Heavy Metal – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Elogio dell’eccesso / 7: David Johansen (1950-2025) and the New York Dolls https://www.carmillaonline.com/2025/03/04/elogio-delleccesso-7-david-johansen-1950-2025-e-i-new-york-dolls/ Tue, 04 Mar 2025 21:00:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87178 di Sandro Moiso

Something must have happened over Manhattan Who can expound all the children this time? (Frankenstein – New York Dolls, 1973)

E’ morto il 28 febbraio l’ultimo superstite della band che forse, più di ogni altra chiamata successivamente in causa, ha contribuito in largo anticipo alla rifondazione del rock’n’roll attraverso il punk. A settantacinque anni, dopo cinque anni di silenzio e allontanamento definitivo dalla scena musicale in seguito al cancro che lo aveva colpito, l’ex-front man e cantante dei New York Dolls ha raggiunto i suoi ex-compagni, tutti già scomparsi da anni, in qualche punto di un universo [...]]]> di Sandro Moiso

Something must have happened over Manhattan
Who can expound all the children this time?

(Frankenstein – New York Dolls, 1973)

E’ morto il 28 febbraio l’ultimo superstite della band che forse, più di ogni altra chiamata successivamente in causa, ha contribuito in largo anticipo alla rifondazione del rock’n’roll attraverso il punk. A settantacinque anni, dopo cinque anni di silenzio e allontanamento definitivo dalla scena musicale in seguito al cancro che lo aveva colpito, l’ex-front man e cantante dei New York Dolls ha raggiunto i suoi ex-compagni, tutti già scomparsi da anni, in qualche punto di un universo in cui ancora la provocazione si accompagna alla rabbia e alla disillusione con esiti tutt’altro che scontati.

Oggi è facile, troppo facile, presentarsi sui palchi finti-rock con atteggiamenti ambigui, reggicalze indossati da uomini truccati e bassiste a seno scoperto, per fingere di rappresentare una “novità” o, peggio ancora, una “provocazione”, ma, che dio ce ne scampi, non sono altro che rifritture di quanto avvenuto sulla scena musicale anglo-americana ad inizio anni Settanta con l’esplodere del fenomeno glam-rock, di cui l’esponente di maggior spicco fu certamente Marc Bolan (1947-1977) e che per David Bowie (1947-2016) avrebbe rappresentato soltanto uno dei momenti di passaggio di una più che camaleontica carriera,

Le date di nascita dei protagonisti sembrano parlare, per i giovani d’oggi, di un’età lontana e di dinosauri e non a caso, forse ancora, lo stesso Marc Bolan, dopo una breve esistenza del suo primo gruppo di ispirazione psichedelica, i John’s Children1 avrebbe raggiunto il successo con un gruppo denominato nella sua prima formazione acustica Tyrannosaurus Rex e successivamente, nella fase elettrica, più semplicemente T.Rex.

Sì, ma che dinosauri e tirannosauri! Come impararono rapidamente gli adolescenti dell’epoca che, per la prima volta, colsero in quelle espressioni, a metà strada tra provocazione e vena intimistica proiettata con forza fuori dal misero sé, con un nuovo e semplificato stile musicale e di abbigliamento transgender, un ulteriore passo verso la liberazione individuale e di genere. Come ha affermato Dick Hebdige, non solo il glam, dai Roxy Music a Bolan, passando per David Bowie:

era apertamente disinteressato sia alle questioni politiche e sociali dell’epoca sia alla vita della working class in genere, ma tutta la sua estetica veniva affermata evitando deliberatamente il mondo “reale” e il linguaggio prosaico in cui quel mondo veniva abitualmente descritto, vissuto e riprodotto. […] Quando si affrontava la “crisi” contemporanea”, ciò accadeva in maniera così indiretta che veniva rappresentata in forma metaforica come un mondo morto di umanoidi, ambiguamente piacevoli e oltraggiosi. […] cionondimeno si dovette [al glam] se furono sollevati per la prima volta problemi di identità sessuale che erano stati precedentemente repressi, ignorati o appena ccennati nel rock e nella cultura giovanile. Nel glam rock, almeno fra quegli artisti che si collocavano, come Bowie e i Roxy Music, all’estremità più sofisticata di quello scintillante spettro, l’enfasi sovversiva si spostò dalla classe e dai giovani sulla sessualità e sulla tipologia sessuale. Benché Bowie fosse ben lontano dalla liberazione intesa nel senso radicale corrente, dando la preferenza al dandysmo e al travestimento – a ciò che Angela Carter ha descritto come “l’ambivalente trionfo dell’oppresso”2 – più che un”autentico” superamento dei ruoli sessuali, egli e per estensione quelli che copiavano il suo stile “misero” effettivamente “in discussione il valore e il significatondell’adolescenza e il passaggio al mondo adulto del lavoro”. E lo fecero in un modo singolare, per mezzo di una confusione arificiosa delle immagini maschili e femminili, tramite le quali si compiva tradizionalmente il passaggio dall’infanzia alla maturità3.

In quel contesto e in quegli anni, però, continuando con la metafora preistorica, i New York Dolls formatisi e cresciuti nella Grande Mela, rappresentarono i velociraptor della scena musicale. Poco romantici e retrò, ma autentici assassini di chitarre e note, con un sound ispirato ai Rolling Stones più selvaggi e ai Velvet Undergroundi, autentici santi patroni dei bassifondi della città4, i Dolls ebbero all’inizio vita difficile.

La facile sistematizzazione “rockettara” li ha spesso inseriti nel genere glam, quello di Bolan, dei T.Rex, Gary Glitter, Roxy Music e, per un periodo come si è detto, anche di Bowie, ma si tratta soltanto di una forzatura. Basta infatti ascoltare anche una sola nota uscente da una delle loro canzono più famose, come Personality Crisis, Vietnamese Baby oppure Frankenstein, per capire che siamo già da un’altra parte, su un altro pianeta: quello del punk.

David Johansen (voce e armonica a bocca, 1950-2025), Johnny Thunders (chitarra e voce, 1952-1991), Sylvain Sylvain ( chitarra, tastiere e voce, 1951-2021), Arthur Harold “Killer Kane” (basso elettrico, 1949-2004) e Jerry Nolan (batteria, 1946-1992), dalla meravigliosa copertina del loro primo album, intitolato semplicemente New York Dolls, già promettevano sfracelli. Cinque potenziali juvenile delinquent travestiti e truccati, con scarpe dai tacchi a spillo, rivolgono uno sguardo minaccioso all’intero ordine macho e perbenista del mondo.

In realtà abiti e trucchi provenivano, almeno per alcuni di loro, dai guardaroba e dalle toilette delle madri, come avrebbero poi confessato in alcune interviste5, ma l’ispirazione e la postura, oltre che dai già citati Rolling Stones, discendeva direttamente da quelle di Iggy Pop e dei suoi scelleratissimi, almeno per i benpensanti e i “brown shoes” di cui già aveva cantato Frank Zappa6, Stooges della Detroit ancora fiammeggiante di rivolte e musica heavy metal7.

Come ci spiega Steven Blush:

Nel 1970 New York era caduta in rovina. Il dissesto economico aveva catapultato ls capitale americana del business e della cultura in un inferno criminale popolato di rapinatori, prostitute, senzatetto, ladri e truffatori. Il braccio violento della Legge e Kojak ne coglievano la ferocia e il degrado, ma non il sovraccarico olfattivo causato da spazzatura, gas di scarico ed escrementi di origine ignota. […] Mentre l’America attraversava lo sfinimento post-Vietnam, il rock dopo la morte di Jimi, Jim e Janis, risentiva dello stress post-Woodstock. Il rock era diventato autentico e introspettivo [e] raggiunse il suo punto più basso con il Concert for Bangladesh di George Harrison che si tenne nell’agosto del 1971 al Garden (il primo evento di beneficenza di una rock star), una faccenda autoreferenziale e mal gestita che intimidì il pubblico e i cui proventi non arrivarono praticamente mai ai bambini affamati. Il “flower power” sembrava già una storia di secoli prima. Erba e acidi cedettero il posto a cocaina, speed ed eroina8.

In quel contesto anche l’adolescenza doveva perdere la sua innocenza, vera o presunta che fosse mai stata. Lo stesso David Johansen avrebbe ricordato in un’intervista rilasciata nel 1997:

Quando si sono formati i Dolls, era il tempo in cui tutti, almeno nell’East Village, prendevano un sacco di acido, ed erano in fissa con questa utopia dell’androgino. E’ stato allora che si è formato il femminismo radicale e il collettivo “Up Against the Wall Motherfuckers” – anche io me la facevo con quella gente. Ci vestivamo sempre in quel modo. Non è che ci siamo riuniti e abbiamo deciso: “Vestiamoci in modo provocatorio” – è stata la cosa che ci ha accomunati tutti fin dall’inizio. […] Certa gente ci molestava, ma finiva inevitabilmente per pentirsene9.

Come i Fugs e i Velvet Underground prima di loro, rappresentavano una nuova specie di rocker newyorkesi. Uno dei primi gruppi a esibirsi nei locali come Max’s Kansas City, Mercer Arts Center, l’Hotel Diplomat, i drag bar dell’East Village e il Mother’ in prossimità del Chelsea Hotel. I cinque mettevano in scena un rock fatto di Off Off Broadway, Rhythm and Blues della vecchia scuola, nichilismo tossico e l’estremizzazione del bad boy travestito da donna. Per l’epoca una miscela potenzialmente esplosiva. E’ ancora una volta Johansen a descrivere quella scena:

Eravamo decisi ad annientare quella sensazione di “gabbia dorata” da rock star. Quando suonavamo la Mercer, il pubblico saltava sul palco e ballava. Volevamo essere diversi perché odiavamo tutti quei fottuti tizi che pensavano di essere migliori di chiunque altro. Per quanto ci riguardava erano solo un branco di idioti10.

Mentre sulle origini effettive della band ci rammenta poi ancora che

St. Marks Place, da ragazzino quella strada era tutta mia. Conoscevo un mucchio di gente, ed erano tutti artisti alternativi. Quello era il vero underground; non era tutto omologato. Quando avevo circa diciassette anni lavoravo in un negozio di cianfrusaglie chiamato Matchless a St. Mars Place: facevano orecchini con lattine di birra. Il proprietario era anche un costumista e scenografo che lavorava con il Ridiculous Theatre. Ho iniziato a lavorare per lui e la paga faceva schifo, ma grazie a lui ho conosciuto tutta qquesta gente del Ridiculous Theatre che frequentava il negozio. All’inizio era una specie di tuttofare del Riculous. Luci, suono […] ho anche scritto delle canzoni per loro. A volte suonavo – male- la chitarra. […] La sera andavamo al Max’s. Nessuno aveva un soldo e lì si potevano mangiare gratis panini e insalata. E’ stato più o meno in quel periodo che ho conosciuto Thunders e gli altri. Un tizio nel mio palazzo conosceva BillyMurcia. Mi aveva detto che c’era una band a cui serviva un cantante. Un giorno qualcuno ha bussato alla mia porta, erano Arthur e Billy. Sono andato a casa di Johnny e ci siamo messi a suonare. La band è nata il giorno stesso11.

Il primo album ufficiale, nonostante esistano un gran quantità di demo session, registrazioni dal vivo e in studio precedenti quella data, uscì nel 1973 con una produzione suddivisa tra Marty Thau, Paul Nelson, Steve Leber e Todd Rundgren, che risulterà essere nelle note di copertina il produttore ufficiale. Ma nonostante questo la vita del gruppo non divenne più facile, come ricordava Sylvain Sylvain, in realtà Sylvain Mizrahi, in un’intervista del 1998.

La gente crede che la cerchia di Warhol abbia accolto i Dolls. In realtà i Velvet Underground erano la vecchia generazione, mentre noi eravamo le nuove leve dei club, e stavamo invadendo il loro territorio. Non erano esattamente accoglienti. Ci sono state delle volte in cui abbiamo suonato al piano superiore del Max’s perché eravamo banditi dal bar al piano terra. Non eravamo ammessi al piano di sotto. Ecco a che punto eravamo arrivati12.

Il secondo album, ed ultimo per la formazione originale, intitolato profeticamente Too Much Too Soon, sarebbe uscito nel 1974 e sarebbe stato necessario attendere trent’anni prima di quello successivo, apparso nel 2004 con una formazione rivisitata a causa dei malumori sorti tra i componenti e la morte sopraggiunta nel frattempo per alcuni di loro. Il produttore del secondo album, George “Shadow” Morton avrebbe spinto ancora di più l’acceleratore su temi e composizioni blues e Rhythm and blues, senza però alterare le linee musicali essenziali del gruppo, anzi finendo col rafforzarle. Certo la cosa strana a dirsi è che questi precursori di ogni efferatezza punk ebbero come produttori, prima, un raffinato ricercatore di suoni perfetti come Todd Rundgren e, successivamente, un ottimo produttore di gruppi degli anni Sessanta come le Shangri-Las o i Vanilla Fudge

Tre anni dopo il loro secondo disco, i Sex Pistols non riuscirono a inventare nulla di musicalmente altrettanto viscerale e pericoloso. Forse è per questo che i Dolls non hanno mai trovato il loro pubblico nei primi anni ’70: non solo erano punk rock prima che il punk rock fosse di moda, ma sono rimasti più indigesti e idiosincratici di qualsiasi altra band che è seguita. Oltre ad avere anche suonato più forte, molto più forte.

Sex Pistols che, spacciati come fondatori del genere punk, altro non fecero che rubare, grazie alla “creatività” del loro produttore Malcom McLaren, ogni riff di chitarra a brani come Looking for a Kiss, Frankenstein, Chatterbox, Jet Boy e il profetico, per tutti quelli che sarebbero arrivati dopo, compresi i Ramones. It’s Too Late, è troppo tardi. Nei fatti, mentre si trovava a New York per una fiera dell’abbigliamento, McLaren incontrò i membri del gruppo e alla fine del 1974 ne assunse la gestione, vestendoli di pelle rossa e usando il simbolo della falce e martello dell’Unione Sovietica nelle loro scenografie e nelle fotografie pubblicitarie. Il concetto non si adattava certo bene all’America, dove il comunismo rimaneva un anatema, ma non ebbe un grande impatto sulla carriera dei Dolls, che erano comunque agli sgoccioli.

Così Malcom tornò al business dell’abbigliamento londinese nel maggio 1975 e usò ciò che aveva imparato con loro per aiutare a mettere insieme i Sex Pistols: ovvero The Great Rock’n’Roll Swindle, la grande truffa del rock’n’roll, come sarebbe stato intitolato il film sugli stessi diretto dal regista Julian Temple e prodotto da Don Boyd e Jeremy Thomas nel 1980.

Ma i Dolls erano già finiti da un pezzo, vuoi per gli abusi di sostanze, vuoi per le inevitabili rivalità sorte all’interno di un gruppo nato senza troppo cura per i ricami artistici e diplomatici. Ancora Johansen ricordava:

Non ho idea di quante copie abbiamo venduto all’epoca, non moltissime. Se eravamo fortunati ci piazzavamo al centoventesimo posto in classifica. Decisamente non eravamo una band per tutti i gusti, non il tipo di cosa da impatto sulle masse. Ci andava bene dove c’era un sacco di ragazzini alienati13.

Ma, oltre allo scarso successo commerciale, ci furono anche altre cause per lo scioglimento del gruppo, come avrebbero raccontato in successione Jerry Nolan, Sylvain Sylvain e lo stesso David Johansen.

Jerry (1977): «David aveva il brutto vizio di dettar legge su cose di cui non sapeva niente. Sceglieva il produttore e si accontentava di un missaggio scadente. Tutte le mosse sbagliate sono imputabili a lui che ha mandato tutto a puttane. I primi due album sono stati massacrati. C’erano delle gran belle canzoni, e avremmo potuto interpretarle alla grande, ma David era un tipo di persona che in studio non voleva rifare due volte lo stesso pezzo. Bastava che lui cantasse bene, non gliene importava un cazzo che gli altri facessero una buona performance.»

Sylvain (1998): «Stavamo a casa della madre di Jerry Nolan e Johansen si sbronzava di brutto. Era un alcolizzato violento. Diceva che non contavamo niente, che lui era il cantante e che poteva andare avanti senza noi a creargli impedimenti e altre stronzate. Praticamente ce l’ha detto una sera dopo cena, e Johnny e Jerry, dopo aver sentito per l’ennesima volta che potevamo essere rimpiazzati, se ne sono andati. Li ho portati io all’aeroporto.»

David (1997): «Non ricordo esattamente la sequenza degli eventi, ma eravamo giù in Florida, in un posto tipo Bates Motel gestito dalla madre di Jerry. C’erano delle vecchie roulotte che fungevano da stanze d’albergo e avremmo dovuto stabilirci lì, per poi andare a suonare dappertutto. La band si è sciolta perché alcuni ragazzi non ce la facevano senza la roba, quindi la situazione era diventata ingestibile. Sai, le grandi rockstar hanno infermieri e galoppini, ma noi non li avevamo. Quei ragazzi volevano essere come Bela Lugosi.»14.

Effettivamente, dopo lo scioglimento dei Dolls, David avrebbe continuato una discreta carriera solista, sospesa tra rock, rhythm’n’blues e blues strapazzato, con qualche cover di gruppi degli anni Sessanta, sia a nome proprio che con quello di Bruce Pointdexter (pseudonimo con il quale rivelerà insospettate doti da crooner e con cui aveva già firmato alcune canzoni dei New York Dolls) oppure in anni più recenti come David Johansen and the Harry Smith, gruppo ispirato al nome di uno dei più importanti musicologi e collezionisti americani che contribuì fin dagli anni Sessanta al rilancio del blues e del country blues degli anni ‘20, ‘30 e ‘40.

Ma dopo la reunion con Arthur Kane e Sylvain Sylvain per The Return of the New York Dolls: Live from Royal Festival Hall, 2004, prodotto da Morrissey, l’esperienza sarebbe ancora continuata con numerosi concerti e almeno altri tre album in studio. One Day It Will Please Us to Remember Even This (2006), soltanto più con Sylvain Sylvain vista la scomparsa di Kane nel 2004, ma con ospiti quali Iggy Popo e Michael Stipe dei REM; ‘Cause I Sez So (2009), ancora una volta con Todd Rundgren alla produzione dopo trentasei anni, e Dancing Backward in High Heels (2011), arricchito da inaspettati arrangiamenti per archi e fiati.

Oggi, con la dipartita di David, si è definitivamente chiusa l’era dei dinosauri androgini, di cui rimarranno solo pallide e insignificanti copie riprodotte in un universo pop privo di storie da raccontare e di genio vero. So long David, so long Dolls…so long rock’n’roll.


  1. Di cui va almeno ricordato l’album Orgasm, registrato nel 1967 prima che Bolan si unisse alla band, ma pubblicato soltanto nel 1970, che aveva anticipato e dilatato all’infinito i sospiri e i gemiti di piacere di Je t’aime… moi non plus di Serge Gainsbourg e Jane Birkin, pubblicato nel 1969.  

  2. A. Carter, The Message in the Spiked Heel, «Spare Rib» 16 settembre 1976.  

  3. D. Hebdige, Sottocultura. Il fascino di uno stile innaturale, Costa &Nolan, Ancona 2000.  

  4. Si veda in proposito, e a solo titolo di esempio, S. Blush, New York Rock. Dalla nascita dei Velvet Underground al declino del CBGB, Goodfellas Srl, Firenze 2016 (ed. originale 2016).  

  5. Si veda il fondamentale: L. McNeil, G. McCain, Plese Kill Me. Il punk nelle parole dei suoi protagonisti, Baldini Castoldi Dalai editore, Milano 2006 (ed. originale 1996)  

  6. Brown Shoes Don’t Make It è il titolo di un brano di Zappa e delle sue Mothers of Invention inciso per la prima volta nell’album Absolutely Free, pubblicato nel 1967, e in cui le infami scarpe allacciate di colore marrone erano indicate come il modo migliore per riconoscere i tutori dell’ordine che cercavano di infiltrarsi nelle manifestazioni e nei movimenti; un po’ come da noi il famigerato “borsello” che avrebbe caratterizzato e fatto riconoscere immediatamente gli agenti della Digos negli anni Settanta.  

  7. La definizione heavy metal era stata utilizzata già molto tempo prima della comparsa delle band che si sarebbero definite come appartenenti allo stesso canone, poiché per la critica musicale statunitense potevano già essere heavy metal sia Jimi Hendrix che i Blue Oyster Cult e le band di Detroit come Stooges, Grand Funk Railroad e molte altre ancora.  

  8. S. Blush, op. cit., pp. 99-101.  

  9. Cit. in S. Blush, op. cit., pp. 100-102.  

  10. D. Johansen in S. Blush, op. cit., p. 119.  

  11. Ivi, pp. 119-122.  

  12. S. Sylvain in S. Blush, op. cit., p. 122.  

  13. D. Johansen, cit. in S. Blush, op. cit. p. 133.  

  14. Tutte e tre le dichiarazioni sono contenute in S. Blush, op. cit., pp. 134-135.  

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Divine Divane Visioni (Novissime) – 86 https://www.carmillaonline.com/2022/07/28/divine-divane-visioni-86/ Thu, 28 Jul 2022 20:00:25 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72777 di Dziga Cacace 

Signori, è stato un onore suonare con voi.

1951 – Una squadra di Domenico Procacci, Italia 2022 Un lavoro eccezionale. E l’ho capito dopo 2 secondi con i New Trolls in colonna sonora. Un documentario bellissimo, montato da dio, con una storia e dei personaggi clamorosi che se uno sceneggiatore li pensasse a questa maniera, con quel modo e quelle storie, gli si direbbe: troppo comodo, non ci crederà nessuno. E invece Adriano, Corrado, Paolo e Tonino erano veramente così, dei ragazzi formidabili, belli, simpatici, [...]]]> di Dziga Cacace 

Signori, è stato un onore suonare con voi.

1951 – Una squadra di Domenico Procacci, Italia 2022
Un lavoro eccezionale. E l’ho capito dopo 2 secondi con i New Trolls in colonna sonora. Un documentario bellissimo, montato da dio, con una storia e dei personaggi clamorosi che se uno sceneggiatore li pensasse a questa maniera, con quel modo e quelle storie, gli si direbbe: troppo comodo, non ci crederà nessuno. E invece Adriano, Corrado, Paolo e Tonino erano veramente così, dei ragazzi formidabili, belli, simpatici, sornioni e guasconi. Ragazzi semplici, determinati ma leggeri (Panatta e Bertolucci, coppia comica insuperabile) e sempre coscienziosi (Barazzutti e Zugarelli), un mix di caratteri e stili di gioco che per una decina d’anni diede all’Italia la nostra miglior squadra di sempre in Davis, con quattro finali raggiunte, purtroppo sempre giocate all’estero. E lo stile e la leggerezza sono sintetizzati nella sigla della serie quando per un attimo si vedono Panatta e Bertolucci scendere a rete con lo stesso movimento sincrono, danzando sulla terra rossa. Ma questo non è solo il racconto di un sodalizio di quattro moschettieri (e di un capitano non giocatore, Nicola Pietrangeli, complice e antagonista, in bilico tra carisma e rosicamento): è anche il racconto dell’Italia che tifava per loro, “l’Italia con le bandiere, l’Italia nuda come sempre”, ancora con l’ingenuità e la povertà addosso del dopoguerra ma la voglia di emanciparsi, di divertirsi, di sentirsi protagonista. È anche il racconto di uno sport che da elitario diventa popolare, raccontato da una tivù che era testimone partecipe di quell’affermazione: a rivedere Bongiorno, Baudo, Minà, Galeazzi e altri ancora affiora la commozione dei miei dieci anni. Erano belli pure loro, vien da pensare, o forse erano tempi non migliori ma con un senso di speranza, ecco. La costruzione è curiosa: non è rispettato l’ordine cronologico ma si salta avanti e indietro nel tempo, costruendo ritratti, episodi, schede, rivedendo facce incredibili come quelle di Ion Tiriac, Bjorn Borg, Vitas Gerulaitis, Ivan Lendl, John McEnroe, in un circuito sportivo dove prevaleva la voglia di giocare a quella di guadagnare, dove era tutto ancora un po’ improvvisato, un professionismo light. E in quest’epoca tennistica ancora naif ecco la generazione di talenti italiani che aveva saputo vincere una Coppa Davis insidiosissima alla faccia dei fascisti ma anche di chi non voleva che si andasse a giocare in Cile. E invece quello fu uno smacco per Pinochet e gli altri merdosi di contorno. Ad ogni modo: grandioso il lavoro di ricerca su foto, giornali e contributi tivù: bravo Procacci, well done indeed. (Sky, maggio e giugno 2022)

1953 – Amazing Grace di Alan Elliott e Sidney Pollack, USA 2018
Girato nel 1972 da Sidney Pollack e rimasto negli archivi a causa di grossi problemi di sincronizzazione, realizzato dopo mille vicissitudini (e anche l’opposizione di Aretha) Amazing Grace è la documentazione delle registrazioni che portarono allo splendido album che porta lo stesso titolo del film. È un documentario all’antica, senza pensare a un pubblico ma semplicemente documentando un evento. Nessuna intervista contemporanea a restituire il contesto, nessun vero backstage dell’epoca, nessuna menata autoriale. Solo le riprese di due serate nella New Temple Missionary Baptist Church di Los Angeles col supporto del Southern California Community Choir e del pubblico accorso. Aretha torna alle sue origini e regala una performance da pelle d’oca ma partecipano, cantano, battono le mani, esultano, piangono tutti, in un delirio mistico e terreno gioiosissimo. La musica (con Cornell Dupree alla chitarra e Bernard Purdie alla batteria) è eccezionale e la regia investiga volti puri e puliti, mani, abbigliamenti, acconciature e cattura l’orgoglio e la speranza di un popolo. Sidney Pollack (oggi solamente ringraziato nei credits) era reduce da Corvo Rosso non avrai il mio scalpo e non portò a compimento l’opera, le riprese sono talvolta frettolose, la fotografia non è perfetta, un po’ sgranata, e forse al di là della capacità registica (impacciata, non troppo meditata) si coglie l’emozione grandissima dell’evento in un crescendo incredibile. A un certo punto della seconda serata appaiono Mick Jagger e Charlie Watts ma il momento più commovente è quando arriva il padre di Aretha, il reverendo Franklin. Aretha va ad accoglierlo e quando lui si siede si preoccupa di spolverargli i pantaloni stirati con un gesto intimo e affettuosissimo che mi ha ricordato Novecento quando la madre di Olmo – al suo ritorno dalla prima guerra mondiale – gli toglie, muta, la pula dalla giacca militare. E mi sono spezzato, ecco. Amazing Grace è un documentario lontano dalla grammatica attuale, dalla pulizia e precisione delle produzioni ultime (ormai in serie, senza sorprese, senz’anima) ma è un contenitore di emozioni e per quanto senza una storia, senza background, senza una voce guida riesce a raccontare tantissimo di un’epoca, di un’artista e di un popolo. Dimmi niente. (Sky, maggio e giugno 2022)

1954 – L’età dell’innocenza di Enrico Maisto, Italia 2021
Quarto film di Enrico Maisto che in un percorso di avvicinamento ai genitori cominciato con Comandante (Felice, l’ex militante di Lotta Continua protagonista, era amico del padre magistrato) e proseguito con La convocazione (la madre era giudice del processo di appello per la strage di Brescia). Ora c’è il nodo più doloroso e difficile da affrontare: il rapporto coi genitori, l’educazione sentimentale e il diventare adulti. L’età dell’innocenza di Scorsese era quella di un popolo, qui è di un autore che sa essere spudorato ma sempre ironico, senza mai diventare compiaciuto o personalistico, destreggiandosi con un equilibrio straordinario in una forma documentaria che diventa narrativa col valore autentico della realtà ripresa dalla telecamera. C’è un procedere per vignette molto morettiano, che ricorda Ecce bombo o Io sono un autarchico, ma qui è tutto vero anche se organizzato come una storia preordinata. Il film – prodotto grazie a Rai, Wanted e RTSI e vincitore come miglior documentario al Festival dei popoli 2021 – ha un incipit in voce off che dà già la chiave dell’incomunicabilità tra figlio e genitori: loro sono anziani, sono stati giudici – nel lavoro e forse nella vita – ed Enrico è stato un figlio unico. Attraverso una costruzione per aggiunte, evocativa, intensa, commovente, si arriva a una risoluzione liberatoria e gratificante: il figlio diventa adulto scalando assieme alla compagna quel vulcano che gli ha sempre fatto paura. Il film è un saggio di come il cinema sia strumento autoanalitico che dal personale diventa universale, è una storia di tutti seppure intima. C’è una delicatezza estrema e lo spettatore mette assieme i tanti pezzi, gli indizi nascosti delle tante assonanze che uniscono i genitori ai figli. Molto molto bello. (Cinema Beltrade, Milano, 25/5/22)

1955 – SuperNature di Ricky Gervais, Gran Bretagna 2022
Il nuovo spettacolo di Ricky Gervais punta subito sul tema attuale più dibattuto e anche più facilone: l’assunto – molto discutibile, perlomeno in Italia – è che viviamo in un’epoca in cui moralismi vari, etichette e woke assortiti stanno facendo perdere il senso della misura. Ricky dà subito le regole (cioè nessuna regola se non che quello che dice faccia ridere), ricorda che è un comico e che riveste un ruolo e poi spara a zero su tutto. O perlomeno, sembra che abbia una predilezione, ovviamente, proprio per gli argomenti più scottanti, irriverenti e – di questi tempi, secondo alcuni – intoccabili, tipo parlare di categorie di genere come le persone trans. Ecco, ma fa ridere? Così cosà. Anzi, per rimanere nel canone gervaisiano che sottolinea quanto la comicità sia soggettiva: a me fa ridere così e cosà. Lui è trascinante, ride come un pazzo di quello che dice, sa di spararla grossa e se la gode. Uno dei leit motiv è: Netflix dovrà tagliare ‘sto pezzo perché questo non si potrebbe dire etc. Ma poi ci ricorda anche (di nuovo tante volte) che è ricco, lo spettacolo è già pagato e lui fa un po’ il cazzo che vuole. E il pezzo – a dimostrazione che si può parlare eccome di qualunque cosa si voglia – non è mai tagliato. Ovviamente lui lo dice con una furbizia sopraffina, nessuno potrebbe credere che sia una prepotenza da ricchissimo bianco etero (cioè l’1%, una minoranza, come ironicamente sottolinea). E si mette sempre tra i presi in giro, non giudica, non moralizza e onestamente chiede non ci siano moralizzatori anche per il suo spettacolo. Mi sembra un atteggiamento giusto e condivisibile, anche perché non son parole dette a caso. L’unico pericolo sono semmai gli epigoni di Gervais che prendono lo spettacolo e il mestiere per un salvacondotto a dire la qualunque ma senza elaborazione. Ecco, e qui c’è un po’ l’inghippo, a parer mio ovviamente opinabile: l’intelligenza di Ricky gli consente di dire pressoché tutto ma talvolta si sente una nota stonata, il voler affrontare programmaticamente l’indicibile ma senza aver alcunché realmente di interessante o soprattutto divertente da tirare fuori. C’è una tirata sull’AIDS che non riesce (a me, di nuovo) a prendermi. O quando Gervais affronta la pedofilia. O quando insiste sulle persone trans con una superficialità volutamente brutale ma che sfocia giocoforza in battute da caserma. Però, ribadisco, è talmente bravo, è un interprete talmente partecipe, ha una mimica così perfetta che segui l’oretta di spettacolo sempre col sorriso sulle labbra, qualche volta anche come atto di fede, ecco. Per cui spettacolo piacevole ma un po’ fragile. Ovviamente lo attaccheranno dando un peso non meritato alle sciocchezze dette (ce ne sono) e lui se ne sbatterà allegramente il cazzo. Tanto è ricco. (Netflix, 27/5/22)

1956 – Lunana: il villaggio alla fine del mondo di Pawo Choyning Dorji, Bhutan 2019
Chissà se mai vedrò un altro film del Bhutan. Che poi dici Bhutan e subito pensi a Mike Bongiorno alla Ruota della fortuna che chiede se sia il paese “da dove sono origine le bhutane” (cit.). Beh, fatto sta che individuo il film in un cinema parrocchiale e impongo la visione a Barbara e a Elena che ancora subisce i diktat familiari. Ricordavo buone recensioni, premi internazionali e l’inserimento tra i titoli concorrenti all’Oscar per il film straniero quest’anno. E ci va bene perché Lunana è un film delicato, rigoroso, per nulla furbo. Ugyen è un giovane insegnante che non ama il suo lavoro e sogna di emigrare in Australia per fare il cantautore. I suoi dirigenti la pensano diversamente e lo spediscono nella scuola più remota al mondo, a 8 giorni di cammino dalla capitale Timphu, a 5000 metri d’altitudine. Il ragazzo, scocciato assai, arriva nel paesino e viene accolto da una comunità di contadini che vive con nulla. L’aula dove dovrebbe insegnare è senza lavagna, non c’è carta (preziosissima), niente quaderni, colori, libri. Chiaramente anche elettricità (e Ugyen deve rinunciare ad ascoltare il suo iPod). I bambini del villaggio, guidati dalla straordinaria Pen Zam, sono ansiosi di imparare e nasce un rapporto intenso che porta il protagonista riluttante a rivedere le sue priorità. Il ragazzino di città, un po’ viziato (secondo i loro canoni, eh) e sempre con le cuffie in testa impara un modo nuovo di relazionarsi con il creato tutto, insegnando il futuro a questi bambini splendidi. Ma arriva l’inverno e un visto per l’Australia e bisogna fare delle scelte. Tutto molto canonico ma il film riesce a intenerire, ad ammaliare con gli sguardi, con la semplicità di una vita remota, fuori dal (nostro) tempo e forse realmente felice come il Bhutan vanta da 50 anni. Lunana riesce a non essere retorico ma pulito, onesto, sincero. Gli attori (quelli del villaggio tutti non professionisti) sono bravi e ben diretti e i paesaggi imponenti e austeri sono fotografati senza furbate cartolinesche estetizzanti e musiche roboanti. Insomma, siamo soddisfatti. Io penso al mio Bhutan a Champoluc e riesco anche a tollerare due signore sedute dietro di noi che pensano che il cinema sia un posto dove andare a chiacchierare (oltretutto parlando di un viaggio da fare con uno che avrebbe il difetto di parlare tanto, lui, non loro…). E vabbeh: Lunana mi prende e dimentico le babbee sognando la felicità bhutanese e l’armonia con l’universo. Bel film. (Cinema Orizzonte, Milano, 28/5/22)

1957 – Metal Lords di Peter Sollett, USA 2022
Un teen drama abbastanza prevedibile e che stavo per mollare dopo una prima mezz’ora decisamente sgraziata. Poi pian piano il film prende quota, la trama (scritta da D.B.Weiss, una delle teste dietro Game of Thrones) è ben congegnata e io concludo la visione con un sorriso ebete sulle labbra. Eh sì, perché a me i film sull’adolescenza, sulla presa di coscienza entrando nel mondo adulto e sulla ricerca di un proprio ruolo, beh, in qualche maniera colpiscono sempre. Mi sembra un mondo emotivo che viene troppo spesso evitato pensando che gli unici possibili fruitori siano i coetanei di chi è messo in scena, ma questi non hanno fatto i conti col Cacace eterno Trofimov, eh. Qui abbiamo il metallaro marcio Hunter, orfano di madre e con padre ricco e anafettivo, che attraverso la musica cerca una sua affermazione, una considerazione sociale (e poi fama, ragazze etc.). Si accompagna all’improbabile batterista Kevin, bravo ragazzo e tamburino nella banda scolastica, che prova a convertire al credo metal più estremo. L’incontro di Kevin con una violoncellista drop out scatenerà confronti, gelosie e infine un’improbabile soluzione musicale e affettiva che vedrà i nostri protagonisti crescere e cambiare. Insomma, niente che non abbiamo già visto in ogni coming of age movie ma la scelta della musica metal dà un sapore interessante alla vicenda e, seppure tagliando tutto con l’accetta, del mondo dell’heavy metal vengono colte diverse cose azzeccate. La musica come forma di opposizione al mondo là fuori, la fuga, il piano fantastico che consente di trascendere la realtà orrenda che ci circonda. Sembra banale ma se uscite dai vostri schemi mentali (talvolta ricalcati in modo uguale e contrario dagli esagitati che pretendono di poter definire cosa sia il VERO metal), beh, il metal è una delle musiche più libere, libertarie e inclusive che esistano. Musica talvolta fracassona (e quale non lo è, e non parlo di volume), sicuramente escapista ma anche onestamente antagonista e capace di esprimere una angoscia sincera. Poi, certo, c’è il mercato, le baracconate, i costumi, i cliché, ma niente che non avvenga anche in tutti gli altri generi della musica popolare contemporanea però spesso senza l’anima e l’integrità che l’heavy metal ha maturato nel tempo. E nei barlumi di intimità e di onestà che vengono fuori nella seconda parte del film io vedo tantissimo metal, ecco, e non credo che la scelta di questo genere sia stata soltanto perché dà colore e perché ha in fondo un immaginario riconoscibile e viene subito compresa come classica musica oppositiva. No, c’è una comprensione molto consapevole. Vabbeh, non sto a menare più il torrone: cercatevi L’estetica del metallaro di Luca Signorelli e capirete meglio quanto vo dicendo confusamente. Alla fine piccolo film gradevole. (Netflix, 30/5/22)

1958 – Reservation Dogs di Taika Waititi e Sterlin Harjo, USA 2021
Quattro ragazzini di origine indiana in una riserva dell’Oklahoma. Pomeriggi indolenti, ricerca di un senso esistenziale e la decisione di dare una svolta alla propria vita fuggendo in California. Serie assolutamente originale, con cast e crew totalmente composti da nativi, conquista per lo stile scanzonato ma anche linguisticamente innovativo e dopo 5 minuti adori questi adorabili misfits delle pianure e ti sembrano gli unici americani per cui tenere in questo momento. Sotto traccia ma evidente c’è un orgoglio e una rivendicazione nei confronti dell’uomo bianco e del sistema capitalistico che ha fottuto tutto, il rapporto con la natura, con l’alimentazione, con la società, un modo discreto e intelligente per porre una critica alla realtà esistente, ma senza piagnistei o slogan a buon mercato. È tutto, ai miei occhi ingenui, molto… indiano. Sì, perché poi c’è sicuramente del razzismo mio inconscio nel liricizzare tutto, nel considerarli tutti belli e buoni perché vittime. Però, fuck yeah, che delicatezza, che leggerezza, che saggezza. Ogni tanto una sorpresa, finalmente. Bravi tutti, a partire da Taika Waititi – produttore – che evita sempre il predicatorio e il sentiero già battuto e sa mettere a frutto le possibilità che cerca e trova. Caruccio! (Disney+, giugno 2022)

1960 – Lightyear – La vera storia di Buzz di Angus MacLane, USA 2022
Da grande appassionato della saga di Toy Story arrivata ad apparente conclusione col magnifico quarto capitolo, avevo qualche dubbio su questo Lightyear, visto anche il tenore qualitativo calante delle ultime uscite della Pixar. Poi il caldo e la temperatura rilevata in casa (29°) mi hanno convinto che fosse il caso di andare al cinema a prendermi un bell’accidente sotto un getto di aria condizionata gelida. Dunque: Lightyear è una derivazione curiosa, sarebbe il film che nel 1995 avrebbe convinto Andy a farsi regalare il giocattolo dell’esploratore spaziale che sarebbe diventato rivale del cowboy Woody nel primo Toy Story. Con questa premessa siamo su tutt’altro piano, insomma, cosa che giustifica anche l’adozione di un diverso segno grafico (peraltro clamoroso dal punto di vista tecnico, fotograficamente e scenograficamente). Ma in sala nessun genitore sembra sapere di questa deviazione narrativa e in effetti la distanza dalla grazia e dall’accessibilità dei vari Toy Story è siderale. Dopo una prima parte claudicante il film mette il turbo e accumula azione su azione, risultando alla fine anche passabile, proprio perché accumula e distrae. Ma non c’è mai magia, incantamento, poesia: la morale molto blanda è che l’unione faccia la forza, che l’individualismo non paghi e che è possibile anche sbagliarsi perché dagli errori si impara. Nessuno mette in dubbio la bontà dei messaggi ma manca un’epica che dia forza a queste semplici asserzioni. E anche una partecipazione: qui il massimo del coinvolgimento è riconoscere qualche citazione o vedere la riproposizione dell’immaginario degli anni Ottanta (soprattutto Guerre stellari). Una SF non troppo high tech, un po’ cicciotta e rugginosa che si trovava – per esempio – anche in tanto fumetto argentino (Juan Gimenez è il primo che mi viene in mente). Perlomeno questo ricordo io. La sala è zeppa di bambini che durante la proiezione sono stati spaventati o annoiati da un film che sostanzialmente è un’avventura fantascientifica che alterna momenti di tensione e altri più leggeri (affidati per lo più a un gatto robot) ma che non si direbbe un film per l’infanzia in senso stretto. I vari Toy Story avevano la grande ricchezza di poter essere affrontati a diversi livelli (seppure la tensione sia sempre stato un elemento presente), qui il mish mash non è riuscito, con i sapori che non si amalgamano e alla fine Lightyear è al massimo un divertissement per gli adulti e qualcosa di troppo complicato per i piccini, all’insegna generale di un po’ di noia. Trama: l’esplorazione di un pianeta alieno inospitale costringe alla fuga Buzz Lightyear e altri due Space Ranger ma a causa di un suo errore di manovra lui e tantissimi compagni in ibernazione e poi scongelati diventano naufraghi spaziali. Il protagonista prova invano con voli a velocità relativistica a cercare il modo di scappare ma ad ogni volo da 4 minuti passano 4 anni sul pianeta. Per cui Buzz non invecchia ma quelli intorno a lui sì, visto che s’incaponisce a provare e riprovare. Questa prima parte è abbastanza amorfa, vorrebbe sintetizzare poeticamente gli anni che passano e invece risulta molto fredda. Il film acquisisce un po’ di ritmo quando Buzz trova un modo per risolvere i problemi di una comunità che in realtà s’è adattata e s’è fatta una vita e da lì scaturiscono nuove avventure, dubbi, scoperte e nemici. Si arriva all’ora e mezza canonica, ti passa, ma rimane l’insoddisfazione per un prodotto senza vera necessità se non vendere pupazzi e astronavi. Alcuni hanno criticato il cencellismo politicamente corretto che vede personaggi di diverse etnie e (pensa!) addirittura un castissimo bacio omosessuale. Il fatto che si notino con fastidio queste scelte dimostra quanto sia ancora dura digerire che non sempre i protagonisti siano uomini bianchi etero e che non si arrivi a capire che, cinicamente, non solo sta cambiando la testa della gente ma anche dei consumatori. Tirando le somme, meglio così, finché certe scelte non vanno a inficiare la qualità del film. Che ripeto, è un MEH senza entusiasmo, ma non per questi motivi. (Cinema Anteo CityLife, Milano, 18/6/22)

1961 – Occhiali neri di Dario Argento, Italia/Francia 2022
Flop micidiale, maltrattato dalla critica e irriso da molti appassionati del genere, l’ho visto pregustando un fetecchione di cui sghignazzare e invece, beh beh beh. Oddio: ci sono attori con l’espressività di un cactus, serviti pure male da un copione che sembra scritto per luoghi comuni e frasi fatte; il plot poi è di una semplicità quasi commovente. Dopo Nonhosonno del 2001 io Argento lo avevo evitato con cura ma se potete sorvolare su un finale realmente cagnesco e sulle cose di cui a lui non è mai fregato nulla (per esempio proprio la recitazione) e invece vi piace quel suo cinema quasi infantile negli snodi e sviluppi, se apprezzate ancora la fotografia vivida col grandangolo sparato, i primissimi piani frontali, la natura ostile, la città metafisica e vuota e la musica che aggiorna il modello dei Goblin con iniezioni di elettronica, beh, allora questo Occhiali neri non è proprio proprio malaccio. Oddio: è un film fuori dal tempo, sì, non ci piove, ma fare gli indignati ora quando Argento già perdeva colpi dalla fine degli anni Ottanta mi sembra ingeneroso. Io qui vedo la zampata del vecchio leone, debole, scomposta, ma non posso che volergli bene, anche e soprattutto se per dare un brivido in più mette una fumettistica Tigre di Martini in un ruscello nel bosco vicino a Formello (nella fattispecie dei serpenti!). (A chi sa cosa sia una Tigre di Martini offro una birra). La protagonista principale, Ilenia Pastorelli, mi è sembrata pure brava e nel cast c’è anche la mia vecchia conoscenza Asia Argento (vedi alla recensione 582 qui). Insomma, dài: per me è un 6 stiracchiato ma lo do con affetto. (Prime, 25/6/22)

1962 – Midsommar – Il villaggio dei dannati di Ari Aster, USA/Svezia 2019
La protagonista Dani è reduce dalla morte dei genitori e della sorella suicida e il suo ragazzo, Christian – spalleggiato dai suo amici studenti di antropologia – la evita. Un viaggio tutti assieme in Svezia per assistere a una cerimonia folkloristica pagana sembra il modo per ricomporre i cocci della relazione, per trovare una semplicità, una purezza, per pulirsi dalle tossine della società urbana occidentale. Appena inizia il soggiorno in un bucolico villaggio svedese fuori dal tempo, ho pensato: ma è The Wicker Man (vedi rece 460, qui)! E questa consapevolezza mi ha tolto un po’ del divertimento. L’aggiornamento è elaborato (mascolinità tossica, presunzione nordamericana, cristianesimo prepotente e ipocrita) e servito in una veste registica sontuosa, con scenografie e fotografia clamorose. Bravi anche gli attori ad assecondare un clima paradossalmente sereno e allucinato e sempre più allarmante. Il film è lunghetto ma devo dire che regge bene, non riesci a mollarlo: la costruzione alterna scene più elaborate ad altre veloci e la corsa verso l’epilogo è inesorabile e non puoi che condividere il sorrisetto soddisfatto con cui si conclude la vicenda. Alla fine sono contentone e ho pure fatto un mezzo pensiero a darmi a un orgiastico ritorno neopagano in mezzo a bionde svedesotte, l’estate prossima. Forse non trovo Midsommar così magnifico come avevo letto, nel senso che è quasi lezioso nella magnificenza della messa in scena, però, ecco, senti lo stacco con un film come Occhiali neri, lo ammetto. (Prime, 26/6/22)

1964 – Most Beautiful Island di Ana Asensio, 2017
Film indipendente firmato dall’attrice protagonista, una sorta di horror realistico perché la realtà per una immigrata senza documenti negli Stati Uniti è terrore puro, sempre. Certo, io poi sono uno spettatore plagiato in partenza: mi ha sempre messo angoscia vedere la vita di tutti i giorni per le strade di New York, sia nei film sia quando ci sono passato tra 2001 e 2019, come se immaginassi già che quella immensa fornace risparmierà qualcuno che fungerà da trabocchetto per la trappola del Grande Sogno Americano in cui cadranno e bruceranno, prima o poi, tutti gli altri. Luciana è nella Grande Mela, a Manhattan, nell’“isola più bella”, per qualche casino combinato a Barcellona, dove non vuole tornare. Non ha un dollaro bucato e non sa come fare per tirare avanti. Accetta un lavoro propostole da una immigrata russa con cui ha fatto volantinaggio per strada: 2000 dollari e nessuna domanda. Si trova così invischiata in un gioco pericolosissimo per lo spasso di una manica di ricchi stronzi che scommettono sulle vite di alcune belle ragazze. E se prima l’orrore era quello della nuda esistenza combattendo la povertà in una società che nella povertà vede uno stigma e una colpa, adesso l’orrore è reale e ci si gioca la vita in pochi minuti sollazzando gente annoiata. Il film inquieta e poi fa venire il classico spaghetto con una scena nel prefinale da angoscia autentica, con te che ti contorci sul divano, ti tormenti le mani e provi a distogliere lo sguardo da quell’insostenibile televisore. Beh, ottimo, purtroppo. Cinematografia secca, veloce, essenziale per un film ben accolto ovunque e in effetti di valore alto: tiene sulla corda senza annacquare il proprio messaggio politico. Niente niente male. (1/7/22)

1966 – 2022: I sopravvissuti di Richard Fleischer, USA 1973
Soylent Green, rivisto in originale, è un solido film di fantascienza apocalittica del 1973 che data al 2022 il collasso della terra e del sistema. Direi che 50 anni dopo il genere da fantascientifico è diventato realistico e la situazione che si prospetta in pellicola s’è praticamente realizzata: nel film fa un caldo fottuto (30°, vabbeh: MAGARI!), i ricchi sono ricchissimi e godono ancora di carne, acqua e verdure fresche e gli altri poveracci sopravvivono per strada (vedi Los Angeles e San Francisco come son ridotte adesso, per dire) e si cibano di alimentari confezionati artificiali o sintetizzati. La trama vede il poliziotto Thorn (l’aitante Charlton Heston che sembra un Francesco Totti spigoloso) indagare sulla morte di tal Simonson, uno dei dirigenti della Soylent, l’azienda monopolista che produce cibo ridotto in gallette e liquidi. Thorn capisce che il suo assassinio è stato commissionato per eliminare un testimone scomodo di quanto stia accadendo e la sua investigazione va di pari passo all’uccisione di altri che sanno troppo. Il film è intrigante, clamorosamente azzeccato e tutto sommato tiene bene quanto ad azione e belle sequenze. Vale più per le cose che dice, però, che per la cinematografia in sé e, anche se mi ha mandato a letto con una certa inquietudine, ha meritato il mio tempo. All’epoca godette di alterna fortuna critica ma – thanks to Wikipedia – è da notare il giudizio sprezzante della recensora che si alternava con Pauline Kael sulle pagine del New Yorker, Penelope Gilliatt, che reagì scrivendo che in quella situazione ci sarebbe stata una reazione popolare e sarebbe bastato andare a votare per evitare il collasso della società. Vivesse oggi questa tizia prenderebbe la cittadinanza italiana solo per votare Italia Viva, viste le tante castronerie scritte in una sola recensione. E vabbeh. Film profetico, ad ogni modo, e allarmante. Ma vedrete che se votate come diceva la Gilliatt si risolve tutto, eh! (2/7/22)

1970 – La mala di Chiara Battistini e Paolo Bernardelli, Italia 2022
Molto molto riuscito. Il racconto degli anni Settanta a Milano, con la città fulcro prima della mala delle rapine e delle bische, poi dei sequestri e infine della grande malavita organizzata e delle mafie. Il ritratto è ricco, con belle testimonianze e interventi sia dei protagonisti – guardie e ladri – sia di magistrati, amici, giornalisti e avvocati. Il montaggio è ben gestito, con gran ritmo, musiche scelte con gusto e grafiche azzeccate. Si è travolti da tante informazioni, forse fin troppe, ma viene fuori il sentimento di un’epoca, di un altro mondo, e vengono meno anche certi racconti un po’ idealizzati di una mala romantica: questi erano delinquenti veri e assassini, magari con un loro codice d’onore e sicuramente un’umanità che viene fuori dalle interviste molto intense, ma di fronte alla riga di ammazzamenti raccontati, vendette incrociate e regolamenti di conti, per dire, ecco che il bel René – Vallanzasca, protagonista assoluto – sembra meno simpatico e guascone di quanto ci avesse raccontato Carlo Bonini ne Il fiore del male. Ad ogni modo: serie documentaria monumentale, bravissimi gli autori Battistini e Bernardelli, complimenti. (Luglio 2022, Sky)

(Fine – 86)

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“…Tre cose belle ha il mondo”: Love, Death & Robots. https://www.carmillaonline.com/2021/06/19/tre-cose-belle-ha-il-mondo-love-death-robots/ Fri, 18 Jun 2021 22:01:10 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=66778 di Walter Catalano

Un piccolo miracolo dell’animazione e della fantascienza è stato da poco compiuto su Netflix.

Le premesse risalgono ad un vecchio classico del 1981, diretto da Gerard Potterton e prodotto dall’Ivan Reitman di Ghostbusters: il film d’animazione a episodi Heavy Metal, ispirato ai comics fantascientifici della versione americana della rivista francese Metal Hurlant. Il lungometraggio, fortunatissimo e scandito da una delle, all’epoca, più elettrizzanti soundtrack possibili in tema – spaziante dai Devo ai Blue Öyster Cult, dai Cheap Trick, ai Black Sabbath, ai Grand Funk Railroad [...]]]> di Walter Catalano

Un piccolo miracolo dell’animazione e della fantascienza è stato da poco compiuto su Netflix.

Le premesse risalgono ad un vecchio classico del 1981, diretto da Gerard Potterton e prodotto dall’Ivan Reitman di Ghostbusters: il film d’animazione a episodi Heavy Metal, ispirato ai comics fantascientifici della versione americana della rivista francese Metal Hurlant. Il lungometraggio, fortunatissimo e scandito da una delle, all’epoca, più elettrizzanti soundtrack possibili in tema – spaziante dai Devo ai Blue Öyster Cult, dai Cheap Trick, ai Black Sabbath, ai Grand Funk Railroad – ebbe, mai dimenticato quasi due decenni dopo, un meno riuscito e meno fortunato seguito, Heavy Metal 2000 – almeno la colonna sonora restava notevole comprendendo Voivod, Pantera, Bauhaus e affini – che però aveva offuscato l’immagine ancora vivida del predecessore, lasciando un po’ d’amaro in bocca  ai fan e molta voglia di un remake degno.

L’idea solleticava da anni la fertile mente di David Fincher, regista di video di gruppi appropriati come Aerosmith e Nine Inch Nails, passato poi al cinema con il terzo episodio della saga di Alien e il fortunato noir Seven, consacrato nel 1999 da Fight Club, adattamento dell’omonimo romanzo di Chuck Palahniuk, e confermato autore interessante soprattutto da film personali e provocatori come Zodiac (2007), ispirato alla vera storia del Killer dello Zodiaco, e  L’amore bugiardo – Gone Girl (2014), dal best-seller di Gillian Flynn. A lui si era poi affiancato Tim Miller, regista e sceneggiatore proveniente da un cinema più leggero e disimpegnato come quello dei Marvel Comics con Deadpool (2016) o della saga di Terminator, con l’ultimo episodio Dark Fate (2019). Il progetto, supervisionato da un’esperta di animazione, la Jennifer Yuh Nelson di Kung Fu Panda 2 e 3, e prodotto e distribuito da Netflix, si è trasformato nel 2019 nell’ottima serie, già giunta al momento attuale alla seconda stagione, che prende il titolo di Love, Death & Robots.

Il piccolo miracolo di cui si diceva all’inizio consiste nell’aver saputo – come già fu per l’illustre antecedente – coniugare perizia tecnica, innovazione visuale e consistenza tematica in un percorso grafico attraverso numerosi classici della short-story fantascientifica, spazianti dall’avventuroso-action al riflessivo-sociologico, dallo splatter all’erotico. La serie sa cogliere perfettamente quella dimensione del testo breve e brevissimo che è una piacevole consuetudine della migliore tradizione fantastica, in cui il racconto – esauribile in una singola seduta di lettura – emerge, da Poe in poi, assai maggiormente del romanzo, come espressione più tipica e meglio realizzata del weird&eerie, del sense of wonder, della sospensione dell’incredulità necessaria perché il meccanismo fantastico e speculativo funzioni davvero. L’efficacia di questa formula è confermata da altre recenti e riuscitissime serie antologiche di film a episodi tenute insieme da una coerenza di carattere tematico, come Black Mirror, letterario come Philip K. Dick’s Electric Dreams, o atmosferico-scenografico come Tales from the Loop.

Gli episodi di Love, Death & Robots, dalla durata variabile compresa fra un minimo di sei minuti e un massimo di una ventina, spaziano oltre che attraverso le diverse declinazioni tematiche della fantascienza, anche attraverso tutte le possibilità dell’immaginario visuale dei comics e dei cartoni animati. Dal disegno caricaturale e umoristico, a quello astratto e stilizzato, fino al realistico e all’iperrealistico del live-action, derivato dal full motion video tipico di molti videogiochi, che utilizza foto di attori reali per trasformarle in disegni in movimento. I risultati sono piacevolmente variegati ed efficaci.

I diciotto cortometraggi della prima stagione più gli altri otto della seconda attingono ai testi dei più significativi autori, classici e recenti, della fantascienza angloamericana. Fanno decisamente la parte del leone con numerose short-stories i più prolifici e famosi John Scalzi e Joe R. Lansdale, ma si piazzano bene anche i britannici Alastair Reynolds, autore di Hard SF e di Space opera, e il sodale, anche lui britannico e space operistico, Peter F. Hamilton, il sino-americano Ken Liu, l’ex cyberpunk statunitense Michael Swanwick, l’italo-americano premio Locus e Nebula Paolo Bacigalupi. Si segnalano storie che spaziano dall’umoristico-elegiaco (Three Robots), al surreal-demenziale (When the Yogurt Took Over), al cyberpunk (The Witness), alla parabola femminista più o meno scontata (Sonnie’s Edge o Good Hunting), all’ucronia (Alternate Histories o The Secret War), all’horror erotico (Beyond the Aquila Rift), al dark-fairy-tale natalizio (All Through the House), al SF noir in stile Blade Runner (Pop Squad).

Fra i classici non si staglia particolarmente Harlan Ellison con Life Hutch, racconto del 1956 – come spesso Ellison, piuttosto sadico e iperviolento – su un prevedibile malfunzionamento robotico all’interno di una cabina di salvataggio che crea grossi problemi ad un naufrago aereospaziale su un pianeta alieno. Il problema più che nella storia in sé sta nella realizzazione grafica piuttosto piatta e priva di suspense del regista Alex Beaty. Un vero capolavoro invece l’altro classico, The Drowned Giant, l’episodio in assoluto migliore della serie, diretto dallo stesso Tim Miller e tratto da un assiomatico racconto di uno dei più grandi autori postmoderni che abbiano onorato la fantascienza: James G. Ballard, scrittore spesso, ma non in questo caso, ampiamente sacrificato o edulcorato nella larga maggioranza delle trasposizioni cinematografiche dalle sue opere. Pare che Miller abbia perseguitato praticamente per anni le figlie di Ballard riuscendo finalmente ad ottenere da loro l’autorizzazione all’adattamento del famoso racconto: non se ne saranno certo pentite.

A differenza dei lungometraggi tratti dai suoi principali romanzi, nessuno dei quali rigorosamente fedele allo spirito ballardiano – vuoi il troppo patinato Crash di David Cronenberg (1996), vuoi l’irresoluto High Rise, La rivolta di Ben Wheatley (2015), vuoi il caotico The Atrocity Exhibition di Jonathan Weiss (2000), vuoi, anche al di fuori della fantascienza, il caramellato L’impero del sole (Empire of the sun) di Steven Spielberg (1987) – la trasposizione animata del racconto breve scritto nel 1964 cattura senza infingimenti l’immaginario drastico del Bardo di Shepperton e lo riporta correttamente alle sue radici simboliste e surrealiste con un gusto figurativo, un ritmo letargico e un’atmosfera rarefatta davvero rari.

Tim Miller ha già confermato l’avvio di una terza stagione che vedrà anche il ritorno del trio di simpatici robot apparsi al debutto della serie (Three Robots: l’eredità di Robbie de Il pianeta proibito o della coppia R2-D2 e C3PO dello Star Wars originale sembra infinita…) e che, riprendendo la struttura molto più coesa della seconda stagione rispetto alla prima, sarà ancora composta da otto puntate. Su questo punto la critica non è concorde: chi sostiene che la prima stagione era più innovativa e varia per stile e argomenti e considera la seconda un passo indietro verso un maggiore conformismo visivo e tematico, chi al contrario la accusa di dispersività e di eccessiva disparità fra episodi efficaci e mediocri e preferisce la seconda stagione più sintetica, organica e compatta. In realtà, considerando lo show nel suo complesso, si può affermare con obbiettività che il livello medio di entrambe le stagioni è, come si è già detto, più che soddisfacente e la risonanza acquisita da Love, Death & Robots, con tanto di logo stilizzato divenuto iconico tra i fan, sembrerebbe suffragarlo..

L’unico appunto possibile, almeno rispetto alla gloriosa tradizione da cui la serie deriva, riguarda la colonna sonora che tradisce quasi totalmente quell’Heavy Metal da cui avrebbe dovuto originarsi, attestandosi invece su una neutralità estremamente spuria ed eterogenea (country-blues, elettronica, disco, perfino l’immancabile Walkiria di Wagner, lo Star Spangled Banner e la Kalinka del Coro dell’Armata Rossa): un soundtrack di puro commento intradiegetico quindi, o al massimo di sottofondo atmosferico privo di particolari connotazioni. Questo si che è davvero un passo indietro, almeno per chi, come me, appartiene alla vecchia generazione, assuefatta ad associare l’overdrive delle chitarre distorte con quello dei motori delle astronavi…

 

 

 

 

 

 

 

 

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Dama Clarìda, Ancilla Metalli e la Commedia https://www.carmillaonline.com/2021/02/01/dama-clarida-ancilla-metalli-e-la-commedia/ Mon, 01 Feb 2021 21:52:00 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=64764 di Franco Pezzini

Chiara Daino – Marcello Ferrau, Metalli Commedia (nuova edizione), pp. 207, Formato Kindle, Amazon 2019.

Immagino che quando iniziò a circolare Gargantua e Pantagruel non sia mancata qualche irritazione: tra maschere, Dive Bottiglie e salsicce volanti, davanti a una serie di categorie e singoli personaggi il sospetto (fondato o meno) di ritrovarsi satireggiati deve aver colto più di un lettore illustre. François Rabelais sia sempre benedetto: sulla scorta di una tradizione nobilissima (pensiamo ad Aristofane, a Petronio, al Seneca della Zucchificazione del Divo Claudio) questo nostro zio matto tranquillizza il [...]]]> di Franco Pezzini

Chiara Daino – Marcello Ferrau, Metalli Commedia (nuova edizione), pp. 207, Formato Kindle, Amazon 2019.

Immagino che quando iniziò a circolare Gargantua e Pantagruel non sia mancata qualche irritazione: tra maschere, Dive Bottiglie e salsicce volanti, davanti a una serie di categorie e singoli personaggi il sospetto (fondato o meno) di ritrovarsi satireggiati deve aver colto più di un lettore illustre. François Rabelais sia sempre benedetto: sulla scorta di una tradizione nobilissima (pensiamo ad Aristofane, a Petronio, al Seneca della Zucchificazione del Divo Claudio) questo nostro zio matto tranquillizza il mondo moderno sul fatto che un testo possa essere satirico, umoristico e magari con pagine – si passi il termine tecnico – di supercazzola, ma insieme autenticamente letterario.

Rabelais scrive in prosa. Ma questa beffarda licenza d’irridere può riguardare anche la poesia? Non si vede perché no. E un esempio a noi contemporaneo viene offerto da un testo di notevole interesse stilistico, pirotecnicamente satirico e tale anche da irritare (in modo fondato o meno, non importa, perché la gente sa essere suscettibile) grandi ego che se ne ritengano interpellati.

Articolata in varie parti – tre cantiche di cinque canti su Inferno, Purgatorio e Paradiso, più Olimpo e Multiverso, a suggerire una cosmologia un po’ diversa da quella del padre Dante oggetto quest’anno di celebrazioni rintuzzate dal covid – l’opera rappresenta un esilarante controcanto alla Commedia: il che non ne costituisce, in sé, il vero punto di forza. Calchi parodici alla Commedia non sono certo mancati nel tempo, compresi richiami felici, colti e letterariamente controllati (basti pensare al recentissimo Nel girone dei bestemmiatori di Alberto Prunetti, Laterza 2020). A colpire anzitutto in Metalli Commedia sono semmai due aspetti formali, cioè la qualità alta, letteraria dell’impasto dei versi – non puramente parodici, ma satirici in senso proprio – e la puntuale, coltissima annotazione, che sopravanza per mole il testo stesso a illuminare scelte linguistiche e ortografiche, ammiccamenti e calembour.

Ad incipit d’Inferno ci viene chiarito:

 

Incomincia la Comedìa di Dama Clarìda, Ancilla Metalli, ne la quale tratta de le pene e punimenti, de’ vizi e de’ valori – delli Umani che popolano li Tre Regni dell’Arte. Lo Canto Primo de la prima parte – la quale si chiama Inferno – è lo Tartaro nel qual l’Auttore si trovò gittato nello momento stesso in cui principiò sua carriera scrittoria. Questo canto tratta di come l’Auttore trovò Alice Cooper, il quale la fece sicura del cammino attraverso orrorosi Letterati e malefici Poetanti.

 

Il che già spiega qualcosa. E principia:

 

Nel mezzo del gran sol (1) di Satriani (2)

mi (3) ritrovai per caso tra poeti

che non vi so dir le lagne immani

 

né lo girar di gonadi per vieti

ch’imposer alla scura mia scrittura

di ferro – in quel mollo di profeti.

 

Con congrue note:

 

(1) Nel mezzo del gran sol: a metà dell’assolo [solo] di chitarra. Dicesi assolo di chitarra la parte solistica destinata ai virtuosismi; tale parte varia dai cinque minuti ai cinque mesi. Valga anche per: a metà del giro di sol. A livello temporale, con gran sol l’Autore intende il Sole di Mezzanotte. È presente anche un riferimento al romanzo di Karl Bruckner Il gran sole di Hiroshima che descrive la storia di Sadako, una bambina giapponese sopravvissuta all’esplosione nucleare di Hiroshima – riferimento che, tranne l’Autore e i lettori italiani di Bruckner, nessuno altro avrebbe colto. E ancora: Guido d’Arezzo utilizzò la prima strofa di un Inno liturgico per ricavare i nomi latini delle 6 note dell’esacordo e «SOLve polluti» [libera dal peccato] è, quindi, verso di spettanza che si lega all’incipit. Da ultimo: la notazione anglofona, come quella greca antica, utilizza le lettere dell’alfabeto – e il Sol è indicato con la G [mio Geniale Lettore, se lo preciso – credimi – esista un perché! Pazienta: lo capirai tra due note]

(2) Satriani: Joe Satriani, chitarrista statunitense di origini italiane, ideatore del G3 [acronimo di Guitar Three], progetto che si propone di unire «i tre più grandi chitarristi del mondo» per realizzare una serie di concerti-evento. Con il nome G3, Satriani organizza una serie di tour, accompagnandosi, di palco in palco, con una diversa coppia di virtuosi della chitarra [Guitar Hero]. Con Satriani si esibirono, nel G3 del 1996, Steve Vai e Eric Johnson, affiancati negli anni successivi da altri musicisti del calibro di Robert Fripp, Paul Gilbert, Yngwie Malmsteen, John Petrucci, …

(3) Mi: il verso in cui Guido d’Arezzo cifra la nota Mi è «MIra gestorum» [meraviglia delle imprese]. La notazione anglofona indica la nota Mi con la lettera E. Combinando, quindi, il Sol con il Mi, per la notazione anglofona si otterrà: GE, la targa che sigla la città di Genova. Quel Mi, infatti, è riferito all’Autore Genovese che narra il novello dantesco viaggio, in prima persona. Tale Autore Genovese, accusato di essere poco chiaro, cercherà di chiarire con le note – e poi di chiarire le note che avrebbero dovuto chiarire il testo. L’Autore Genovese, non volendo essere l’Anonimo Genovese bis, si firma alla nota numero 3: Chiara Daino, l’Autore, nasce a Genova il 5/3/1981.

 

Non si dica insomma che l’autrice non si prende le proprie responsabilità.

Chiara Daino, in arte Dama, alterna negli anni produzione autoriale e attività attoriale. La sua natura poliedrica è segnata dalla musica e dai suoi trascorsi di cantante Heavy Metal. Tra le pubblicazioni, il bellissimo e terribile, meraviglioso e straziato Siamo Soli [Morirò a Parigi] (Zona Editrice, 2013, romanzo alla Perec), di lucidità abbacinante e dai mille giochi linguistici a esplorare sentimenti esplosi o esausti, a dar colpi d’ala e svolte vertiginose ai discorsi via via inanellati – il ruolo dello scrittore, l’amore e il sesso, il rapporto con la speranza, stanchezze e battaglie – e il godibilissimo l’Eretista (Sigismundus Editrice, 2011, romanzo). E poi La Merca (Fara Editore, 2006; Amazon, 2019, romanzo) e Siete Dei (Il Leggio Editrice, 2016, racconti); appunto questo Metalli Commedia varato con il sodale Marcello Ferrau (apparso inizialmente per Thauma Edizioni, 2010, ne arriva ora un’edizione rinnovata); Virus 71 (Aìsara Edizioni, 2010; Amazon, 2020; poesia) e parecchio altro, di varia ampiezza. Tra le raccolte antologiche: Bastarde senza gloria (Sartoria Utopia Ed., 2013, poesia); Storie di cibo, racconti di vita (è  coautrice di milAnoressica con Lello Voce, Skira Editore, 2012, drammaturgia). Ha recitato suoi testi in diversi festival nazionali e internazionali e partecipato a diversi poetry slam nazionali, vincendo il Monza Poetry Slam 2010 (Apocalissi quotidiane). Dalla sua collaborazione con l’artista Antonio Minerba nacque il volume sinestetico Atti Intimi (Chiaredizioni, 2018, pittura e poesia, ita/esp). Dopo alcune esperienze come Direttore di collana (Il Leggio Editrice; Thauma Edizioni), attualmente lavora free lance nell’editoria. Forte di un senso rigoroso della metrica – rime comprese – e insieme di un gusto carrolliano per il gioco di parole, coltissima, non timida nel provocare e nel rispondere, Chiara Daino riesce a rendere di spessore letterario ciò che in altre mani rischierebbe di risultare un semplice gioco parodico.

Se poi, in una pirotecnia d’invenzioni surreali, a guidare la Nostra come Virgilio fa con Dante è appunto Alice Cooper, che la salva mentre viene cazziata da Manzoni (“Viva lo Renzo e la nota zimarra / Memento mori, voi bruti borchiati”), capiamo che gli esiti saranno un po’ diversi da quelli del poema-matrice. In effetti il testo può leggersi fin nelle sue pieghe più nascoste come una colta, articolata celebrazione del metal e della sua storia nel corso degli anni: le note permettono di mappare un itinerario attraverso il genere, chiariscono ai non edotti la presenza puntuale di richiami a quell’autore o a quel pezzo, giocano costruendo immagini visionarie. L’autopresentazione di Virgilio/Alice Cooper è da antologia:

 

«Vade retro! Bigotta co’prurìti,

vade retro: fermo, vetusta bocca!

I’son l’Alice ch’elogia la potta

e’l pitone sul bavero – arrocca.

Mai la mia vista dal pianto è rotta:

I’son l’Alice che scuole conclude;

son io – in testa – nella dura lotta».

 

Dove le citazioni di I never cry, School’s Out e di un verso di Unholy War si accompagna al ricordo del pitone vivo con cui il Nostro si accompagnava sul palco. Il ricorso a un lessico alto e a formule espressive nobili con improvvise irruzioni di popolarismi accompagna lo sberleffo dei versi che s’incalzano, di grande suggestione: dalla “morchia degli incompetenti” (“Quei che sempre, pur valendo ‘na sega / si son detti, senza veri talenti, / trecazziemezzo – sovr’ogne collega”), si passa ad altre, tra incontri beffardi, menzioni eccellenti (da Carducci e Montale a Tim Burton, al titano Carmelo Bene alla band Grindcore/Goregrind/Death Metal dei Carcass, Mustaine dei Megadeth e Dave Lombardo il Batterista per antonomasia, De Sanctis e il purista Basilio Puoti, Diamanda Galás, Lello Voce e Paolo Poli,  Ozzy Osbourne …) e sassolini tolti trucemente dalle scarpe in un “immane scontro tra li Metallari e li Arcadi”. Se il primo canto dell’Inferno chiude qui con “e caddi come corpo sbronzo cade”, i giochi di parole sono continui (“«Noi al pogo! Voi al rogo!»”, l’Ostilnovo come versione metallara del Dolce Stil Novo con manifesto la canzone Fuckin’ Hostile dei Pantera, l’iscrizione su un amplificatore

 

PER ME SI VA NELLO METALLO ARDENTE,

PER ME SI VA NELL’ETTERNO POGARE,

PER ME SI VA TRA LA BORCHIATA GENTE.

 

L’ALTO FATTOR MI RESE VALVOLARE,

FECEMI POI L’EFFETTO IN DISTORSIONE,

E’L SOMMO VOLUME PER TEMPESTARE.

 

FRONTE ME FUOCA MASSIMA FUNZIONE;

SÓNO LO MURO DEL SÒNO L’ALTARE

REGIO SON FREGIO DI STROMENTAZIONE,

 

l’incontro con la “mignatta frotta” cioè il gruppo dei parassiti eccetera). Assistendo alla punizione di coloro che praticano l’Arte per hobby scimmiottando spocchiosi chi vi ha consacrato la vita,

 

Credendo I’fosse musa e Alice un bardo,

quel gruppo di fellon ci dileggiava

ma tosto li gelammo con lo sguardo:

 

«ferisce più la borchia che la clava!»

gridai, puntando al più grosso di loro,

e il Duca le sue nocche preparava;

 

di pianti avria causato nuovo coro,

ma pria che ognun di quei mettesse strillo,

di schianto li travolse come toro

 

un’Alfa Romeo guidata da Pier Paolo Pasolini, e da cui scende anche Marilyn Manson –

 

figure entrambe lor provocatorie

che abuso avean subito l’un e l’altro

da chi ricamò su lor – troppe storie

per concentrar su quelli l’attenzione

per farne due realtà – espiatorie.

 

Il canto V gioca su suggestioni futuriste nel presentare il rombo nell’aria che annuncia il passaggio al “regno secondo”, il Purgatorio: a custodire il passaggio è Marinetti. Nello spazio che qui si apre “si purgano li commessi peccati contro natura Metallica e si fortificano li spirti. Qui sono quelli che sperano di venire – quando che sia – a la beata Metallitudo” e Alice Cooper affida l’autrice a un nuovo compagno di cammino, Bruce Dickinson, non solo voce degli Iron Maiden, ma – è bene ricordare – “sceneggiatore, conduttore radiofonico, scrittore, pilota civile di linea”, schermidore, oltretutto plurilaureato (in Letteratura e Storia), “praticamente – un supereroe!”.

Ovviamente avrebbe poco senso in questa sede sgranare analiticamente tutta la pirotecnia di trovate del testo, fino al Paradiso e oltre – Olimpo celebra una serie di figure eminenti, Multiverso,

 

un tale mondo ch′è piano e ch′è flesso

e′l cui Vero nome è incontroverso

e d′ora′n poi sarà Disco Compatto,

un mondo ch′in un e nell′altro verso

girotonda, e che posa a contatto

su di quattro Mamuthones di immensa

mole ritti sopr′un fluttuante Gatto

 

richiama la cosmogonia di Terry Pratchett, inventore del Mondo Disco (con un cicinin di sardo in omaggio al coautore Ferrau, sostituendo agli elefanti, in assonanza coi mammuth, le maschere Mamuthones dell’isola). Né è possibile soffermarsi qui sulle divertentissime scene di sesso che coinvolgono lo stesso padre Dante, “dedito a sua Nova Vita”: più interessante in questa sede è riflettere quale sia lo statuto di un tale sberleffo. Che palesemente non si esaurisce nella parodia da liceali ben preparati (con quanto di sovraccarico ormonale riguarda quell’età, e dunque via col sesso): anche a prescindere dalla rutilante fantasia di contenuti, la costruzione linguistica di Metalli Commedia denuncia un tenore formale estremamente controllato, persino nel ricorso a espressioni popolari e magari turpiloquenti. Per non parlare del tenore delle note, in numero di 727, con richiami sparigliati su tutti livelli della cultura, alta come bassa. Caratteristiche che rimandano, come detto, al resto della produzione di Chiara Daino, scintillante di cultura e intelligenza (e qui assecondata dal coautore). A colpire è la qualità dei giochi di parole, modulanti un intero linguaggio: ma, di nuovo, da qui siamo partiti. Mentre merita soffermarsi su due aspetti.

Anzitutto il testo è una grande dichiarazione d’amore per il Metal, di cui esplora la produzione con l’enciclopedismo di una storia del genere vista dall’Italia: un modo originalissimo, visionario e rigoroso per affrontare a tutto campo musicisti, band e loro produzione. Nulla insomma di “facile” o banale, ma un’operazione sottile sotto la maschera del gioco spudorato.

Però c’è un secondo e più rilevante aspetto. La suggestione del Metallo, di tutto un immaginario anche visivo – borchie, chiodi… e loro forgia – richiama efficacemente quell’eminente tipo di forgia che riguarda la lingua, le parole. Comprese le parole della poesia, a partire dall’etimologia di ποιέω come produrre, fare, creare. Il linguaggio a colpi di metrica e rime di questo testo – così come quello in prosa di altri testi di Daino – si presenta proprio come risultato felice, convincente, di una tensione che non ha nulla di certo sperimentalismo espressivo ormai logoro: una lingua ironica, colta ma aperta anche ai registri più popolari, pronta a intercettare idee e significati (saldature, assonanze, giochi di parole) con la forza visiva e ritmica di chi di musica si occupa non accidentalmente. In un’epoca di abbrutimento linguistico come la nostra, per mille motivi di cui i social echeggiano, la scoperta di quest’autrice per me è avvenuta tramite i suoi post su Facebook politi come assaggi di Zibaldone, irridenti, provocatori. Nel lavoro controllatissimo di lima con cui incalza una fantasia alla Alice (in Wonderland non meno che all’Alice Cooper), nel nesso con passioni serissime su cui ha costruito la vita, nello stesso sberleffo rabelaisiano del giocare coi pesi massimi della cultura, mi sento di dire – pronto ad affrontare l’ordalia, come il Brancaleone di Monicelli, con la colomba in mano – che Chiara Daino fa della poesia autentica.

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