Guido Pasolini – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 02 Nov 2025 09:17:12 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Trasumanando e organizzando Pasolini https://www.carmillaonline.com/2025/11/01/trasumanando-e-organizzando-pasolini/ Fri, 31 Oct 2025 23:01:57 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91142 di Luca Baiada

Giovanni Giovannetti, Pasolini giornalista. Vita e morte di un cottimista della pagina, Effigie, Milano 2025, pp. 336, euro 29.

Parlare di Pasolini, a mezzo secolo dall’assassinio, senza preconcetti? Magari partendo dai suoi scritti su giornali e riviste? Funziona, se si prende il tema per traverso. Lo dimostra l’incontro di ottobre, in Toscana. Una cosa insolita: mentre si parla di un libro, con interventi e dibattito, opere d’arte si mostrano e si formano davanti al pubblico, che vede – dal vivo e in grande formato su schermo – mentre forme e colori prendono corpo.

Le parole sono quelle di [...]]]> di Luca Baiada

Giovanni Giovannetti, Pasolini giornalista. Vita e morte di un cottimista della pagina, Effigie, Milano 2025, pp. 336, euro 29.

Parlare di Pasolini, a mezzo secolo dall’assassinio, senza preconcetti? Magari partendo dai suoi scritti su giornali e riviste? Funziona, se si prende il tema per traverso. Lo dimostra l’incontro di ottobre, in Toscana. Una cosa insolita: mentre si parla di un libro, con interventi e dibattito, opere d’arte si mostrano e si formano davanti al pubblico, che vede – dal vivo e in grande formato su schermo – mentre forme e colori prendono corpo.

Le parole sono quelle di Giovanni Giovannetti, in un volume uscito quest’anno. Le mani ce le mette l’artista operaio Alessio Vignozzi – «Vigno», già notato nella mostra alla GKN del 2021 – , che realizza un’opera in forma di pala d’altare ed espone ceramiche. Compaiono Pier Paolo, il fratello Guido, Enrico Mattei.

Quanto al libro, l’elenco completo degli scritti pubblicati su giornali e periodici è curato da Giovannetti insieme a Luisa Voltan. L’autore – una vita da fotografo – ha arricchito il volume con più di 150 immagini, compresi ritratti di Pasolini scattati da lui nel 1975, poche settimane prima del delitto di Ostia. Lo stile di Vigno, invece, è ancorato alla tradizione, soprattutto toscana, eppure è affacciato su una modernità realistica.

«Vengo dai ruderi, dalle chiese, dalle pale d’altare, dai borghi dimenticati sugli Appennini, sulle Prealpi dove sono vissuti i fratelli…». Versi che Pasolini mise in La ricotta, il cortometraggio inserito in Ro.Go.Pa.G., sulla bocca di un regista (attore Orson Welles), con una chiosa lancinante sulla società italiana: «Il popolo più analfabeta, la borghesia più ignorante d’Europa»; in sottofondo il poeta volle musica leggera, con la troupe che balla.

Vigno coglie al volo. Porta una pala d’altare abbozzata e la completa sotto gli occhi del pubblico: c’è Pasolini in braccio alla madre, c’è Guido come un san Sebastiano, c’è il padre militare, in divisa. Una pala, come in chiesa. Max Ernst dipinse Maria che sculaccia Gesù, coi poeti Eluard e Breton in contemplazione. Eclettismo, eresia? Negli anni Trenta Ernst era tra i pittori compresi nella mostra nazista sull’arte degenerata, Entartete Kunst. Ma Vigno, un artista che ha letteralmente le mani in pasta, fa anche le ceramiche, col ramino e le sfumature che sembrano venute da tempi remoti. Le guardi, ti aspetti i santi, quelli assorti nelle edicole campestri di Toscana, e invece riconosci ancora Pasolini, la madre e le trivelle petrolifere incombenti, come in una scena spaventosa nel film La macchinazione di David Grieco: la scena del pestaggio mortale.

Curiosa unione: un libro con una copertina horror, dal sapore acrilico, e opere d’arte fedeli a una tradizione secolare si sposano bene, complici un’antica villa medicea, quella di Cerreto Guidi, che viene valorizzata con intelligenza dagli amministratori e dalla comunità locale, e un pubblico stregato dalla novità. Non resta che tener conto di alcune cose.

Il libro di Giovannetti offre dati in molte direzioni, perché l’autore ha già studiato Pasolini a fondo[1]. Lo scrittore e poeta ne esce finalmente ridimensionato, più vero e contraddittorio, fuori dagli schemi contrapposti che ne vorrebbero fare un pervertito facoltoso – vengono in mente nomi di furbetti arzilli e straricchi, volti modaioli con la vecchiaia comoda – oppure un santo fuori discussione.

Pasolini può scendere dalla pala d’altare. Primo, perché qualcuno ha ricomposto il mosaico delle sue pubblicazioni, e ci voleva. Secondo, perché un artista l’ha messo davvero su una pala d’altare, ma così com’era, senza pettinarlo, senza una profumata perbenista. E l’ha fatto con implicazioni storiche e politiche: il padre militare e fascista, il fratello nella Resistenza, morto per mano partigiana comunista, e il resto: perché quando c’è Pasolini, o ci sono contraddizioni o Pasolini non c’è.

Il romanzo Petrolio ha fatto fatica a prendere il suo posto nella letteratura italiana: pubblicato postumo in varie edizioni, è apparso in una versione quasi del tutto fedele, incredibilmente, solo tre anni fa. Quanta strada, per far conoscere un’opera imbarazzante, intrisa di realtà e provocazione! Dentro c’è la storia criminosa e criminogena dell’Italia del Novecento, con le sue ramificazioni affaristiche. Ed estrattiviste: il petrolio, proprio lui, linfa ambita dell’industria e dell’economia, sangue incendiario per il quale si corrompe, si scala il potere, si uccide.

Anche qui, Vigno capisce l’antifona e realizza: lo fa con colori che vanno da un tradizionale azzurro sereno, quello della devozione popolare e del manto della Madonna, a un verde denso, materico. Quasi un verde petrolio. Nelle sue opere si indovina anche l’eco di un blu Pontormo; è quello lisergico e modernissimo del Trasporto di Cristo, un’opera che ricompare, sempre in La ricotta, sotto forma di quadro vivente. Il blu, in Vigno, aderisce al senso profondo dell’accostamento fra l’iconografia cristiana e il poeta delle Ceneri di Gramsci.

Alla morte di Pasolini, ancora adesso controversa, il libro di Giovannetti dedica il capitolo Lampi su P.[2]. Intrecci di nessi, di collegamenti fra ambiguità e doppiogiochismi che rimandano d’istinto all’Italia occupata dal 1943 al 1945, cioè inevitabilmente a Salò, un punto di riferimento che è insieme film e cifra simbolica della storia italiana, anche oltre le intenzioni del regista. Ma chi o cosa è P., in quel titolo? Pier Paolo Pasolini, o Petrolio? oppure il minorenne Pino Pelosi, l’unico condannato per il delitto? o la P2, loggia fascista e stragista? o semplicemente il Potere, con la maiuscola, come lo scriveva il poeta? Qui, nella pala di Vigno va guardata la madre, col figlio in grembo come – altra P., ostinazione delle coincidenze – una Pietà.

«Pasolini era ormai la scheggia impazzita e pronta all’azione di un sistema che del principio di verità si era fatto ipocritamente vanto ben sapendo di non poterselo permettere»[3]. Buona ragione, allora, per provare a capire meglio, a mezzo secolo da quella morte tremenda. Quel crimine è un congegno eliminazionista e insieme una mummia minacciosa, un revenant mai placato, un dito macabro puntato contro il lavoro intellettuale in Italia.

A proposito di verità. In Pasolini giornalista si legge che a uccidere, a Ostia, non fu Pino Pelosi, o non da solo: al delitto partecipò qualcuno con un peso ben più importante del suo. Un’opinione diffusa, anzi un fatto praticamente certo. Il libro contiene anche qualcosa in più:

Sappiamo che almeno uno degli assassini (un ex picchiatore di Avanguardia nazionale) è tuttora in vita; il suo nome lo conosciamo, e lo sanno anche in procura [a Roma], perché è stato fatto da Pelosi a diverse persone, in forma riservata. Lo ha detto anche a un notissimo politico romano da cui forse si aspettava protezione[4].

Sin qui, Pasolini giornalista. Nell’incontro in Toscana, Giovannetti ha aggiunto due cose: nel volume il nome di quell’assassino non è riportato come partecipante al delitto, ma compare in altre pagine; il politico che ha saputo il nome da Pelosi è Walter Veltroni.

Questa è la recensione di un libro e di un fatto d’arte. Però. Veltroni ha parlato in più occasioni dell’incontro con Pelosi. Per esempio, nel 2023 ha spiegato di averlo incontrato nel 2011, e che allora Pelosi gli descrisse la fine di Pasolini come un’aggressione mortale fatta da altri, con ruolo primario di un uomo grosso con la barba; «A me Pelosi ha detto “io non posso dire chi è stato, perché sono ancora vivi”»[5]. Quel non poter dire va inteso nel senso di non poter dire a nessuno, o di poter dire solo a qualcuno? Pensiamoci. Ogni informazione trasmessa a qualcuno direttamente da Pelosi è più importante, anche se da verificare, perché viene da chi era presente e, almeno in parte, coinvolto. Insomma: quel nome?

Viene in mente il pasoliniano «Io so. Io so i nomi…»[6]. Di certo, a mezzo secolo da quel novembre 1975, l’ex sindaco di Roma sente la gravità di un delitto accaduto quando lui era un giovane militante del Pci, il partito in cui Pasolini si riconosceva. Una famosa fotografia li ritrae vicini, Veltroni e il poeta, in piazza per una iniziativa politica; il futuro di Pasolini sarebbe stato breve; quello del giovane, invece, lungo e brillante. Secondo una certa interpretazione, in Petrolio lo sdoppiamento narrativo rappresenta proprio il Pci, un partito straziato fra bene e male, fra coerenza e compromesso. E nell’articolo dell’io so si legge: «Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia».

Trasumanare e organizzare, allora? È possibile, attraverso ibridazione di stili, avanguardia che non rinuncia al passato, parole e cose che attraversano linguaggi diversi. Però, un momento: il linguaggio più efficace è sempre quello dei fatti.

 

 

[1] Carla Benedetti, Giovanni Giovannetti, Frocio e basta. Pasolini, Cefis, Petrolio, Effigie, Milano 2016; Giovanni Giovannetti, Malastoria. L’Italia ai tempi di Cefis e Pasolini, Effigie, Pavia, 2020.

[2] Giovanni Giovannetti, Pasolini giornalista. Vita e morte di un cottimista della pagina, Effigie, Milano 2025, pp. 237-286.

[3] Ivi, p. XV.

[4] Ivi, p. 271.

[5] Omicidio Pasolini, Andrea Purgatori intervista Walter Veltroni, «la7», 13 aprile 2023.

[6] Pier Paolo Pasolini, Cos’è questo golpe? Io so, «Corriere della sera», 14 novembre 1974.

 

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La libertà, l’Italia e chissà qual destino disperato: Pasolini, Porzûs, l’imprudenza https://www.carmillaonline.com/2025/02/07/la-liberta-litalia-e-chissa-qual-destino-disperato-pasolini-porzus-limprudenza/ Thu, 06 Feb 2025 23:01:03 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86797 di Luca Baiada

Anno 1926. Ci sono già le «leggi fascistissime», la dittatura è salda. Il 31 ottobre, per strada a Bologna, si attenta alla vita di Mussolini, con una pistola. Anteo Zamboni è catturato, i fascisti lo linciano immediatamente. A fermare Zamboni, dopo lo sparo, è un ufficiale di cavalleria; il suo nome di battesimo parla di nazionalismo e monarchia: si chiama Carlo Alberto Pasolini. È sposato, ha un figlio di quattro anni e uno di un anno. Anteo Zamboni, invece, è un quindicenne. Questo ragazzino paga il suo amore per la libertà, e forse l’esser stato coinvolto in qualcosa [...]]]> di Luca Baiada

Anno 1926. Ci sono già le «leggi fascistissime», la dittatura è salda. Il 31 ottobre, per strada a Bologna, si attenta alla vita di Mussolini, con una pistola. Anteo Zamboni è catturato, i fascisti lo linciano immediatamente. A fermare Zamboni, dopo lo sparo, è un ufficiale di cavalleria; il suo nome di battesimo parla di nazionalismo e monarchia: si chiama Carlo Alberto Pasolini. È sposato, ha un figlio di quattro anni e uno di un anno. Anteo Zamboni, invece, è un quindicenne. Questo ragazzino paga il suo amore per la libertà, e forse l’esser stato coinvolto in qualcosa di più grande di lui.

Il secondogenito di Carlo Alberto l’ufficiale, Guido, con l’occupazione dell’Italia nel 1943, già a settembre cercherà di rubare armi ai tedeschi; entrerà nella Resistenza, diventerà comunista e poi azionista. Si arruolerà in una brigata Osoppo e combatterà con una tenacia sorprendente.

Febbraio 1945, ottant’anni fa. A Porzûs, in Friuli, Guido Pasolini e altri partigiani della Osoppo sono assassinati da partigiani comunisti, in una vicenda scottante. La sua morte è la più convulsa: ferito, fuggiasco, accolto e rifocillato, poi ritrovato e catturato, infine crivellato e sepolto nella tomba che è stato costretto a scavarsi.

Il primogenito di Carlo Alberto, invece, Pier Paolo, sarà arruolato ma poi riuscirà a sottrarsi alla Rsi. Restando disertore, non parteciperà alla Resistenza e si dedicherà soprattutto allo studio e alla scrittura. Nel 1945, saputo della morte del fratello, aderirà al Partito d’azione. In seguito si iscriverà al Pci, che lo allontanerà quando il suo orientamento sessuale diventerà di dominio pubblico. Continuerà a dirsi marxista e a mantenere un rapporto contraddittorio con la sinistra e con la religione.

1975, cinquant’anni fa, ma a novembre. Pier Paolo cade in una trappola: percosso, bastonato, infine sopraffatto, tramortito e schiacciato sotto la sua automobile sino a fargli scoppiare il cuore. Le letture più odiose vedranno una zuffa tra un pervertito e un prostituto, quelle più comode un incidente in una vita agitata. Le interpretazioni più avanzate riusciranno a capire qualcosa, più per metodo obliquo che per altro – il forte «io so» pasoliniano entrerà nel discorso politico e culturale. Acuto, Antonio Tabucchi, quando ricorda che quel sapere ha precedenti antichi, fra cui un frammento di Anassimandro, e nota: «Questo “sapere” di Pasolini non appartiene dunque alla logica di Wittgenstein, ma a una conoscenza congetturale e creativa»[1].

La necessità di eliminare un intellettuale in presa diretta sulla realtà, nel 1975, porterà a un delitto. Si vorrà far tacere una voce scomoda e dare un segnale al mondo della cultura, allora decisamente a sinistra. Quasi tutti ubbidiranno, e solo dopo si comincerà a cercare la verità, collegandola anche al romanzo che la vittima non ha fatto in tempo a pubblicare. L’uomo di cui Pasolini stava scrivendo in Petrolio, l’uomo che si stava impadronendo del paese, estendendosi senza alzarsi, è Eugenio Cefis, già partigiano conservatore durante la Resistenza, poi vissuto in Italia e all’estero.

Le morti dei due Pasolini sono agli estremi. Una è ai margini d’Italia, sul confine, aggrappata ai monti insieme alle malghe. L’altra è al centro di tutto, in un crocevia storico, umano, estetico, fra le pieghe disadorne di un luogo incantato: alla foce del Tevere, negli anni Settanta ridotta a confusa edilizia e polverose baracche. Quella foce è da sempre magnetica; «dove l’acqua di Tevero s’insala»: là, secondo Dante, si adunano le anime per raggiungere il Purgatorio traghettate da un angelo.

Poliedrico, il nesso tra fatti e cultura. Franco e pulito, quello di Guido, che parte per la Resistenza portando con sé un libro di Montale con una pistola dentro. In certi momenti, l’unica cosa seria da fare con un libro è ritagliarsi fra le pagine uno spazio per qualcos’altro.

Raffinato e pericoloso, quello di Pier Paolo, che dal mondo contadino e dialettale arriva al realismo narrativo e cinematografico, poi attinge a una creatività vulcanica, lisergica e materialista, denunciando la violenza consumistica, industriale, ma anche politica e stragista. Il cortocircuito pasoliniano passa attraverso lo sviluppo e l’estrattivismo, ma anche attraverso il sangue che scorre sotto il lavoro intellettuale, perché Cefis all’Eni assume il potere di Enrico Mattei, anche lui proveniente dalla Resistenza e assassinato nel 1962, e perché al film sulla morte, Il caso Mattei di Francesco Rosi, lavora per gli approfondimenti il giornalista Mauro De Mauro, ex fascista repubblichino, che durante la realizzazione cinematografica è a sua volta eliminato, nel 1970.

Si potrebbe continuare, in questo cortocircuito, perché fra le spiegazioni correnti del delitto Pasolini del 1975 – si vorrebbe farne la sola causa – c’è il furto delle pellicole di Salò, un film sul fascismo nell’Italia sotto occupazione tedesca; e la pagina storica della Rsi è una fogna di doppiogiochismi, sadismi, putredine mentale, falsa coscienza. E si potrebbe continuare ancora, perché non solo De Mauro è stato repubblichino nella Roma occupata, persino durante le Fosse Ardeatine, ma suo fratello Tullio è fra i massimi linguisti italiani. In questa storia inchiostro e sangue non vogliono né separarsi né fondersi, proseguono come correnti di fiumi, con colori diversi ma direzione comune, sino a un mare nebbioso dove navigare non è permesso; perciò è un dovere avventurarsi, in quelle acque, se si ama la libertà. Si spalanca proprio sul mare, la foce del Tevere, luogo da cui si salpa per sanare le piaghe o farne stigmate.

Solcare acque oscure serve a capire le sorgenti, perché nel fascismo, e poi nei doppiogiochismi fra il 1943 e il 1945, è l’origine di tanta parte della storia italiana. In quel magma hanno radici Cefis e Gelli, la partita futura sull’Eni e la P2, mentre Andreotti è in Vaticano e Mattei è con la Resistenza al Nord. Fili intrecciati, correnti profonde.

Poliedrico anche il rapporto fra coscienza e storia. Pasolini, in La resistenza e la sua luce, edita nel 1961, insieme alla morte di Guido scolpisce la lotta di Liberazione:

Venne il giorno della morte

e della libertà, il mondo martoriato

si riconobbe nuovo nella luce…

 

Quella luce era speranza di giustizia:

non sapevo quale: la Giustizia.

La luce è sempre uguale ad altra luce.

Poi variò: da luce diventò incerta alba,

un’alba che cresceva, si allargava

sopra i campi friulani, sulle rogge.

Illuminava i braccianti che lottavano.

Così l’alba nascente fu una luce

fuori dall’eternità dello stile…

Nella storia la giustizia fu coscienza

d’una umana divisione di ricchezza,

e la speranza ebbe nuova luce[2].

Sono versi che pubblica. Ma prima, a maggio 1945, già consapevole della morte di Guido, scrive per sé un testo in seconda persona rivolto al fratello:

Gloriosa morte perché voluta da te stesso, in nome di un’idea qualunque (bella, tuttavia: la libertà) e ti sei sacrificato col gratuito entusiasmo dei diciannove anni; è stata la sorte del tuo corpo entusiasta che ti ha ucciso; non potevi sopravvivere al tuo entusiasmo. […] Se io paragono la mia imprudenza nello scrivere versi di quell’età, con la tua, vedo che sono la stessa cosa[3].

Guido ha voluto morire, Pier Paolo ha la stessa imprudenza: l’emulazione è già cominciata.

Sempre in privato, in una lettera a Luciano Serra del 21 agosto 1945, Pasolini scrive che il secondogenito gli ha insegnato la strada. Così, la morte è diventata attingibile:

Guido non ha fatto altro che precedermi generosamente di pochi anni in quel nulla verso il quale io mi avvio. E che ora mi è così famigliare; la terribile oscura lontananza o disumanità della morte mi si è così schiarita da quando Guido vi è entrato. Quell’infinito, quel nulla, quell’assoluto contrario ora hanno un aspetto domestico; c’è Guido, mio fratello, capisci, che è stato per vent’anni sempre vicino a me, a dormire nella stessa stanza, a mangiare nella stessa tavola. Non è dunque così innaturale entrare in quella dimensione così a noi inconcepibile. E Guido è stato così buono così generoso da dimostrarmelo, sacrificandosi pel suo fratello maggiore, forse a cui voleva troppo bene, a cui credeva troppo. Per questo posso dirti, Luciano, ch’egli si è scelto la morte, l’ha voluta; e fin dal primo giorno della nostra schiavitù[4].

L’inconcepibile ha preso qualcosa di vicino. Per questo, forse, Guido nel 1954 diventa visibile, quando il poeta si imbatte in un raduno del Msi, a Roma, e scrive Comizio:

Per la prima volta, dall’inverno

in cui la sua ventura fu appresa,

e mai creduta, mio fratello mi sorride,

mi è vicino. Ha dolorosa e accesa,

nel sorriso, la luce con cui vide,

oscuro partigiano, non ventenne

ancora, come era da decidere

con vera dignità, con furia indenne

d’odio, la nuova nostra storia: e un’ombra,

in quei poveri occhi, umiliante e solenne…

Egli chiede pietà, con quel suo modesto,

tremendo sguardo, non per il suo destino,

ma per il nostro… Ed è lui, il troppo onesto,

il troppo puro, che deve andare a capo chino?[5].

Ora che, nel 2025, a ottant’anni dalla Liberazione, c’è «un tempo morto che torna / inaspettato, odioso», ricordiamo cosa scrive Pasolini, nella stessa poesia, a proposito della fiamma tricolore del Msi sulle loro usurpate bandiere: «Arista / o tetro vegetale guizza cerea / nel mezzo la fiammella fascista»[6].

Però. Mentre scrive a Serra nel 1945, Pier Paolo ha ventitré anni e Guido è morto da pochi mesi. C’è da chiedersi se molti anni dopo – è stato scritto che Pasolini, come altri poeti, ha progettato la sua fine, l’ha costruita – la ricerca instancabile della verità, la più scomoda e indicibile, sull’Italia del dopoguerra e sui compromessi del centrosinistra, sui suoi enigmi, sui tessuti di potere, sulle trame affaristiche e neofasciste, con sottili connivenze, serva a Pier Paolo per prendere lo slancio verso quella dimensione inconcepibile. C’è da chiedersi se proprio lui metta in mano agli assassini ciò che gli permette di colmare la mancata partecipazione alla Resistenza, di riscattare l’essersi appartato mentre si sparava e si moriva, di essere pari a Guido nella fine eroica. La fine accettata allora da Guido, tornato a Porzûs benché avvertito del pericolo, perché, come scrive Pasolini nel 1945:

La libertà, l’Italia

e sa Dio qual destino disperato

ti volevano,

dopo tanto vivere e patire,

in questo silenzio[7].

Per rifletterci sarebbe utile Il Vangelo secondo Gesù di Saramago, romanzo eretico, percorso dal senso di colpa del figlio di Maria e Giuseppe, scampato alla strage degli innocenti. Erode, cioè la ragion di Stato abbarbicata al potere, non fabbrica solo cadaveri, ma anche superstiti carichi di scrupoli. Saramago: «Viene da lontano e promette di non aver fine la guerra tra padri e figli, l’eredità delle colpe, il rifiuto del sangue, il sacrificio dell’innocenza»[8]. Sono ombre che i poeti afferrano al volo, come si impugnano fiori spinosi, magari per metterli sulla propria tomba.

Se è così. La morte di Pasolini, come quella del fratello, è voluta «fin dal primo giorno», perché prima di quel novembre 1975, dall’adolescenza e dalla giovinezza, contro Pier Paolo è pronta una schiavitù fatta di conformismo, di cristianesimo prostituito nelle sacrestie, di marxismo reso miope dalle burocrazie, di Costituzione prigioniera del centrismo, di modernità immersa nello sviluppismo corrotto, nel consumismo, nella devastazione del linguaggio, nella dispersione delle culture popolari, nel massacro del paesaggio e del territorio.

Comunque. Questa storia è un sunto urticante del Novecento italiano. Nel 1926 un padre rispettabile contribuisce – involontariamente, voglio pensare, ma di fatto – al linciaggio di un ragazzino. Vent’anni dopo, partigiani comunisti uccidono il suo secondogenito, inizialmente comunista e poi convinto azionista. Carlo Alberto consumerà gli anni che gli restano, lasciando una vedova e un figlio dalla sessualità difficile da accettare. Nel 1975 anche il primogenito, che è stato prima azionista e poi comunista critico, sarà ucciso, e anche stavolta non saranno i fascisti, o almeno il mandante non sarà di quelli dichiarati. Poche cose esprimono così il suicidio di una certa Italia, in un arco di tempo che comincia nel 1926 con un assassinio nella disciplinata città dei glossatori, e che nel 1975, con un assassinio nell’agglomerato abusivo di Ostia, finisce.

Accostandomi a questo mi domando perché, malgrado la vicenda possa essere sia un buon boccone per il revisionismo fascista, sia un terreno per il lavoro culturale di sinistra, entrambi si tengano alla larga da un sunto, da uno sguardo ampio. Meglio congetture sul delitto del 1975, controversie su Porzûs, rare occhiate all’attentato Zamboni, senza saldare insieme la storia. Se ci si chiede perché, già si comincia a capire.

 

 

[1] Antonio Tabucchi, La gastrite di Platone, Sellerio, Palermo 1998, pp. 31-32.

[2] Pier Paolo Pasolini, Bestemmia. Tutte le poesie, Garzanti, Milano 1993, tomo primo, pp. 472-473; in questa citazione e in seguito i puntini sono nell’originale.

[3] Andrea Zannini, L’altro Pasolini. Guido, Pier Paolo, Porzûs e i turchi, Marsilio, Venezia 2022, pp. 88-89.

[4] Pier Paolo Pasolini, Lettere agli amici (1941-1945). Con un’appendice di scritti giovanili, a cura di Luciano Serra, Ugo Guanda Editore, 1976, pp. 44-45.

[5] Pier Paolo Pasolini, Le ceneri di Gramsci, Garzanti, Milano 2021, pp. 30-31.

[6] Ivi, p. 27.

[7] Còrus in muart de Guido, XXV, in «Il Stroligut», agosto 1945, n. 1, pp. 3-4. Nell’originale: «La libertat, l’Italia / e qissà diu cual distin disperat / a ti volevin / dopu tant vivut e patit / ta qistu silensiu».

[8] José Saramago, Evangehlo segundo Jesus Cristo, trad. Il Vangelo secondo Gesù, Bompiani, Milano 1993, p. 58.

 

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