hikikomori – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 01 May 2025 23:18:21 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Chiamate telefoniche – 1 https://www.carmillaonline.com/2020/03/24/chiamate-telefoniche/ Tue, 24 Mar 2020 22:00:27 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=58808 di Piero Cipriano

Questo scritto ha per oggetto il virus e ha per titolo un libro di Roberto Bolaño. La storia inizia quando il virus ancora non era epidemico, ancora si poteva uscire di casa, fare la spesa, correre nei parchi, ancora non era iniziato il trattamento sanitario obbligatorio con obbligo di dimora a casa per chi una casa ce l’ha, e possibilità di uscire solo se i motivi sono con-provati.

Erano i primi di marzo, e andavo come sempre in ospedale, il luogo perfetto per lasciarsi incubare dal coronavirus, l’ospedale dove ancora non era arrivato ma di lì a poco [...]]]> di Piero Cipriano

Questo scritto ha per oggetto il virus e ha per titolo un libro di Roberto Bolaño. La storia inizia quando il virus ancora non era epidemico, ancora si poteva uscire di casa, fare la spesa, correre nei parchi, ancora non era iniziato il trattamento sanitario obbligatorio con obbligo di dimora a casa per chi una casa ce l’ha, e possibilità di uscire solo se i motivi sono con-provati.

Erano i primi di marzo, e andavo come sempre in ospedale, il luogo perfetto per lasciarsi incubare dal coronavirus, l’ospedale dove ancora non era arrivato ma di lì a poco sarebbe arrivato, era questione di giorni, ore, e il nosocomio dove lavoro vivo penso dormo mangio parlo impasticco – pensavo – diventerà un lazzaretto che regalerà, anche a me, la peste del nuovo millennio, quel giorno andai e per fortuna dormii fino alle sei del mattino. Un’insolita calma come sempre è calmo prima della tempesta. Alle sei del mattino quando pensavo di averla ormai scampata chiama il pronto soccorso, era Edvige, l’infermiera altissima, altera, diceva c’è uno venuto con otto poliziotti. Era già venuto cinque giorni fa, legato sedato poi ci avevo parlato l’avevo fatto sciogliere se n’era andato. Ora ritornava. Diceva il poliziotto che di continuo era lì intorno al Vaticano, per incontrare il papa, deve convincerlo, non si sa di cosa. Ci parlo. Gigantesco. Esaltato. Pazzo. Dice dio mi è venuto in sogno mi ha detto cosa fare in trenta minuti ho scritto centotrenta pagine che ho consegnato a un sacerdote del Vaticano, ho una missione, nessuno mi fermerà. Lei è un incapace, pensa di sapere quello che ho in testa, ma sono io che so leggere tutto quello che lei ha nella testa, lei sarà licenziato da questo posto, io riformerò gli ospedali, riformerò la polizia, riformerò lo stato, riformerò il mondo. Lo lascio fare. lo lascio sfogare. Lo lascio insultare. Lo lasco delirare. Poi gli dico. Per uno che ha visto dio, lei è poco gentile. Anche io ho visto dio, per questo la tratto con gentilezza. Perché lei è un figlio di dio. Io pure sono un figlio di dio. Lei deve essere comprensivo, con me. Non sono perfetto, come non lo è lei. Abbiamo entrambi visto dio, dovremmo essere entrambi più sereni. Io pure so quello che lei ha nella testa. Lo leggo. Come lei legge me io leggo lei. Ora lei farà queste analisi, prenderà questi farmaci che inietterò nelle vene. Farà un breve ricovero. Chi lo decide? Lo decido io. Con la grazia di dio.

E così è stato.

Finito l’intervento attraverso il lungo corridoio del pronto soccorso dove quella notte è entrato il primo paziente in questo nosocomio infettato di coronavirus, il virus è nell’aria, si sente, attraverso l’aria dove goccioline di Flügge invisibili orbitano come pianetini impazziti intorno alla mia scia sopra questi pianetini c’è questo virus che si considera il piccolo principe di questo suo pianetino detto Flügge, lui pensa di essere davvero un principe, lo sa di avere poche sequenze di DNA lo sa di essere poco meno che vivo eppure non immagina di essere diventato l’incubo di questi esseri viventi che si ritengono quasi divini, noi, gli umani, così intelligenti eppure adesso così spaventati, attraverso questa galassia di goccioline di Flügge nlasciate dal paziente infetto in isolamento eppure non contraggo l’infezione oppure sì, non lo saprò mai, non lo saprò mai perché gli operatori sanitari come me, anche in prima linea, se sono asintomatici e afebbrili non potranno mai fare il costoso tampone, test neppure sicurissimo ma meglio che niente, non siamo mica calciatori o politici noialtri, per avere il tampone. Insomma non mi infetto, ancora.

Passano i giorni. Ogni giorno arrivo nel nosocomio. L’Italia ha paura di morire per un virus. Il mondo ha paura dell’Italia. Ho il cercapersone. Il cercapersone suona. Non l’ho disinfettato. Mi lavo spesso le mani.
Adesso siamo già al 20 di marzo e tutti i giorni di questa settimana appena trascorsa e di quella precedente sono uscito di prima mattina, arrivato in ospedale mi sono cambiato, ho indossato divisa bianca camice e mascherina – io che mi fregiavo di essere un medico basagliano senza il camice mi sono ritrovato intabarrato come un chirurgo in sala operatoria – catapultato in prima linea in pronto soccorso a gestire gli arrivi di pazienti intossicati ubriachi agitati eccitati tagliati suicidati eccetera quel tipo di pazienti i meno pazienti perché vai a spiegare a loro che dovrebbero indossare la mascherina perché potrebbe esserci un virus infido eccetera c’è chi ti dice che il virus non esiste chi ti dice che l’ha inventato lui chi ti dice che lui è dio quindi immune dal virus chi ti dice che l’hanno messo in circolo gli americani anzi i cinesi anzi quelli dei vaccini anzi gli extraterrestri eccetera e non è detto che una di queste tesi non possa essere quella giusta, in ogni caso la mascherina non se la tiene e quindi fare attenzione a che non venga legato perché la pazienza degli operatori è al minimo e non vogliono rischiare di infettarsi e se quello non rispetta le regole si espone al rischio della contenzione e insomma tutta la settimana va avanti così.

Iniziano a questo punto le chiamate telefoniche. Sono uno psichiatra più o meno conosciuto per la cosiddetta riluttanza ai manicomi. Qualcuno se ne ricorda e mi chiede lumi. Come ci comportiamo adesso che c’è il virus? C’è chi mi chiama al numero dell’ospedale chi mi chiama sui social chi perfino al telefonino ma come ha fatto ad avere il mio numero? Oppure mi chiama qualche paziente che ho avuto anni fa e che si ricorda di me adesso che è agli arresti sanitari.

Dottore, lei mi disse che correre era meglio degli antidepressivi, vivo in Campania, come faccio adesso che il governatore De Luca ci spara se usciamo?

La prima chiamata degna di nota però è quella di Caltabellotti, l’uomo che ricoverai perché voleva a tutti i costi parlare col papa. Dopo dimesso, il giorno in cui il papa uscì a spasso con la scorta per andare a baciare il Cristo degli appestati a cui chiese di salvare il mondo dal virus con la sua mano, mi chiama: è il dottor Cipriano? E’ proprio lei? Sicuro di essere lei? Non posso dirlo ad altri che a lei. Credo di essere io, parli pure. Era quello che volevo dire al papa, non ci sono riuscito ma lui mi ha ascoltato lo stesso. Ha fatto ciò che andava fatto, recarsi al Cristo degli appestati e chiedere la grazia, lui doveva farlo, adesso siamo salvi, il virus, almeno questo virus, non sarà lui che ci farà fuori. Per un po’ siamo al sicuro.

Attacco. Chi era? Fa la mia collega. Caltabellotti. Quello che avevo ricoverato. Dice che grazie a lui il papa ha capito e è andato a implorare la grazia di Cristo. Ora siamo salvi.

La mia collega fa: ma il papa ce l’aveva l’autorizzazione per uscire? Come dici? Ce l’aveva il comprovato motivo? Era un motivo di lavoro la sua uscita? Di salute? Di necessità? Perché è uscito? Beh, le dico, possiamo farlo entrare nei motivi di lavoro, se ci pensi esercitava il suo ministero, intercedeva con Dio per la nostra salvezza dal virus. Non l’ho convinta. Avrebbe secondo me fatto il TSO pure al papa.

Le chiamate poi sono continuate. Messe in fila, in sequenza, le chiamate telefoniche di questi giorni, casuali, sincroniche, compongono tante tessere di un puzzle che diventa narrazione. Teoria. Spiegazione. Soluzione. Vediamo un po’… chi ha chiamato.

Ah, dicevo, quel mio vecchio paziente fobico della Campania. Mi chiama per lamentarsi che in Campania questo governatore dal piglio autoritario si rammarica perché in Cina hanno i mezzi (repressivi che lui non ha) per governare l’epidemia. Dice che il governatore campano ha dichiarato in un video di voler fare un’ordinanza per impedire alla gente di muoversi per strada. Chi viene trovato a passeggiare o se ne sta seduto su una panchina dovrà stare in quarantena per quindici giorni e se non viene rispettata la quarantena avrà un processo penale.

Gregorio da Pescara, non lo conosco, non so che problemi abbia, ha letto un paio dei miei libri, mi scrive: ma non gli basta la lezione delle carceri? Detenuti ammassati in spazi troppo stretti sedati da psicofarmaci e oppiacei – almeno metà dei detenuti assume psicofarmaci, il carcere, ha ragione lei dottore, è indistinguibile da un manicomio – che esplodono si ribellano protestano assaltano le medicherie si uccidono con psicofarmaci e metadone. Ebbene io lo so che tra poco esploderanno le case gli appartamenti i condominii i monolocali trasformati in carceri in arresti domiciliari in obbligo di dimora. Tra poco, per uscire di casa, le persone avranno il comprovato motivo di doversi recare al pronto soccorso da lei, dottore, per ricevere antidepressivi ansiolitici e stabilizzatori dell’umore. Di questo passo tutti salvi dal virus ma tutti schizzati e sotto psicofarmaci, alé.

Carmine da Reggio Calabria. Un grave ossessivo che lava le mani cinquanta volte al giorno, timori di contaminazione continua, l’ossessivo, si dice, ha il Thanatos costantemente conficcato nel cranio e si difende dalla costante incombenza della morte coi suoi rituali, tra tutti domina il lavarsi. Dice dottore! (con quella parlata calabra aspirata) finalmente non mi sento più malato, qui tutti si lavano le mani nessuno esce nessuno si tocca si stringe le mani non ho più bisogno di giustificarmi, per me questa è la normalità.

Paolo da Milano. Pure lui mi chiama al numero del reparto ospedaliero. Dice ho letto Agamben. Tutti danno addosso ad Agamben. Il povero Agamben. Ma che vi ha fatto Agamben. Pecore che non siete altro. Mentre parla vado sullo smartphone a leggere ciò che ha scritto Agamben, ha scritto che: “L’ondata di panico che ha paralizzato il paese mostra con evidenza che la nostra società non crede più in nulla se non nella nuda vita”.

Ovvio, dice Paolo, una società materialista che crede solo nella vita e non sa niente della morte, non s’è mai interrogata sul morire, ovvio si attacchi alla vita quand’anche fosse vivere vegetativamente e basta, chi se ne frega dei rapporti sociali delle amicizie dell’amore basta che non si crepi poi va bene stare tutta la vita dentro agli arresti sanitari. Neppure dei morti, aggiunge, ci deve importare, tanto sono morti, non servono più alla nostra nuda vita, se muoiono saranno seppelliti in una fossa, il funerale non si usa più, sei matto? Sarà pieno di untori. Nuda morte per nuda vita.

Mi ha incuriosito, appena attacca mi vado a leggere altro del filosofo che di questo passo sarà arrestato per terrorismo: “Non stupisce che per il virus si parli di guerra. I provvedimenti di emergenza ci obbligano di fatto a vivere in condizioni di coprifuoco. Ma una guerra con un nemico invisibile che può annidarsi in ciascun altro uomo è la più assurda delle guerre. È, in verità, una guerra civile. Il nemico non è fuori, è dentro di noi”.

Squilla di nuovo, è ancora lui. È impegnato? Posso dirle un’altra cosa? E continua, Paolo, il bipolare Paolo, anzi no, il ciclotimico Paolo, dice: Non stiamo combattendo un virus, dottore, qui stiamo combattendo noi stessi. Sa qual è la verità? La verità è che da un po’ tutti questi rituali ci avevano stufato ma non sapevamo come fare, il lavoro, la scuola, lo sport (soprattutto il calcio), le uscite, gli aperitivi, il cinema, il ristorante, le passeggiate, lo shopping, le amanti, gli amanti, i premi letterari, le presentazioni libresche, i festival, le sagre, le feste patronali, i carnevali, le olimpiadi, tutto, tutto, tutto questo assembramento di umanità, tutto questo obbligo di socialità, tutto questo consesso umano, tutte queste conoscenze, contatti, amicizie, like, tutto ci aveva strarotto i coglioni.

Per un po’ – continua, è in pieno trance apocalittico, lo lascio dire – continueremo nel virtuale, per un po’ anzi si accentuerà il consumo di internet dei social dei post dei like, poi, senza che il virtuale abbia una continuità reale nel mondo di fuori, senza che si possa toccare qualcuno, il gioco degli hikikomori, di questa umanità ridotta a una serie di monadi hikikomoriche, non reggerà a lungo. Inizierà la solitudine. Non rispondere a uno poi a un altro a un altro ancora. Finché il silenzio farà da prodromo alla follia. Tutti si ordineranno delle carabine con cui, dal nascosto del proprio balcone invece di cantare Azzurro o Fratelli d’Italia ogni tanto schioppetteranno all’untore potenziale che ancora osa uscire, passeggiare, correre, portare a spasso il cane. E dopo ancora, quando nessuno più uscirà, inizierà il tiro al piccione con fucili di precisione da una casa all’altra. Tutti prenderanno l’abitudine a non accendere le luci e a tenere basse le serrande e ordineranno porte antisfondamento e serrande a prova di pallottole. Il processo di autosegregazione, per i sopravvissuti, sarà completo. Fatto ciò, seguirà, senza più un nemico visibile fuori, l’accoltellamento del nemico interno: sgozzamenti, soffocamenti, precipitazioni, tra membri della stessa famiglia. Di cui ne resterà uno solo. A quel punto l’unico superstite di ogni famiglia, siccome neppure più le consegne a domicilio saranno possibili, dovrà per forza uscire, e le strade saranno popolate dai più feroci, i sopravvissuti che hanno già ucciso i propri famigliari, che vanno a caccia, sbronzi di furia omicida. La caccia è aperta. Il virus non ci ucciderà, dicevo, per infezione fisica, ma per infezione psichica.

Ogni tanto ricevo dei messaggi whatsapp o sms, molto laconici.

Dottore: ma lei che studia la psicologia delle masse, l’ha capito perché le persone ai balconi cantano l’inno di Mameli?

No. Forse perché il virus gli ha già dato alla testa? Ma non glielo dico.

Intanto oggi 20 marzo sono andato a correre, voglio farlo prima che inizi il divieto anche per correre. Entro nel parco degli acquedotti e non c’è anima viva. Un parco immenso di 240 ettari percorsi da nemmeno mezza dozzina di runner quasi-fuorilegge, tra cui io. I romani tutti in casa. Io allungo. Dieci chilometri di libertà. Riempio il mio cranio della dose di endorfine che mi è necessaria. Che mi spetta. Che mi merito. Con cui, da quarant’anni almeno, mi drogo. Endorfine da corsa che da vent’anni prescrivo alle persone depresse o ansiose o incazzate per non dar loro antidepressivi o ansiolitici o stabilizzatori dell’umore e quasi sempre funziona. Ora però, dice il ministro dello sport – uno che finora lo sport sembra averlo visto solo in televisione – se le persone continueranno a correre dovremo proibire pure la corsa. Nuda vita, ripeto: è nuda vita questa. Se polizia o carabinieri non mi prenderanno – sento l’altoparlante del grande fratello che ripete: restate a casa restate a casa restate a casa – sarò ancora un efficiente psichiatra del Servizio Sanitario Nazionale italiano. Capace di trattare con la giusta calma pazienza gentilezza empatia gli agitati o i depressi. Se dovesse andar male, se mi prenderanno, ci sarà un criminale in più e un medico in meno sul suolo italiano.

Ci penso, mentre corro, solitario come un appestato o un appestatore, sono ora più che mai dottor Jekyll e Mister Hyde. Al mattino sono uno degli angeli – stucchevole contentino con cui ci prendono per il culo, mentre ci espongono a rischi senza maschere adeguate e senza tamponi, noi no ai calciatori sì – che salvano persone, in prima linea intabarrato in un pronto soccorso. Di pomeriggio sono un demone untore che siccome corre in un parco immenso e desolato può ungere il mondo.

Mentre sto per rientrare nei miei arresti sanitari una delatrice mi indica, con quel dito secco, la riconosco, è lo stesso tipo antropologico, lo stesso archetipo di essere umano che prima se la prendeva coi migranti o coi rom ora deve per forza – sobillata dalla televisione – trovare un nuovo capro espiatorio, e in questo momento sono io, dice, indicandomi agli altri in fila, è andato a core’, nullo capischeno che nun devono core’. I guardiani della nostra nuova dittatura sanitaria. Faccio un esperimento. Metto questa frase su Facebook. Voglio vedere chi abbocca. Come si divide la mia bolla. Anche gli insospettabili mi biasimano. Perfino una collega di buon senso mi scrive: “Il diritto o meglio la libertà del runner di correre non è meno importante della mia di passeggiare o di quella degli anziani di uscire e camminare all’aperto. Se tutti ci sentissimo liberi di fare altrettanto starebbero tutti in strada. Invece tu puoi continuare a correre perché la maggioranza si sacrifica in nome di un interesse che dovrebbe prevalere e cioè quello per la collettività!”.

Qui capisco che non ce la faremo. Ha ragione Agamben. In nome della nuda vita siamo disponibili a farci espropriare di tutto, tra poco anche dell’aria.

Le prove tecniche di dittatura sanitaria stanno andando benissimo. Non abbiamo speranza di farcela.

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L’uomo in rivolta nell’era digitale https://www.carmillaonline.com/2018/08/28/llera-digitale/ Mon, 27 Aug 2018 22:01:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=48133 di Piero Cipriano

Vivremo in una democrazia in cui “la libertà sarà stata un episodio”, così inizia Psicopolitica, il libro dell’apocalittico filosofo tedesco-sud coreano Byung-Chul Han. Una democrazia neoliberale sotto il segno del like. O del dislike. Una comunicazione contrappuntata, quando tutto va per il bene, dagli stucchevoli love, o dagli sganasciati haha, o dagli stupefatti wow, quando va per il male dai melanconici sigh o dai livorosi grr. Lo so, sembro ridicolo, eppure anche sotto i post che accompagneranno questo scritto riceverò qualche decina di commenti in neolingua. Una specie di idiot [...]]]> di Piero Cipriano

Vivremo in una democrazia in cui “la libertà sarà stata un episodio”, così inizia Psicopolitica, il libro dell’apocalittico filosofo tedesco-sud coreano Byung-Chul Han. Una democrazia neoliberale sotto il segno del like. O del dislike. Una comunicazione contrappuntata, quando tutto va per il bene, dagli stucchevoli love, o dagli sganasciati haha, o dagli stupefatti wow, quando va per il male dai melanconici sigh o dai livorosi grr. Lo so, sembro ridicolo, eppure anche sotto i post che accompagneranno questo scritto riceverò qualche decina di commenti in neolingua. Una specie di idiot savant si è inventato questo social network, e di anno in anno come un dio bambino inventa nuovi codici nuovi lemmi, nuove semplificazioni per narrare le relazioni. E ci siamo incamminati verso una semplificazione lessicale ed emotiva che somiglia alla neolingua immaginata da George Orwell in 1984, la semplificata neolingua incaricata di sostituire l’archilingua perché l’archilingua è articolata, la neolingua è funzionale a semplificare il pensiero. Se hai sempre meno parole per dire le cose, immagina Orwell, ovvero “chi parla male pensa male”, per dirla con Nanni Moretti, vedi che la coscienza si restringe. E pure i testi scolastici fascisti o nazisti erano dotati di un lessico semplificato, apposta per semplificare il pensiero. Per un verso allora, nota Han, in questo panottico digitale a cui ci siamo nel volgere di pochissimi anni abituati al punto da non saperne più fare a meno sembra incentivata la comunicazione e lo sproloquio. Per un altro verso c’è un invito alla sintesi e alla semplificazione, i post tanto più vengono letti quanto più sono laconici ed essenziali.

Il problema (ma ciò era prevedibile, pensateci) è che di questa semplificazione lessicale che genera neolingua si sono impossessati (e ne stanno facendo un uso criminale) dei soggetti dal pensiero semplice, che per lo più non hanno fatto studi approfonditi, non si sono spinti oltre le scuole superiori, spesso istituti tecnici, e se si sono affacciati all’università dopo pochi esami hanno capito che invece di perdere tempo a studiare c’era qualcosa di più pragmatico e redditizio da fare: la politica. Anche perché la politica negli ultimi decenni è cambiata, ha smesso di selezionare i più colti (non voglio dire i più etici, perché non è quasi mai stato così), le menti più sveglie, ma in un darwinismo sociale invertito estrae dal mazzo i più fessi, o i più scaltri, o i più ingordi di potere. E così è capitato che questi idiot savant, dico da un Trump a scendere a un Salvini o – per restare nel nostro orto – a un Di Maio un Di Battista un Toninelli insomma gli utili idioti di questi anni, nel comunicare con neolingua fatta di slogan o frasi secche (finita la pacchia, onestà, a casa loro, governo del cambiamento, prima gli italiani, e così via) sono dei veri talenti. Perché un concetto complesso non saprebbero articolarlo, ma hanno questo dono della sintesi estrema che pare fatto apposta per i social più in voga (Facebook, Twitter, Instagram).

E grazie a questo dono di saper parlare semplice – bastano due neuroni e una sinapsi – eccoli dominatori di un dispositivo panottico che il povero Bentham non avrebbe mai potuto immaginare, e neppure noi, fino a vent’anni fa. Anzi, dieci. Un dispositivo dove siamo in reciproca sorveglianza, quindi un panottico a 360 gradi. Un panottico gigantesco. Mettiamo Facebook. Oggi conta oltre due miliardi di iscritti. Che accedono al panottico più volte al giorno. Facebook ha più seguaci del cristianesimo e dell’Islam. È una chiesa più influente di tutte le altre. I cui praticanti sono sempre connessi o raggiungibili. Per mezzo dello smartphone. Smartphone che tocchiamo in media 2617 volta ogni giorno. Non c’è rosario bibbia o corano compulsato con questa frequenza. Facebook è una chiesa che per amen ha un like. Un like come primitivo sistema di gratificazione a breve termine, a base di dopamina. Fatemi semplificare e fare il riduzionista. Propongo questo sillogismo. La psicosi, secondo la teoria più accreditata, da un punto di vista biochimico è causata da un eccesso di dopamina. Il neurotrasmettitore edonico. Quello che dà piacere, insomma. Come a dire: troppo piacere fa impazzire. I like, si dice, aumentano la dopamina. Gratificazione a breve. I like, dunque, producono psicosi. Ecco. Il manicomio digitale, produce psicosi. Non è un caso che coloro che nel 2009 hanno ideato il bottone del like – Justin Rosenstein e Leah Perlman – siano ora i più accesi sostenitori di una sorta di vangelo apocrifo contro la chiesa di Facebook. Si sono disconnessi.

Insomma, ricapitolo: un idiot savant ha creato un manicomio digitale, un panottico a 360 gradi per un reciproco controllo totale. Altri idiot savant si sono impossessati del giocattolo, lo sanno giocare come nessun altro, twittano postano scrivono slogan o frasi lapidarie (molti nemici molto onore) spesso copiate o citando, sapendo o non sapendo tanto è uguale, dato che la cultura è roba da radical chic (altro slogan) e quando sento la parola cultura metto mano alla pistola (altra citazione, chi lo disse? Boh. Che mi frega). Ciò che conta è che questo giocattolo panottico globale è la nuova agorà dove si fa la politica semplificata, la pseudo democrazia partecipata, la democrazia del like, di cui si sono impossessati gli idiot savant Trump Salvini Di Maio.

L’altro ieri, una mia amica che ha votato per gli idiot savant creati dal comico Grillo mi rimprovera la mia anarchia: è il tuo non voto che ha determinato l’ascesa del ministro razzista e fascista. E difendeva i suoi eletti, meritevoli di aver abolito l’aereo con cui Renzi era andato a vedere una partita. Ma non c’è mai andato! È un news fake, informati, ma esci dal panottico, cazzo!

E mia moglie, dopo che lei è andata via (con lo smartphone in mano, e per strada avrà senz’altro distribuito una decina di like a qualche post farlocco): lo vedi? Faccio bene io, che non sono su Facebook, che resisto ai social network tutti: Twitter, Instagram eccetera?

Ma sei un’idiota allora! Ecco perché ti salvi! Davvero, non ti offendere, non sto scherzando. Sai che dice il filosofo Han? Dice che solo se sei un idiota ti salvi. Aspetta, capiscimi. Perché tra tutti questi tipi diversamente idioti ci confondiamo. Non quel tipo di idiota di cui abbiamo detto finora. Han dice: “Una funzione della filosofia è giocare a fare l’idiota”. La filosofia, e sembra controintuitivo, è fatta da idioti. Ma un altro tipo di idioti rispetto a questi che non sanno ma credono di sapere. “Ogni filosofo che realizza un nuovo idioma, un nuovo linguaggio un nuovo pensiero sarà necessariamente un idiota”. Socrate, per dire, sa però afferma di sapere di non sapere, se così è, è un idiota. Pier Aldo Rovatti, per dire, che sostiene la forza del pensiero debole, dell’epochè, del rifuggire i saperi forti, le certezze, le idee potenti, e propone la pratica di un’etica minima, è un idiota. Franco Basaglia, colui che secondo quel grafomane di Vittorino Andreoli “non sa la psichiatria” – e, ammesso sia vero, forse è per questo che l’ha saputa sovvertire – è un idiota. L’idiot de famille, si definiva lui proprio. Oggi – ancora Han – “la figura dell’outsider, del folle o dell’idiota sembra essere scomparsa dalla società”, perché “la connessione digitale”, l’esserci di nostra sponte internati in questo panottico digitale ha aumentato straordinariamente la “coercizione alla conformità”. L’idiotismo, la riluttanza a questa corsa all’internamento digitale, è forse l’ultima “pratica di libertà” rimastaci. L’idiota è colui che non si connette e dunque non si informa al modo dell’informazione totalitaria della rete o dei social. Il non trasparente, colui che non sciama nella rete.

In questi giorni tutti, nei social italiani, come pecore digitali, belano intorno ad alcuni argomenti: tra questi i migranti: gli invasori, i barbari, difenderci dai barbari, casa loro, casa nostra, pacchia, finita la pacchia, così via. Aizzati da un ministro basico che maneggia ripeto con talento da idiot savant i social e la comunicazione fatta di slogan. È la nuova psicologia delle folle. Però siamo ormai oltre “l’età delle folle” descritta da Gustave Le Bon, perché siamo nell’epoca del gregge digitale, o, per dirla sempre con Han, nell’epoca dello sciame digitale. Ma lo sciame non è folla. I connessi sono soli pur sentendosi insieme. L’uomo digitale resta solo, è un hikikomori, uno schizoide, pur sentendosi parte delle cinquecento o cinquemila amicizie o contatti che il social mondiale ti mette a disposizione. I greggi digitali, gli sciami digitali non sanno marciare, non sanno organizzare rivolte, sanno al massimo indignarsi per la causa del momento – ora sono i migranti, c’è chi li difende e chi li vorrebbe morti anzi ha già cominciato ad ammazzarli, domani saranno di nuovo i vaccini, e così via – sanno indignarsi mediante quella scarica emotiva che rapidamente si esaurisce, la chiamano shitstorm, la tempesta di merda.

L’idiota disconnesso non lo sa cos’è una shitstorm. Non ne è stato contaminato. Non ne ha mai subito gli schizzi dell’eloquio semplice a base di merda di un Salvini o dei suoi sgherri. L’idiota disconnesso, non sa, non bela. L’idiota disconnesso, non comunica, non è raggiungibile. L’idiota a-digitale è apolide. È in una sorta di esilio. Potrebbe perfino non esistere, nonostante l’anagrafe. È in una dimensione pirandelliana.

È l’idiota disconnesso che, nell’era della trasparenza e del panottico digitale, forse saprà organizzare, un giorno, una vera rivolta.

Per cui, in questa sorta di nosologia degli idioti, tiriamo le somme: ci sono tre tipi di idioti, in ballo. L’idiot savant che ha creato il panottico digitale, che ha inventato il gioco (Zuckerberg, per non far nomi); gli idiot savant che sanno meglio di tutti giocare il gioco della neolingua e della psicologia delle folle che il panottico determina (Trump, Salvini, per fare qualche esempio). Infine l’idiota disconnesso che non conosce il gioco non gioca ma organizza la rivolta. È sempre un idiota, ma un altro tipo di idiota, e sarà lui il nuovo uomo in rivolta.

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La società dei devianti nell’epoca della prestazione https://www.carmillaonline.com/2016/09/27/la-societa-dei-devianti-nellepoca-della-prestazione/ Tue, 27 Sep 2016 21:30:03 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=32708 di Gioacchino Toni

la_società_dei_devianti_cipriano_coverPiero Cipriano, La società dei devianti. Depressi, schizoidi, suicidi, hikikomori, nichilisti, rom, migranti, cristi in croce e anormali d’ogni sorta (altre storie di psichiatria riluttante), Elèuthera, Milano, 2016, 248 pagine, € 15,00

Cipriano ha fatto dei Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura (SPDC), ove lavora, il luogo da cui tentare di capire chi sembra non sapere “stare al mondo”, dunque il luogo da cui, osservandone “gli scarti”, comprendere il mondo stesso, quel mondo cinico e spietato che non solo espelle chi non si adegua, ma è riuscito a renderlo produttivo [...]]]> di Gioacchino Toni

la_società_dei_devianti_cipriano_coverPiero Cipriano, La società dei devianti. Depressi, schizoidi, suicidi, hikikomori, nichilisti, rom, migranti, cristi in croce e anormali d’ogni sorta (altre storie di psichiatria riluttante), Elèuthera, Milano, 2016, 248 pagine, € 15,00

Cipriano ha fatto dei Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura (SPDC), ove lavora, il luogo da cui tentare di capire chi sembra non sapere “stare al mondo”, dunque il luogo da cui, osservandone “gli scarti”, comprendere il mondo stesso, quel mondo cinico e spietato che non solo espelle chi non si adegua, ma è riuscito a renderlo produttivo attraverso le cliniche e, soprattutto, attraverso la chimico-dipendenza spacciata attraverso diagnosi comandate dal Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM).

Franco Basaglia e Franca Ongaro (La maggioranza deviante, 1971) sostengono che la società considera “devianti” tutti coloro che risultano improduttivi ed al fine di farli comunque partecipare al ciclo produttivo, occorre designarli, quanto più possibile, come “malati”. In tal modo il sistema della produzione può creare le sue cliniche, i suoi ospedali, i suoi “imprenditori della cura e della follia”. Rispetto agli anni ’70, sostiene Cipriano, “l’imprenditoria della salute, della malattia e della follia” è diventata molto più sofisticata. Grazie all’industria del farmaco ai luoghi fisici si sono sostituti, od affiancati, nuovi metodi di internamento. «Dovremmo essere consapevoli, sostiene lo psichiatra inglese Derek Summerfield, che l’ordine politico-economico trae vantaggio quando le sofferenze e i disturbi, che probabilmente sono in rapporto con le sue pratiche o le sue scelte politiche, vengono spostati dallo spazio socio-politico, cioè pubblico e collettivo, a uno spazio mentale, ovvero a una dimensione privata e individuale. Da qui nasce l’ossessione, o la compulsione, o la pulsione, per la diagnosi che semplifica ogni cosa» (p. 14).

Si viene divorati dalla società produttivista non solo se, come afferma Basaglia, si fa parte della classe sbagliata, della famiglia sbagliata, della razza sbaragliata ecc., ma anche, aggiunge Cipriano, su uno si ritrova ad essere «più banalmente, troppo magro o anoressico, obeso, iperattivo, depresso, bipolare, borderline, schizofrenico, schizoide, hikikomori, psicopatico, ovvero nichilista, ovvero terrorista, zingaro che non si adatta, migrante, apolide, rifugiato e così via. A ognuna di queste etichette, spesso, corrisponde un farmaco, o una tecnica psicoterapeutica, o un luogo di rieducazione, identificazione, pena, espulsione, insomma tutti questi devianti riluttanti sono pane, sono guadagno per il mondo dei normali, di coloro che sanno lavorare» (pp. 14-15).

Dopo aver raccontato il manicomio fisico nel libro La fabbrica della cura mentale (Elèuthera, 2013) ed aver ricostruito ne Il manicomio chimico (Elèuthera, 2015) [su Carmilla] i passaggi principali che hanno condotto all’era della psichiatria chimica in cui il paziente assume il manicomio un po’ alla volta, psicofarmaco dopo psicofarmaco, con La società dei devianti (Elèuthera, 2016) Cipriano, che ama definirsi “psichiatra riluttante”, racconta «cos’è questo nuovo manicomio illimitato, che è definitorio, diagnostico, categoriale, che rispecchia questo bisogno diffuso, ubiquitario e condiviso di trovare sempre un’etichetta a ognuno, sia esso disturbo o malattia, etichetta che diventa tatuaggio identitario di un individuo, diventa destino, da cui tutto deriva: gli obblighi, i percorsi, le scuole, le cure, i farmaci, le prigioni, ciò che potrà o non potrà fare nella vita» (p. 234).
In particolare, in questo terzo ed ultimo volume di quella che Cipriano definisce “trilogia della riluttanza”, si ricostruisce come la stanchezza esistenziale, sempre più diffusa in questa società votata alla prestazione, sia stata trasformata in “depressione” grazie all’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ed al Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM) e si lancia una campagna contro la contenzione tramite fasce, pratica molto più diffusa di quel che si pensi.

Non solo gli psichiatri trasformano spesso la tristezza in depressione ma, in generale, ormai chi è semplicemente colto da stanchezza, esaurimento o “mal di vivere”, si sente in dovere di rivendicarsi depresso e di pretendere la relativa cura (chimica). Si potrebbe dire che viviamo in una “società dei malati per forza”, in cui chi si trova in uno stato di sofferenza è pressoché costretto a dichiararsi malato e ad accettarne le conseguenze che il più delle volte si presentano sotto forma di farmaco. Non occorre individuare le cause che determinano uno stato di tristezza; questa viene facilmente trasformata in depressione e la depressione, di questi tempi, richiede farmaci antidepressivi. Non solo non interessano le cause del disagio, ma non interessano nemmeno gli effetti della cura sul lungo periodo: il DSM è la nuova bibbia e chiede solo di essere applicato, senza farsi troppe domande.

Secondo la definizione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità del 1948, la “salute” è «uno stato di completo benessere fisico, psichico e sociale, non una mera assenza di malattia» (p. 44). Dunque, sostiene Cipriano, viene da pensare che «i poveri, i miserabili, non possano mai essere in buona salute, date le loro esigue risorse per raggiungere il pieno benessere psichico, fisico e sociale, e che la loro miseria sia già malattia. E che tutti gli africani che si imbarcano sulle carrette per attraversare il Mare Nostrum e raggiungere la fortezza Europa lo facciano per venire incontro al proprio benessere psichico, fisico e sociale, per raggiungere il paese della salute, e sfuggire al loro destino di malati. E noi, noi Stati europei, li respingiamo. Ecco che alcuni esseri umani vengono sottoposti ai Trattamenti Sanitari Obbligatori in nome della salute (psichica) che non hanno, e ad altri esseri umani i trattamenti sanitari vengono negati» (p. 44).

Sempre secondo l’OMS, la depressione è la seconda malattia più diffusa al mondo (la prima tra i 15 ed i 44 anni) ma, sostiene Cipriano, non esiste uno studio scientifico che spieghi cosa sia la depressione, quali siano le cause e che si tratti in effetti di una malattia. Fin dagli anni ’60 si sostiene che la depressione derivi da un basso livello di serotonina e noradrenalina nel sistema nervoso centrale e, ancora oggi, in mancanza di altre spiegazioni, ci si rifà a tale convinzione. Dagli anni ’50 si è imposta quella che è diventata la “bibbia diagnostica” degli psichiatri: il DSM, opera dell’American Psychiatric Association (APA) e con il DSM-III del 1980 si impone l’abbandono di diverse teorie psicologiche sui disturbi psichici in favore di «un manuale di pura descrizione di sintomi, nudi e crudi. Si compie […] la scelta ideologica di eliminare tutte le diverse teorie e interpretazioni dei disturbi psichici» (p. 45). Dunque, dal 1980, grazie al DSM-III, si è depressi se per un periodo di almeno due settimane si hanno almeno cinque sintomi tra: «umore depresso; diminuzione di interesse o piacere; perdita o aumento di peso; diminuzione o aumento dell’appetito; insonnia o iperinsonnia; agitazione o rallentamento psicomotorio; affaticamento o perdita di energia; sentimenti di autosvalutazione o colpa; diminuzione della capacità di pensare o concentrarsi;pensieri di morte o di suicidio» (46). Perché cinque sintomi e non meno o di più e perché l’elenco prevede un massimo di nove sintomi non è dato a sapersi.

Nel ripercorrere la “storia della depressione”, Cipriano ricorda come Ippocrate distingua tra tristezza cum causa e tristezza sine causa, ove solo quest’ultima è da ritenersi patologica, dunque compie una distinzione tra una “malinconia esogena” (con causa) ed una endogena (priva di causa). Tale impostazione di fondo resta in vigore a lungo, tanto che diversi secoli dopo, lo stesso Sigmund Freud (Lutto e melanconia) sostiene che non si deve curare chi è triste, ad esempio, per un lutto in quanto si tratta di un “dolore normale” che necessita solo di tempo. «Insomma, per duemilacinquecento anni si è tenuta separata la tristezza normale, che ha una causa, dalla tristezza abnorme, che una causa non ce l’ha ma poi tutto cambia dal 1980, con la pubblicazione del DSM-III, il manuale ateoretico, che non vuole più basarsi su alcuna interpretazione (la differenza tra causa esterna o interna, in fondo, è un’interpretazione), ma solo sui sintomi osservabili. Addio alla millenaria differenza tra le due forme di tristezza, dal 1980 esiste una sola depressione: quella che dura più di due settimane e che presenta almeno cinque dei nove sintomi» (p. 47). Se il DSM-III del 1980 almeno specifica che è “normale” provare tristezza per un lutto, anche se si sente in dovere di quantificarne la durata ad un anno (oltre questa durata non si è in lutto ma depressi), con il DSM-IV del 1994 il periodo di “normalità” del lutto scende a due mesi e dal 2013, con il DSM-5, si giunge a due settimane di tristezza consentita. Insomma, sostiene Cipriano, dal 2013 il lutto è pressoché scomparso. È facile capire come grazie a tale logica la depressione si sia trasformata da patologia rara in pandemia.

il-manicomio-chimico-di-Piero-CiprianoDal momento che i manuali diagnostici hanno via via reso depressione ogni forma di tristezza e di stanchezza superiore alle due settimane, questi hanno posto fine alla distinzione millenaria tra malinconia endogena e tristezza esogena. Se il fine è quello di ottenere la salute attraverso la guerra alla stanchezza ed all’infelicità, lo stesso lutto deve essere regolamentato: due settimane devono bastare a tutti ed in ogni caso. Passate le due settimane occorre tornare ad essere felicemente produttivi. Alcuni decenni di chimica antidepressiva e la cinica riscrittura dei manuali diagnostici hanno portato ad una vera e propria pandemia di depressi. I dati riportati da Cipriano sono impressionanti: al mondo si contano 400 milioni di depressi e 60 milioni di bipolari, ove la tristezza si alterna all’eccitamento dell’umore. Se il disturbo bipolare risulta un fenomeno raro in epoca pre-psicofarmacologica, con la diffusione degli antidepressivi diviene la seconda patologia psichica più diffusa ed è stato esteso agli adolescenti.
La maggiore fonte di profitto delle case farmaceutiche deriva dagli antidepressivi (negli ultimi due decenni negli USA il ricorso ad antidepressivi è aumentato del 400%), chiaro allora, sostiene Cipriano, che alle aziende farmaceutiche è convenuto l’allargamento dei confini diagnostici della depressione voluto dagli psichiatri dell’American Psychiatric Association. Il dubbio che tale allargamento sia stato dettato dalle industrie farmaceutiche è del tutto legittimo e non sarà un caso se i finanziamenti per redigere il DSM-IV sono arrivati quasi per intero dalle case farmaceutiche e se metà dei redattori è direttamente legata ad esse.

Fino agli anni ’50 la malattia “giustificante la psichiatria” è la schizofrenia, malattia priva di definizione e basata su sintomi. Dopo che l’OMS ha trasformato la salute in benessere psicofisico e sociale, l’agire psichiatrico cambia; non occorre più curare una malattia mentale giudicata inguaribile (la schizofrenia) ma si deve mirare al raggiungimento del “completo benessere psicofisico”. Alla schizofrenia si sostituisce così la depressione. Probabilmente, sostiene Cipriano, l’American Psychiatric Association ha saputo approfittare di qualcosa che “era nell’aria” e la grande stanchezza esistenziale dei nostri tempi è stata tramutata in malattia: la depressione.

Visto che gli individui sembrano davvero essersi trasformati da oggetti di ubbidienza a soggetti di prestazione, lo “psichiatra riluttante” si chiede se l’esaurimento psicofisico e quello che i manuali diagnostici chiamano depressione non possa essere conseguenza dell’imperativo della prestazione. «Questo è il paradosso dell’uomo moderno, che per la prima volta nella storia si trova a essere padrone, sfruttatore, schiavista di se stesso […] la sua è solo un’apparente libertà. La sua è patologia della libertà. È una nuova società del lavoro, una società che sembra libera ma non lo è, perché è iperattiva, frenetica, schiava della sua stessa isteria di lavoro e iperproduzione. Una società che non contempla il riposo, e ancor meno l’ozio. Di qui la stanchezza […] che ora è diventata depressione» (pp. 49-50).

Nel libro viene riportata l’interessante ricostruzione di Mario Colucci, derivata da Ethan Watters (Crazy like us: the globalization of the American psyche), di come la depressione sia stata introdotta in Giappone al fine di poter inondare il paese di antidepressivi serotoninergici. In Giappone la personalità melanconica non ha tradizionalmente nulla di patologico, anzi, è sempre stata considerata sintomo di serietà, dunque, non facendo parte della cultura nipponica, la depressione deve essere introdotta ed è così che su quella cultura «negli anni Duemila, irrompe la nuova, moderna, scientifica, semplificata, omogenea narrazione proposta (o imposta) dal DSM […] E gli antidepressivi fanno il boom» (pp. 51-52).

Dagli USA arriva anche la “pillola dell’intelligenza”, si chiama Modafinil (“Moda”) ed il suo nome commerciale è “Provigil”, dunque, come suggerisce il nome, si preoccupa di favorire la vigilanza. Inizialmente «doveva servire come farmaco contro la narcolessia. Oggi viene proposta come smart drug, droga furba, cioè pillola dell’intelligenza. Infatti dovrebbe migliorare attenzione, memoria, concentrazione, e dunque intelligenza. Questa molecola sembra davvero l’equivalente del Ritalin dato ai piccoli scolari distratti, da distribuire a quegli adulti che, per stare in tiro, s’ingozzano di troppi caffè, o sono costretti a farsi la cocaina ogni tanto. Con la differenza farmacodinamica, però, che il metilfenidato (Ritalin) agisce solo aumentando la quantità di dopamina, il modafinil (Provigil) agisce anche riducendo il livello di acido gamma amino-butirrico (GABA), che è il principale neurotrasmettitore inibitorio del SNC» (pp. 80-81).

Nel libro viene ricordato come già i militari americani siano costretti per contratto ad assumere farmaci che li rendono più resistenti alla fatica ed al sonno e più performanti in guerra. Dunque, sulla scorta di tale ricorso al potenziamento chimico, c’è chi propone di estenderlo a tutte le professioni impegnate in emergenze. Piloti d’aereo, chirurghi e medici del pronto soccorso, ad esempio, potrebbero presto essere tenuti ad assumere neurostimolatori per migliorare le loro prestazioni in situazioni d’emergenza. Gli studi sugli effetti di queste molecole, però, vengono effettuati sul breve periodo (poche settimane) esattamente come è accaduto per il Ritalin somministrato ai bambini definiti “iperattivi”, col risultato che ci si ritrova, a distanza di anni, di fronte ad individui ridotti a zombie. Un’eventuale estensione ad altre professioni, oltre all’ambito militare, aprirebbe nuove opportunità per il business della salute; si potrebbero avere futuri pazienti depressi o bipolari a cui somministrare farmaci stabilizzatori od antipsicotici. Insomma, si tratta di un perverso meccanismo in cui una pillola chiama l’altra.

Se da un lato è quantomeno inquietante pensare di salire su un aereo con al comando un pilota “rinforzato” da qualche neuro-stimolatore, o di sottoporsi al bisturi di un chirurgo impasticcato, ci preme sottolineare come, anche in questi casi, i lavoratori vengano “potenziati” per essere più “performanti” (produttivi) per un lasso di tempo sempre più breve, per poi essere “scartati” in quanto non più “sicuri” (non più produttivi). Si delinea un quadro in cui la “spremitura” del lavoratore avviene, anche grazie alla chimica, sempre più velocemente e, in un sistema lavorativo votato al mito dell’autoimprenditorialità, quel che è peggio è che sarà il lavoratore stesso a potenziarsi per migliorare la sua posizione sul mercato del lavoro. Sarà il lavoratore stesso a spremersi sempre più velocemente bruciandosi il corpo ed il cervello per poi divenire velocemente scarto, rifiuto improduttivo per sé ma non per il business della salute, capace, come stiamo vedendo, di trarre profitto anche dai “rifiuti umani”. Al pari del business per il trattamento dei rifiuti prodotti dal consumismo, esiste un business che ricava profitto dagli scarti umani.

Prendendo spunto dalla serie televisiva di successo Dr. House, Cipriano tratteggia alcune inquietanti caratteristiche della società contemporanea. Il Dr. House, medico a cui interessa la malattia ben più che il paziente, rappresenta davvero il «medico perfetto per questa società schizoide […] È un medico schizoide a cui non piace, o meglio teme, la relazione. Tant’è che per potersi permettere una sufficiente capacità relazionale si droga, si fa, si prende farmaci, ora non lo so cosa diavolo prenda lui di preciso, di certo antidolorifici, ma come lui moltissimi medici o terapeuti si prendono la cocaina o gli antidepressivi, per essere più socievoli e performativi, più terapeutici, perché proprio loro non ce la fanno, se no, a essere in sintonia con l’altro. Ecco il dramma, allora, di una società disconnessa, schizoide, nel senso di portata per l’autismo, arelazionale, che sempre più sta perdendo il contatto con il mondo, con gli altri, con il koinós kósmos (mondo comune) eracliteo, a favore dell’autistico ídios kósmos (mondo proprio). È una società, quella che acclama il paradigma del medico schizoide dottor House, che è essa stessa schizoide, perché manca di sintonia, di capacità di entrare in relazione affettiva con gli altri. E questo modo i porsi viene scambiato per apatia, o tristezza, e quindi depressione. Ma la depressione è un’altra cosa. La depressione, i moderni, mistificatori manuali americani, non lo sanno che cosa sia. Dunque apparentemente abbiamo un’epidemia di depressione. In realtà è, questa, l’epoca della schizoidia. L’epoca dei dottor House, e dei malati a lui speculari» (pp. 84-85).

Tra la depressione e la psicosi si colloca una nuova sindrome che i giapponesi definiscono “hikikomori”, letteralmente starsene in disparte, isolarsi dalla vita sociale. Dunque, ritirarsi dalla prestazione o, almeno, aggiungiamo noi, pensare di farlo, perché in questa società si diventa facilmente produttivi anche quando si pensa di non esserlo. L’hikikomori è spesso un adolescente che si isola socialmente, passa il tempo chiuso in casa costantemente davanti al computer a navigare in rete sopperendo così ad una solitudine reale con la convinzione, dettata dall’iperconnessione virtuale, di non esserlo. La studiosa Sherry Turkle (Reclaming Convesation), un tempo entusiasta delle incredibili potenzialità di affermazione della propria identità grazie ad internet, ed ora decisamente pessimista al riguardo, accusa i social network di aver condotto ad un’atrofia dell’empatia.

Grazie alla legge 180, per il solo fatto di soffrire di un disturbo psichico, non si fa più riferimento al malato definendolo “pericoloso per sé e per gli altri o di pubblico scandalo” (criterio d’internamento in manicomio della legge 36 del 1904) al fine di giustificare il ricovero coatto. La 180 per il trattamento dei disturbi psichici prevede la volontarietà del paziente e solo eccezionalmente si può agire in maniera impositiva. Il Trattamento Sanitario Obbligatorio può darsi solo se: «1. esistono alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici; 2. gli stessi non vengono accettati dal paziente; 3. non vi siano le condizioni e le circostanze che consentano di adottare tempestive e idonee misure sanitarie extraospedaliere» (p. 148). L’obbligo della cura (TSO) non avviene più per “tutelare la società” ma per “dovere etico di cura”; si è passati da una questione di pubblica sicurezza ad una terapeutica. I dati dimostrano come più un servizio territoriale è debole, maggiore è il ricorso ai TSO e, nonostante la 180, secondo Cipriano, la psichiatria italiana non solo non si è liberata dal manicomio ma sembra sempre più farvi ritorno: «nessuna prevenzione, nessuna presa in carico, prevalente intervento sull’emergenza con trattamenti coatti gestiti con modalità poliziesche, ricoveri ad infinitum con aggressive terapie farmacologiche e contenzione al letto» (p. 150).

Cipriano si dice convinto che TSO e contenzione siano strettamente collegati. «La contenzione, il legare le persone, sovente inizia già per strada, la iniziano poliziotti o carabinieri, e gli psichiatri che si trovano recapitate persone già ammanettate, nei pronto soccorso, non fanno altro che togliere le manette e mettere le fasce» (p. 152). Dunque sussiste la necessità e l’urgenza di promuovere una campagna per l’abolizione delle fasce di contenzione: legare una persona ad un letto di ospedale è l’ultimo atto violento di una lunga serie che magari inizia con le manette, poi continua con la perquisizione, l’essere spogliati di tutti gli effetti personali e la scansione temporale ferrea degli orari in cui mangiare, dormire, fumare, assumere farmaci ed avere colloqui. Di fronte a tutto ciò Cipriano si chiede quanto possa sorprendere un’eventuale reazione rabbiosa da parte del ricoverato. «Il folle è violento perché è malato. Questo si pensa di solito. E se invece la sua violenza fosse una risposta alla violenza delle istituzioni della follia? E se la violenza dell’internato (ieri) dei manicomi, o del trattamento provvisorio (oggi) nei SPDC, fosse un moto di rivolta contro l’istituzione che lo mortifica, che sancisce al trasformazione del suo corpo malato in un corpo istituzionale, in un suppellettile da sorvegliare e controllare alla stregua di una porta, di una serratura, di una finestra?» (p. 161).

Come disobbedire da psichiatri alla consuetudine di legare? Secondo Cipriano si può disobbedire trovando altri modi per contenere la rabbia, la furia e la violenza del paziente e rendere pubblica la disobbedienza, raccontando, scrivendo, facendosi delatori, svelando che legare le persone al letto è una pratica diffusa. «Per vincere, e sconfiggere questo spettro, lo spettro delle fasce, e il fascismo subdolo che il loro uso comporta, c’è bisogno di persone (operatori) etiche e disubbidienti, che sappiano opporsi a questa prassi, che sappiano disubbidire all’assurdità di questa consuetudine, all’assurdità dei protocolli e delle linee guida, che sappiano sottrarsi alla banalità del male di una medicina e di una psichiatria che per curare esercita forza e violenza» (pp. 164-165). Dunque, insiste lo “psichiatra riluttante”, occorre convincere la società civile e gli operatori che ricorrono alle fasce, occorre far capire che con quelle fasce gli operatori legano tanto i pazienti quanto loro stessi, si umiliano, in modo diverso, entrambi.
Gli attacchi di Cipriano prendono di mira anche la psicoterapia che, a suo avviso, può avere senso soltanto se poco interpretativa e molto narrativa, perché il suo scopo non è guarire ma conoscersi attraverso il racconto della propria esistenza. Intanto gli operatori possono nella pratica quotidiana provare ad abolire l’ottocentesco giro di visita giornaliero in favore di un colloquio continuo, portare fuori i ricoverati, revocare i TSO, sciogliere i legati costi quel che costi e ridurre i farmaci. Almeno, suggerisce lo “psichiatra riluttante”, sarebbe utile riuscire a convincere i giovani operatori del settore, i pazienti ed i loro famigliari che «un altro modo per curare i disturbi dell’anima è possibile» (p. 26).

CIPRIANO_Fabbrica_Cura_MentaleAi nostri giorni si ricorre frequentemente al termine “schizofrenia”; tutti credono di sapere cosa essa sia mentre in realtà non è così. Nel saggio viene ricostruito, seppur per sommi capi, il processo storico che ha costruito tale diagnosi a partire da Emil Kraepelin (1856-1926) che, a fine ‘800, classifica i disturbi psichici osservando la loro evoluzione nel tempo. La sua fiducia sulla genesi organica della follia lo porta a distinguere la dementia praecox (una serie di forme morbose che si manifestano già prima dei 30 anni di età e che sfociano in demenza) dalla follia maniaco-depressiva (che ritorna alla normalità). Nel suo approccio i giudizi di valore hanno la meglio su quelli clinici e, pur senza ammetterlo, molti psichiatri ai giorni nostri sono intimamente e nichilisticamente kraepeliniani al pari del famigerato DSM-5. È chiaro, sottolinea Cipriano, come la visione pessimistica semplifichi il lavoro dello psichiatra: lo deresponsabilizza. L’incurabilità è comoda per i medici ma significa condanna certa per i pazienti.

Eugen Bleuler (1857-1939) sostiene, invece, che l’esito demenziale è raro e non la regola in questo disturbo, dunque introduce il termine “schizofrenia” provando a concedere ad essa una speranza terapeutica. Nonostante ciò la nozione di schizofrenia si è rivelata “una nuova prigione” perché molti psichiatri continuano a curare gli schizofrenici come dementi precoci. Bleuler distingue tra sintomi fondamentali ed accessori ed indica nella frammentazione delle funzioni psichiche il nucleo della malattia da cui derivano alterazioni dell’affettività, ambivalenza e tendenza ad isolarsi dalla realtà. Bleuer, sostiene Cipriano, pur soffermandosi eccessivamente sui sintomi accessori a discapito di quelli da lui stesso indicati come fondamentali, ha il merito, almeno sul piano teorico, di riportare «il più grave disturbo psichico dal territorio dell’incomprensibile e del non curabile a quello della comprensibilità e della curabilità» (p. 207).

Eugéne Minkowski (1885-1972), riprendendo i disturbi individuati come fondamentali nella schizofrenia da Bleur restringe ulteriormente il campo e si concentra in particolare sull’autismo considerato dallo studioso come perdita del senso della realtà. Cipriano pone l’accento sull’influenza esercitata dalla filosofia di Henri Bergson su Minkowski: «la nozione di intuizione (suggestione bergsoniana) diventa per Minkowski la chiave di volta per un metodo, un modo, una possibilità di incontrare la persona schizofrenica» (p. 210). Diviene così più importante cogliere le confidenze dei malati rispetto al mero elenco dei sintomi. Nel libro Schizofrenia (1927) Minkowski sottolinea come etichettare nosograficamente un essere umano significhi marchiarlo per sempre precludendosi la possibilità di comprenderlo. «È per questo che, sulla scorta del pensiero di Bergson, si è fatto promotore della cosiddetta diagnosi per penetrazione, cioè di una diagnosi intuitiva, non intellettiva, una diagnosi per sentimento, una diagnosi che sente, una gefüldiagnose, una diagnosi che ha bisogno di un modo particolare dello psichiatra di stare con quella persona, attento, interessato a lui e non ai suoi sintomi caldo e non freddo, affettivo e non staccato. Ecco che, in questo modo, diagnosi, comprensione, relazione e terapia sono un tutt’uno, diventano inestricabili» (p. 211). Nel libro viene ricostruita l’idea minkowskiana di schizofrenia ponendo l’accento sulla centralità della nozione di curabilità in psichiatria; partire dall’idea di incurabilità significa condannare a priori le persone. Purtroppo, continua Cipriano, oggi ad avere la meglio è la linea kraepleiniana rispetto a quella minkowskiana e dire schizofrenia significa dire incurabilità.

La messa in discussione di manicomi inizia a darsi soltanto negli anni ’60 di pari passo con il trattamento farmacologico a cui fanno ricorso anche gli psichiatri anti-istituzionali. Per certi versi si passa dalla camicia di forza al manicomio chimico ma, probabilmente, sostiene Cipriano, si tratta di una sorta di passaggio obbligato utile a porre fine al manicomio tradizionale, inoltre, nel breve periodo, gli antipsicotici risultano efficaci sui sintomi più eclatanti. «I sintomi cosiddetti floridi, nel giro di settimane o mesi, di solito si spengono. Lasciando il posto, per lo più, ad altri vissuti. Per esempio a uno stato di introflessione, di chiusura, di asocialità, insomma di schizoidia esasperata, di contatto vitale con il mondo ormai perduto, anche se i deliri o le allucinazioni magari non ci sono più» (pp. 223-224). Come mai gli psichiatri si concentrano su tali sintomi accessori trascurando «il vero disturbo generatore della schizofrenia, che è l’autismo, inteso come perdita del contatto vitale con la realtà?» (p. 224).

Secondo Cipriano qualche responsabilità deve essere imputata a Kurt Schneider (Psicopatologia clinica), psichiatra che a metà degli anni ’50 descrive lo schizofrenico molto diversamente da come viene indicato precedentemente da Minkowski. Se in quest’ultimo «dominava la visione di uno schizofrenico arroccato nel suo autismo, isolato, staccato […] In Schneider prevale la sensazione di una persona esposta al mondo esterno, che quasi ha perduto la sua pelle, senza più intimità, alla mercé degli altri» (p. 225). Nella visione schneideriana pare dominare l’idea di perdita dei confini dell’io (la perdita della meità) e da tale visione pare prendere il via «il filone più tipicamente clinico-nosografico della schizofrenia, che disinteressandosi del disturbo generatore, ma interessandosi dei sintomi patognomonici, condizionerà fortemente la nosografia di questo disturbo, e dunque il manuale americano che dagli anni Cinquanta si è venuto ad affermare, manuale che schneiderianamente si professa ateoretico, disinteressato alle cause dei disturbi ma attento ai sintomi» (p. 225). Arriviamo così a quell’elenco burocratico dei sintomi delle schizofrenia del DSM-5 del 2013 che gli operatori del settore debbono considerare per «formulare una diagnosi così tanto grave, diagnosi che ancora non sappiamo se è un destino o una malattia: – due o più di questi sintomi, durante più di un mese, tra deliri, allucinazioni, eloquio disorganizzato, comportamento disorganizzato o catatonico, sintomi negativi (appiattimento affettivo, alogia, abulia); – disfunzione sociale o lavorativa; – durata del disturbo per più di sei mesi; – esclusione di disturbi dell’umore o disturbo schizoaffettivo; – esclusione dell’uso di sostanze o patologie mediche» (p. 226).

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