliamento permetta davvero alla critica di sottrarsi dall’abilità del sistema spettacolare di riassorbire gli attacchi formali rivolti contro di esso.

Pur declinati in altro modo, i flussi del capitale fanno la loro comparsa anche in Traffic (2000); in questo caso sotto forma di flussi di droga e denaro. “Traffico”, dunque, come flusso,

come qualcosa che non è mai da un punto delimitato ad un altro punto delimitato, ma che si muove nel “tra” più che “dal… al”. Da questo punto di vista, uno dei temi principali del film è il confine come luogo appunto del “tra”. È sul confine che si combatte la guerra per bloccare il traffico di droga. È il confine il luogo degli incroci ove una delle tesi del film è che il Nafta, ovvero l’accordo di libero scambio tra USA e Mexico, sbriciola la già porosa frontiera tra gli stessi USA e Mexico, in modo tale che i corrieri della droga possano fare su e giù tra i due paesi come i semplici corrieri FDX, DHL, UPS etc. Il “traffico” è una fitta rete di relazioni in cui nessuno è pulito (p. 71).

Anche Contagion (2011) è un film sui flussi, in tale caso incentrato sulla relazione tra virus e capitalismo, sull’industria farmaceutica e sul mercato azionario, oltre che sull’accesso classista al vaccino.

Per quanto riguarda la critica al capitalismo come “forma di potere”, sebbene trasversale all’intera opera soderberghiana, questa è secondo Fadini particolarmente evidente nei film Intrigo a Berlino e No Sudden Move (2021), oltre che nelle serie televisive K-Street (2003) e The Knick (2014-2015).

Intrigo a Berlino porta a compimento quanto già si era visto in Delitti e segreti ove Soderbergh era riuscito nell’intento di dipingere una realtà distopica perfettamente ordinata in cui il caos era del tutto represso in una serie di pratiche inutili ed autoreferenziali, in cui la stessa possibilità di ribellarsi veniva negata perché a mancare era quel qualcuno che dirigesse e regnasse sulla distopia (pp. 76-77).

Se Delitti e segreti palesa la rassegnazione dell’individuo al suo ruolo di ingranaggio che concorre a perpetuare il sistema, Intrigo a Berlino manifesta l’impossibilità di redenzione dal proprio passato. Ad essere dichiaratamente un film sul “potere” nelle sue diverse articolazioni è No Sudden Move.

Anche in questo caso, i singoli sono schiacciati all’interno di rapporti di forza che non riescono a soverchiare. La differenza è che, in questo caso, Soderbergh prende di mira la strutturazione del capitale secondo nodi di potere che rimandano a rapporti di oppressione più diretti rispetto al capitalismo attuale o meglio, in cui il capitalismo non è ancora smaterializzato ma è riferibile a persone fisiche che ne detengono il potere (p. 78).

Venendo alle due serie televisive, se K-Street, in un mescolarsi di fiction e personaggi reali, mette in scena il mondo delle lobby, l’incidenza dei gruppi di potere sulla politica statunitense, The Knick, ambientata a inizio Novecento presso l’ospedale newyorkese Knickerbocker – in un intrecciarsi di medicina, psichiatria, psicoanalisi, eugenetica, dipendenze e questioni razziali – presenta un

microcosmo umano di una formidabile epoca di transizione all’interno della quale si muovono personaggi spinti, ognuno a suo modo, da personali ambizioni o demoni interiori, interessi o riscatti. […] L’ambizione e la corruzione, l’audacia e la violenza, la meschinità e l’impudenza sottendono alla narrazione complessa di questo universo concentrato nel Knickerbocker che, andando ben oltre l’epoca in cui è ambientato, universalizza il meccanismo del potere come automatismo atemporale e, tragicamente, umano (p. 80).

Il secondo dei film soderberghiani dedicati a Che Guevara – Che. L’argentino (The Argentine, 2008) e Che. Guerriglia (Guerrilla, 2008) – permette a Fadini di soffermarsi su quella “immagine-rivoluzionaria” che, secondo Jun Fujita Hirose (Il cine-capitale, 2020) per essere tale deve passare attraverso un processo di “divenire-rivoluzionario” delle immagini.

In Che guerriglia, infatti, le immagini iniziano a valere per se stesse e non sono più messe al lavoro della valorizzazione del cine-capitale, proprio nel massimo momento della lotta contro il nemico. Se cioè per Hirose le immagini sono prese in divenire rivoluzionari quando diventano immagini-tempo dirette e in cui ad emergere è una virtualità che si affranca da qualsivoglia forma di rappresentazione per affermarsi come forme ottiche e sonore pure che non rappresentano più niente che non siano se stesse e quindi in definitiva rompono con l’idea stessa di essere delle ripresentazione, per Soderbergh questa virtualità è il farsi sempre più lontano di Ernesto Guevara da se stesso per trasformarsi nel rivoluzionario puro che non attualizza la propria virtualità in un’unica rivoluzione ma che si ri-mette sempre in gioco in infinite rivoluzioni (p. 82).

Hirose ritiene che «l’espropriazione dei mezzi di produzione dei cine-capitalisti e l’inversione dei suoi rapporti di forza» si dia attraverso un montaggio di concatenamenti immaginali alternativi «in cui il tempo prevale sul movimento nel senso della riappropriazione del tempo proprio di ogni forma di rifiuto del lavoro». Se l’immagine-tempo deve potersi affermare come tale, è il nomadismo rapsodico del Che nella selva boliviana a permettere l’affermazione della sua lotta «come un evento, ovvero come qualcosa che non esaurendosi mai nell’attualità resta come una riserva che resiste alle ristrutturazioni capitalistiche» (p. 83).

Un capitolo di Mosaico Soderbergh è dedicato allo sperimentalismo che caratterizza la produzione dello statunitense, uno sperimentalismo «che può essere opera solo del cineasta poiché, essendo il cinema un tipo di arte votata al business, il compito del cineasta è solo quello di prendere su di sé per propria iniziativa quei pericoli che nessuno gli concederebbe tanto facilmente o anche più semplicemente lo incoraggerebbe a prendere» (p. 92). Uno sperimentalismo, dunque, non fine a sé stesso ma dal significato prettamente politico.

Il ricorso al digitale, nota Fadini, non fa che accentuare la dimensione “schizofrenica” del cinema di Soderbergh che finisce con l’intrecciarsi al tema del simulacro «se la realtà è solo copia di una copia, l’espressione di una molteplicità di flussi, l’atto creativo che pertiene all’uso del digitale non solo permette di accedere a questa realtà ma, per altro verso, concorre a determinarla a tal punto che persino lo spettatore può essere coinvolto nella ricerca di un senso da dare a questa linea schizofrenica» (p. 112).

Il volume di Fadini mostra insomma come l’opera di Soderbergh, nel suo proporsi all’insegna dell’ibridazione – tra «verità e finzione, autorialità e appartenenza allo star system, velocità e accuratezza nelle riprese e nel montaggio, critica al capitalismo ed appartenenza alle sue strutture realizzative, fiction e realismo, originalità e remake» (p. 114), e tanto altro ancora – possa essere efficacemente paragonata a un grande mosaico composto da tessere distinte e al tempo stesso collaboranti nel definire un’immagine unitaria dotata di coerenza, una coerenza costruita sulle tante contraddizioni che, d’altra parte, caratterizzano la sfuggente complessa realtà contemporanea.

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Elogio dell’eccesso: Babylon https://www.carmillaonline.com/2023/02/10/elogio-delleccesso-babylon/ Fri, 10 Feb 2023 21:00:58 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75979 di Sandro Moiso

Non si può certo dire che i giudizi della critica riguardo all’ultimo film di Damien Sayre Chazelle siano stati unanimemente positivi, anzi tutt’altro. Mentre anche l’impatto sul pubblico, a giudicare dagli incassi al botteghino delle prime settimane dopo la sua uscita, non deve aver soddisfatto la società produttrice. Il regista statunitense (classe 1985), figlio di genitori franco-canadesi, che. con il musical La La Land, nel 2017 aveva vinto il Premio Oscar per la miglior regia, diventando il più giovane regista nella storia ad aver vinto la celebre statuetta, torna con [...]]]> di Sandro Moiso

Non si può certo dire che i giudizi della critica riguardo all’ultimo film di Damien Sayre Chazelle siano stati unanimemente positivi, anzi tutt’altro. Mentre anche l’impatto sul pubblico, a giudicare dagli incassi al botteghino delle prime settimane dopo la sua uscita, non deve aver soddisfatto la società produttrice. Il regista statunitense (classe 1985), figlio di genitori franco-canadesi, che. con il musical La La Land, nel 2017 aveva vinto il Premio Oscar per la miglior regia, diventando il più giovane regista nella storia ad aver vinto la celebre statuetta, torna con Babylon ancora una volta alla sua passione per il cinema, il suo mondo e la sua storia.

Una passione, velata di nostalgia, già espresso nella pellicola vincitrice del premio in cui aveva reso omaggio ai classici film musicali prodotti a cavallo fra gli anni ’50 e ’60. Nel film attuale la rappresentazione dei sentimenti del regista nei confronti del cinema del passato è affidata al personaggio che fa un po’ da trait d’union tra i personaggi e le storie narrate, interpretato dall’attore Diego Calva, riuscendo ad aprire spazi di riflessione su cosa sia stato il cinema, su cosa sia diventato o continui ad essere, superando ampiamente il pericoloso effetto nostalgia canaglia che, scorrendo in sotto traccia avrebbe potuto gravemente menomarne il significato. Facendo sì, invece, che la sua visione risulti stimolante anche per quanto riguarda le possibili riflessioni sull’arte, il sogno e il desiderio in tutte le loro possibili forme.

Di scarso interesse sarebbe riassumerne qui la trama, ripetere gli elogi per la bravura di Margot Robbie, Diego Calva e Brad Pitt e di molti dei comprimari. Scontato elogiare la tecnica dei piani sequenza lunghi e visionari in cui feste orgiastiche oppure set improvvisati nel deserto californiano diventano occasione per un uso smodato della steadicam o di riprese che precipitano letteralmente lo spettatore nella scena cui sta assistendo. Mentre va sicuramente segnalata la stratificazione di storie ed emozioni che, pur non tradendo le aspettative di un film destinato al grande pubblico e non certo ai cinema d’essai, incollano alla poltrona gli spettatori e, al tempo stesso, li costringono a riflettere sulla magia del cinema, il suo immaginario, lo star system e la loro funzione, allo stesso tempo, liberatoria e ingannatrice.

Le cose da segnalare però rimangono tante, per una storia che narra il passaggio dal cinema muto delle origini al cinema sonoro dei grandi studios, organizzati con modalità di fabbrica a Burbank, posta nell’area di Los Angeles. A pochi chilometri di distanza da Hollywood, ritenuta a torto o ragione ancora oggi, “la Mecca del cinema”. Una storia che si svolge complessivamente tra la seconda metà degli anni Venti e il 1952, anche se il cuore della vicenda è racchiuso tra il 1926 e il 1934.

Il 1926 è infatti l’anno in cui il cinema delle origini perde la sua libertà espressiva, l’anarchica tendenza a portare sullo schermo qualsiasi sogno, desiderio o avventura per iniziare a diventare una macchina da sogni molto più regolamentata e organizzata. E’ infatti l’anno in cui per la prima volta la società di produzione Warner Bros. porta sullo schermo 8 cortometraggi sonorizzati col metodo Vitaphone mentre, il 26 agosto dello stesso anno, il primo lungometraggio sonoro, è presentato al Warner Theatre di New York per un pubblico pagante.

Tale innovazione di carattere tecnologico avrebbe così causato un autentico terremoto nel sistema produttivo hollywoodiano, segnando la fine delle star precedenti e della libertà dì espressione, spesso caotica, ma quasi sempre geniale e creativa, sia delle attrici e degli attori che dei registi impegnati su set che, fino a quell’epoca, erano stati più di carattere artigianale che industriale.

La nuova tecnica imponeva regole e limiti all’espressività fisica degli interpreti. Imponeva il potere della parola sui corpi e sulle immagini, ne delimitava i confini spaziali, psicologici e recitativi. Portando le regole della recitazione teatrale all’interno di un’arte che era nata altra. La dizione iniziava a contare e la voce di una ragazza del Midwest, proletaria e poco educata (la Nellie LeRoy interpretata da Margot Robbie) poteva rivelarsi disastrosa proprio là dove, prima, la sua esuberanza fisica e recitativa aveva costituito la sua fortuna nei confronti del grande pubblico.

Vale per l’attore bello e dannato (Jack Conrad interpretato da Brad Pitt), uscito tanto dalle pagine di Francis Scott Fitzgerald quanto dalle vite di attori autentici quali Douglas Fairbanks (grande interprete di film d’avventura) o John Gilbert (il più pagato di Hollywood nel 1928), la cui voce non avrà lo stesso fascino del suo sguardo e del suo volto, finendo col rendere ridicole scene che prima ne avevano esaltato il fascino.

Ma vale anche per il trovarobe Manuel “Manny” Torres (interpretato da Diego Calva), innamorato di tutto ciò che è cinema e di Nellie in particolare, che poco per volta rinuncerà alla sua identità messicana, portata via dal vortice di Tinseltown, per essere trasformato sempre più in un produttore esecutivo che non riuscirà, però, a sposare con successo la sua passione con le regole del “nuovo” cinema. E anche se sarà l’unico a sopravvivere fino all’avvento di una nuova grande star (Marilyn Monroe), lo farà da nostalgico testimone di un’epoca e da modesto rivenditore di elettrodomestici a New York.

E’ un passsaggio di portata storica quello raccontato nel film di Chazelle. Storia di una Babilonia sul Pacifico che già altri avevano tentato di rappresentare e di narrare, dagli scandalosi testi di Kenneth Anger sui vizi e le perversioni della città del cinema1 ai fratelli Taviani con il loro Good Morning Babilonia del 1987, in cui veniva raccontata la nascita artigianale del grande cinema di Griffith, vista attraverso gli occhi e le esperienze di due modesti artigiani di origine toscana.

Il cinema di Griffith, con i suoi Birth of a Nation (1915) e Intolerance (1916), e quello di Erich von Stroheim, costituiscono i due capisaldi in mezzo ai quali si muove il cinema dell’epoca precedente il sonoro. Cinema che però aveva alimentato anche le storie di Charlie Chaplin, Buster Keaton e molti altri. Tutti accomunati dall’essere dei visionari in un’arte che proprio dalla “visione” è sempre stata determinata, Fin dagli esordi dei fratelli Lumière e di George Méliès.

Arte nata in Europa e che Lenin aveva definito la più importante delle arti. Che a Torino aveva visto realizzare il primo colossal dell’epoca, Cabiria (1914), della durata di 168 minuti, che sarebbe stato anche il primo film ad essere proiettato alla Casa Bianca, probabilmente ispirando, con il suo successo, The Birth of a Nation (durata 190 minuti) di David Wark Griffith, già prima citato.

Cinema decisamente artigianale, rispetto al successivo, ma che aveva permesso quei voli fantastici dell’immaginazione che avrebbero così totalmente rapito e irretito l’immaginario e la mente di milioni di persona di ogni nazionalità. Fornendo così la base su cui si è fondata tutta la potenza narrativa del cinema, fino al più recente Avatar 2 – La via dell’acqua2. Registi e attori che hanno di fatto rappresentato gli autentici fratelli Wright dell’inizio dei voli della mente davanti al grande schermo, all’interno di una sala buia ma popolata da molti altri spettatori destinati a sognare tutti insieme. Spesso nelle forme più diverse e meno automatiche, che solo la parola recitata avrebbe iniziato ad indirizzare verso uno spazio comune della mente.

Gli effetti complessivi del passaggio dal muto al sonoro potrebbero essere riassunti nel viaggio compiuto dal cinema italiano dalla Torino dei film di Giovanni Pastrone alla Cinecittà di mussoliniana ideazione e realizzazione alla metà degli anni Trenta. Dal cinema della visione a quello dei “telefoni bianchi”. Da quello ispirato, come Cabiria, ai romanzi d Emilio Salgari (Cartagine in fiamme, 1906-1908), a quello rispondente alle esigenze di svago preordinato per il “dopolavoro” delle masse e di propaganda ideologica del regime. Da quello del sogno a quello dell’impero. Osservazione quest’ultima che, dal punto di vista cinematografico, vale per le due sponde dell’Atlantico.

Se c’è una parola che può servire a descrivere il prima e il dopo, questa è eccesso.
Che, almeno per una volta, andrebbe compresa nel suo significato generale e non soltanto di giudizio morale. Termine che indica il massimo, l’estremo, il sommo grado cui si può giungere nella realizzazione di un’opera d’arte o di una vita. Vocabolo che serve benissimo a definire ciò che è arte da ciò che non lo è e che, spesso, non è nemmeno cultura. Vocabolo adatto a descrivere l’intima essenza desiderante della Rivoluzione, ma non il Riformismo degli equilibri e la volontà dello Stato di mantenere l’ordine costituito, che può eccedere nelle sue funzioni, ma mai potersi pensare in “eccesso”.

Fin dal 1915 la Corte Suprema degli Stati Uniti d’America aveva stabilito che le pellicole cinematografiche non erano coperte dal primo emendamento: «la proiezione di immagini in movimento è un business puro e semplice, nato e gestito per il profitto […] non deve essere considerato […] come parte della libera stampa del Paese o come un mezzo di formazione della pubblica opinione». La medesima sentenza stabiliva inoltre che i film «possono essere usati per fini malvagi» e che pertanto la censura di questi «non travalica i poteri del Governo». A seguito di tale sentenza città e contee avevano iniziato a porre divieti sulla pubblica esibizione di film giudicati “immorali”, e gli studios temevano che presto sarebbe seguita una legislazione statale o federale.

Nei primi anni Venti tre grossi scandali avrebberoo turbato Hollywood3. Queste storie, avvenute in rapida successione, furono trattate con sensazionalismo e clamore dalla stampa e costituirono i titoli di tutti i quotidiani del paese e sembrarono confermare in pieno la percezione che molti avevano di Hollywood come “città del peccato”.

Questa presunta immoralità portò alla creazione, nel 1922, dell’Associazione dei produttori e distributori di pellicole cinematografiche, intenzionata a presentare un’immagine positiva dell’industria cinematografica, guidata da Will H. Hays, che chiese di stabilire una serie di standard morali per i film. A questo fine Hays tentò di rafforzare tramite la sua associazione l’autorità morale sui film hollywoodiani, ma con scarsi effetti. L’ufficio di Hays rilasciò infatti una lista di divieti e di cautele nel 1927, ma i registi continuarono a realizzare ciò che volevano e, in molti casi, i tagli proposti di alcune battute o scene non vennero effettuati.

Con l’avvento del sonoro, nel 1927 si sentì la necessità di un codice scritto più restrittivo. Fu così steso il Production Code che venne adottato il 31 marzo 1930, ma fu di fatto ignorato dagli studios. Questo e i codici successivi furono spesso denominati Codice Hays perché Hays ne era stato il promotore. Un emendamento al codice, adottato il 13 giugno 1934, creò allora la Production Code Administration, decidendo che da allora ogni film dovesse ottenere un certificato di approvazione prima di approdare nelle sale. Da allora, per tutto il ventennio successivo, tutti i film prodotti negli Stati Uniti aderirono più o meno rigidamente al codice4. Il primo intervento che coinvolse una major cinematografica fu nella pellicola del 1934 Tarzan and His Mate, nella quale una breve scena di nudo dell’attrice Maureen O’Sullivan venne eliminata dal negativo del film.

Oltre a ciò il codice si accanì anche nel modificare personaggi di animazione come Betty Boop, dalle forme troppo prosperose e ben in vista, oppure la cinematografia sui gangster imponendo, in piena grande crisi, che le storie di tale genere non potessero concludersi a “vantaggio” dei delinquenti rappresentati sullo schermo (e amati dal grande pubblico che ne seguiva le gesta nella realtà, come nel caso dei rapinatori di banche Bonnie Parker e Clyde Barrow e di John Dillinger, tutti letteralmente fucilati on the road dalle forze dell’ordine e del Federal Bureau of Investigtion).

Ecco allora, che poco alla volta, ci si è avvicinati al cuore di ciò che ispira la visione del film di Chazelle: la fine dell’eccesso che è anche la fine del sogno e del desiderio liberato.
Fosse anche solo nell’immaginario. Inutile, dopo, teorizzare archetipi ed eroi adatti ad un mondo trasformato e sottomesso dalle regole della tecnica, della produzione seriale e dei codici. Non a caso, l’ultimo vero grido “silenzioso” di rivolta è quello di Tempi Moderni di Charlie Chaplin (1936), ultimo film muto girato a Hollywood e l’ultimo in cui appare sugli schermi il vagabondo Charlot. Autentico canto del cigno di un’epoca giunta alla fine, nel film sono soltanto i rappresentanti del potere economico e politico e le macchine che ne proiettano l’immagine o trasmettono la voce “a parlare”.

L’avvento del sonoro e dei codici di comportamento e regolamento per sceneggiatori, registi e attori servirono soprattutto a regolamentare il sogno di massa e a ricondurlo nei recinti di ciò che è accettabile per il potere politico e la morale cristiana, nei suoi vari dettami. Ma anche quando, come al giorno d’oggi, si permetterà la presenza dell’eccesso questo sarà solamente il prodotto finto di una rappresentazione. Così come i Maneskin e il loro circo di insopportabili manierismi possono stare a Iggy Pop e ai suoi Stooges. Oppure The Walking Dead ai film di Romero e alle produzioni di storie di serie B di un cinema artigianale e ribelle soffocato dalle grandi e costosissime produzioni seriali e cinematografiche.

E’ un discorso tutto ancora da sviluppare questo scaturito dalla visione del film Babylon. Riguarda il desiderio, l’arte, il sogno: tre aspetti dell’attività umana che non possono avere limiti e regole che ne castrino la creatività fin dalle radici. Senza scomodare la psicoanalisi, basterebbe citare Leopardi che, nello Zibaldone di pensieri, si sofferma ripetutamente sulla naturale illimitatezza del desiderio oppure citare Dante e Boccaccio, con i loro eccessi nella scrittura opposti all’ordine e all’equilibrio del petrarchismo. Oppure, ancora, la lingua di Gadda contro quella di tanti scrittori di successo contemporanei. Non occorre essere obbligatoriamente dei punk per cogliere l’importanza dell’eccesso nella vita, nell’espressione artistica e nell’attività onirica. Conscia o inconscia che sia quest’ultima. Vale per gli eccessi narrativi di Philip José Farmer nei confronti di tanta vuota SF iper-tecnologica; vale per i due maggiori scrittori della letteratura francese del ‘900, Louis Ferdinand Céline e Marcel Proust, così distanti tra di loro eppure così eccessivi nell’uso della lingua e dei ricordi. Vale, infine, per i passaggi più visionari dei romanzi di Eymerich messi a confronto con tanta vuota letteratura mainstream odierna.


  1. K. Anger: Hollywood Babilonia, Adelphi, Milano 1979 e Hollywood Babilonia II, Adelphi, Milano 1986  

  2. Film dal risultato ben più modesto rispetto al precedente Avatar, sempre di James Cameron, uscito nel 2009, a dimostrazione che lo sviluppo della tecnologia, nel cinema come in qualsiasi altro ambito, è destinato a far sì che la stessa cannibalizzi se stessa insieme ai suoi prodotti, resi rapidamente e irrimediabilmente obsoleti ad ogni svolto della sua evoluzione  

  3. I processi per omicidio della star delle commedie Roscoe Fatty Arbuckle (accusato della morte dell’attrice Virginia Rappe a una festa), l’assassinio del regista William Desmond Taylor e la morte dovuta alla droga del popolare attore Wallace Reid.  

  4. Che si basava su tre norme fondamentali:
    1. Non sarà prodotto nessun film che abbassi gli standard morali degli spettatori. Per questo motivo la simpatia del pubblico non dovrà mai essere indirizzata verso il crimine, i comportamenti devianti, il male o il peccato.
    2. Saranno presentati solo standard di vita corretti, con le sole limitazioni necessarie al dramma e all’intrattenimento.
    3. La Legge, naturale, divina o umana, non sarà mai messa in ridicolo, né sarà mai sollecitata la simpatia dello spettatore per la sua violazione.

    Da cui derivavano ancora svariate altre regole:
    Il nudo e le danze lascive furono proibiti.
    La ridicolizzazione della religione fu proibita; i ministri del culto non potevano essere rappresentati come personaggi comici o malvagi.
    La rappresentazione dell’uso di droghe fu proibita, come pure il consumo di alcolici, “quando non richiesto dalla trama o per un’adeguata caratterizzazione”.
    I metodi di esecuzioni di delitti (per esempio l’incendio doloso, o il contrabbando ecc.) non potevano essere presentati in modo esplicito.
    Le allusioni alle “perversioni sessuali” (tra cui, all’epoca, veniva inclusa l’omosessualità) e alle malattie veneree furono proibite, come lo fu anche la rappresentazione del parto.
    La sezione sul linguaggio bandì varie parole e locuzioni offensive.
    Le scene di omicidio dovevano essere girate in modo tale da scoraggiarne l’emulazione nella vita reale, e assassinii brutali non potevano essere mostrati in dettaglio. “La vendetta ai tempi moderni” non doveva apparire giustificata.
    La santità del matrimonio e della famiglia doveva essere sostenuta. “I film non dovranno concludere che le forme più basse di rapporti sessuali sono cose accettate o comuni”. L’adulterio e il sesso illegale, per quanto si riconoscesse potessero essere necessari per la trama, non potevano essere espliciti o giustificati, e non dovevano essere presentati come un’opzione attraente.
    Le rappresentazioni di relazioni fra persone di razze diverse erano proibite.
    “Scene passionali” non dovevano essere introdotte se non necessarie per la trama. “Baci eccessivi e lussuriosi vanno evitati”, assieme ad altre trattazioni che “potrebbero stimolare gli elementi più bassi e grossolani”.
    La bandiera degli Stati Uniti d’America doveva essere trattata rispettosamente, così come i popoli e la storia delle altre nazioni.
    La volgarità, e cioè “soggetti bassi, disgustosi, spiacevoli, sebbene non necessariamente negativi” dovevano essere trattati entro i dettami del buon gusto. Temi come la pena capitale, la tortura, la crudeltà verso i minori e gli animali, la prostituzione e le operazioni chirurgiche dovevano essere trattati con uguale sensibilità.
    Sull’argomento cfr. AA.VV. Prima della grande censura. Hollywood e il Codice Hays, in “Cinematografie”, Anno II, n.3, primo semestre 1991, pp. 7-94 e AA.VV. Prima dei codici 2. Alle porte di Hays, XLVIII Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica – La Biennale di Venezia, 1991.  

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Sacheen Littlefeather (Piccola Piuma) https://www.carmillaonline.com/2022/09/24/sacheen-littlefeather-piccola-piuma/ Sat, 24 Sep 2022 20:00:26 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=74215 di Giorgio Bona

Come esaminato in un pezzo precedente, la filmografia western americana resta in genere lontana dalla verità. Non tutta, ci sono alcune eccezioni: rari, anzi rarissimi interventi intesi a difendere i nativi americani vittime di uno dei più grandi stermini della storia.

Emblematico un fatto la cui eco ha avuto parecchia circolazione in questo periodo ma che risale a cinquant’anni fa, precisamente il 23 marzo 1973, in occasione della 45esima edizione degli Academy Awards, durante la premiazione degli Oscar.

Il divo americano Marlon Brando negò la [...]]]> di Giorgio Bona

Come esaminato in un pezzo precedente, la filmografia western americana resta in genere lontana dalla verità. Non tutta, ci sono alcune eccezioni: rari, anzi rarissimi interventi intesi a difendere i nativi americani vittime di uno dei più grandi stermini della storia.

Emblematico un fatto la cui eco ha avuto parecchia circolazione in questo periodo ma che risale a cinquant’anni fa, precisamente il 23 marzo 1973, in occasione della 45esima edizione degli Academy Awards, durante la premiazione degli Oscar.

Il divo americano Marlon Brando negò la sua presenza durante la cerimonia, che lo consacrava miglior attore protagonista per l’interpretazione di Vito Corleone nel film Il Padrino. All’ultimo momento decise di mandare alla consegna, davanti a milioni di telespettatori, Sacheen Littlefeather ovvero Piccola Piuma, pseudonimo di Marie Louise Cruz, attrice, una nativa americana di origine (per parte di padre) Apache e Yaqui.

La sua apparizione sul palco del Dorothy Chandler Pavilion, sotto lo sguardo allibito di tante celebrità di allora, suscitò scalpore.

Ferma, decisa, la giovane si presentò affermando con orgoglio di presiedere il National Native American Affirmative Image Committee.

Prima di acquisire notorietà sulla scia di quella serata, aveva unito lo studio e piccole prove come attrice e modella (anche per Playboy, 1972, “Ero giovane e stupida” liquiderà poi l’episodio) alla militanza per i diritti dei nativi americani. In seguito si occuperà di campagne per la lotta all’AIDS, malattia che nel 1990 causa la morte di suo fratello.

Quando alla premiazione Sacheen dichiarò di rappresentare Marlon Brando ci fu qualche timido applauso qua e là, ma in generale si trovò subissata dai fischi. La maggioranza della platea, sconcertata, la minacciò, insultandola.

Con un abito di camoscio, mocassini e lunghi capelli neri raccolti in due codini, da vera squaw apache, presentandosi, si rivolse al pubblico così:

 

Rappresento Marlon Brando questa sera, e lui mi ha chiesto di comunicarvi in un lunghissimo discorso – che non posso condividere con voi al momento, per motivi di tempo, ma che sarò lieta di condividere con la stampa in seguito –, che con rammarico non può accettare questo premio così generoso. E le ragioni di ciò sono il trattamento riservato ai nativi americani oggi dall’industria cinematografica – scusatemi… [fischi e applausi] e in televisione nelle repliche dei film, e anche con i recenti incontri a Wounded Knee.

 

La tragedia evocata da Piccola Piuma aveva visto l’eccidio di quasi trecento nativi americani di origine Sioux Lakota, massacrati dall’esercito americano (dicembre 1890) presso la cittadina di Wounded Knee in South Dakota: venti dei soldati responsabili furono premiati con medaglia d’onore, e ancora recentemente (2019) una rappresentanza di nativi lakota ha chiesto la revoca di queste “medaglie del disonore”. Proprio su questo argomento Dee Brown (1908-2002) scrisse un libro che fece epoca, Bury My Heart at Wounded Knee, 1970 (Seppellite il mio cuore a Wounded Knee, Mondadori, 1972).

Un testo talmente straziante che chi scrive fece fatica a leggerlo. Qui in poche righe la storia di quel massacro nelle parole di Alce Nero:

 

Non sapevo in quel momento che era la fine di tante cose. Quando guardo indietro, adesso, da questo alto monte della mia vecchiaia, ancora vedo le donne e i bambini massacrati, ammucchiati e sparsi lungo quel burrone e zig zag, come li vidi con i miei occhi da giovane. E posso dire che con loro morì, sulla neve insanguinata, sepolto sotto la tormenta, il sogno di un popolo. Era un grande sogno.

 

Ma di tutto ciò Piccola Piuma non fece in tempo a parlare. E un episodio durato appena sessanta secondi segnò uno dei momenti più significativi e odiosi degli ultimi cinquant’anni nella storia della lotta contro le minoranze.

Sessanta secondi per adattare una lettera di quindici pagine, con passi come questo:

 

Per duecento anni abbiamo detto agli indiani che si battevano per la loro terra, le loro famiglie e il loro diritto di essere liberi “deponete le armi e potremo vivere insieme”. Lo hanno fatto e li abbiamo sterminati. Abbiamo mentito, li abbiamo privati delle loro terre, trasformandoli in mendicanti in una terra che loro hanno amato e che ha dato a loro la vita.

 

John Wayne, sterminatore di pellerossa nella storia del cinema western di Hollywood, venne addirittura trattenuto da sei uomini che gli evitarono di salire sul palco per cacciare l’attivista indiana.

Sacheen rappresentò per il mondo lo specchio di quella società, in minoranza naturalmente, che lotta per il giusto e che viene emarginata in favore dei burattinai del potere: il tutto con l’effetto di una gogna popolare satura di odio e di intolleranza, in un mondo che non si schiera dalla parte di chi abbia ragione, bensì di chi è più forte.

L’effetto risonanza fu altissimo. Un esempio banale per me allora studente di scuola superiore in una città come Casale Monferrato: la nascita di un circolo alternativo che prese il nome di Wounded Knee, proprio l’anno dopo questo fatto, e frequentatissimo in quegli anni da colori che oggi potremmo definire gli antagonisti.

Questo minuto davanti alle telecamere costò alla giovane nativo americana, solo ventisettenne, la fine della carriera cinematografica e l’ira e l’accanimento dei vertici dell’Academy. Quegli stessi che dopo 49 anni l’Academy mostrano ora di cospargersi il capo di cenere recitando il mea culpa. Arrivano le scuse via lettera, ufficiali, scritte per l’evento di quella serata.

Un discorso durato un minuto e che rimane in memoria per quasi cinquant’anni. Come pisciare nell’oceano, e l’ecologia mondiale ti accusa di aver inquinato l’acqua. Le scuse non cancellano i crimini, i misfatti, i soprusi. Questa è la demo(nio)crazia.

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Alamo, la vera storia https://www.carmillaonline.com/2022/05/15/alamo-la-vera-storia/ Sun, 15 May 2022 20:30:50 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=71885 di Giorgio Bona

Per gli Stati Uniti la battaglia di Alamo, avvenuta nel 1836 tra i messicani e duecento coloni texani per l’indipendenza del Texas, costituisce uno dei miti fondanti del paese.

Alamo era una missione coloniale spagnola sorta per opera dei francescani che si avvalsero della mano d’opera degli indios per costruirla a poche centinaia di metri dai primi insediamenti da San Antonio. Diventò poi Fort Alamo soltanto in seguito agli scontri tra messicani e statunitensi.

Fu un elemento chiave della rivoluzione per l’indipendenza del Texas e racconta di un assedio di [...]]]> di Giorgio Bona

Per gli Stati Uniti la battaglia di Alamo, avvenuta nel 1836 tra i messicani e duecento coloni texani per l’indipendenza del Texas, costituisce uno dei miti fondanti del paese.

Alamo era una missione coloniale spagnola sorta per opera dei francescani che si avvalsero della mano d’opera degli indios per costruirla a poche centinaia di metri dai primi insediamenti da San Antonio. Diventò poi Fort Alamo soltanto in seguito agli scontri tra messicani e statunitensi.

Fu un elemento chiave della rivoluzione per l’indipendenza del Texas e racconta di un assedio di ben 13 giorni cui le truppe messicane guidate dal Presidente e Generale Antonio Lopez De Santa Ana sottoposero la missione.
La storiografia americana riporta nella sua epopea leggendaria la crudeltà di Santa Ana, fonte ispiratrice dei coloni texani e avventurieri che partirono per unirsi ai volontari in difesa della missione.

Qui si fonda uno dei grandi miti americani, un grande vessillo sventolato in onore della libertà che vuol nascondere la politica imperialista già in atto da lungo tempo e che aveva bisogno di creare quei falsi miti per innalzare la sua bandiera. È nei morti di quella battaglia, morti considerati eroi, che gli Stati Uniti individuano l’essenza della nazione.

Ma cosa è successo veramente ad Alamo da giustificare quelle morti?

La storia va avanti a raccontare che senza il sacrificio di Alamo non ci sarebbe stata la battaglia di San Jacinto che segnò la vittoria contro i messicani e senza quella vittoria il Texas non avrebbe raggiunto l’indipendenza, conquistato la sua libertà e addirittura non sarebbe mai esistito.

Considerando che nella battaglia nessuno sembra sopravvissuto, per cui non esistono testimonianze dirette che potessero essere tramandate, si è potuto facilmente uscire da quella che poteva essere la storia reale e assoggettarla alle esigenze che il potere chiedeva. Certo non mancarono voci discordanti e proprio all’interno del bel paese, da far passare la vicenda di Alamo non come un sacrificio eroico e un’impresa di straordinaria grandezza.

Servì a questo scopo per giustificare il sentimento di odio e il razzismo nei confronti del popolo messicano e per giustificare il genocidio nei confronti di quella popolazione, tanto che, come riporta Pino Cacucci nel suo Quelli del San Patricio, il presidentissimo Abramo Lincoln tenne un durissimo discorso al Congresso affermando che gli Stati Uniti avevano condotto una guerra innecessaria e incostituzionale, contraria ai principi fondatori della nazione.

Ma ecco come si mutò tutto per creare quei falsi ideali dentro un mito che innesca la morale di quei grandi valori sociali partendo dal un fatto reale e poi demistificandolo.

Una battaglia che si è conclusa con una sconfitta che ha esaltato il sentimento patriottico e il valore della libertà, e dove sono stati scritti migliaia di libri e la filmografia di Hollywood non si è certo tirata indietro a ricostruire secondo la sua visione quella vicenda che per la storiografia messicana fu soltanto un episodio, una vittoria senza seguito.

Sulla battaglia di Alamo, Hollywood ha fatto una produzione molto ampia. Si cominciò con The immortal Alamo di William F. Haddok, un film prodotto in Texas da Georges Melies ed era un cortometraggio muto del 1911 conosciuto anche con il titolo Fall of the Alamo.

Seguì esattamente quattro anni dopo, nel 1915, Sotto l’unghia dei tiranni diretto da Christy Cabanne, film muto di 71 minuti che raccontò la disperata resistenza di 183 volontari contro un esercito formato da 6500 messicani guidati dallo spietato dittatore Santa Ana.

L’ultimo risale al 2004 con Alamo – gli ultimi eroi e prova a descrivere in modo dettagliato la guerra fino alla resa di Santa Ana. Ma anche in questa versione le ragioni della ribellione texana non vengono spiegate e non sono molto chiare.

Il film sicuramente più celebre fu La battaglia di Alamo diretto e prodotto dall’eroe della filmografia americana John Wayne, che interpretò la parte dell’eroe più conosciuto di quella battaglia, Davy Crockett. Qui il più sfacciato rappresentante del grande mito americano, quello della conquista e dell’espansione nell’ovest selvaggio a portare la civiltà, con il lungo e costosissimo film propagandò in modo spettacolare i valori eroici che avevano portato alla costruzione del grande paese. Un’altra incredibile versione dove in primo piano si rispecchiavano le grandi tradizioni della storia americana che raccontava la volontà dei texani di liberarsi dalla dittatura di Santa Ana.

E come è possibile raccontare o demistificare la realtà storica quando la storia diventa lo strumento con cui le classi dominanti tengono il potere senza rappresentarla attraverso eroi o miti le cui figure reali sono raccontate all’opposto di quello che furono nella realtà? La storia americana ne è piena.

John Wayne nel suo film scelse la figura di Davy Crockett, sicuramente il personaggio più famoso, già protagonista di film e di libri che ne decantavano gesta straordinarie. Credo sia stata una scelta fortemente voluta perché Davy Crockett, rispetto agli altri due eroi protagonisti, Jim Bowie e William Travis, esalta maggiormente il prototipo dell’eroe americano, generoso, temerario, senza macchia e senza paura con un senso della giustizia e del valore della libertà moralista fino all’estremo.

John Wayne rappresentò un uomo perfettamente allineato e si prestò in soccorso del mito appoggiato da alcuni padroni texani che contribuirono a finanziare il film, a patto che fosse girato nel Texas, terra di forte immigrazione dove i messicani che attraversano il Rio Grande in cerca di miglior vita nel Bel Paese non sono certamente trattati meglio dei loro predecessori di quasi duecento anni fa.

Che dire degli eroi conclamati di questo fatto storico così importante? Davy Crockett fu certamente il più famoso: la leggenda narra che all’età di tre anni avrebbe ucciso un orso, che all’età di nove anni scappò di casa vagabondando di villaggio in villaggio. Di lui è sicuro che a 27 si arruolò nella frontiera per combattere gli indiani creek. Ecco un eroe della frontiera con la sua carabina che si chiamava “Betsy”, fedelissima compagna, in testa il cappello in pelle di procione con coda penzolante, alla guida dei “Volontari a cavallo del Tennessee” calato già nei panni del personaggio famoso a combattere per l’indipendenza del Texas.

Meno celebre ma in egual misura vittima del suo mito fu Jim Bowe, la cui famiglia, originaria del Kentucky, era nota per il maggior numero di schiavi posseduti. Ma cosa si dice di questo eroe per farlo entrare nel mito? Qualcuno racconta che il giovane Jim, quando la famiglia si trasferì in Louisiana, prendeva al lazo i coccodrilli, domava cavalli selvaggi e cacciava orsi. La sua fama crebbe mostrando una straordinaria abilità nell’usare il coltello, un coltellaccio da macellaio, un mezzo machete, una lama affilata e seghettata lunga circa con cui sfidava banditi armati fino ai denti.

E non poteva mancare la figura di un aristocratico come William Barret Travis, nato in Carolina del Sud e con la famiglia emigrato in Alabama. La sua famiglia si dedicava alle piantagioni di cotone che coltivavano gli schiavi presi a noleggio o in prestito. Cominciò a gestire pratiche improvvisandosi come avvocato e si occupava di un giornale che editava lui stesso. Collezionò fallimenti su fallimenti finchè abbandonò la moglie incinta di cinque mesi per trasferirsi in Texas.

Invece la storiografia messicana fu ridotta ai minimi termini, mentre sarebbe stato interessante raccogliere le testimonianze dei contadini messicani rimasti nel Texas dopo l’indipendenza, e sentire una loro versione probabilmente differente.

Nel suo libro El Alamo, costato sei anni di meticolose ricerche d’archivio, lo scrittore Paco Ignacio Taibo II riporta la frase di una canzone del film di John Wayne: “lottarono per darci la libertà e questo è tutto quello che abbiamo bisogno di sapere”.

Niente di più lontano dalla verità, e dalla realtà. Molto di più.

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Globalizzazioni hollywoodiane, timori di fine impero e mito della seconda opportunità https://www.carmillaonline.com/2021/08/29/globalizzazioni-hollywoodiane-timori-di-fine-impero-e-mito-della-seconda-opportunita/ Sun, 29 Aug 2021 21:00:25 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=67656 di Gioacchino Toni

Il recente libro di Stefano Santoli, Fabbrica dei sogni, deposito di incubi. Dieci anni di cinema USA 2010-2019 (Mimesis, 2021), si focalizza sul cinema statunitense dello scorso decennio alla ricerca delle peculiarità che lo caratterizzano rispetto alla produzione precedente. Quello preso in esame è per gli Stati Uniti un decennio segnato dal passaggio dall’era Bush a quella Obama e culminato con l’avvento di Trump alla Casa Bianca, un periodo caratterizzato da una grave crisi socioeconomica che ha fatto seguito a quella finanziaria, da un incremento delle diseguaglianze sociali ma anche da una nuova presa di parola da parte [...]]]> di Gioacchino Toni

Il recente libro di Stefano Santoli, Fabbrica dei sogni, deposito di incubi. Dieci anni di cinema USA 2010-2019 (Mimesis, 2021), si focalizza sul cinema statunitense dello scorso decennio alla ricerca delle peculiarità che lo caratterizzano rispetto alla produzione precedente. Quello preso in esame è per gli Stati Uniti un decennio segnato dal passaggio dall’era Bush a quella Obama e culminato con l’avvento di Trump alla Casa Bianca, un periodo caratterizzato da una grave crisi socioeconomica che ha fatto seguito a quella finanziaria, da un incremento delle diseguaglianze sociali ma anche da una nuova presa di parola da parte delle minoranze, specialmente quella afroamericana, e delle donne soprattutto contro le molestie sessuali portate alla ribalta da diverse attrici hollywoodiane. L’onda lunga di queste mobilitazioni ha comportato per il cinema statunitense una maggiore propensione al “politicamente corretto” che se da un lato sarebbe esagerato derubricare come esclusivamente di facciata e mossa da mera convenienza commerciale, dall’altro sappiamo però quanto l’immaginario sia un campo di battaglia in cui occorre sempre guardarsi le spalle.

Il cinema americano degli anni Dieci si è trovato a fare i conti con la concorrenza sempre più agguerrita di serie televisive che ne riprendono spesso l’estetica, con la produzione di film da parte dei colossi dello streaming realizzati appositamente per il circuito televisivo e con una sempre più marcata tendenza alla visione solitaria e domestica delle opere audiovisive, cinema compreso, con tutto ciò che ne consegue per le (multi)sale. L’attuale pandemia ha sicuramente agito da acceleratore di un fenomeno in realtà in atto ben da prima del suo arrivo e che ha le sue radici profonde in mutamenti che non riguardano soltanto l’industria degli audiovisivi.

A segnare emblematicamente la chiusura del decennio indagato, Santoli individua due eventi: l’Oscar per il “miglior film” (attenzione, non “film straniero”) assegnato nel febbraio del 2020 al sudcoreano Parasite (2019), corredato dal premio alla miglior regia al suo autore Bong Joon-ho, che rappresenta per certi versi il punto di arrivo di una tendenza hollywoodiana a guardare maggiormente allo scenario internazionale e, poco dopo, l’inizio della pandemia che ha portato alla chiusura delle sale, alla sospensione delle produzioni e al rinvio della distribuzione di opere già pronte.

La premiazione agli Oscar del 2020 conferita ad un film “non americano” non è un episodio estemporaneo secondo Santoli; si tratta piuttosto dell’esplicitazione di una Hollywood sempre più globalizzata. Lungo l’intero decennio il sistema produttivo hollywoodiano si è mostrato sempre più propenso ad affidare produzioni importanti a registi non statunitensi mentre l’Academy si è rivelata sempre più propensa ad assegnare i premi più importanti guardando oltre i confini nazionali giungendo a premiare produzioni non statunitensi anche nella categoria di “miglior film” tradizionalmente riservata a produzioni nazionali destiando a quelle straniere la categoria del “miglior film straniero”.

La sistematicità del processo di internazionalizzazione del cinema statunitense è tale da poter apparire sintomo di un sistema produttivo in crisi d’identità. Sorge però un dubbio: e se questa internazionalizzazione, lungi dall’essere un’abdicazione, fosse una forma di espansionismo? Accogliere come statunitense il cinema mondiale potrebbe non essere segno di un cedimento, quanto piuttosto un modo – il più lineare? – per tentare di globalizzare la potenza hollywoodiana in un momento di crisi produttiva autoctona, facendo leva sul mestiere dei registi stranieri e in parallelo sulla risonanza mediatica mondiale degli Oscar. Il cinema statunitense sarebbe così disposto a trasformarsi, arrivando ad accogliere in sé il cinema mondiale tout cour, riservandosi pur sempre il diritto di scegliere quale cinematografia consacrare (e quale no…) (p. 216).

Insomma, Hollywood al momento sembrerebbe sopperire alla sua crisi riservandosi il controllo sull’immaginario globalizzabile a prescindere dal paese di produzione; d’altra parte i capitali necessari alla produzione non guardano, e da un pezzo, ai confini nazionali.

L’immaginario statunitense durante lo scorso decennio ha visto le ossessioni post 11 settembre evolversi in un senso di diffusa incertezza sul futuro nordamericano; la crisi finanziaria con le sue ricadute socioeconomiche, le incognite circa il futuro ruolo degli Stati Uniti su uno scacchiere internazionale decisamente mutato rispetto al passato ecc. Se non è difficile scorgere nei film il timore diffuso, sebbene solitamente non evocato direttamente, che la fine dell’impero americano sia ormai prossima, allo stesso tempo non sembra essere venuto meno quell’ottimismo a stelle e strisce che tende a negare anche solo la possibilità che gli Stati Uniti possano perdere la loro leadership politica, economica e di immaginario.

Questo ottimismo pervade le mitologie popolari rilanciate in continuazione dal cinema, e corrobora la stessa forza del Paese alle prese con le sue sfide. […] Un antico archetipo, simbolico prima che narrativo, è molto caro al cinema statunitense: a una momentanea apparente sconfitta segue il trionfo, spesso attraverso il ritorno sulla scena di un eroe che si credeva sconfitto o addirittura morto, in realtà solamente uscito di scena e nel frattempo rafforzatosi. Nella cultura occidentale l’archetipo è evidente nella resurrezione di Cristo; il percorso simbolico di morte-resurrezione-trionfo è presente nel pensiero di Carl Gustav Jung, in cui il viaggio simbolico dell’eroe porta a compimento il processo di auto-individuazione e si compie con il raggiungimento della piena consapevolezza di sé. La resurrezione è una delle tappe di Il viaggio dell’eroe di Christopher Vogler (prima edizione 1992), che si basa sugli studi dello storico junghiano Joseph Campbell (L’eroe dai mille volti, 1949). Nella cultura e nel cinema popolare, i casi in cui si incarna l’archetipo sono innumerevoli (pp. 17-18).

Se tale archetipo si è presentato nel cinema nelle più svariate modalità, nello scorso decennio ha esasperato alcune caratteristiche già in manifestatesi sulla scena, come la precarietà e la debolezza dei protagonisti, tanto che giungono persino a poter morire, salvo poi trovare un utile espediente per risorgere.

Sul piano simbolico, non è difficile scorgervi in filigrana sia la debolezza in cui si sentono attanagliati gli USA, sia il ribadirsi dell’archetipo mitico (che funziona in modo anche più entusiasmante, visto lo scarto che si viene a creare tra vera e propria morte e resurrezione). In termini politici, queste trame possono essere lette come un auspicio per il futuro: gli Stati Uniti – che pretendono, da sempre, di incarnare il Bene – ne sapranno sempre “una più del diavolo”, e il tramonto del loro impero non potrà che essere scongiurato (p. 18).

Alla diffusione nello scorso decennio dei mind game movies, film-rompicapo, che conquistano spazio già negli anni Novanta del secolo scorso [su Carmilla], si accompagna la presenza sempre più massiccia di eroi deboli, in preda a incertezze, ripensamenti, a una percezione fallimentare dell’esistenza o alla sensazione di non essere all’altezza delle proprie responsabilità. Già nel passaggio dagli anni Ottanta ai Novanta del Novecento l’eroe ha dismesso i panni muscolari per farsi più problematico e persino inadeguato ad affrontare le difficoltà che si trova di fronte. Hollywood è però benevola nei confronti dei suoi eroi; a fronte di tante fragilità e mancanze spesso concede loro una seconda opportunità che a volte significa poter rivivere la medesima azione più volte aumentando così le possibilità di successo.

Se da un lato, ricorda Santoli, questa possibilità di ricominciare l’avventura cambiandola palesa una derivazione videoludica, non di meno «a far diventare comune l’abitudine a rivivere daccapo il medesimo scenario è la diffusione dei c.d. “reboot”, in cui avviene l’interruzione della continuity di una serie, e che si differenzia dai remake, a vantaggio della rifondazione di tutta la storia» (p. 21). Il reboot non è un aggiornamento ma un vero e proprio azzeramento; il riferimento non è tanto ai film o alle serie precedenti ma ad una “generica icona” impressa nell’immaginario collettivo che si presta a molteplici declinazioni.

Dopo essersi soffermato sulla produzione votata esplicitamente all’immersione sensoriale offerta alle nuove tecnologie digitali, lo studioso analizza la nuova primavera vissuta dal western «quale persistente orizzonte mitico in cui si specchia il presente», dunque verifica «come il Novecento inizi a rappresentare un nuovo orizzonte mitico: deposito di sogni e incubi, dove si celebrano i valori americani o viceversa si individuano le radici del tradimento dell’american dream» (p. 14). Infine, l’ultima parte del volume presenta alcuni percorsi autoriali (Quentin Tarantino, Paul Thomas Anderson, Clint Eastwood, Woody Allen, Martin Scorsese, Terrence Malick e David Lynch) di cui si evidenziano evoluzioni, continuità, maturità raggiunta, rinnovamenti e nuove sfide.

Fabbrica dei sogni, deposito di incubi si rivela un interessante viaggio all’interno di quell’immaginario americano cinematografico che, con tutte le sue contraddizioni, non smette di tradire, dietro le specificità statunitensi, la sua vocazione globale. Come è sempre stato del resto, ma in maniera in parte nuova ed è questa ad essere indagata da Stefano Santoli.

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Dalla Narodnaja volja a Superman https://www.carmillaonline.com/2020/12/09/da-narodnaja-volja-a-superman/ Wed, 09 Dec 2020 22:00:46 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=63788 di Sandro Moiso

Diego Gabutti, Superuomo, ammosciati. Da Nietzsche a Tarzan, da Napoleone agli Avengers: la fabbrica dell’Übermensch, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli (CZ) 2020, pp. 204, 14,00 euro

«Due sono le costruzioni cui più suinamente s’inchina il filisteo: lo Stato e l’Io». (Amadeo Bordiga, Superuomo ammosciati!)

«du sublime au ridicule il n’y a qu’un pas!» (Napoleone Bonaparte)

L’ultima sulfurea, irriverente e, spesso, caustica fatica di Diego Gabutti, recentemente pubblicata da Rubbettino nella collana Zonafranca, potrebbe benissimo funzionare come corollario dell’ipotesi avanzata dallo storico e saggista Yuval Noah Harari nel suo testo “Sapiens. [...]]]> di Sandro Moiso

Diego Gabutti, Superuomo, ammosciati. Da Nietzsche a Tarzan, da Napoleone agli Avengers: la fabbrica dell’Übermensch, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli (CZ) 2020, pp. 204, 14,00 euro

«Due sono le costruzioni cui più suinamente s’inchina il
filisteo: lo Stato e l’Io».
(Amadeo Bordiga, Superuomo ammosciati!)

«du sublime au ridicule il n’y a qu’un pas!»
(Napoleone Bonaparte)

L’ultima sulfurea, irriverente e, spesso, caustica fatica di Diego Gabutti, recentemente pubblicata da Rubbettino nella collana Zonafranca, potrebbe benissimo funzionare come corollario dell’ipotesi avanzata dallo storico e saggista Yuval Noah Harari nel suo testo “Sapiens. Da animali a dei. Breve storia dell’umanità” (Bompiani 2014), in cui si ipotizza che il motivo dell’affermazione della nostra specie sulle altre sia dovuto, sostanzialmente, alla capacità di produrre realtà intersoggettive, capaci di funzionare da collante per gruppi molto grandi di individui. Realtà “inventate”, cui solo gli uomini come specie possono credere (religione, denaro, Stato, diritto e diritti, solo per citarne alcune), ma che allo stesso tempo si sono trasformate in realtà oggettive o, almeno, in forze produttive reali.

Tema particolarmente caro ai redattori di Carmilla, quello dell’immaginario collettivamente condiviso costituisce un territorio troppo spesso relegato a fattore secondario dello sviluppo sociale e delle leggi che ne regolano il funzionamento. In ogni epoca storica e in ogni fase del cammino dell’Umanità. Una riduttivistica lettura in chiave volgarmente marxista ed economicistica l’ha infatti ridotto a mera sovrastruttura di una struttura portante basata su rapporti di produzione determinati esclusivamente dall’economia e dalla gestione delle necessità da questa pre-detefinite. Dimenticando che per far sì che queste strutture funzionino è necessario che il gruppo sociale ne condivida, intimamente e soggettivamente oltre che collettivamente, principi e finalità. E non dimenticando, neppure, che anche le necessità sono frutto non solo di bisogni materiali, ma anche di un immaginario condiviso.

E’ chiaro come al centro di questi principi condivisi risieda quello del potere e della sua gestione, sia esso di carattere monarchico o elettivo oppure ancora dittatoriale.
Problema non di certo recentissimo se si pensa che già, nel XVI secolo, Étienne de La Boétie poteva chiedersi:

Vorrei soltanto riuscire a comprendere come sia possibile che tanti uomini, tanti paesi, tante città e tante nazioni talvolta sopportino un tiranno solo, che non ha altro potere se non quello che essi stessi gli accordano, che ha la capacità di nuocere loro solo finché sono disposti a tollerarlo, e che non potrebbe fare loro alcun male se essi non preferissero sopportarlo anziché opporglisi. E’ cosa veramente sorprendente – e pur tuttavia così comune che c’è più da dolersene che da stupirsene – vedere milioni di uomini miseramente asserviti, il collo piegato sotto il giogo, non perché costretti da una forza più grande ma soltanto, sembra, perché incantati e affascinati dal solo nome di uno di cui non dovrebbero temere la potenza […]1

Domanda e ipotesi poi rafforzata da David Hume che, nel 1741, nel suo saggio Sui primi principi del Governo, affermava:

Nulla appare più sorprendente, a chi consideri le cose umane con occhio filosofico, della facilità con cui i molti vengano governati dai pochi, e dell’implicita sottomissione con cui gli uomini rinunciano ai loro sentimenti e alle loro passioni per quelle dei loro governanti. Quando ci chiediamo attraverso quali mezzi si realizzi questo prodigio, troviamo che, essendo la forza sempre dalla parte di chi è governato, chi governa non ha nulla a proprio sostegno se non l’opinione. Pertanto è sull’opinione soltanto che si fonda il governo; e questo principio si estende tanto ai domini più dispotici e militari, come a quelli più liberi e popolari.2

Preludio, infine, a quello stato di minorità volontario di cui avrebbe parlato Immanuel Kant, nel suo Che cos’è l’Illuminismo?, circa quarant’anni dopo, nel 1784.
Mi scuso con i lettori, e con l’autore, per la lunga passeggiata tra i filosofi del XVI e XVIII secolo, ma questa era necessaria per ricollegare le osservazioni iniziali al libro di Gabutti di cui qui si parla, poiché l’autore riporta il problema all’interno dell’epoca moderna, con una lunga cavalcata che a partire dal Palais Royal di fine Settecento, passando per i nichilisti russi, Dostoevskij e Nietzsche giunge fino al ‘900 delle dittature, delle grandi utopie trasformate in incubi e, ancora, alla narrativa popolare di Edgar Rice Burroughs, creatore di Tarzan, ai fumetti della DC Comics con Batman e Superman a farla da padroni e, successivamente, a quelli degli Avengers e di Spiderman della Marvel.

Sono i due, tre secoli in cui è più forte la spinta verso l’affermazione della capacità del singolo individuo, o del manipolo di eroi (organizzati bolscevicamente in Partito oppure in banda dai poteri sovrumani) di cambiare il mondo, distruggendo quello che lo precede o già contiene oppure, molto più prosaicamente, riformarlo eliminandone i cattivi e gli indesiderati guastafeste (Batman contro il Joker, Lenin contro il capitalismo mondiale, Stalin contro gli anarchici e i fascisti, la Lorenzin, oggi Speranza, contro i NoVax, i fascisti e i populisti contro tutti).

E’ una lettura non priva di rischi quella che Gabutti propone al pubblico, ma, sicuramente adatta a vangare e a rivoltare un terreno troppo spesso ricoperto dalla melma dell’ideologia. Ideologia che, troppo spesso, è ancora figlia di una “Rivoluzione” borghese che ha promesso di cambiare radicalmente il mondo senza mai davvero volerlo o poterlo fare. Una promessa o una speranza riposta in individui, di cui i supereroi, buoni e cattivi, non sono altro che le proiezioni popolari e semplificate, che pur Amadeo Bordiga, nel testo citato in epigrafe aveva già liquidato quasi settant’anni fa.

Individui, comunque e sempre, dai ‘trogloditi’ russi3 a John Lennon4, inadatti a cavalcare i movimenti sociali, quasi sempre sotterranei e profondi, che li ispirano. Così, quello di mantenere le cose come sono, se non addirittura peggiorarle, attraverso la promessa di cambiarle per mezzo di un eroe e della sua volontà, rispettando naturalmente la volontà del popolo, è il prodotto di un’epoca, iniziata con l’avvento della macchina e del vapore, preludio di ogni altra energia a venire (da quella elettrica a quella nucleare), che hanno contribuito come pochi altri fattori a ridurre a scarto la volontà e la capacità d’azione dell’individuo. E che proprio di questa impotenza, individuale e collettiva, costituisce l’immagine specularmente rovesciata.

Ecco allora l’individuo, figlio del libero arbitrio cristiano e dell’illusione democratica liberale, che con la bomba e il terrore, oppure indossando le mutande sugli abiti, come ogni buon supereroe, si illude, ma soprattutto illude il singolo oppure le masse che la “libertà” (altro termine fantasmagorico) sia a portata di mano (oppure di pistola, di manganello, di coltellaccio da decapitazione, come negli horror movie prodotti dall’Isis, o qualsiasi altro strumento legato all’uso della forza).

Gabutti proprio non vorrebbe essere accostato ai marxisti (al massimo, ma con distaccata ironia, a Bordiga) eppure come non cogliere in una celebre lettera di Karl Marx a Kugelmann il principio e il motore delle sue riflessioni?

Finora si era creduto che la formazione dei miti cristiani sotto l’impero romano fosse stato possibile solo perché non era ancora stata inventata la stampa. Proprio all’inverso. La stampa quotidiana e il telegrafo, che ne dissemina le invenzioni in un attimo attraverso tutto il globo terrestre, fabbricano più miti (e il bue borghese ci crede e li diffonde) in un giorno di quanti se ne potessero un tempo costruire in un secolo5

Peccato, ci sarebbe da aggiungere, che anche quello che dovrebbe essere l’affossatore “naturale” della classe al potere ci creda altrettanto e forse di più. In un’epoca in cui si sono aggiunti il cinema, la radio, i comics, la tv, internet, i social e tutti i loro infiniti derivati. La rivolta luddista corre nelle immagini della serie infinita di film dedicati a Terminator e Skynet e la paura delle macchine si ribalta, poi, ancora in fiducia nelle stesse e nel loro utile e sano uso per tramite delle app suggerite dal governo, sia per contrastare la diffusione del Covid che per il cashback e le sue lotterie natalizie. Così dal teatro pedagogico di Bertold Brecht si è passati alle influnencer “impegnate” alla Chiara Ferragni, ma in un’epoca di mass-media il passo tra i due è stato probabilmente sempre molto breve.

L’emancipazione femminile passa attraverso l’immagine di Uma Thurman di Kill Bill 1 e 2, ma resta pur sempre in mano ad Hollywood e al movimento MeToo che ne è scaturito. Spettacolo nello spettacolo e dello spettacolo. Così, mentre anche a Guy Debord sarebbe iniziata a girare la testa, il Superuomo o Übermensch oppure ancor la Superdonna ne sono il prodotto diretto, così come lo era la creatura di Victor Frankenstein all’epoca dalla prima rivoluzione industriale.

Se, come sottolineava già Pirandello, è la vita a copiare dal teatro oppure, come ci ricorda Gabutti, i poeti tragici vennero raffigurati, già ne Le rane di Aristofane, come educatori del popolo che tenevano alto il modello da ammirare:

Otto e Novecento sono secoli in cui fiction e realtà coincidono quasi del tutto.
E una vertigine. Oscar Wilde, gli anarchici con la fissa della dinamite, Huck Finn e Tom Sawyer, Giuseppe Garibaldi, gli apaches parigini e quelli della frontiera americana, la Regina Vittoria, Madama Butterfly e la Creatura del Barone Frankenstein, Sandokan, lo stesso Nietzsche prima e dopo l’incidente di Torino: quando non sono letterati, sono personaggi letterari, e quel che fanno e sempre e soltanto letteratura e intrattenimento. Showbiz… «è tutta industria dello spettacolo», dirà poi William Burroughs, dadaista pulp. Un utopista che sale al potere, come Lenin in Russia in che cosa si distingue da Fu Manchu, un personaggio immaginario che la vede come lui e che, nella finzione romanzesca e cinematografica, agisce esattamente come gli utopisti agiscono nella realtà storica (smontando e rimontando il giocattolo a molla delle società umane: più libertà, più libero arbitrio… no, meno, di più, così è troppo, così troppo poco)?6

Del superuomo, o più precisamente di chi passa per tale, o semplicemente si richiama a questa spettacolare figura della modernità, si continua naturalmente a parlare. Non si parla, anzi, quasi d’altro. Perché il superuomo non e soltanto, come a volte capita di pensare, una presenza fissa nel nostro immaginario («anche filosofico», aggiunge il pedante). Causa che s’autopromuove – attraverso il cinema, come attraverso la politica e le religioni, ma che conquista spazio e audience soprattutto attraverso la sua eccezionale e finora ineguagliata natura camaleontica, grazie cioè alla sua capacità d’incarnare contemporaneamente la Tecnica che divora il mondo e il suo contrario, cioè la guerra per mare e per terra alla riduzione della vita a incubo chapliniano-orwelliano – l’Übermensch è un’ombra a lato dello sguardo d’ogni nostra esperienza storica recente. E l’abisso che ci restituisce lo sguardo ogni volta che ci affacciamo incautamente nel vuoto. E il fantasma che, come nell’incipit d’un manifesto rivoluzionario old style, infesta il castello della Zivilisation.
Ma non ne sono piu invasati gli avventurieri letterari, come nella belle époque, quando nel calderone della radicalità ribollivano insieme il sesso e la politica, il misticismo e il materialismo, l’impassibilità nichilista, la rivoluzione socialista (o quella conservatrice) e la poesia sfrenata come una danza sufi. Romanzieri e filosofi, artisti e poeti, hanno superato indenni le prove infernali che il XX secolo ha imposto a tutti quanti, persino ai chierici che in genere sgusciano fuori vista quando le cose si fanno difficili, ma non hanno conservato il ruolo che avevano un tempo, quando gli amori di Lady Chatterley, gli inni londoniani al popolo dell’abisso, le imprese militari del Vate e quelle di Lawrence d’Arabia (la prima tarocca, la seconda non del tutto vera) galvanizzano il fan club del superuomo.
Tifosi del sesso libero, della bella morte, della rivoluzione purchessia, di destra o di sinistra è lo stesso, i tifosi dell’intellighenzia oltreumana e «immoralista», attivi soprattutto nell’interregno tra le due guerre mondiali, sciolgono le loro curve sud dell’apocalisse quando a nessuno è più possibile negare l’esistenza del lato oscuro e nichilista del tempo presente: una guerra terribile, uno spaventoso dopoguerra totalitario, seguito da un’altra guerra e da altre sventure. Succede esattamente come nei sixties americani dopo l’eccidio di Bel Air da parte della Famiglia Manson, ala satanista della controcultura. Niente più fiori nei capelli, basta con le svenevolezze e d’ora in avanti, ai concerti rock, nessuno si metta più nudo: prudenza.
E’ il momento in cui l’uomo potenziato, sospettando d’averla fatta troppo grossa, entra prudentemente (anche lui) in clandestinità, come se temesse le torce e i forconi degli abitanti del villaggio planetario, che da un momento all’altro, pensa, potrebbero decidere di dargli la caccia come a una Creatura delle dimensioni del Leviatano di Hobbes, o di Godzilla. Circospetto, sguardo a destra, sguardo a sinistra, questo Übermensch inesistente, simile per consistenza al cavaliere d’Italo Calvino, lascia la copertura metafisica (chiamiamola cosi) e si trasforma, per istinto di conservazione, in un personaggio immaginario, eroe e antieroe dei fumetti, del cinema, dei tabloid. Ma e una precauzione inutile, data la sua natura illusoria7.

Si avvicina Natale e il governicchio dei super-omuncoli vi costringerà a rimanere chiusi in casa più del dovuto e più di quanto vi sareste aspettati. Già solo per questo motivo il libro di Gabutti potrebbe rivelarsi una lettura provocatoria, intelligente e divertente, per sfuggire alle maglie di un quotidiano ormai profondamente addomesticato in ogni sua espressione. Una riflessione destinata, infine, a suggerire come la linea che divide l’utopia dalla distopia e la Storia dalla commedia o da un horror movie sia, quasi sempre, molto sottile.

«Non sono un socialista, sono un furfante» (Pëtr Stepanovič Verchovenskij, I demoni)

«Diventammo sovversivi perché eravamo delinquenti potenziali. Fummo rivoluzionari perché non avremmo potuto essere altro. Inutile raccontarsela o raccontarla diversamente. La coscienza venne dopo. Più tardi. Dopo innumerevoli errori e pratiche irridenti e folli. Alla faccia di qualsiasi ortodossia marxista. Sempre e soltanto pretesa e mai realmente efficace» (S. M., L’estate del 1964 o giù di lì e oltre)


  1. É. De La Boétie, Discorso sulla servitù volontaria (1576), Edizioni Il Foglio, Milano 2018, p. 4  

  2. D. Hume, Essays, Literary, Moral and Political, ora citato in Murray N.Rothbard, Il pensiero politico di Étienne de La Boétie, Introduzione a É. De La Boétie, op. cit., p. XXXIX  

  3. Come «fu battezzato un piccolo gruppo di giovani rivoluzionari della capitale che si distingueva per il fatto che nessun estraneo sapeva dove abitassero e sotto che nome vivessero. Perciò si disse che avevano trovato rifugio in segrete caverne», secondo Franco Venturi nel suo libro Il populismo russo, Einaudi, Torino 1972  

  4. Übermensch involontario, al quale oggi, in occasione del quarantesimo anniversario della morte, i tg italiani attribuiscono la formazione dei movimenti pacifisti grazie alle sue canzoni Imagine e Give Peace a Chance  

  5. K. Marx, Lettere a Kugelmann, Editori Riuniti, Roma 1976, lettera del 27 luglio 1871, 173  

  6. D. Gabutti, Superuomo, ammosciati. Da Nietzsche a Tarzan, da Napoleone agli Avengers: la fabbrica dell’Übermensch, pp. 96-97  

  7. D. Gabutti, op.cit., pp. 111-113  

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The Liberator https://www.carmillaonline.com/2020/12/08/the-liberator/ Tue, 08 Dec 2020 22:55:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=63801 di Nico Maccentelli

Tra i war movie di ultima generazione, The Liberator, questa produzione di fresca realizzazione (2020) e disponibile su Netflix, è certamente una novità per l’utilizzo della Trioscope Enhanced Hybrid Animation, una tecnica di animazione che si basa sull’ibridazione tra ripree dal vivo e computer grafica. Il risultato può piacere, ma può lasciare anche interdetti, anche se abituati alla visione dopo i primi minuti sembrerà di vedere un live vero e proprio.

Ma al di là della tecnica, che certamente ha giovato al portafogli dei produttori per le economie di ripresa, [...]]]> di Nico Maccentelli

Tra i war movie di ultima generazione, The Liberator, questa produzione di fresca realizzazione (2020) e disponibile su Netflix, è certamente una novità per l’utilizzo della Trioscope Enhanced Hybrid Animation, una tecnica di animazione che si basa sull’ibridazione tra ripree dal vivo e computer grafica. Il risultato può piacere, ma può lasciare anche interdetti, anche se abituati alla visione dopo i primi minuti sembrerà di vedere un live vero e proprio.

Ma al di là della tecnica, che certamente ha giovato al portafogli dei produttori per le economie di ripresa, location e ambientazione, questa miniserie in otto puntate riprende lo schema tipico di film sulla seconda guerra mondiale ben blasonati come Patton o Il Grande Uno Rosso: il battaglione che viene spedito nei vari scenari bellici e che si destreggia tra SS spietate e soldati della Wermacht con efficienti capacità belliche. Non certo i pivelli teutonici dei fumetti di Eroica letti da bambini, che cadevano tra un “teufel” e un “donnerwetter”. Qui c’è la guerra vera, con le sue vicende ed epiloghi individuali che non guardano in faccia a nessuno.

Un aspetto che rende interessante The Liberator è che siamo in presenza di un battaglione di reietti, composto da nativi pellerosse e da messicani, sostenuti a amorevoli scarpate in bocca dal solito ufficiale rigorosamente wasp, ma comprensivo e cameratesco. Una chiave che funziona visto che di pellerosse prestati alla guerra dello zio Sam contro Hitler o il Sol Levante ormai ne abbiamo un florilegio: dal navajo Charlie Whitehorse in Windtalkers di John Woo al pima Ira Hayes in Flags of our fathers di Clint Eastwood.

La storia, ovviamente romanzata ma tratta da una vicenda vera, ci parla del viaggio dell’inossidabile capitano Felix Sparks nei vari teatri di guerra europei, con un ricambio costante della sua truppa, per prematura dipartita a miglior vita di quasi tutti i suoi soldati.
Dalla Sicilia ad Anzio, dal sud della Francia ai gelidi monti tedeschi, fino a Dachau, il nucleo essenziale come ogni film di guerra che si rispetti è il cameratismo, l’amicizia oltre ogni limite, fino all’estremo sacrificio. Quindi anche in questo caso una buona dose di retorica non manca. Del resto ce la siamo ritrovata anche negli ultimi kolossal come Dunkirk e 1917.
Difficilmente si può vedere un film di guerra che non tocchi queste corde, le uniche che possano rendere vagamente (e aggiugerei vanamente) accettabile la signora carneficina per eccellenza in ogni epoca della storia. Forse Clint Eastwood con l’elegiaco Lettere da Iwo Jima ha potuto salvarsi con l’espediente riuscito di un’ottica completamente ribaltata: la guerra vista dal nemico, ossia dai giapponesi. Ma esce dal coro guerrafondaio anche Quentin Tarantino con Bastardi senza gloria: una riuscitissima parodia del nazismo, letteralmente antifa e di totale fantasia che mette insieme guerra, Resistenza, giustizialismo e un teatro che va a fuoco con strage di alti papaveri del Reich, Hitler incluso, e che fa fare a Brad Pitt una figura migliore che in Fury. Del resto, a un carrista eroe è sempre preferibile un implacabile giustiziere di nazi.

Comunque, nonostante i limiti patriottardi e camerateschi, The Liberator per gli amanti del genere è assolutamente godibile e soddisfa anche i palati più antifascisti, ossia coloro che giustamente storcono il naso nel riscontrare forti vocazioni paranaziste nella gran parte dei war movie di attualità (ma dove sono finiti i Platoon di Olver Stone? E i Full Metal Jacket di Stanley Kubrick?), certamente più tecnologici, ma con la sfiga di descrivere le aggressioni macellaie d’oggi giorno compiute dall’esercito dello Zio Sam dall’Irak alla Siria nel nome di una vantata “superiorità democratica e di civiltà”.
Insomma: l’epopea della guerra al nazifascismo, vista con il filtro della storicizzazione, anche se fu guerra tra imperialismi e grande macelleria anch’essa di popoli, è diventata un rifugio delle coscienze critiche, ossia di coloro che non digeriscono le immonde tragedie delle guerre contemporanee e in questa trovano valori positivi, a partire dai legami con le Resistenze antifasciste.

Qualche riga su chi realizzato questa produzione. Jeb Stuart anzi tutto, regista e al tempo stesso creatore di questa mini serie e autore dello script: è una collaudata certezza. Infatti, tra sceneggiature e regie, da Linea di sangue al Fuggitivo a Trappola di cristallo, ha sempre sfornato prodotti di buona qualità. E sembra riprendersi dopo una periodo di ferma durato una decina d’anni.
Il cast vede Bradley James nei panni del capitano Sparks. Di questo attore britannico si è visto ancora poco ma di qualità: da Arthur Pendragon in Merlin a Giuliano de’ Medici ne I Medici. Il Trioscope non altera l’espressività e la cifra attoriale degli interpreti e certamente vanno mezionati anche Josè Miguel Vasquez, Martin Sensmeier, Finney Cassidy, poco conosciuti come del resto tutti gli altri attori, ma che in complesso ci regalano avvincenti cammei.

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Chiamate telefoniche – 6 https://www.carmillaonline.com/2020/05/18/chiamate-telefoniche-6/ Mon, 18 May 2020 21:00:35 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=60142 di Piero Cipriano

Lo dico subito, così chi non ama i complottisti può interrompere subito la lettura: questa sesta chiamata telefonica è una chiamata complottista, super complottista, terribilmente complottista. Perché? Perché io ammiro i complottisti, ammiro i complottisti quasi come ammiro i paranoici. Voi direte che tutti i complottisti sono paranoici. Che complottismo = paranoia. E io non sono d’accordo. I complottisti, alcuni, non tutti, sono dei formidabili inventori di storie con una capacità di avvicinarsi quasi con precisione millimetrica al futuro, ma che per un motivo o per l’altra non ce la fanno a essere Philip K. Dick. Gli manca [...]]]> di Piero Cipriano

Lo dico subito, così chi non ama i complottisti può interrompere subito la lettura: questa sesta chiamata telefonica è una chiamata complottista, super complottista, terribilmente complottista. Perché? Perché io ammiro i complottisti, ammiro i complottisti quasi come ammiro i paranoici. Voi direte che tutti i complottisti sono paranoici. Che complottismo = paranoia. E io non sono d’accordo. I complottisti, alcuni, non tutti, sono dei formidabili inventori di storie con una capacità di avvicinarsi quasi con precisione millimetrica al futuro, ma che per un motivo o per l’altra non ce la fanno a essere Philip K. Dick. Gli manca quel quid di prosa o anfetamine o vattelappesca. Dico pure che se non leggerete questa sesta chiamata perché siete prevenuti sui complottisti poi ve ne restano solo due (non complottiste, in compenso, ma non è detto, perché una volta che uno dichiara la stima per il mondo complottista ne viene irreparabilmente assimilato), perché l’epidemia sta per finire (con sommo sconforto dei virologi-con-l’agente quelli che si prendono da duemila euro in su a intervista un po’ come le puttane solo che le puttane siccome sono delle gran signore non vendono la scienza ma il proprio corpo) e pure le chiamate finiranno, non mi resta che una settima chiamata dove il protagonista indiscusso è il virus e l’ottava, e ultima, dove i protagonisti sono i morti, ma ciò è pleonastico perché i morti sono sempre i protagonisti, solo chi non ha fatto i conti con la morte non l’ha ancora capito, ed è per questo che si barrica in casa e si barrica la bocca, perché pensa che dalla bocca entri la morte. Invece no: dalla bocca esce la vita. E non è proprio la stessa cosa.

Ma dicevo dei complottisti, ormai, appena leggo o sento qualcuno che ne parla male mi viene da mettere mano alla pistola poi mi ricordo che non ho una pistola e soprattutto che questa (mettere mano alla pistola) è una brutta espressione che mutuiamo da una brutta persona, per cui mi limito a proporre di abolire la parola complottista, come in passato ho proposto di abolire la parola empatia, non significa più niente ormai ripetere a pappagallo complottista, complottista, complottista, oppure, visto che non è il massimo abolire parole, sa troppo da neolingua orwelliana, propongo di mettere un limite al numero di volte che in uno scritto si può usare la parola complottista, non più di due, massimo tre, alla terza scatta la multa (quattrocento euro, la multa per chi andava in giro senza mascherina), anche perché chi usa troppo spesso la parola complottista tradisce di essere egli stesso un complottista, esatto, uno affascinato dal complotto, il complotto di mettere a tacere le capacità narrative del complottista, e poter sostituire la narrazione (mille volte più interessante) del complottista con la sua sterile e prevedibile e conforme narrazione di anti-complottista che legge Repubblica o Corriere. Dimenticando che l’anti-complottismo dell’anti-complottista è esso stesso complottismo, inconscio complottismo ai danni del vessato complottista.

Non so se si è capito ma io i complottisti vorrei difenderli dalle ingiurie di complottismo con la stessa passione con cui mi viene sempre da difendere le persone che subiscono l’accusa di essere schizofrenici. Le persone più insospettabili ci sono cadute, nell’offesa agli schizofrenici. Umberto Eco, una volta, per chiedere le dimissioni di Silvio Berlusconi, disse che doveva dimettersi non per il suo eccesso di satiriasi, ma per il suo eccesso di schizofrenia. E’ schizofrenia, puntualizzò, se uno non si ricorda il giovedì ciò che ha detto il mercoledì. Come si può essere governati da uno schizofrenico? Eco non sapeva cos’è (io nemmeno, ma lui molto meno di me, eppure era Eco) la schizofrenia, e sempre Eco è il colpevole di aver dato la stura all’offesa del complottista. In quel libro palloso che è Il pendolo di Foucault, mi pare, è lui che inizia la presa per il culo dei complottisti. Piergiorgio Odifreddi è un altro, era a una trasmissione di Piero Chiambretti, irritato dal mago Otelma (quanto mi sta simpatico il mago Otelma, secondo me è abbastanza complottista pure lui), lo metteva a tacere zitto tu, anzi, zitto lei, che è uno schizofrenico. Proprio così diceva. Il tono voleva essere quello di chi dice lei è un cialtrone, o lei è un buffone, o lei è un mitomane, o lei è un millantatore, o lei è un venditore di fumo, o lei è un guitto; invece disse lei è uno schizofrenico. Gli intellettuali del cazzo che adoperano le categorie psichiatriche, o mediche, per offendere. Un tempo si diceva zitto che sei un mongoloide, o zitto che sei un deficiente, oggi dicono zitto che sei uno schizofrenico oppure dicono zitto che sei un complottista.

Tutto ‘sto preambolo per dire: w i complottisti (fossero anco terrapiattisti, quando vuoi dire che uno è complottista ma di quelli terra terra allora dici che è terrrapiattista, i terrapiattisti sono i più sfigati dei complottisti, e infatti sono quelli che mi sono i più simpatici di tutti) abbasso i burionisti.

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Complottista secondo me era pure Dario Musso ragazzo drammatico e teatrale di Ravanusa che il lockdown (‘sto cazzo di lockdown non vedo l’ora di dimenticare questa parola) come a tutti gli aveva spezzato la pazienza e inizia a fare video inquietanti in cui si punta un cacciavite alla tempia e incita alla rivolta e pochi giorni prima viene fermato da un carabiniere che assiste allibito a lui che contrattacca gli dice che fare il carabiniere di questi tempi a fermare persone innocenti è una merda e brucia la sua carta d’identità e il giorno del fermo sanitario è in giro nella sua auto con un megafono che incita alla disobbedienza a non abboccare alle favole governative non c’è nessun virus dice, togliete le mascherine riaprite i negozi, uscite… (ora confessate di non averlo pensato almeno una volta pure voi tutto ciò) lo circondano carabinieri e agenti municipali, lui fa un video in diretta in cui prova a mantenere la calma, scende, resta calmo, bravo Dario così si fa, ma non basta perché arrivano tre sanitari uno dei quali ha una siringa, il sanitario non gli va incontro davanti per parlargli no, lo aggira gli punta la siringa, vuol siringarlo da dietro con tutti i pantaloni, stato di necessità diranno poi nel processo che si farà perché si farà ma io dico, dalle immagini, non c’era nessuno stato di necessità, legittima difesa dite? nemmeno, eppure un carabiniere lo prende per le gambe e lo atterra, il sanitario col camice e la siringa lo infila, la donna che fa il video grida atterrita in siciliano lo stanno sedando lo stanno sedando. Finisce il video inizia l’audio, il fratello di Dario, avvocato, prova per giorni a chiamare all’ospedale di Canicattì, al reparto psichiatrico dove Dario è ricoverato in TSO sedato legato cateterizzato ma la dottoressa balbetta, dice non possiamo dare notizie lui richiama e lei dice suo fratello dorme lui richiama lei dice non abbiamo il cordless lui richiama lei dice ho un’urgenza ho un ricovero ora non posso parlare, sono imbarazzato per lei, per questa poverina che senza dignità né etica si schermisce. Dopo cinque sei giorni tali le pressioni, le lettere, le telefonate, ai medici e al sindaco, tra queste quella di Gisella Trincas dell’UNASAM (associazione dii famigliari dei pazienti) o del garante nazionale dei detenuti o di me stesso che provo a parlare invano con la dottoressa che ha sempre un’urgenza e non può rispondere, insomma Dario viene (altrettanto selvaggiamente) dimesso e per fortuna non fa la fine di Franco Mastrogiovanni o Giuseppe Casu o Elena Casetto. Dimesso però con una non diagnosi: Disturbo della personalità non altrimenti specificata. La più inutile e fessa e vaga e debole delle diagnosi psichiatrica. La stessa diagnosi che potrei avere io, o voi, o tutti i complottisti del mondo.

Mi chiama Nicola, il mio amico delle Iene, una iena gentile, Pieruzzo, esordisce col suo accento siciliano, che ne pensi del TSO di quel ragazzo di Ravanusa?

*

Ma io in questo pezzo dovevo occuparmi di complottisti e anti-complottisti, non di TSO illeciti e selvaggi. Per cui cominciamo col primo campione del complottismo mondiale che gira intorno al virus. Lui è quello che aveva in tasca l’Hiv e Gallo (poi stato sostituito da Fauci, il virologo che ora Trump vede come il fumo negli occhi) glielo rubò. Lui è quello che nel 2008 prende il Nobel. Lui è quello che ora è perculato dai medici duri e puri perché ha detto che l’acqua c’ha la memoria (figuriamoci, ridono, gli scienziati, la memoria, l’acqua, e mica c’ha il cervello l’acqua per averci la memoria!) e porta al papa la papaya (la papaya, al papa, e che è, un calembour dello scienziato senex?). Perculato più di Tarro, si capisce, perché almeno Tarro non l’ha vinto il Nobel lui sì e una ventina, o erano trenta?, super scienziati fecero pure una petizione, per fargli revocare il Nobel, ma gli svedesi so’ di parola, se lo danno il super premio è per sempre, poi non lo levano. Eh sì, gli svedesi so’ di parola, se dicono che l’epidemia si affronta senza lockdown, vanno fino in fondo. Oggi mi chiama una fattucchiera dal Molise una che mi ha conosciuto vedendomi nell’olio che galleggia nel fondo di un piatto, dice siccome pure io stavo con l’orecchio pizzato al suolo per sentire da dove arriva la fine del mondo ho incrociato i tuoi pensieri che provenivano dal tuo orecchio adagiato sul pavimento del tuo reparto allora ho pensato che devi assolutamente sentire cosa dice quest’uomo. Attacca il suo telefono a manovella al pc per farmi sentire la voce tradotta di Montagnier.

Non posso vederlo in faccia, quindi non vedo i sui capelli colorati di marrone biondo che un po’ gli fanno perdere la credibilità di scienziato premio Nobel, ma tant’è, l’ha già persa ormai, è bastata la papaya e l’acqua con la memoria, e poi c’avrà uno scienziato il diritto di farsi la tinta oppure no?, o valutiamo uno scienziato sulla base della tinta?, ma a questo punto pure Giuseppe Conte va be’ che non è uno scienziato perde credibilità, se ci basiamo sulla tinta, vero è che la tinta di Conte è più credibile della tinta di Montagnier che dice c’è stata una manipolazione su questo virus, così esordisce l’ottantottenne tinto ormai con un piede fuori dalla scienza, il piede fuori dalla scienza è il piede che ha calato nella fossa, cioè nel mondo dei morti, è per questo che Montagnier, come Tarro, non ha bisogno più di queste sciocchezze tipo le pubblicazioni o i numeri o l’h-index, perché chi è con un piede nel mondo dei morti non crede più né nelle pubblicazioni né nei numeri e l’unico libro che legge ormai è il Bardo Thödröl ovvero il Libro tibetano dei morti perché i morti sono superiori alle pubblicazioni scientifiche e ai numeri che le accompagnano, chi glielo ha detto a Montagnier?, glielo ha detto Cartesio, che dal mondo dei morti gli ha confessato: scherzai quattro secoli or sono, con questa cosa dei numeri, era tutto uno scherzo, e voi ancora ci state credendo. E’ vero, continua il francese, che questo virus deriva dal salto di specie, dal pipistrello, ok ok, ma ci hanno aggiunto un pezzo di sequenza genomica del virus dell’Hiv, il virus dell’AIDS per cui mi hanno dato il Nobel, il Nobel che non m’importa di averlo però è ancora mio, chi ce l’ha aggiunto questo pezzo di genoma? E che ne so. Biologi molecolari. Che minuziosamente, come fossero degli orologiai puntigliosi, hanno fatto questa chimera, perché questo è il coronavirus una chimera, avete presente uno scoiattolo con le zampe di leone? Ecco, una cosa del genere, un virus del raffreddore con l’artiglio dell’Hiv, perché? Chissà, magari volevano fare un vaccino contro l’AIDS, per cui hanno preso piccole sequenze di virus Hiv e le hanno installate nella sequenza genica più grande del coronavirus, dove una catena di RNA ha piccole sequenze di Hiv.

Ma le prove? Gli domandano, le prove? E lui (che con un piede nel mondo dei morti sa che non ha più bisogno di prove) mena il can per l’aia, un gruppo di ricercatori indiani aveva pubblicato le prove, ma gli hanno annullato la pubblicazione. Su 30.000 basi del coronavirus, 1.000 sono di Hiv. Un modo per modificare la sequenza del coronavirus, per farlo riconoscere come Hiv e dunque trovare il vaccino. Molti gruppi hanno fatto la stessa cosa, dice il Nobel quasi morto scomunicato dai colleghi vivi della scienza. Ma come ha fatto a uscire da un laboratorio? I virus a RNA hanno mutazioni continue. Cambiano continuamente. Sanno attraversare le porte, come i fantasmi. Non c’è mascherina o muro che tenga. Ma queste sequenze, alcuni dicono che sono troppo corte, e la sovrapposizione con il RNA dell’Hiv potrebbe essere casuale. Ma sono segmenti importanti, obietta il Nobel tinto come la morte, di quelli che portano informazioni genetiche. La versione della Cina è che viene dal mercato del pesce di Wuhan. E io dico che non è vero, ribatte il vecchio scienziato idolatrato dai complottisti e stimato da quelli che sono i morti. E la versione dell’OMS? Hanno tutti interesse a nascondere la verità, ma vogliamo raccontare chi è l’attuale capo dell’OMS? L’OMS, ora come ora, non mi pare più un organismo super partes, mi sa che non serve più a niente dire ogni volta l’ha detto l’OMS l’ha detto l’OMS, basta vedere come il capo dell’OMS, l’etiope Ghebreyesus si arruffiana col leader cinese Xi Jinping. A gennaio si è addirittura complimentato con la trasparenza del governo cinese, trasparenza! Ma ti rendi conto? Una beffa, per il povero Li Wenliang il medico morto di covid-19, minacciato di non parlare dell’epidemia, o per l’altro medica Ai Fen, che aveva accusato il regime cinese di censurare l’epidemia ritardando le misure, pure lei fatta sparire per settimane. Perché l’OMS non è super partes? Perché nel 2017 si giocò una guerra tra il candidato cinese (l’etiope Ghebreyesus, già legato a Pechino sin da quando era ministro della sanità per il governo etiope) contro il candidato americano. Vince l’etiope, e da allora è al servizio della Cina. Ciò per dire che ormai quel che consiglia l’OMS, a parte le cose ovvie ovvero che camminare è più sano che poltrire e abboffarsi, non è più oro colato. Potremmo pure aggiungere che l’OMS è pagato dal Bill Gates, anzi: è Bill Gates ma… non possiamo, perché se no gli anti-complottisti ridono di noi, e noi non vogliamo che gli anti-complottisti ridano perché ridere fa bene alla salute e gli faremmo solo un favore, un favore alla loro perfidia.

E l’omertà degli stati? In biologia molecolare si possono fare (è sempre Montagnier che parla), attualmente, tutte le costruzioni di virus che si vogliono. Gli USA sono al corrente, ma sono loro che hanno finanziato parte delle ricerche fatte nei laboratori di Wuhan, per cui non è più un affare solo cinese. La natura (è ancora il francese ottantottenne) non accetta qualsiasi cosa. Una costruzione artificiale, chimerica, ha poche possibilità di sopravvivere. La natura ama le cose armoniose. Questo è un virus Frankenstein, che non durerà a lungo. Negli USA ci sono altre mutazioni del coronavirus, sta cambiando il suo codice genetico, ci sono delle delezioni, il tratto che porta la sequenza di Hiv è quello che muta più velocemente degli altri, inevitabilmente andrà incontro a delezioni, un’apoptosi, una auto amputazione genica. Non trovate che sia meraviglioso ciò? Se il potere patogeno di questo virus è legato all’introduzione di queste sequenze Hiv nel coronavirus, e esse stanno staccandosi, non trovate che sia una bella speranza? Bisogna seguire il sequenziamento genetico, ci saranno sempre più virus mutanti inattivi, la gravità dell’infezione si attenuerà, si annullerà.

Ecco perché l’isolamento domestico non è un rimedio. Bravi gli svedesi. E non solo perché non si riprendono il mio Nobel. Che detto tra di noi, non mi potrebbe fregare una ceppa, del Nobel. Sa quando tra poco andrò di là, nel mondo dei morti, del Nobel quanto gliene potrà importare? Di una sola cosa gli potrà importare, ai morti: sei stato un bravo medico oppure no? Sa quanti sono i bravi medici da diecimila anni a questa parte? Una decina, Cristo, Semmelweis, Basaglia, mica sono tanti… i medici, quasi tutti, non sono mai eroi, sono sempre colpevoli… se vuoi essere innocente non devi fare il medico… va be’, per concludere, io credo che il virus si distruggerà da solo. Ma ripeto: è stato un errore etico associare il Covid all’Hiv. Non lo ammetteranno mai, ma è avvenuto questo.

*

La fattucchiera molisana mi dice ti sento scettico dottore, non t’ha convinto forse Montagnier? Mi meraviglia che nemmeno tu abbia capito che quello che ci ammazza non è il virus ma il terrorismo mediatico a cui siamo sottoposti. La paura di morire viene somatizzata dai polmoni. L’informazione, reiterata ossessivamente, si incista nell’inconscio e (un po’ come negli anni 90 avere il test Hiv positivo equivaleva a una sentenza di morte) oggi un tampone positivo al covid-19 (che non significa niente) su una persona asintomatica o con una piccola sintomatologia influenzale, mettiamo che è uno molto impressionabile, attiva il contrario dell’effetto placebo, l’effetto nocebo, tu mi insegni che esso atterrisce tutto l’organismo, che si predispone a morire. E’ su questo principio d’altronde che noi fattucchiere molisane tiriamo il malocchio ai malandanti, e funziona, quanto più il malandante è un tipo impressionabile, tanto più facilmente si ammala. Le difese immunitarie crollano, i polmoni collassano e trattengono liquidi (ecco la polmonite interstiziale). Ecco perché bisogna spegnere televisione e smart phone e non leggere nemmeno i giornali. Per fare il vuoto nella testa, eliminare questa reiterata informazione tossica, essa sì immunodepressiva. E trasgredire assolutamente (fai bene tu dottore a correre, mica sei fesso) il lockdown, in tutti i modi, uscire, prendere il sole, respirare aria pulita, fare esercizio fisico. Ciononostante, dottore, non basterà, perché prima o poi, tutti, compreso Bill Gates, dovremo pur morire.

*

Mi chiama Jack, il virologo dissenziente, il triste figuro, lo vogliono ricoverare. Per tutto il lockdown il servizio psichiatrico si era scordato di lui. E lui si era scordato di loro. Si erano reciprocamente scordati. E vivevano bene così. Finito il lockdown, superato il 4 maggio, i servizi si sono ricordati di fare l’appello dei pazienti in carico, dei collaborativi e dei riluttanti. Ce l’ho mi manca ce l’ho mi manca. Jack mancava all’appello. Pronto siamo la psichiatria, deve fare il depot. Non voglio fare il depot. Allora c’è il ricovero.

Dice mi stanno venendo a prendere. Prima che mi prendano per ricoverarmi mi ascolti. Un amico che non vuol rivelarsi ma che lei conosce molto bene (Cafiero jr) mi dice di raccontarle questa storia qua, lui non la chiama di persona perché si scoccia che lei poi nella chiamata telefonica che senz’altro scriverà lo faccia apparire come il paranoico complottista della situazione, mi dice pure di dirle che lo sa pure lui che il complottismo è un genere letterario che ora va per la maggiore, ma mi dice pure di dirle che questo genere letterario da due secoli almeno poi inevitabilmente ci prende, insomma la storia è questa poi veda un po’ lei, ne faccia l’uso che vuole, tuttavia mi domando perché lei senta il bisogno di questa penosa mise en abyme (per evocare Gide che lei immagino non abbia mai avuto il buon senso di leggere, vero?) per raccontare tutto quanto, seppur in pochi purtroppo, cominciano a pensare o pensano già da tempo. Non mi pare che qui siamo tutti paranoici o, almeno finora, non tutti (io sì ma molti altri no) abbiamo una cartella psichiatrica nel cassetto che comprovi ciò. È che qui ci facciamo delle domande, ci interroghiamo, cerchiamo di capire che dove ci sono in gioco montagne di soldi e interessi economici non può esserci imparzialità nel fare informazione, né tantomeno numeri statistici… Il grande sonno non è solo il titolo di un romanzo di Chandler ma è quello che quasi tutti gli italiani stanno vivendo adesso, obnubilati dalle onde elettromagnetiche delle paraboliche delle emittenti televisive.

Mi dispiace che quelli che non si adeguano o obbediscono vengano etichettati come paranoici, psichiatrici o compagni di merende dei terrapiattisti.
Fatto questo preambolo vengo al dunque.

Il mio amico dice che Trump sta facendo cose grosse, mai fatte da nessun presidente prima (forse iniziate da JFK). Da noi non ne parla nessuno. La situazione mondiale è questa. La divisione oggi non è più tra razze, non è più tra nazioni o stati, ma solo tra i due Cappelli, o se vogliamo tra due fronti massonici che si stanno facendo la guerra con la scusa di questo coronavirus a cui credono ormai solo gli allocchi. Tutte le notizie del mio amico sono direttamente consultabili, quindi prima di classificarle e bollarle nella categoria delle cospirazioni fantasiose, si tolga lo sfizio di leggere il New York Times, il Washington Post, il Wall Street Journal; oppure ascolti i tg americani più recenti, cosa verrà a sapere, anche lei per la prima volta visto che la stampa italiana è zitta e muta su questo fronte, verrà a sapere di arresti di medici dell’università di Harvard, perché? Per aver fatto sfuggire a settembre il virus da un laboratorio americano, virus che solo in un secondo momento per una serie intricatissima di fughe che non sto a dire anche perché non lo sa nessuno nemmeno il virus c’è da scommetterci che se lo ricorda, anche perché nel frattempo è mutato mille volte e come lei sa i virus non hanno memoria se no che virus sono? Insomma, il virus in un modo o nell’altro sarebbe arrivato a Wuhan. Charles Lieber, chimico di Harvard esperto di nanomateriali e sviluppo di applicazioni in medicina e biologia, è stato arrestato il 28 gennaio. L’accusa a Lieber è di aver ricevuto centinaia di migliaia di dollari dalla Wuhan University of Technology e accettato di gestire un laboratorio per essa.

Quindi ricapitoliamo: qui dottore ci sono due fronti massonici che si stanno contrapponendo e presto o tardi ci toccherà decidere con chi stare a meno che lei non voglia dimettersi dal suo inutile lavoro che è tutta una copertura lo sappiamo non abbocca più nessuno ormai di noialtri scrutatori di complotti, he he, a meno che dico lei non voglia dimettersi passare in clandestinità e organizzare la resistenza anarchica planetaria, voglio dire un terzo minuscolo ma significativo fronte, altrimenti dovrà scegliere se stare coi Cappelli Bianchi che rispondono al movimento conosciuto come Q, tra le cui fila troviamo Putin, Xi, Trump, il defunto Kennedy, suo nipote Robert Kennedy jr ma pure Bob Dylan e udisca udisca Giuseppe Conte l’avvocato de noartri, insieme a tanta altra bella gente. E questi pensi un po’ sarebbero i buoni, perché i cattivi sono la fronda nota come Cabala o Deep State di cui Shiva è stato uno dei pochi a parlare (ecco, si potrebbe mettere con Shiva a organizzare la resistenza, lui sarebbe la mente e lei il braccio, insieme sareste perfetti). Insomma, questa fazione, i cattivoni, sono inclini a fare cose molto molto brutte bruttissime che per telefono è meglio non dire dato che senz’altro il suo telefono da qualche tempo è sotto controllo io infatti non la chiamerò più qui al telefono dell’ospedale se lo tenga bene a mente.

Comunque i mammasantissima del deep state sono ovviamente i Rothschild, i Williamsburg, i Rockfeller, ma pure i Clinton, e i Bush ma perché no Obama, e ecco che arriviamo a Bill Gates e consorte che tanto hanno a cuore la vaccinazione planetaria e il loro minuscolo tatuaggio quantico, e gente celebre come Tom Hanks e cantanti per niente mistiche nonostante il nome come Madonna e mi fermo qui perché sento la sirena dell’ambulanza che sta per arrivare a prendermi e devo scappare dalla porta di servizio che dà sul parco dell’Insugherata. Questa è gente che controlla Hollywood e tutta la produzione filmica mondiale e tutte le televisioni del pianeta e tutta l’informazione, ecco perché pure in Italia non c’è Fazio non c’è Mentana non c’è fino all’ultimo giornalista del giornalino parrocchiale che si possa permettere anche solo di accennare a queste cose perché sarebbe sommerso dal coro: complottista! Ma oltre alla società dello spettacolo e dell’informazione fanno parte dei cattivoni pure le banche centrali che ricattano bellamente gli stati vedi FED e BCE, ma ecco che il nostro eroe Trump che ti fa? Nazionalizza la FED alcune settimane fa liberando gli americani dal cappio al collo di questi strozzini! Ma lo vede allora che ha ragione quel lacaniano con la tosse di Slavoj Žižek quando dice che il virus per eterogenesi dei fini ci regala un nuovo comunismo? E chi se lo poteva immaginare che Trump facesse scelte comuniste? E come mai secondo lei i nostri tg non riportano queste notizie? E come mai secondo lei i nostri tg non hanno parlato degli arresti che stanno avvenendo in America in merito all’affare coronavirus? Perché i tg appartengono al deep state! Ecco perché. E perciò ai tg non fanno piacere certi arresti. Perché secondo lei adesso fanno la nuova normativa anti fake news? Secondo lei le sue chiamate telefoniche su Carmilla contro informative e in odor di complottismo dureranno ancora a lungo? No. Appena sarà in vigore la normativa anti-fake lei sarà oscurato al pari dell’ultimo terrapiattista con un blog di quattro lettori.

La narrativa è questa: il deep state ha sguinzagliato il virus, scatenando una campagna terroristica sulle televisioni e sugli smart phone per mettere in ginocchio i servizi sanitari, chiudere le persone due mesi agli arresti, scioccarle insomma, se la ricorda la teoria di Noemi Klein sul dottor choc? Lo psichiatra che elettroscioccava i pazienti per un mese per poi ricostruirne la personalità? Ebbene è proprio ciò che è stato fatto su base planetaria, ci hanno fatto l’elettrochoc per due mesi, spaventati, tolto memoria delle libertà, di modo che dopo saremo cittadini mansueti e proni a ogni loro decisione, e quali saranno i prossimi atti? Ma la vaccinazione di massa, obbligare il pianeta a vaccinarsi per ridurre la demografia planetaria. Si ricorda il pallino di Malthus: e mica possiamo far accomodare tutta l’umanità alla mensa dei ricchi? No. Chi è ricco mangia chi è povero è giusto che crepi per fare spazio a una umanità ridotta all’essenziale, un’umanità dei migliori. Ma pensi, non piacerebbe anche a lei abitare un pianeta senza avere tra le palle un miliardo di indiani un miliardo di cinesi e africani e altri miserabili che credono in dei assurdi e nell’oltre vita? Bene, pensi allora uno ricco sfondato come Bill Gates quanto gli scoccia dividere il pianeta con lei con me con l’africano che si imbarca per affogare con il cinese che si mangia i cani con l’indiano che si inchina alle vacche col mussulmano che vela o infibula sua moglie eccetera, potrebbe abitare questo pianetino meraviglioso come duemila anni fa insieme solo agli eletti, a qualche milione di persone ben distribuite tra i continenti senza fare assembramento, senza folla, ah che spazio finalmente, la solitudine, la solitudine di dio, a questo aspirano. Ecco perché la demolizione demografica tramite vaccino è sempre stato un loro pallino. Per cui da una parte cattivoni con delirio di immortalità del deep state dall’altra i meno cattivoni ma comunque non proprio degli stinchi di santo dei cappelli bianchi, che da sessant’anni lottano per riprendere il potere che con la morte di JFK hanno perduto.

Questo per darle un assaggio ora infilo l’ultimo gettone per dirle addio, non so se sarò ancora in grado di telefonarle. Ci pensi. Si informi. Decida se appoggiare i cappelli bianchi oppure iniziare la resistenza anarchica planetaria. Cazzo stanno sfondando la porta. Scappo. Addio.


[Chiamate telefoniche precedenti]

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