guerre – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 31 Jul 2025 20:00:07 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Romanzo di (de)formazione. Gli anni ’10 di Hanrahan https://www.carmillaonline.com/2024/07/09/romanzo-di-deformazione-gli-anni-10-di-hanrahan/ Mon, 08 Jul 2024 22:10:18 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83366 Di Jack Orlando

Jake Hanrahan; Gargoyle. Cronache di guerre, prigioni e rivolte; Nero Edizioni; Roma 2024; 159 pp. 15€

Frammenti proiettati in aria dalla deflagrazione di un IED. Schegge rapide, grezze, taglienti. I reportage di Jake Hanrahan non somigliano ai pezzi di un ordigno casalingo solo per lo stile asciutto e ruvido, lontano tanto dal lirismo della miglior tradizione di reportage di guerra quanto da quella, solitamente sterile e piatta, del contemporaneo. Ma perché, venendo dagli anfratti bui del nostro tempo, ne riflettono la frammentazione accelerata e impazzita.

L’occhio di Hanrahan, ancor prima di diventare frontman del progetto media indipendente [...]]]> Di Jack Orlando

Jake Hanrahan; Gargoyle. Cronache di guerre, prigioni e rivolte; Nero Edizioni; Roma 2024; 159 pp. 15€

Frammenti proiettati in aria dalla deflagrazione di un IED.
Schegge rapide, grezze, taglienti.
I reportage di Jake Hanrahan non somigliano ai pezzi di un ordigno casalingo solo per lo stile asciutto e ruvido, lontano tanto dal lirismo della miglior tradizione di reportage di guerra quanto da quella, solitamente sterile e piatta, del contemporaneo.
Ma perché, venendo dagli anfratti bui del nostro tempo, ne riflettono la frammentazione accelerata e impazzita.

L’occhio di Hanrahan, ancor prima di diventare frontman del progetto media indipendente Popular Front (qui), si muove attraverso scenari che hanno costituito l’ossatura degli anni ’10 del ventunesimo secolo e hanno segnato i passaggi di formazione per una generazione venuta a maturazione proprio in quel frangente.
Piccoli frammenti, storie dimenticate o sconosciute, che illuminano i grandi processi della storia. Attraverso questa angolatura ai margini Hanrahan si muove, osserva e riporta.

In pochi conoscono la sigla YDG-H, o le centinaia di storie di giovani e meno giovani partiti da ogni parte del mondo per combattere l’ISIS sotto la bandiera della rivoluzione confederalista-democratica curda.
A dire il vero, fino all’autunno del 2014 quasi nessuno conosceva la questione del Kurdistan e la lotta del PKK.
Qualche analista internazionale, una manciata di reporter indipendenti e sparuti militanti anarchici o comunisti, ogni tanto un agente dei servizi.

Esattamente il milieu che si era riversato ai confini turco-siriani in quegli anni tra le macerie del fronte, le pozzanghere dei campi profughi, l’eco delle mitragliatrici e le notti di scontri tra giovani incappucciati e polizia.
Una piccola meteora, un micro universo emerso dall’ombra e rimasto sotto la luce per un paio d’anni prima di tornare in un buio fatto di disinteresse mediatico, insorgenze jihadiste e il logoramento di una costante minaccia d’invasione turca atta a soffocare l’esperienza confederale.

Sul quel confine si intrecciarono innumerevoli e sconosciute traiettorie, che nel loro compenetrarsi hanno però ridefinito un paradigma del possibile. Il primo lascito delle rivoluzioni è l’impronta che tracciano nell’immaginario comune, nello squarciare il velo dell’ineluttabilità. Tuttora sono ancora pochi a conoscere i battaglioni internazionali delle YPG, ormai ridotti a un lumicino, o le centinaia di adolescenti organizzati nelle YDG-H o negli altri gruppi della sinistra turca e curda, oggi deceduti in gran numero al fronte siriano o su quello interno, o gettati a marcire nelle carceri del macellaio Erdogan. Ma ancora meno sono quelli che oggi possono dire di non aver mai sentito parlare del Rojava e della lotta per il Kurdistan libero, laico e indipendente.

Qualcosa di simile accadeva al confine orientale dell’Ucraina nello stesso periodo. Una rivolta contro la corruzione e per maggiori garanzie democratiche si era ribaltata in un golpe nazionalista con pesanti infiltrazioni di formazioni neonazi.
L’eredità avvelenata e irrisolta del tracollo sovietico, aveva finito per spezzare il paese in due, con morti e feriti e la Casa dei sindacati di Odessa trasformata in mattatoio; i calcoli geopolitici della NATO e del Cremlino, usando le teste degli ucraini come regoli, avevano fatto il resto.
La guerra civile, le Repubbliche Popolari di Donetsk e Lugansk, la Crimea russa, l’estetica sovietico-nostalgica, i battaglioni neonazisti Donbass, Azov e Tornado.

Fino al febbraio 2022 se dicevi Donbass a qualcuno, era molto probabile che restasse a guardarti con occhio interrogativo, e la guerra è arrivata scuotendo il pero da cui sono cascati tutti.
Eppure erano otto anni che tutti (o almeno quei pochi) quelli che erano stati sulla linea del Donbass andavano dicendo che lì sarebbe scoppiata la nuova guerra europea. Voci inascoltate.
Otto anni di guerra civile con le sue logiche impazzite, i suoi personaggi picareschi e truci, che avevano costruito un altro microcosmo che nessuno guardava ma dove si cucinavano le ricette del futuro.

Ancora nomi sconosciuti. Atomwaffen Division. Una variante neonazista psicopatica giunta a maturazione negli USA del declino. Strategie terroristiche per il collasso sociale e deliri sulla costruzione di etnostati bianchi, accelerazionismo, social media e gusto per l’ultraviolenza.
Un piccolo frammento del fiume carsico neonazista, ormai in piena, che scorre nelle vene degli Stati Uniti da oltre sessant’anni. Ancora, Hanrahan si porta avanti sui tempi e va dove altri non vanno e scava nelle chat e negli orrori dei militanti di AtomWaffen.
Ancora in pochi avevano fiutato l’aria al tempo; per qualche strana alchimia si ripropone lo stesso milieu di reporter, militanti, analisti e investigatori di polizia, stavolta in un gioco del gatto col topo per capire quanto davvero ci fosse di pericoloso e dirompente dietro quelle nuove teste di morto.

Sembrava una cosa per esaltati che giocano alle spie, e oggi tutte le anime belle della democrazia si piangono l’insorgenza neofascista. Come fosse spuntata di colpo, una candid camera di pessimo gusto. E invece era lì che covava e camminava nell’ombra.

Adesso è chiaro, lo sanno tutti, il mondo di ieri è scomparso per sempre, una consapevolezza che ha sgretolato gran parte delle narrazioni di cui si nutriva il senso comune liberale. Almeno in Occidente, perché altrove la catastrofe era iniziata da un pezzo.
Ma è negli sconvolgimenti degli anni ’10 che si andava preparando il caos odierno, in quegli smottamenti bisogna scavare per ritrovare un filo di senso che tenga insieme l’ottusa età dell’oro neoliberista che ha battezzato l’inizio del secolo e la frana che si sta portando giù sempre più rapidamente un ordine che si fingeva naturale e immutabile, nonostante la sua brevissima e dannosa vita.
I viaggi di Jake Hanrahan sono un ottimo viatico per questo limbo e ciò che lo ha seguito.
Un modo immediato per riguardare dentro la parentesi in cui il presente si è andato (de)formando, e noi con lui.

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Questi vigliacchi non so’ a scorda’ https://www.carmillaonline.com/2021/08/22/questi-vigliacchi-non-so-a-scorda/ Sun, 22 Aug 2021 21:00:38 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=67588 di Luca Baiada

23 agosto 1944, nel Padule di Fucecchio, la palude interna più grande d’Italia. I tedeschi, guidati da fascisti italiani, commettono uno dei massacri più gravi e meno noti: 174 persone, la più piccola di quattro mesi. Malgrado i processi (tre dopo la guerra e uno in questo secolo), in concreto nessuno sarà punito e i parenti delle vittime non saranno risarciti. Resteranno a loro carico anche le spese per gli avvocati di parte civile, raccolte alla meglio in collette tra le famiglie. La strage, allora, le fece precipitare dalla [...]]]> di Luca Baiada

23 agosto 1944, nel Padule di Fucecchio, la palude interna più grande d’Italia. I tedeschi, guidati da fascisti italiani, commettono uno dei massacri più gravi e meno noti: 174 persone, la più piccola di quattro mesi. Malgrado i processi (tre dopo la guerra e uno in questo secolo), in concreto nessuno sarà punito e i parenti delle vittime non saranno risarciti. Resteranno a loro carico anche le spese per gli avvocati di parte civile, raccolte alla meglio in collette tra le famiglie. La strage, allora, le fece precipitare dalla condizione di modesti contadini a quella di lavoratori ancora più sfruttati, scaraventati in difficoltà ignote al loro mondo arcaico, lacerati da traumi che nel linguaggio dei loro giorni fuori del tempo non avevano neanche un nome.

Malgrado la vastità del crimine, il suo tratto particolarmente vigliacco (gli assassini girano intorno alla palude uccidendo nella zona di gronda, abitata da agricoltori e sfollati, ed evitando i partigiani), e il fatto che furono colpiti vari Comuni, ancora adesso pochi associano il nome di Fucecchio a questo fatto. Parlando di Fucecchio è più comodo pensare a Indro Montanelli, giornalista abile a sopravvivere in tutti i regimi, che nel ’47 seguì uno dei processi per il «Corriere d’informazione» e scrisse cose vaghe, per poi trascurare una vicenda che invece era rimasta impressa nelle carni di un’intera comunità.

Diceva bene Walter Benjamin, neanche i morti stanno al sicuro. La memoria è un arnese politico così ambiguo che è difficile ricordarsi quando sia arrivata, anche se è certo che non è sempre stata fra i numi tutelari, come oggi. Quei morti di Fucecchio, quasi tutti poveri (però c’erano la figlia di un gioielliere fiorentino di Ponte Vecchio, un paio di aristocratici e qualche possidente), negli ultimi anni sono diventati ombre cinesi manovrabili, protagonisti non interpellati di iniziative culturali, per lo più di dubbio gusto; sono finanziate con poca spesa dalla Germania, che si guarda bene dal risarcire i sopravvissuti e i familiari. Costa molto meno restaurare monumenti, fare discorsi, stampare libri come quello distribuito alla commemorazione due anni fa, con l’Ambasciata tedesca già in copertina, tanto per essere chiari.

Eppure ce ne sono ancora, di familiari: vivi e dolenti come allora, più di allora, perché un bambino conta su energie e aspettative che un anziano ha consumato. Un anziano ha visto prosperare gli eredi politici del fascismo, ha notato l’arricchimento dei collaborazionisti di allora, ha ascoltato le retoriche di circostanza di personaggi pubblici in cerca di un po’ di visibilità. Titolo felice, La tregua di Primo Levi; ma per le vittime delle stragi non è mai neanche cominciata, e i racconti dei più vecchi trascorrono ininterrotti dagli stenti della guerra alla strage e al peso di una vita, passando per le prepotenze dei fascisti da subito dopo la Liberazione.

Nel 2019 i familiari hanno creduto al presidente della Regione Toscana, Enrico Rossi. Proprio alla commemorazione di questa strage aveva ricordato la mancata giustizia da parte della Germania, e poi su un giornale: «L’Armadio della vergogna c’è. E il nostro paese non si è mosso come avrebbe dovuto. Perché le sentenze, contro i mandanti di quelle stragi, non sono state portate a esecuzione. È una vergogna, questa, che ci portiamo dietro, come Italia. E come Regione Toscana siamo disposti a fare ancora di più per arrivare a una degna conclusione. Lo dobbiamo alle vittime, ai superstiti e ai loro familiari». Ancora a fine 2019, su Facebook: «Metterò tutto il mio impegno per affiancare i familiari delle vittime delle stragi naziste nella loro richiesta di risarcimento alla Germania e verificare la possibilità di far costituire la Regione stessa. Ci incontreremo a breve per una risposta ufficiale». Bene per essersi accorto che l’Armadio della vergogna, l’archivio coi fascicoli sulle stragi rifrequentato a partire dagli anni Novanta, esiste; bene per la giustizia ancora possibile, quella economica. E quest’anno anche il nuovo presidente, Eugenio Giani, ha preso posizione.

Sempre nel 2019 un convegno in Senato, Stragi e deportazioni nazifasciste: per la giustizia e contro l’ambiguità, aveva offerto qualcosa di inedito, in Italia: nel Palazzo un incontro per mettere sulla graticola le conseguenze di crimini sprofondati nel Novecento, per giudicare la storia. Le vittime erano venute in torpedone da lontano, col vestito buono, la cravatta che senza non ti fanno entrare. Il viaggio a Roma, tutto per loro. Lì, nella sala Koch che è di tutti, un presidente emerito della Corte costituzionale aveva parlato con una franchezza lontana dal linguaggio curiale dei pochi: «Tutte queste tecnicalità che sono state opposte alle aspettative, alle speranze delle vittime – le formule giuridiche non danno nemmeno il senso di quanto siano gravi queste atrocità – non vorrei dire sviliscono, ma mettono una luce abbastanza fredda su tutte queste cose». Quel giorno, l’ex presidente della Consulta aveva messo il dito nell’occhio all’ipocrisia, alla condiscendenza nei confronti degli interessi di Berlino, indicando un’evoluzione necessaria in Italia e nel mondo: «Di fatto c’è il riconoscimento, nella coscienza della comunità internazionale, del valore dei diritti fondamentali della persona in quanto tale, senza divisa, senza conto in banca. […] I diritti fondamentali sono cresciuti, nella coscienza civile della comunità internazionale complessivamente considerata».

Quel giurista senza peli sulla lingua, Giuseppe Tesauro, da qualche settimana non è più con noi. L’impegno continua anche nel suo nome, la strada che ha indicato è in salita ma percorribile. Passa da dove meno te l’aspetti. Quest’anno un tribunale della Corea del Sud ha condannato il Giappone a risarcire le comfort women, le schiave sessuali dei militari nipponici durante la guerra mondiale. Donne che hanno fatto causa personalmente, anni fa, raccontando storie spaventose; nel frattempo sono morte e i crediti sono passati agli eredi. Certi argomenti del Giappone per non pagare somigliano, pensa un po’, a quelli della Germania; esecrazione, propositi, accademia: «Ribadiamo la nostra ferma determinazione a non ripetere mai più lo stesso errore, scolpendo per sempre questi temi nella nostra memoria mediante lo studio e l’insegnamento della storia», dice Tokyo. Siamo alle solite. Ma la sentenza coreana cita proprio quella della Corte costituzionale italiana del 2014, l’ultima scritta da Tesauro. Possibile che il buon lavoro fatto a Roma lo intendano meglio a Seoul che qui? In Corea si è capito che il diritto può cambiare: «La dottrina dell’immunità statale non è permanente né statica. Si evolve continuamente secondo i cambiamenti dell’ordine internazionale».

Se non si fa giustizia sui crimini nazisti, come si può chiederla per altri delitti di Stato? Non è diatriba sul passato. Riguarda il presente: Andrea Rocchelli, Giulio Regeni, Daphne Caruana Galizia, Jamal Khashoggi. E riguarda il futuro: il mai più che fa scattare gli applausi alle commemorazioni – suono beffardo, mentre si sa che le democrazie sbiadiscono e il potere è sempre più irresponsabile – ha il sottinteso di un salvacondotto a ripetere, magari in dosi limitate, studiate per il delitto esemplare, per la pedagogia del sangue. Rocchelli non documenti, Regeni non studi, Caruana Galizia stia zitta e Khashoggi si faccia i fatti suoi.

Un’altra attesa ha un sapore toscano. A febbraio 2020, a Montecitorio, c’è la cerimonia conclusiva del premio Giustolisi «Giustizia e verità» edizione 2019. Franco Giustolisi era il giornalista che si batteva per far conoscere l’Armadio della vergogna, era una penna battagliera che cercava di spezzare il silenzio. Alla cerimonia di nuovo Enrico Rossi, ancora presidente, annuncia il trasferimento dell’archivio Giustolisi a Firenze a cura della Regione; si tratta di renderlo accessibile, riordinarlo e trasformarlo in un centro studi. Rossi indica la sede, il vecchio ospedale di San Giovanni di Dio. La cosa è importante, e Giustolisi è mancato nel 2014.

Chissà se l’anniversario 2021 della strage del Padule si lascerà dietro qualche altra amarezza. Forse discorsi come la memoria attiva, la memoria proattiva, il lenimento. Magari parole come quelle che Ursula von der Leyen, ex ministra della difesa di Berlino e oggi presidente della Commissione europea, ha detto lo scorso luglio a Fossoli, per l’anniversario di un’altra strage, quella di Cibeno, 67 morti. Niente sulla giustizia ma toni a effetto: gli accadimenti insondabili, il sacrificio, l’abisso del male, linguaggio vertiginoso che non costa nulla. E anche qualcosa di imbarazzante: «Invece di combatterci, come abbiamo fatto per secoli, ora ci sosteniamo a vicenda di fronte alle avversità. Il governo italiano ha dato vita a un solido piano di recupero con investimenti e riforme, e l’Europa lo finanzia con oltre duecento miliardi di euro. I primi fondi, raccolti dall’UE, sono arrivati in Italia all’inizio del mese».

Combatterci per secoli? Se la presidente si riferisce ai tanti conflitti europei, non si capisce cosa c’entri il debito tedesco verso le vittime di strage in Italia. Se si tratta dei rapporti fra Italia e Germania, sembra di sentire certe dottrine correnti nel Risorgimento. Per esempio Cesare Balbo, nel Sommario della storia d’Italia che piaceva a Giuseppe Giusti e Massimo D’Azeglio, poneva l’inizio delle guerre d’indipendenza nella vittoria di Teodorico su Odoacre. Forzature, ma spiegabili, al tempo in cui si costruiva una base politico-culturale per l’unità italiana. Adesso quella lettura della storia diventa pazzesca: avvicina la Seconda guerra mondiale (con la Resistenza, un fatto che divide nettamente i due paesi) a una serie plurisecolare di guerre qualsiasi, com’è tipico del revisionismo. Un atteggiamento coerente, in fondo: nel suo documento alla vigilia dell’incarico continentale, Un’Unione più ambiziosa: Il mio programma per l’Europa – dove la parola ambizioso insiste come un tic –, von der Leyen aveva prefigurato una visione del mondo rigida ma rassicurante come il salottino di Barbie. Sullo sfondo c’era il sapere formattato offerto dalla risoluzione del Parlamento europeo Importanza della memoria europea per il futuro dell’Europa, uno scritto antistorico e insidioso dove facevano capolino la riconciliazione, la memoria, il mai più.

E poi, a Fossoli c’era proprio bisogno di far frusciare del denaro, commemorando una strage? Denaro, sì, ma non per gli aventi diritto, i familiari delle vittime; per l’economia italiana, da sostenere anche per il bene di quella europea, perché questo sta per quello, allo stragismo si rimedia con lo sviluppismo, e che si vuole di più. Denaro che non è tedesco, ma dell’Unione. Neanche David Sassoli, che accompagnava questa signora abile a mostrare una scarsella gonfia e non sua, ha fatto cenno ai risarcimenti; ha preferito un europeismo irenico, un compitino convenzionale. Sono un inizio esemplare del nuovo corso, un assaggio della Repubblica fondata sulla resilienza, von der Leyen e Sassoli alla loro prima visita insieme in Italia, proprio dove si commemora una strage di persone prelevate da un campo di concentramento; e fra loro c’erano antifascisti, partigiani, eroi.

Sentiamo ancora Tesauro nel 2019. Antefatto: a Trieste nel 2008 si svolse un incontro bilaterale Italia-Germania; c’era quella Merkel che adesso conclude un lungo periodo di brillante cancellierato, e c’era quel Berlusconi che ora vivacchia su glorie opache e che già nel 2008, arrivata la crisi, si affannava per restare in sella (dei due, i fatti dissero chi aveva più furbizia). Tesauro riassume: «Erano tutti a Trieste, a parlare di che cosa? Non si sa bene, però una cosa è certa: che hanno parlato anche di soldi, dati dalla Germania anche all’Italia». Il riparazionismo, cioè il finanziamento della memoria senza giustizia, lo smaschera senza riguardi: «Non dovete risarcire i danni alle singole vittime o ai loro eredi. Potete fare tutti i musei che volete, tutte le feste di paese e della memoria che volete, ma non dovete risarcire i danni alle vittime». Per lui è chiaro che questo non deve compromettere i risarcimenti e che qualcuno ha sbagliato: «Il governo italiano accettò in ginocchio e con entusiasmo questa soluzione, ma per le vittime non era una soluzione».

Aveva ragione Theodore Fenstermacher, uno dei pubblici ministeri a Norimberga, quando in una requisitoria sulla strage di Cefalonia, nel 1949 (The Hostages Trial), denunciò l’emotional fatalism. Fenstermacher, sui nazisti: « È questa filosofia del fatalismo emotivo che ha reso così vili e spregevoli le loro offerte di scuse della colpa individuale e collettiva». C’è chi ha espresso il concetto più alla svelta, e in musica. Dopo la guerra, in Valdinievole c’era un omino, faceva il barrocciaio. Non era istruito come Fenstermacher, girava col cavallo per i paesi e cantava una ballata trasmessa a memoria, Popolo se m’ascolti. Raccontava la strage: «Questi vigliacchi non so’ a scorda’…».

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Basterebbe non distogliere lo sguardo https://www.carmillaonline.com/2020/04/08/basterebbe-non-distogliere-lo-sguardo/ Wed, 08 Apr 2020 21:01:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=59238 di Barbara Balzerani

[Riceviamo e pubblichiamo volentieri un estratto dall’ultimo libro di Barbara Balzerani, Lettera a mio padre, di prossima uscita per DeriveApprodi. Vista però l’attualità e l’interesse dell’argomento trattato abbiamo scelto di pubblicarlo come ‘intervento’. S.M.]

Tu dici che è sempre andata così. Che periodicamente la natura scatena forze incontrollabili. Ma non è tutto sempre uguale. Mai come in questo ultimo scorcio di tempo un manipolo di potenti, solo in quanto esistono, indirizzano le sorti di tutti. Nelle strade di Roma passeggiano i cinghiali. Sui nostri cassonetti della spazzatura fanno le [...]]]> di Barbara Balzerani

[Riceviamo e pubblichiamo volentieri un estratto dall’ultimo libro di Barbara Balzerani, Lettera a mio padre, di prossima uscita per DeriveApprodi. Vista però l’attualità e l’interesse dell’argomento trattato abbiamo scelto di pubblicarlo come ‘intervento’. S.M.]

Tu dici che è sempre andata così. Che periodicamente la natura scatena forze incontrollabili. Ma non è tutto sempre uguale. Mai come in questo ultimo scorcio di tempo un manipolo di potenti, solo in quanto esistono, indirizzano le sorti di tutti. Nelle strade di Roma passeggiano i cinghiali. Sui nostri cassonetti della spazzatura fanno le gare di volo radente i gabbiani. I topi e i lupi ci contendono risorse e spazi di prossimità. Non sono attrazioni per i turisti. Sono i reparti avanzati dei nuovi virus che la febbre del pianeta sta risvegliando. È un segnale di quanto sia malmesso il nostro e il loro ambiente di vita, quanto compromesse siano le difese immunitarie di ognuno. E che a noi occidentali non evochino il terrore ancestrale di serpenti o pipistrelli non elimina il fatto che sia la convivenza anomala tra umani e altre specie che causa le ripetute epidemie. I nostri sconfinamenti produttivi. La bestiola appesa al soffitto di una grotta buia non potrebbe nuocere se certe attività umane non avessero fatto da volano. Tutte legate alla logica capitalistica di distruzione delle condizioni di vita degli ecosistemi. Questa, all’ennesima emergenza, ordinerà le file per mandare in circolo l’ultimo vaccino, fino a esaurimento scorte. E poi da capo. Ancora ci dovrebbero parlare i ciechi di Brughel, anche se, dall’ultima rivoluzione fallita, sembra che sia diventato impossibile anche il solo pensare di liberarci dal virus produttivistico che prospera sul nostro sistema di vita. Eppure la mitizzazione del progresso scientista e tecnologico ha dato ampia dimostrazione non solo della sua nocività ma anche dell’oscuramento della conoscenza non legata ai bilanci di impresa.
Il gigante scintillante della produzione e del mercato mondiale poggia su un mondo di sfruttamento, miseria e devastazioni che ne garantisce il funzionamento. Trovare i modi per smettere di sorreggerlo e vederlo crollare da tempo non è più opera della presa di un palazzo d’inverno. Forse occorrerà sgretolarlo in più punti, danneggiarlo per eroderne le fondamenta. Riconquistare la conoscenza del suo funzionamento in un sistematico sabotaggio, sottraendola dalle mani degli esperti a libro paga. Per quanto possa essere difficile qualcosa si può fare subito. Smettere di assecondare chi parla di catastrofe imminente e sparge motivi di speranza che siano i responsabili del disastro a mettere riparo. Chi più drammatizza la condizione del pianeta e più trova modi per una riparazione del danno che è conservazione dell’esistente.
Se tu ci fossi ancora sapresti svelare l’inganno malcelato dietro le innovazioni industriali che dovrebbero ripulire l’aria dai gas venefici. Per esempio potresti spiegare come funziona un motore e di che si alimentano le tanto magnificate macchine elettriche, ultima trovata dell’affarismo verde. Come se sotto il cavolo delle fiabe si trovassero belle e pronte le batterie che tutto hanno meno che la qualità di non inquinare. Col tuo aiuto potremmo capire quanta energia ci vuole per produrle, di che si alimentano, quante ne servono. Impareremmo che la materia prima non è il vegetale magico. Che, anche se la favola ha come protagonisti dei bambini, questi non passano le loro giornate a vivere avventure ma a estrarre cobalto per pochi spiccioli. Che ne muoiono tanti. Che sono bambini africani di pochi anni d’età. Che le batterie esauste, insieme ai telefoni e gli altri congegni elettronici, torneranno nei loro paesi come rifiuti speciali di impossibile smaltimento. Che alle guerre per il petrolio si sommeranno quelle per il nuovo oro striato di grigio. Che sono già cominciate.
Volti non così difficili da vedere nelle nostre giornate blindate dall’indifferenza. Basterebbe non distogliere lo sguardo.
Non ti stupire. In modi diversi nel mondo stiamo morendo sull’altare imbandito del dio consumo. Non avresti mai potuto crederlo nei tuoi anni di lotta per l’indispensabile. Adesso che la furia della produzione capitalistica ha diradato tante nebbie, possiamo vedere con un po’ più di chiarezza quanto gli stati con i loro confini, le proprietà della terra con le loro recinzioni, la produzione con lo sfruttamento del lavoro e dei territori, le biotecnologie hanno messo in forse alla vita di continuare. Forse è tempo di celebrare il fallimento di questa macchina di morte che nessuna versione ecologica può riesumare. Di incepparne il funzionamento. Anche senza tutte le rifiniture di programma, è questo il tempo. Per gli irregolari, gli illegali, gli scarti, gli indios, i comunardi. L’impasto che ci mette all’altezza di un’altra storia, interamente umana.

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Un trattato di ecologia politica ad uso delle giovani generazioni https://www.carmillaonline.com/2019/09/18/trattato-di-ecologia-politica-ad-uso-delle-generazioni-future/ Wed, 18 Sep 2019 21:01:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=54627 di Sandro Moiso

Razmig Keucheyan, La natura è un campo di battaglia. Saggio di ecologia politica, Ombre corte, Verona 2019, pp. 168, 15,00 euro

L’esperienza della nostra generazione: il fatto che il capitalismo non morirà di morte naturale (Walter Benjamin)

Fin dalla citazione di Benjamin posta in esergo il testo di Razmig Keucheyan rivela il suo intento: quello di indagare la stretta interconnessione tra sviluppo capitalistico, uso della Natura e della sua ideologia e creazione di diseguaglianze ambientali per rivelare come tutto ciò sia strettamente ascrivibile al conflitto di classe che sottende e determina ogni scelta economica, politica e sociale [...]]]> di Sandro Moiso

Razmig Keucheyan, La natura è un campo di battaglia. Saggio di ecologia politica, Ombre corte, Verona 2019, pp. 168, 15,00 euro

L’esperienza della nostra generazione: il fatto che il capitalismo non morirà di morte naturale (Walter Benjamin)

Fin dalla citazione di Benjamin posta in esergo il testo di Razmig Keucheyan rivela il suo intento: quello di indagare la stretta interconnessione tra sviluppo capitalistico, uso della Natura e della sua ideologia e creazione di diseguaglianze ambientali per rivelare come tutto ciò sia strettamente ascrivibile al conflitto di classe che sottende e determina ogni scelta economica, politica e sociale della società in cui viviamo. Non solo in Occidente, ma su scala planetaria.

L’autore, nato nel 1975, è attualmente professore presso il Centro Émile Durkheim dell’Università di Bordeaux e fa parte del comitato di redazione della rivista “Actuel Marx”. Oltre a ciò è riconosciuto come uno dei più esperti conoscitori dell’opera di Antonio Gramsci e ha aderito al  Nouveau Parti anticapitaliste oltre che aver firmato, nel 2014, l’appello del Movimento per la VI Répubblica avviato da Jean-Luc Mélenchon e dal Parti de gauche.

Una militanza politica e culturale “di sinistra” e “gramsciana” che traspare da ogni pagina di un testo che, proprio per questi motivi, è allo stesso tempo stimolante e discutibile (a causa di una manifesta e forse eccessiva speranza riformistica ) per tutti coloro che si occupano attualmente dei problemi legati alla crisi ambientale, a quella economica e a quella climatica e dei risvolti che queste possono avere sui conflitti sociali sia già in corso che futuri.

Uscito per la prima volta in Francia nel 2014, il testo si articola sostanzialmente intorno a tre temi ritenuti fondamentale dall’autore e che costituiscono le tre parti che lo compongono: il razzismo ambientale, la finanziarizzazione della natura attraverso le pratiche assicurative nei confronti dei rischi climatici e la militarizzazione dell’ecologia. Tutte strettamente collegate tra di loro.

Tre argomenti attraverso i quali l’autore delinea e delimita un discorso al centro del quale è posto continuamente in risalto il tema delle diseguaglianze sociali, economiche e “razziali” che costituiscono il problema centrale e, certamente, maggiormente conflittuale dell’attuale emergenza climatica. Un’emergenza che, al di là dei suoi connotati ambientali e fisici, si rivela essere innanzitutto ancora una questione di classe.

Tale impostazione permette all’autore sia di superare le posizioni ecologiste tipiche di un movimento come Fridays For Future che, in linea con le correnti ecologiste tradizionali, sembra voler accomunare tutta l’umanità, senza distinzioni di classe o di appartenenza alle aree più povere del pianeta, in una comune battaglia per la salvezza di una casa ritenuta “comune”, sia le posizioni di quelle sinistre che, in nome di un progresso sempre meno credibile e di uno sviluppo sempre più devastante, respingono le lotte ambientali ritenendole un mero prodotto dell’ideologia borghese.

Se è infatti vero che, all’interno dell’attuale crisi del modo di produzione capitalistico, il green capitalism può porsi come strumento di rilancio di dinamiche innovative e produttive utili alla ripresa di processi di accumulazione sempre più asfittici, è altresì vero che proprio queste politiche, che pretendono di proporre un modello di sviluppo maggiormente sostenibile, tenderanno ad accentuare le differenziazioni di classe e a separare sempre più la grande maggioranza della società che, di fatto, le subirà da una minoranza che ne trarrà profitto.

A dimostrazione di ciò basti riflettere sul fatto che lo stesso movimento francese dei gilets jaunes è sorto proprio a partire da un aumento del costo del carburante giustificato dalla comune necessità di finanziare iniziative in difesa dell’ambiente o di rinnovamento degli apparati produttivi in chiave green. Uno degli slogan del movimento affermava infatti che a pagare la crisi ambientale dovessero essere prima di tutto coloro, governanti e imprenditori, che di tale crisi erano la causa.

Inquadrare quindi l’attuale emergenza planetaria da un punto di vista di classe (cui poi andrebbero aggiunti, come fa l’autore, quello razziale e di genere, essendo spesso le donne a costituire l’anello più debole e vulnerabile della catena di coloro che ne subiscono maggiormente le conseguenze) diventa quindi importantissimo per il rilancio di una comune richiesta di giustizia ambientale che non si basi ancora una volta su principi universali, troppo spesso generici ed inafferrabili, ma sul superamento di un disagio estremamente concreto e sulle risposte da dare a necessità e bisogni che non apprtengono in maniera uguale a tutti i settori dlla popolazione, ma che, troppo spesso, si concentrano soprattutto nelle aree abitate dalle fasce più povere e disagiate.

Sia che si tratti di discariche di rifiuti tossici prossimi ad aree urbanizzate degradate, sia che si tratti delle diverse conseguenze che catastrofi presunte “naturali” (ad esempio l’uragano Katrina del 2005) possono avere su settori differenti di cittadini: perdita della casa e di ogni avere per una (ad esempio la componente afro-americana di New Orleans) e guadagni enormi sulla speculazione edilizia legata alla ricostruzione per l’altra (bianca e ricca).

Ma, come dimostra bene il testo anche le guerre portano (oserei dire da sempre) il loro contributo alla devastazione ambientale, dando vita a movimenti migratori, di differente intensità a seconda del conflitto e delle aree interessate, di cui oggi vediamo le conseguenze nell’immensa mole di profughi che cercano fuggire da tutto ciò. E per i quali la “casa comune” di cui parla Greta Thunberg davvero non esiste ancora.

Guerre che, inoltre, depositano sui territori e sui corpi il loro ricordo a lungo indimenticabile: dall’agente arancio in Vietnam, che ha devastato quel paese per anni ancora dopo la fine della guerra e i corpi di molti di coloro che l’hanno combattuta su un fronte o sull’altro, all’uranio arricchito che ha a sua volta impestato gli ambienti, e ancora una volta i corpi, in tutte le aree in cui la Nato è intervenuta per le sue missioni di pace.

La natura, come recita il titolo del testo, è quindi davvero un campo di battaglia, anzi è teatro di un’autentica guerra di classe, non dichiarata e di fatto negata proprio da coloro che l’hanno iniziata e la stanno portando avanti in nome del profitto e dell’interesse privato, e il libro di Keucheyan ci aiuta a comprenderlo ancora meglio.
Per far sì che, alla fine, a morire sia proprio il capitalismo.

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Guerrevisioni. L’eredità delle immagini delle guerre mondiali https://www.carmillaonline.com/2018/10/22/guerrevisioni-leredita-delle-immagini-delle-guerre-mondiali/ Mon, 22 Oct 2018 21:00:10 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=47905 di Gioacchino Toni

Su come le immagini dalle guerre mondiali possano essere di aiuto nella comprensione dei conflitti odierni si soffermano diversi studiosi nella prima parte del volume curato da Maurizio Guerri, Le immagini delle guerre contemporanee (Meltemi, 2018) [su Carmilla 12]. Prenderemo qua in esame i saggi di Pierandrea Amato, Raffaele Scolari e Adolfo Mignemi che si occupano rispettivamente di come la gestione delle immagini da parte dei media abbia determinato uno scollamento tra visione ed esperienza, il primo, del rapporto tra essere umano e paesaggio nell’esperienza bellica, il secondo, e dell’interazione [...]]]> di Gioacchino Toni

Su come le immagini dalle guerre mondiali possano essere di aiuto nella comprensione dei conflitti odierni si soffermano diversi studiosi nella prima parte del volume curato da Maurizio Guerri, Le immagini delle guerre contemporanee (Meltemi, 2018) [su Carmilla 12]. Prenderemo qua in esame i saggi di Pierandrea Amato, Raffaele Scolari e Adolfo Mignemi che si occupano rispettivamente di come la gestione delle immagini da parte dei media abbia determinato uno scollamento tra visione ed esperienza, il primo, del rapporto tra essere umano e paesaggio nell’esperienza bellica, il secondo, e dell’interazione tra immagini di guerra e memoria relativa al confitto, l’ultimo.

Pierandrea Amato, nel suo intervento “Dov’è il nemico? Il paradigma della Grande guerra”, riflette su come la guerra possa essere negata tanto dalla mancanza di immagini che ne diano testimonianza, quanto da un eccesso di rappresentazione che finisce con il sottrarle i suoi caratteri specifici e perturbanti. A volte è lo stesso nemico ad essere fatto scomparire; se si pensa al conflitto irakeno del 1991, le immagini televisive non hanno mostrato che uno spettacolo luminoso notturno costituito da traccianti verdastri. «Tutto ciò ha una conseguenza ontologica ed estetica straordinaria che porta a compimento un processo esploso circa un secolo fa; la relazione tra la guerra e le immagini sancisce l’epilogo di un fenomeno registrato da Walter Benjamin: l’eclissi dell’esperienza per l’uomo contemporaneo. Di fronte all’orrore della guerra, rimaniamo attoniti spettatori di un evento cui non facciamo alcuna esperienza (neppure, in fondo, visiva; meno che mai verbale, psicologica, affettiva). Nella vicenda della Prima guerra mondiale Benjamin riesce a estrarre un carattere essenziale dell’età contemporanea: l’ordinaria esperienza dell’impossibile. La prima guerra totale del Novecento, cioè, si colloca oltre la misura del concepibile, determinando la definizione di assi concettuali in grado di fornire un senso all’insensato in cui, evidentemente, le prerogative del logos sono ampiamente sottomesse ad altre costellazioni concettuali» (pp. 23-24).

«In Benjamin la guerra è il centro di gravità di un’operazione che distilla la sua violenza mediante l’adozione di una serie di filtri estetici in grado di rimuovere la profondità del suo orrore. Questa operazione è reazionaria non soltanto perché si riferisce a categorie ampiamente corrose dalla guerra industriale – eroismo, coraggio, ecc. – e quindi si preoccupa di rendere torbido il valore del massacro della Grande guerra (il riferimento diretto di Benjamin) ma più essenzialmente perché fa della guerra un evento estetico» (p. 28). Dunque, sostiene Amato, rifacendosi al ragionamento del filosofo tedesco, qualsiasi guerra contemporanea, caratterizzata com’è da una notevole sublimazione iconica, potrebbe essere intesa strutturalmente un avvenimento fascista per il suo «rimuovere gli umori della guerra: cadaveri, dolore, traumi permanenti. Celerebbero una matrice fascista i conflitti armati contemporanei, se analizzati secondo il caleidoscopio benjaminiano, perché impongono una forma d’estetizzazione della violenza militare il cui destino è sviare dalla sua esperienza effettiva sollecitando, invece, la sua rappresentazione spettacolare. […] La condizione della guerra contemporanea è la perdita di un’esperienza visiva in grado di strapparci da ciò che normalmente vediamo; di produrre uno scollamento tra noi è le nostre esperienze. Ma proprio questa eclissi dell’esperienza ci consegna immancabilmente al cuore dell’esperienza – o meglio: non esperienza – della Grande guerra» (pp. 28-29).

Raffaele Scolari, nel suo “Kurt Lewin e la mutazione dell’immagine dei territori di guerra”, prende invece in esame Paesaggio di guerra (1917) dello studioso tedesco ragionando attorno alla mutevolezza e alla complessità dei legami tra essere umano e paesaggio nell’esperienza bellica. Nella parte finale del suo intervento Scolari si sofferma sull’immagine della guerra come narrazione. «La latente ubiquità e la progressiva invisibilizzazione dei dispositivi impiegati rendono obsolete le nozioni di teatro bellico, di fronte, di retrovia eccetera. Terra, acqua e cielo non configurano più un territorio verso cui avanzare, bensì […] un corpo in cui sono introdotte sonde aventi lo scopo di osservarlo dall’interno per poi eventualmente disabilitarne talune funzioni. Non diversamente dalle immagini fornite per esempio dalla tomografia computerizzata, che per essere comprese richiedono particolari competenze disciplinari, quelle sulla scorta delle quali agiscono i combattenti o, com’è meglio chiamarli, gli operatori bellici delle guerre contemporanee sono elaborati digitali. Propriamente non sono immagini, nel senso che non narrano la storia di eventi in corso, bensì grafici, visualizzazioni di insiemi complessi di dati, ossia riduzioni di complessità che consentono di operare in tempi estremamente stretti» (p. 89).

In un contesto come quello contemporaneo in cui le operazioni belliche vengono sempre più raccontate in maniera addomesticata dai reportage giornalistici, quando non direttamente messe in scena dagli apparati militari, converrebbe concedere scarsa credibilità a tali narrazioni, ma, sostiene Scolari, nonostante tutto, «continuano a circolare immagini potenzialmente capaci di “porci dentro” l’evento e il luogo della guerra. Sono lampi nell’oscurità prodotta [dal] processo generale di invisibilizzazione […]. In quanto tali, riprendendo un concetto chiave delle teorizzazioni di Benjamin, sono “immagini dialettiche”, le quali però non si contrappongono alle “immagini arcaiche”, bensì a quelle prodotte e poste in circolazione da un complesso di dispositivi appunto invisibilizzanti» (p. 90).

Nel saggio di Adolfo Mignemi, “La fotografia e la memoria. Osservazioni sulla violenza nelle immagini e sulla violenza delle immagini”, lo studioso, a partire dall’analisi di diverse fotografie, riflette sulla narrazione della violenza e sulla durezza della sua rappresentazione. «Ciò che lega la fotografia alla memoria è la reciproca interazione che consente, da un lato, di riconoscere le situazioni ed i contesti che strutturano l’immagine, dall’altro di trasformare la narrazione proposta in una esperienza verosimile» (p. 94).

Visto che ogni conflitto si differenzia dai precedenti ed elabora una propria immagine della guerra, l’autore si sofferma in particolare su alcuni casi emblematici: il primo esempio di immagine-rappresentazione di caduti in combattimento che ritrae una delle fosse comuni di Melegnano realizzate dopo la battaglia dell’8 giugno 1859; le raccolte da Paolo Valera del 1912 relative alla repressione in Libia delle resistenze all’occupazione italiana come primo utilizzo di fotografie di denuncia di crimini di guerra; il filmato comparso sul web nel gennaio del 2012 realizzato da alcuni militari americani mentre infieriscono sui cadaveri dei nemici; il video girato e diffuso in internet dall’Isis relativo alla decapitazione del giornalista americano James Wright Foley ad al-Raqqua nell’agosto del 2014.

Il saggio si sofferma anche sul fatto che in numerose pubblicazioni edite nel corso del Primo conflitto mondiale i caduti vengono mostrati con immagini che li ritraggono in abiti borghesi e non in divisa. «Che cosa può aver indotto le famiglie a consegnare alla memoria pubblica questo tipo di ritratti? È l’assenza di una foto in divisa militare tra le immagini conservate a casa? È la volontà di confermare il proprio ricordo della persona cara fissando la memoria visiva alle condizioni di vita normale, precedente la guerra?» (p. 99). Oltre a tali possibili motivazioni, secondo lo studioso, vi sarebbero parecchi elementi che rendono possibile ipotizzare anche un cosciente atto di contrarietà alla guerra.

«Nell’ambito di una riflessione sulla memoria visiva dei caduti è molto interessante soffermarsi sui ricordini di lutto familiari intesi come espressione del percorso di elaborazione del lutto. In generale possiamo affermare che, a partire dalla prima guerra mondiale, progressivamente la retorica patriottica si impossessa della memoria e l’immagine diviene l’elemento costitutivo principale delle rappresentazioni. Successivamente la simbolica istituzionale prende a impossessarsi di tutto: compaiono i simboli politici al posto delle tradizionali simbologie del sacrificio, del dolore, della consacrazione alla Volontà superiore. Progressivamente, in conseguenza anche della ritualizzazione della politica autoritaria, la rappresentazione del soprannaturale lascia il posto all’immagine della Nazione, arbitra unica delle sorti dei cittadini e soggetto pienamente legittimato all’esercizio della violenza collettiva. È in questo contesto che la contrarietà alla guerra si manifesta in innumerevoli forme» (p. 99).

Una riflessione viene riservata dall’autore alla diffusione di immagini dai teatri di guerra da parte di militari: se è pur vero che oggi grazie agli smartphone è facile realizzare e diffondere immagini, dunque disporre di documentazione circa episodi di violenza nei teatri di guerra, Mignemi sottolinea come, in molti casi, le fotografie e i filmati testimonianti episodi particolarmente violenti non vengano realizzati dai militari per denunciare i fatti ma per diffondere una “immagine-ricordo” compiaciuta del loro essere combattenti.

Alle immagini si è fatto ricorso, sin dall’avvio del Secondo conflitto mondiale, anche per la loro capacità di rappresentare e proporre violenza: tra le prime pubblicazioni che ricorrono a tale uso delle fotografie nel saggio viene citato il libro prodotto ufficialmente dal governo tedesco, dopo l’annessione della Polonia, sulle atrocità commesse dai polacchi nei confronti delle minoranze tedesche.

Venendo invece agli interventi militari italiani novecenteschi, di questi esiste, ad esempio, un’ampia documentazione visiva delle guerre di aggressione in territorio balcanico a partire dal 1940, che «ben rappresenta il ripetersi del progetto imperiale fascista di conquista e dominazione del Mediterraneo» ma, denuncia lo studioso, ancora oggi, in Italia, la ricerca storica sembra non riuscire a scalfire «l’opinione assolutoria diffusa nella mentalità comune circa il ruolo di aggressore del nostro Paese» (p. 107).

Un caso su cui si sofferma il saggio riguarda invece alcune immagini che testimoniano le infami modalità con cui l’Italia ha partecipato all’Operazione Ibis in Somalia; dalle foto dei nemici incappucciati e con mani e piedi legati dietro la schiena con una corda intorno al collo, a quelle del prigioniero denudato e sottoposto a scariche elettriche, fino all’episodio dello stupro con razzo di segnalazione di una donna somala effettuato dai militari italiani nel novembre 1993 ad un posto di blocco tra Mogadiscio e Balad. Di tutte queste immagini non si parla più, così come è sceso il silenzio su quella e altre operazioni militari tricolori. Si tratta di un oblio sicuramente utile sia a evitare, nuovamente, al Paese di fare i conti con le proprie responsabilità, che a non intralciare la costruzione del capro espiatorio del momento: il migrante che spinge alle porte di casa.


Serie “Guerrevisioni

 

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Guerrevisioni. Tendenze iconoclastiche, visioni aumentate, combat video, cinema e videogiochi https://www.carmillaonline.com/2018/08/26/guerrevisioni-tendenze-iconoclastiche-visioni-aumentate-combat-video-cinema-e-videogiochi/ Sat, 25 Aug 2018 22:01:43 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=48000 di Gioacchino Toni

«le immagini sono parte integrante del modo di conduzione dei conflitti e non possono essere semplicemente liquidate come vaghe apparenze o come simulacri del reale» (Maurizio Guerri)

Nel volume curato da Maurizio Guerri, Le immagini delle guerre contemporanee (Meltemi, 2018), diversi studiosi si confrontano con alcuni importanti interrogativi a proposito del rapporto tra immagini e conflitti bellici. «Qual è il nostro sguardo sulle guerre nell’epoca della manipolazione domestica delle immagini, della produzione e della condivisione “democratica” dei video via YouTube, della diffusione “virale” delle notizie (o delle fake-news) sui social [...]]]> di Gioacchino Toni

«le immagini sono parte integrante del modo di conduzione dei conflitti e non possono essere semplicemente liquidate come vaghe apparenze o come simulacri del reale» (Maurizio Guerri)

Nel volume curato da Maurizio Guerri, Le immagini delle guerre contemporanee (Meltemi, 2018), diversi studiosi si confrontano con alcuni importanti interrogativi a proposito del rapporto tra immagini e conflitti bellici. «Qual è il nostro sguardo sulle guerre nell’epoca della manipolazione domestica delle immagini, della produzione e della condivisione “democratica” dei video via YouTube, della diffusione “virale” delle notizie (o delle fake-news) sui social network? In che modo la modificazione quantitativa e qualitativa dei media ha mutato il nostro modo di guardare gli eventi bellici, rispetto anche solo ad alcuni decenni fa? Che cosa vediamo e che cosa non siamo più in grado di vedere delle guerre contemporanee?» (p. 9).

Il libro analizza il rapporto immagine/guerra nella contemporaneità tenendo ben presente che se quest’epoca da un lato offre inedite modalità comunicative e di produzione diffusa e decentrata delle immagini, dall’altro si caratterizza per una concentrazione monopolistica senza precedenti dei flussi di informazione sia nel web che nelle modalità più tradizionali.

Il corposo volume risulta suddiviso in tre parti: nella prima si ragiona sull’utilità delle immagini dei conflitti mondiali nella comprensione delle attuali guerre; nella seconda si indagano le modalità con cui le arti possono oggi testimoniare gli eventi bellici; nell’ultima parte si analizzano i conflitti contemporanei che si danno grazie alle immagini. Facendo riferimento proprio a ques’ultima sezione del libro intitolata Pensare le guerre con gli occhi (e con le loro protesi), in questo scritto ci soffermeremo sui contributi di Mauro Carbone e Ruggero Eugeni che si occupano rispettivamente della paradossale piega iconoclasta che sembra attraversare una contemporaneità che si vuole votata al visivo come non mai, il primo, e delle relazioni tra usi bellici e usi mediali dei dispositivi di visione notturna, il secondo.

Mauro Carbone, nel suo “L’uomo che cade. L’inizio di una controtendenza iconoclastica nella svolta iconica?”, torna, dopo essersene occupato nel libro Essere morti insieme. L’evento dell’11 settembre 2001 (Bollati Boringhieri, 2007), a riflettere su come le immagini televisive dell’attacco alle Twin Towers dell’11 settembre 2001, in particolare quelle relative alle persone lanciatesi nel vuoto per sfuggire alle fiamme, dopo essersi impresse nella memoria collettiva a livello planetario grazie ai media, siano immediatamente divenute oggetto di una vera e propria strategia di rimozione. Ad essere in gioco, sostiene lo studioso, sono la memoria e l’oblio collettivi di un evento che ha aperto il nuovo millennio nonché inaugurato quella che W.J.T. Mitchell (Cloning Terror. La guerra delle immagini dall’11 settembre a oggi, La casa Usher, 2012) ha definito l’attuale “guerra delle immagini”.

Alle immagini è spettato un ruolo fondamentale nella percezione collettiva della tragedia dell’11 settembre: non fosse stato per esse, quella delle Twin Towers sarebbe stata una tragedia simile a tate altre e ciò, sostiene Carbone, dovrebbe «aiutarci a considerare sino in fondo l’intrinseca portata politica del nostro rapporto estetico-sensibile col mondo, con cui quello con le immagini fa evidentemente tutt’uno» (p. 305). Secondo l’autore il sistema mediatico si è preoccupato di an-estetizzare il trauma dell’11 settembre 2001 attraverso l’incessante ripetizione dello stesso, ricorrendo alla riproduzione della medesima sequenza televisiva che mostra un aereo che attraversa lo schermo fino a schiantarsi contro una delle due torri provocando un’esplosione spettacolare. Lo studioso riprende a tal proposito ciò che ha scritto Allen Feldman nel suo “Ground Zero Point One: on the Cinematics of History” (2002): “Era come se al pubblico fosse stata data una terapia temporale facendolo testimone, più e più volte, di una sequenza meccanica di eventi che restaurava la linearità del tempo sospesa con gli attentati”. Carbone individua in tale an-estetizzante ripetizione ossessiva della medesima sequenza una certa convergenza e complementarietà con la strategia di rimozione delle immagini degli individui lanciatisi nel vuoto ed è proprio proprio sul rilievo assunto da tali immagini «nel progetto di costruzione di una certa memoria collettiva dell’11 settembre» (p. 306) che riflettere in questo scritto.

La strategia di rimozione delle immagini dei cosiddetti jumpers lanciati nel vuoto prende il via sin dal giorno successivo ai fatti, quando un’ondata di proteste, in particolare negli Stati Uniti, colpisce i quotidiani accusati di sciacallaggio per aver pubblicato soprattutto la fotografia che mostra un uomo, divenuto noto come Falling Man, in una caduta verticale incredibilmente composta con la testa in giù, le braccia lungo i fianchi e una gamba piegata in linea con le geometrie del palazzo. Da allora questa fotografia, ben riuscita dal punto di vista formale, non è più stata pubblicata negli Stati Uniti nonostante possieda una carica attrattiva che l’accomuna all’immagine dell’aereo che impatta con una delle due torri. La straniante perfezione dell’immagine del Falling Man «riesce tanto a sospendere il tempo – proprio come abbiamo sentito Feldman dire che gli attentati hanno fatto – quanto a capovolgere lo spazio. Al punto da spingere a chiedersi se la foto sia stata bandita malgrado le sue qualità formali oppure proprio per queste. Dubbio legittimo, che rivela come la bellezza, anziché mitigare, possa acuire l’atrocità di un’immagine. Dubbio che comunque non deve far dimenticare una ben più generale verità: la documentazione visiva sui cosiddetti jumpers, nel suo complesso, ha avuto una sorte analoga a quella della foto di Falling Man, specie negli Stati Uniti» (p. 307).

Secondo Carbone anche se la strategia di rimozione sembrerebbe derivare da una questione di privacy da rispettare, in realtà già nel corso del primo anniversario della strage sono state soggette ad aspre critiche, dunque rimosse, alcune opere d’arte evocanti i tragici eventi pur senza fare alcun riferimento a individui specifici violandone la privacy. Il risultato è che negli Stati Uniti si è smesso di mostrare e di parlare di quegli individui gettatisi nel vuoto. «Ecco allora che la memoria del “giorno più fotografato e più videoregistrato della storia mondiale” si confessa abitata da una paradossale volontà iconoclastica, che segnerà ambiguamente anche molti altri combattimenti della “guerra delle immagini” esplosa quel giorno» (pp. 308-310).

Volontà iconoclastica che, secondo lo studioso, ritroviamo anche nell’attentato del 2015 alla sede del giornale satirico francese «Charlie Hebdo», definito da «Le Monde» “L’11 settembre francese”. Nel presentarsi come una rappresaglia per la pubblicazione di alcune caricature di Maometto, il gesto palesa la volontà iconoclastica degli attentatori. «Né questa volontà risulta di per sé contraddetta dall’enorme impatto, non solo emotivo ma anche politico, esercitato nel settembre dello stesso anno dalla fotografia del corpo annegato del piccolo migrante siriano Aylan Kurdi sulla spiaggia turca di Bodrum: un impatto che, proprio per la valenza politica assunta, da più parti si cercò di contrastare bollando quella foto come manipolata. E gli esempi di tale volontà iconoclastica – rintracciabile, pur con ovvie e significative differenze, in schieramenti culturali, ideologici e mediatici dichiaratamente opposti – potrebbero continuare» (p. 310).

Nella parte finale dell’intervento, l’autore prende in considerazione la conclusione del romanzo di Jonathan Safran Foer Molto forte, incredibilmente vicino (Guanda, 2005) in cui un bambino decide di invertire la sequenza delle immagini di un altro falling man e con essa degli eventi, immaginando il padre che dal suolo, salendo con l’ascensore, finisce col raggiungerlo nell’appartamento. «In questo testo e nella sequenza rovesciata d’immagini che l’accompagna sembra agire appunto una precessione reciproca del tragico reale e dell’immaginario infantile, i quali non cessano di rinviare l’uno all’altro pur rimanendo disperatamente divergenti come solo possono esserlo il trauma e l’inconsolabile desiderio di cancellarlo. Emozione contrastata. Emozione dalla cui violenza è impossibile difendersi. Diversamente dal sublime kantiano, lo spettatore non riesce più a distinguersi dal naufrago. Così, se Kant può immaginare il sublime come “l’immenso oceano sconvolto dalla tempesta”, un testimone dell’11 settembre non ha potuto fare a meno di modificare implicitamente quell’immagine scrivendo: “il dolore che avvolge queste colonne è inimmaginabile e continuiamo a fissarlo come travolti da un mare in tempesta”. Non c’è possibile “distanza di sicurezza” dal naufragio. E tanto peggio per noi se speriamo di poterla creare alzando muri. Perché tale naufragio non si limita a essere “incredibilmente vicino”, come annunciava il titolo del romanzo di Foer, ma è piuttosto il nostro stesso naufragio. Per questo si rivela abitato da quella che prima chiamavo “strategia di rimozione”. Anche per questo una guerra alle immagini percorre l’attuale guerra delle immagini» (p. 317).

Ruggero Eugeni, nello scritto “Le negoziazioni del visibile. Visioni aumentate tra guerra, media e tecnologia”, prende in esame alcune tecnologie di assistenza-potenziamento della visione umana in condizioni di scarsa visibilità, riflettendo soprattutto sulle relazioni tra usi bellici e usi mediali dei dispositivi di visione notturna. Dopo aver tratteggiato lo sviluppo di alcune tecnologie visive – image intensification, active illumination, thermal imaging – dapprima in ambito militare e, successivamente, civile, lo studioso analizza alcuni combat video sottolineando come le modalità con cui sono stati montati e la diffusione in internet tendano a trasformarli da materiale di documentazione in propaganda. In molti di questi video esiste un «legame metonimico fortemente esibito tra appropriazione visiva e appropriazione fisica del territorio» (p. 326). Non a caso, continua Eugeni, la conquista dei differenti spazi, nel corso delle operazioni belliche riprese, viene da un lato esaltata dalla natura “embedded” della videocamera (al contempo testimone impersonale e parte integrante del movimento di conquista) e dall’altro resa possibile e visibile dal ricorso a dispositivi di visione notturna, «atto di vittoria preventiva sulle “tenebre” del male che circondano i corpi dei soldati e minaccerebbero altrimenti di inghiottirli» (p. 326). I combat video sono spesso girati in prima persona secondo modalità stilistiche molto simili a quelle che si ritrovano nei videogiochi del genere first person shooters di guerra; è evidente come videogiochi e combat video si rimandino a vicenda.

Nei videogiochi di ambientazione bellica più avanzati si ha una «sovrapposizione metonimica tra superiorità visiva garantita dalle tecnologie di visione notturna, e superiorità tattica espressa in atti di conquista e di “bonifica” del territorio mediante un sistematico sterminio dei nemici impossibilitati ad agire nel buio» (p. 328). Vi sono però altri due elementi importanti messi i luce dall’autore: «la struttura del videogioco in prima persona non solo esprime la conquista visuale, sensomotoria e militare di un territorio, ma permette al giocatore di viverlo direttamente grazie a una esperienza di simulazione incorporata. In secondo luogo, nei paratesti che hanno accompagnato il lancio del gioco la superiorità tecnologica e militare della visione notturna viene fatta rimare metaforicamente con la superiorità tecnologica del videogioco stesso (e quindi, ancora metonimicamente, con la fluidità dell’esperienza di gioco e il relativo piacere), la cui costruzione assume tutti i connotati di una delle operazioni belliche che vengono epicamente narrate» (p. 328).

In questi casi di combattimento al buio registrati attraverso sensori notturni (gli stessi videogiochi simulano tale modalità), lo spettatore viene calato nella medesima situazione di “vantaggio scopico” di cui si avvalgono i combattenti “armati di visori”. «La rilevanza di questo fatto per quanto concerne l’esperienza spettatoriale emerge chiaramente se analizziamo al contrario casi in cui allo spettatore viene negata, almeno a tratti, questa condizione» (p. 329). A tal proposito il saggio porta come esempio la sequenza finale del film Zero Dark Thirty (2012) di Kathryn Bigelow in cui si mostra l’assalto notturno al rifugio in cui è nascosto Osama Bin Laden realizzata montando in alternanza immagini a luce naturale scarsamente visibili e immagini realizzate con visori notturni. Tale alternanza risponderebbe «a una precisa strategia espressiva ed emotiva: nel momento di massima tensione, lo spettatore viene calato in una situazione alternativamente di sollecitazione e deprivazione visuale e sensomotoria. Per un verso la presenza intermittente delle immagini girate coi sensori stimolano il suo coinvolgimento nell’azione secondo un modello di simulazione incorporata […] per altro verso l’irrompere e il prorompere dell’oscurità lo risospingono in una condizione di spaesamento e deprivazione: essi innescano dunque un disperato bisogno di informazione percettiva indispensabile per portare a temine i processi di simulazione incorporata dell’azione precedentemente innescati» (pp. 332-333).

Un effetto visivo analogo lo si ritrova in Flames of War. Fighting Just Begun (settembre 2014), un video di propaganda realizzato e diffuso dall’Isis. «Anche qui le immagini, girate da una helmet cam, sono spesso quasi indistinguibili o completamente buie. Di tanto in tanto tuttavia alcune riprese con sensori notturni mostrano immagini di soldati siriani morti, abbattimento di porte, scene di combattimento, ecc. con assolvenze e dissolvenze al nero a far sì che la piena visibilità della scena sia costantemente compromessa» (p. 333). Non è difficile, continua Eugeni, cogliere la volontà da parte dell’Isis di fare il verso alle sequenze finali del film della Bigelow: «la conquista della base di Raqqa diviene nella retorica del video la eroica “risposta” dei mujahidin di Daesh alla uccisione del leader di Al Quaeda – o per meglio dire: il racconto visuale dell’una diviene la risposta al racconto visuale dell’altra» (p 334).

Nella parte finale del saggio vengono ricostruite le analisi relative alle relazioni tra guerra, media e tecnologie del visibile prodotte da autori come Paul Virilio, Friedrich Kittler e Jean Baudrillard, mettendo però in luce come tale dibattito necessiti di essere aggiornato alla luce dell’uso e degli effetti della visione aumentata dai dispositivi visivi contemporanei.

Se Paul Virilio tende, sin dalla metà degli anni Ottanta, a porre l’accento sull’assorbimento di tecnologie mediali da parte dell’industria militare, indicando in particolare il ricorso nelle guerre novecentesche a tecniche cinematografiche, lo studioso tedesco Friedrich Kittler sostituisce alla “logistica della percezione” di cui parla il francese, una “logistica dell’informazione” e sostiene invece che sono le esigenze belliche a determinare lo sviluppo e la logica dei media.

La questione posta da Virilio circa la progressiva “smaterializzazione” della guerra, la si ritrova per certi versi anche in Jean Baudrillard che da parte sua «sviluppa una teoria dei media basata sull’idea di una loro autoreferenzialità e della cancellazione del loro referente “reale”. Il motto mcluhaniano “il medium è il messaggio” va reinterpretato secondo Baudrillard: i media hanno prodotto una implosione del sistema di distinzione tra la realtà e la sua rappresentazione mediata, e hanno dato luogo a un sistema di simulazione e di iperrealtà diffuse» (pp. 337-338). Mettendo a confronto i due studiosi Eugeni nota che se Virilio «prende in esame tecnologie di svolgimento del combattimento e sottolinea l’importanza crescente del momento scopico di sorveglianza rispetto a quello pratico del combattimento, Baudrillard dal suo canto si focalizza sulle strategie di rappresentazione mediale (soprattutto televisiva) della guerra e sottolinea la sua derealizzazione» (p. 338). Entrambi insistono comunque sul processo di smaterializzazione subito dalla guerra nel momento che questa ha iniziato la sua «interazione con tecnologie visuali sia panottiche che rappresentative: le tecnologie visuali per i due studiosi sottraggono il soggetto da un confronto diretto e pratico con il mondo isolandolo in una dimensione di sguardo distante, simulacrale o impersonale che sia» (pp. 338-339).

Secondo Eugeni, se a proposito delle modalità di relazione tra i media e gli apparati bellici, Virilio e Kittler hanno il merito di aver posto in evidenza una presenza “extramediale” dei media, «il limite del dibattito su media e guerra risiede [nel fatto] di opporre semplicemente tecnologie del visibile mediali e belliche per studiare le forme di scambio e di influenza delle une sulle altre e/o viceversa» mentre, continua lo studioso, in una condizione postmediale pienamente intesa occorrerebbe «radicalizzare questo modello e pensare piuttosto i differenti dispositivi di visual data setting come capaci di lavorare contemporaneamente all’interno di differenti e numerose cornici e pratiche sociali: non solo l’ambito dei media in senso stretto e non solo la ricerca e le applicazioni belliche, dunque, ma anche la sorveglianza, l’astronomia, i trasporti, la produzione industriale, la meteorologia e così via» (p. 340).

Per quanto riguarda invece la questione della smaterializzazione e della virtualizzazione della guerra derivate dall’utilizzo di tecnologie visuali, nonostante il merito di aver sottolineato il ruolo dei media «in una condizione postmediale all’interno dei fenomeni geopolitici contemporanei», le analisi di Virilio e Baudrillard, sostiene Eugeni, non possono essere condivise in quanto «il caso dei sistemi di visione notturna e aumentata dimostrano chiaramente che le tecnologie visuali si pongono al servizio di una relazione situata e incarnata del soggetto con il mondo: esse sono finalizzate ad accrescere la sua “consapevolezza situazionale” al fine di una gestione ottimale del suo agire. Non si assiste dunque a una assolutizzazione autoreferenziale del visibile, quanto piuttosto a una negoziazione dei suoi limiti rispetto all’invisibile» (p. 341).

 

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Isis: il gran ballo in maschera della modernità globale https://www.carmillaonline.com/2017/07/11/isis-gran-ballo-maschera-della-modernita-globale/ Mon, 10 Jul 2017 22:01:32 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=39287 di Giovanni Iozzoli

Mentre sta tramontando, tra le rovine di Mosul e Raqqa, la dimensione geografica e “statuale” del Califfato, è bene continuare ad indagare il senso e la traiettoria storica di questa presenza – che perdurerà ancora lungo, in forme mobili e deterritorializzate, a cavallo di almeno due continenti.

Da alcuni anni è aperto il dibattito sul rapporto complesso e ambivalente tra il fenomeno Isis e la modernità. Ci si è chiesto spesso: la comparsa del Califfato è l’ultimo culminante episodio dell’impatto critico e autodistruttivo del mondo islamico con le categorie del [...]]]> di Giovanni Iozzoli

Mentre sta tramontando, tra le rovine di Mosul e Raqqa, la dimensione geografica e “statuale” del Califfato, è bene continuare ad indagare il senso e la traiettoria storica di questa presenza – che perdurerà ancora lungo, in forme mobili e deterritorializzate, a cavallo di almeno due continenti.

Da alcuni anni è aperto il dibattito sul rapporto complesso e ambivalente tra il fenomeno Isis e la modernità. Ci si è chiesto spesso: la comparsa del Califfato è l’ultimo culminante episodio dell’impatto critico e autodistruttivo del mondo islamico con le categorie del moderno, o piuttosto è il segnale di una insospettabile capacità di adattamento, alla modernità stessa? Certo bisognerebbe perimetrare due concetti inafferrabili e mutevoli: l’Islam (che come categoria astratta e meta-storica non esiste) e la Modernità (che è un cantiere concettuale sempre aperto e in perenne evoluzione). Ma l’argomento è affascinante e vale la pena entrarci, in una modalità che allarghi il discorso specialistico solitamente riservato agli storici, agli islamologi, agli antropologi.

Di solito, quando si parla dello Jhiadismo globale e del suo rapporto con la modernità, ci si sofferma sulla dimensione, morbosa ed efficacissima, della padronanza tecnologica dei media, che questa forza manifesta. Ci sorprende vedere tagliagole barbuti, fautori di arcaismi secolari, maneggiare la infosfera con tale efficacia hollywoodiana. I boia stringono in pugno il coltellaccio, ma in tasca hanno uno smartphone iperconnesso e rappresentano se stessi su riviste on line graficamente raffinate. Questo ci turba: perché associamo la tecnologia alla civiltà (o almeno a quel che supponiamo essa dovrebbe essere). Naturalmente basta volgere lo sguardo pochi decenni indietro, nel cuore della civilissima Europa infettata dal nazismo, per cogliere la medesima ambivalenza: un movimento propugnante valori parimenti arcaici, ma altrettanto disinvolto nel suo rapporto con la Tecnica, nell’epoca del pieno sviluppo della grande industria di massa e del capitalismo monopolistico di Stato. Anzi: in alcuni casi si può dire che più il campo valoriale è regressivo – e ostentatamente arcaico – più il rapporto con la tecnologia pare diventare ossessivo, quasi come se le due dimensioni si legittimassero a vicenda. Questo cortocircuito, rende confusi e circospetti: quello che ci viene raccontato come il nemico estremo, gioca nella nostra stessa metà campo, non è un alieno germinato nei deserti, condivide il nostro background e, quando può, il nostro stesso stile di vita sostanziale – essendo la comune dimensione bio-politica totalmente informata e forgiata da tempi e modi della tecnologia.

Ma il feeling di queste forme di radicalismo con la modernità è ancora più profondo ed evocativo, e va oltre le considerazioni circa l’uso dei media e del web.
L’Isis non è solo l’onda lunga di uno Jhiadismo globale che nasce 40 anni fa negli altipiani afghani con i dollari americani e i petroldollari sauditi. Rappresenta una evoluzione della specie, se così possiamo dire, di quel filone (da qui le rotture sanguinose con Al Qaeda e con i Talebani). L’approccio dell’Isis è inedito, più radicale e catartico, rispetto qualsiasi altra soggettività islamista mai apparsa nell’ultimo secolo: il progetto neo-califfale punta alla costruzione un “Homo Novus” islamico, provando a fare tabula rasa (non solo ideologicamente) di ogni passato, in una prassi di soppressione e cancellazione delle memorie pre-esistenti – comprese quelle islamiche locali. Dai complessi monumentali antichi – sopravvissuti per 1400 anni alle diverse autorità religiose succedutesi nel tempo -, fino alle tombe degli odiatissimi sufi, la furia distruttrice rivela qualcosa che va ben oltre l’iconoclastia. Si tratta di un’azione velleitaria e folle di “ricostruzione da zero” del Soggetto e della sua realtà: una qualche forma di titanica velleità prometeica, in cui un pugno di eletti, rifonda il corso storico e decreta, dal pulpito di una moschea, la nascita di un “musulmano nuovo” – che inevitabilmente richiama il mito dell’”uomo nuovo” che verrebbe partorito dalle macerie fumanti di ogni palingenesi, reale o presunta.

Questo schema, alle orecchie di noi occidentali, non suona propriamente inedito – è qualcosa che ha molto a che vedere con la Modernità (e con la Politica, sua figlia prediletta). Sono discorsi che evocano movenze e attriti che si sono già inverati, soprattutto nel corso del ventesimo secolo, e di cui siamo stati testimoni e protagonisti. L’idea della tabula rasa su cui ri-edificare, con la forza illuminata ( dalla Ragione o dalla Rivelazione, cambia poco) della volontà, un Mondo Nuovo e un Uomo Nuovo che lo abiti, è una suggestione profondamente radicata nella storia europea, nella NOSTRA storia, almeno dall’89 francese in poi. Il Mostro, l’estraneo, ha attinto largamente dal “nostro” armamentario ideologico, rovesciandone il segno e accelerandone, in una furia devastatrice, la fase del kathairo, dell’estirpazione, del fuoco purificatore.

La storia dell’Islam non conosceva questa ansia catartica.
Dopo il primo secolo di folgorante espansione, diventa a suo modo una storia di lentezza, di confini mobili e porosi, di perdite, riconquiste e sovrapposizioni di civiltà e culture che si succedono per secoli. Persino la predicazione profetica impiegò 26 anni a radicarsi. Le culture tradizionali (pre-moderne) avevano consapevolezza del tempo storico, dell’impossibilità di forzarlo.

Già nel corso del primo secolo, entrando in collisione con i residui degli imperi siriani e persiani, il baricentro del mondo islamico si sposta verso Damasco e Baghdad, assorbendone parte delle eredità millenarie. Si definisce il profilo storico di un islam “persiano” e metropolitano, lontano dai deserti e dalle rotte carovaniere della penisola arabica. E, proseguendo, nascerà un Islam mediterraneo, berbero-andaluso, poi afghano-indiano e quindi turco-caucasico.
Questi molti Islam plurali erano il prodotto di un meticciato profondo e di complesse stratificazioni. Il massiccio edificio coranico, apparentemente monolitico era in grado di fare i conti con la storia concreta dei popoli – dalla Spagna alla Cina – senza la pretesa di cancellarla e riscriverla in toto. Non c’erano modelli preconfezionati da importare o adottare: tutto – dalle forme di governo fino alla teologia – risultava essere il prodotto di infiniti processi di aggiustamento, conflitto e convivenza, che definivano assetti di volta in volta nuovi e diversi.

L’idea di un Islam immutato e immobile nei secoli è una scempiaggine moderna, che l’Occidente sbandiera come alibi e falsa coscienza: gli Islam sono sempre stati molti e diversi ed epoca dopo epoca, l’Occidente ha idealtipizzato uno di questi modelli, a seconda delle sue necessità politiche, di lotta, colonizzazione o cooptazione di settori di quel mondo.

La edificazione dello pseudo-Califfato dell’Isis, mostra una insospettabile consapevolezza, da parte dei gruppi dirigenti jhiadisti, delle tematiche della governance contemporanea. Non per niente, pezzi importanti del Bathismo (cioè dell’eredità pan-arabista, laica e modernista) vi hanno aderito con disinvoltura.
Lo stesso richiamo alla categoria di “Stato” che Daesh sbandiera nella sua denominazione, è una suggestione moderna e molto “occidentale”: l’Islam tradizionale, nel corso storico concreto, ha sempre prodotto la dimensione imperiale – che significa multietnicità, pluriconfessionalità, livelli diversi di potere che si equilibrano, tra Emirati, Città-Stato, comunità, confraternite. L’idea moderna di Stato, con un’architettura rigida, definita e non mediabile dei poteri, strumento di formidabile accelerazione dei processi storici, è un concetto estraneo alla tradizione islamica. L’Isis esalta il concetto di edificazione dello Stato proprio perché lo Stato è l’unico strumento possibile di governo della modernità – soprattutto nella sua razionale spietatezza. Tanto per capirci: il genocidio armeno è il biglietto da visita dei “giovani turchi” di Ataturk e uno degli atti di fondazione della moderna Turchia laica (il Sultanato, ostaggio impotente, sarebbe stato soppresso da lì a poco).
Il genocidio organizzato è il marchio di fabbrica dello Stato moderno e delle sue logiche di epurazione ed omogeneizzazione interna.

Questo è anche il filo conduttore della politica dell’autoproclamato Stato Islamico: ricostruire la Umma depurandola di tutti gli elementi spuri (quelli che disconoscono l’autorità califfale), dotare questo corpo finalmente omogeneo di confini ideologici e materiali insormontabili, costituirsi come fondazione di una storia nuova, dove tutto il tempo pregresso è jahillya, età dell’ignoranza da ripudiare.
È per legittimarsi modernamente come Stato, che l’Isis sbandiera le sue efferatezze (quelle che gli altri attori in campo di solito nascondono): il monopolio della violenza è l’unico elemento di “statualità” che possono giocarsi efficacemente davanti ai territori controllati e al mondo – mancando tutti gli altri, soprattutto quelli che possono avere un rapporto con una qualche idea di governo della polis. La legittimazione dell’Autorità politica e statuale, è direttamente proporzionale alla ferocia esibita. Il meccanismo di riconoscimento che vogliono stimolare nei popoli è in fondo semplice: se arrivano davvero a fare “questo” – decapitare, bruciare, squartare – ed hanno il coraggio di diffonderlo, vuol dire che incarnano davvero un Potere legittimo, perché solo un Potere legittimo può essere in grado di padroneggiare il Male e trasformarlo in virtù pubblica e Legge. Perché, altrimenti, i giacobini esibivano le teste mozzate davanti a tutta Europa – se non come fattore di auto-legittimazione, dentro il parto doloroso della modernità? E questo è stato il refrain di molte epopee rivoluzionarie: la nuova legalità ha bisogno della catarsi – ce lo chiede la storia…

La prassi e l’ideologia dell’Isis si mostrano quindi come prodotto ideologico di laboratorio (anche sofisticato) che, pur evocando le sacre radici della Tradizione, trova riscontro più che nella vicenda storica concreta dell’Islam, nelle convulsioni geopolitiche della tarda modernità, nelle sue accelerazioni, nella sue proteiche riconfigurazioni.

Oggi l’Isis viene raffigurato come l’emblema del Male e del Nemico Assoluto. Il nuovo feroce Saladino che legittima l’esistenza di formidabili apparati militari di contrasto, nonché la irreversibile militarizzazione della società e della metropoli.
Come paradossalmente spesso capita nella storia, però, cerchi il Nemico, cerchi l’Altro per eccellenza, il barbaro, il sub-umano, e trovi uno specchio che riflette una tua immagine distorta…

L’Isis propugna una rifondazione radicale dell’umano, esattamente come il capitalismo globalizzato e finanziarizzato. Il Mercato Globale considera le identità pregresse – di mestiere, di territorio, sociali, comunitarie, linguistiche – come zavorre da tagliare, sopravvivenze che ostacolano l’avvento del Consumatore Finale, un Uomo Nuovo senza radici, senza storia, prigioniero di una miserabile tecno-neo-lingua, senza territorio, fisiologicamente migrante – un flusso di desideri indotti fatalmente destinati all’insoddisfazione. Ma questo è precisamente il dispositivo di formattazione dell’Isis: il modello, per chi giungeva volontario nei territori governati dal Califfo, era quello di una radicale spoliazione di identità; non eri più un musulmano bosniaco o francese o indonesiano, con la tua ricca storia linguistica, familiare, etnografica. No, eri un credente “rinato” che come primo atto di fedeltà doveva indossare un abito mentale (e materiale) che ti rendesse indistinguibile e azzerasse la tua biografia.
Il Paradiso – che nella rozza e puerile versione salafita è un luogo di piaceri sensuali da consumare ad libitum – si presenta come un enorme carico di delizie, che ti aspetta dietro l’angolo dell’obbedienza e del martirio.
Allo stesso modo il Paradiso capitalistico: che è sempre un metro più in là, che esige sempre una performance in più, che evoca sempre aspettative di godimento favolose per le quali non sei mai pronto, se non in patetiche anticipazioni surrogate.
Sono due approcci entrambi molto “materialisti”, fondati sulla compravendita del Corpo e l’attesa del Godimento, mediati da una logica puramente mercantile. Dai tutto te stesso – al Califfo o al Mercato – e alla fine riceverai il premio della degnità, della adeguatezza al modello e della materialissima soddisfazione dei sensi. Persino un afflato sinceramente religioso, o un soffio di trascendenza, risultano fuori posto, in questi schemi di scambio.

L’adesione all’Isis – almeno in occidente – è anch’essa il risultato di una opzione individualista, fuori da meccanismi comunitari o da qualche dibattito collettivo. È l’approccio tipico del consumatore contemporaneo, un individuo solo nella sua vacuità, che davanti allo schermo del suo computer sceglie quale “prodotto” sia più adeguato a riempire il vuoto nichilista della propria esistenza. Il “lupo solitario” resta tale dall’inizio alla fine del percorso – quando si connette per la prima volta a una chat o ai siti jhaidisti, fino a quando sceglie di uccidere e uccidersi nelle strade di una metropoli europea.
La Umma virtuale dei desideri frustrati, delle identità fittizie, dell’altrettanto fittizio tentativo di ricostruzione di senso – attraverso la strage e il suicidio – usando solo una tastiera e la disperata pulsione autodistruttiva, oggi tanto in voga.

Materialismo mercantile, immersione acritica nella Tecnica, utopie di rifondazione catartica dell’umano: più che una sopravvivenza anacronistica, queste forze sembrano una variante pienamente legittima della contemporaneità.

Del resto, è la la storia recente di questo universo pseudo-jhiadista , a rivelare se stesso. La Salafya – cioè l’insieme di scuole e tendenze che vorrebbero rifarsi esclusivamente ai costumi delle prime tre generazioni di musulmani – è una invenzione moderna, che ostenta tradizionalismi inventati. Rifiuta ed è rifiutata dalle quattro scuole legittime. Nasce e alligna dentro lo scontro geo-politico della fine del ventesimo secolo e per diffondersi ha avuto bisogno di decenni di enormi investimenti economici: masse di ulema-commissari politici, migliaia di moschee edificate ai quattro angoli del pianeta, la collaborazione logistica di molti apparati statali, compreso quello israeliano. I Salafiti “ufficiali” in larga parte rifiutano lo stragismo terrorista, ma molti musulmani dicono di loro che “sono un prodotto occidentale, come la Coca Cola”.

E se la Salafya è il frutto di un grande investimento geo-politico-strategico, stessa cosa vale per il suo fratello maggiore, il wahabismo – la dottrina ufficiale dell’Arabia saudita – che è parimenti il prodotto, moderno, del…. ciclo degli idrocarburi. Senza il petrolio, nessuno oggi conoscerebbe lo sciagurato estremismo di Abd al-Wahab, pazzo predicatore sconfitto e scacciato dalla penisola arabica tra la fine e l’inizio dei secoli diciottesimo e diciannovesimo. È solo la forza del mare di petrolio, su cui i discendenti dei Saud si ritroveranno seduti un secolo dopo, che ha consentito al wahabismo di diventare dottrina di Stato in buona parte delle monarchie del Golfo. E di produrre una sciagurata egemonia in territori e settori di mondo arabo, fino a pochi anni fa alieni a quella cultura. Lo Spirito, la predicazione, l’ortodossia e l’osservanza, c’entrano poco: la materialissima e modernissima forza del dio petrol-dollaro, disegna nel vuoto suggestioni iper tradizionaliste, gestisce fondazioni miliardarie, demolisce le tombe e le antiche vestigia del passato profetico e costruisce super alberghi a 5 stelle che fanno ombra alla Ka’ba. Materialismo, finanza, investimenti, guerre e posizionamenti sullo scacchiere internazionale – altro che sharia.

Insomma, cerchi i barbari alle porte e trovi che siamo tutti immersi nel medesimo imbarbarimento. E che esso riflette pienamente il presente e il futuro verso cui marciamo.

In conclusione, una domanda ritorna costantemente, con buona ragione: ma questo ciclo jhiadista, c’entra o non c’entra con la religione? È tutto politica, è tutto strumentalità, è tutto costruzione artificiale eterodiretta? La fede, sta all’inizio o alla fine, di questa catena di disastri che si squaderna davanti ai nostri occhi?
È difficile dare risposte semplici a problematiche tanto complesse, ma traslare la domanda su un altro piano, a noi più consueto, forse ci aiuta: le Crociate c’entravano o no con la religione?
Certo che c’entravano, sarebbe puerile negarlo. La croce e il mito della difesa dei Luoghi Sacri erano il fattore ideologico di mobilitazione per le masse e l’elemento di nobilitazione dell’impresa, mica una banale sovrastruttura. Però: le Crociate spontanee, quelle sollecitate dal fanatismo (le cosiddette Crociate dei pezzenti) non riuscirono mai neanche ad arrivare a Gerusalemme, vagarono senza mezzi per le contrade europee fino ai territori bizantini, si “limitarono” a saccheggi e pogrom antiebraici e poi furono disperse.
Le vere Crociate le organizzarono Papi, Imperatori, Re e Principi. Gli Stati.
Non qualche fanatico imbecille.

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Sebastião Salgado, fotografo https://www.carmillaonline.com/2016/12/23/sebastiao-salgado-fotografo/ Thu, 22 Dec 2016 23:01:53 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=34227 di Gioacchino Toni

salgado_dalla_mia_terra_alla_terra_coverSebastião Salgado (con Isabelle Francq), Dalla mia Terra alla Terra, Contrasto, Roma, 2014, 176 pagine, 40 fotografie in b/n, € 19,90

«nessuna foto, da sola, può far niente contro la povertà nel mondo. Tuttavia, le mie immagini, insieme ai libri, ai film e a tutto l’operato delle organizzazioni umanitarie e ambientaliste, partecipano a un più vasto movimento di denuncia della violenza, dell’esclusione e delle problematiche ecologiche» Sebastião Salgado, p. 60.

In questo volume la giornalista Isabelle Francq raccoglie i racconti di Sebastião Salgado a proposito dei suoi reportage e del suo modo di intendere la fotografia. Nel libro [...]]]> di Gioacchino Toni

salgado_dalla_mia_terra_alla_terra_coverSebastião Salgado (con Isabelle Francq), Dalla mia Terra alla Terra, Contrasto, Roma, 2014, 176 pagine, 40 fotografie in b/n, € 19,90

«nessuna foto, da sola, può far niente contro la povertà nel mondo. Tuttavia, le mie immagini, insieme ai libri, ai film e a tutto l’operato delle organizzazioni umanitarie e ambientaliste, partecipano a un più vasto movimento di denuncia della violenza, dell’esclusione e delle problematiche ecologiche» Sebastião Salgado, p. 60.

In questo volume la giornalista Isabelle Francq raccoglie i racconti di Sebastião Salgado a proposito dei suoi reportage e del suo modo di intendere la fotografia. Nel libro Salgado ricorda la militanza, insieme alla moglie Lélia Deluiz Wanick Salgado, nelle formazioni brasiliane della sinistra radicale vicine agli ideali rivoluzionari cubani, la partecipazione ai movimenti contro il regime militare inaugurato dal maresciallo Castelo Branco nel 1964 (protrattosi poi fino al 1985) e contro l’ingerenza americana in America latina.

Nell’estate del 1969 i due coniugi abbandonano il Brasile salendo su una nave diretta in Francia ove possono contare su una rete di solidarietà internazionale, all’epoca ben funzionante, che offre sostegno, oltre che ai brasiliani fuggiti dalla dittatura, anche a rifugiati portoghesi, polacchi, angolani, guatemaltechi, cileni ed in generale ai migranti ed ai clandestini.

Salgado sottolinea come la sua appartenenza alla prima generazione che ha lasciato la campagna per trasferirsi in città a studiare lo aiuti a comprendere bene il dramma, incontrato tante volte nei suoi reportage, di chi, giunto in città dalle campagne, si torva di fronte alla povertà ed allo sradicamento.

L’incontro con la fotografia avviene nel 1970 quando, durante un viaggio a Ginevra, la moglie acquista una Pentax Spotmatic II dotata di obiettivo Takumar di 50 mm. Da quel momento si può dire che la fotografia entra nella vita del brasiliano che, finiti gli studi universitari, inizia il suo lavoro presso un’agenzia economica che gli consente di conoscere l’Africa e di fotografarla.

Il 1973 è un anno di svolta importante per Salgado; decide di lasciare il lavoro per dedicarsi a tempo pieno alla fotografia come free lance. I primi guadagni ottenuti come fotografo vengono destinati all’acquisto di nuovo materiale tra cui spiccano, inevitabilmente, alcune Leica.

L’amore per il continente africano porta il fotografo a farvi ritorno diverse volte, tanto che il volume Africa, pubblicato nel 2007, finisce col raccoglie materiale proveniente da una quarantina di reportage effettuati nel corso del tempo. I primi lavori africani, sottolinea l’autore, nascono dalla volontà di documentarne la fame e non il folklore ed i paesaggi.

Regione di Chimborazo, Ecuador, 1998 © Sebastião Salgado/Amazonas Images/Contrasto

Regione di Chimborazo, Ecuador, 1998 © Sebastião Salgado/Amazonas Images/Contrasto

Salgado racconta di come alla fotografia sociale sia giunto semplicemente estendendo alla pratica fotografica la sua militanza politica. In Francia, come in altri paesi europei, non mancano le occasioni per fotografare immigrati e clandestini e molti di questi reportage vengono pubblicati dalla stampa francese legata al cristianesimo sociale.

Attraverso la fotografia il brasiliano intende mostrare quella parte di mondo particolarmente sfruttata ma piena di dignità. «Con Lélia constatavamo come il mondo fosse diviso in due parti, tra la libertà per chi aveva tutto e la privazione di tutto per chi non aveva niente. Con la mia fotografia ho voluto mostrare proprio questo mondo dignitoso e saccheggiato a una società europea in grado di ricevere la mia sollecitazione» (p. 45).

Salgado rifiuta l’etichetta di “fotogiornalista” o di “militante” ritenendo, piuttosto, che le sue fotografie siano un tutt’uno con la sua vita; i suoi scatti corrispondono a momenti vissuti intensamente e quelle immagini esistono in quanto la sua vita lo ha condotto alla loro realizzazione. Il brasiliano sostiene che le sue immagini possono derivare tanto da una precisa scelta politica che lo porta in un luogo, quanto da una semplice curiosità e che la sua fotografia non pretende, né vuole, essere obiettiva visto che, come tutti i fotografi, scatta immagini profondamente soggettive.

Oltre all’Africa anche l’America del Sud occupa un ruolo importante nella vita di Salgado come uomo e come fotografo. Fra il 1977 ed il 1984 il brasiliano visita buona parte dell’America del Sud, in particolare l’Ecuador, il Guatemala ed il Messico mentre soltanto grazie all’amnistia del 1979 può rimettere piede in Brasile e fotografare il suo paese a partire dalle comunità indigene e dalle minoranze autoctone, oltre che dai lavoratori nelle campagne e nelle città.
Dai reportage in America del Sud nasce il volume Autres Amériques, arriva il Prix de la Ville de Paris e nel 1986 viene allestita la mostra parigina alla Maison de l’Amérique Latine che poi farà il giro del mondo.

A metà degli anni ’80 Salgado collabora con Medici Senza Frontiere realizzando un reportage ottenuto attraversando Mali, Etiopia, Ciad e Sudan al fine di mostrare le condizioni dei profughi in fuga dalla fame, dalla sete e dalla guerra. Nel 1985 questo reportage ottiene il premio World Press Photo ed il premio Oskar Barnack e l’anno successivo viene dato alle stampe il volume pubblicato dal Centre National de la Photographie Sahel, l’homme en détresse. Nel 1988 dal reportage nasce un secondo libro intitolato Sahel, el fine del camino.

Salgado sottolinea come, non essendo originario del Nord del mondo, quando fotografa non è preso da quel senso di colpa che colpisce molti altri suoi colleghi; non fotografa la povertà perché si sente in colpa, visto che conosce da vicino quel mondo. Piuttosto, attraverso i suoi reportage, il brasiliano intende mostrare la fame e la povertà agli abitanti dei paesi ricchi affinché prendano coscienza dello squilibrio mondiale ed è con tale spirito che il fotografo decide di far sentire la voce del movimento dei Sem Terra (MST) brasiliani, nato attorno alla metà degli anni ’80, seguendo le loro attività per una quindicina di anni. Così come mostrare la fame in Africa è un modo per denunciarla, seguire i Sem Terra è un modo per sostenerli, per schierarsi da una parte ben precisa.

A metà anni ’80 il fotografo pianifica insieme alla moglie il progetto La mano dell’uomo attraverso cui intende rendere omaggio al mondo del lavoro. Il reportage si focalizza soprattutto sulla produzione su larga scala in cui l’essere umano ha ancora un ruolo importante tentando di realizzare una sorta di “archeologia visiva dell’era industriale” prima che questa scompaia. Tra il 1986 ed il 1991 vengono realizzati reportage in ben venticinque paesi, soprattutto extraeuropei (Indonesia, India, Cina, Brasile…) in cui, a partire dalla metà anni ’80, si è spostata la produzione.

Nel 1986 il fotografo ottiene finalmente il permesso di accedere alla miniera d’oro della Serra Pelada, nel nord del Brasile, nello stato del Pará. La miniera, scoperta nel 1980, presenta un’enorme voragine ove, a 70 metri di profondità, si trovano 50.000 esseri umani intenti a lavorare del tutto privi di strumenti meccanizzati. Salgado racconta come in un primo tempo venga scambiato dai minatori per un uomo della compagnia mineraria e soltanto quando, in seguito ad un diverbio con una guardia nel ventre della miniera, viene condotto in manette in superficie, inizia ad essere visto dai lavoratori come presenza non ostile. Da questo momento il fotografo convive per diverse settimane con i minatori scattando le celebri immagini che hanno contribuito a far conoscere al mondo il lavoro nella miniera.

Salgado ricorda anche come, nonostante le condizioni di lavoro ed il fango tendano ad uniformare l’umanità presente nella miniera, la conoscenza diretta di diversi minatori gli ha fatto scoprire l’estrema eterogeneità dei lavoratori. La successiva meccanizzazione delle miniere ha finito col lasciare disoccupati proprio i più dequalificati e nel libro l’autore racconta della trasformazione subita da molta di questa gente divenuta proletariato concentrato nelle periferie delle città e costretta, in molti casi, a rubare qualcosa nottetempo per sopravvivere.

Nella prima metà degli anni ’90 si calcola che, a livello mondiale, tra i 150 ed i 200 milioni di individui abbiano abbandonano la campagna per trasferirsi in città. Da tali dati prende vita un nuovo progetto fotografico volto ad indagare la riorganizzazione della famiglia determinata dalle trasformazioni industriali. Sovrappopolamento delle periferie urbane, precarietà, povertà, condizioni igieniche disastrose e violenza dilagante sono i primi risultati di tale flusso migratorio ed il progetto In cammino (divenuto un libro nel 2000) intende proprio mostrare le persone costrette ad affrontare i drammi dello sradicamento e dell’adattamento nei nuovi contesti tentando di far comprendere la necessità di riformulare la “famiglia umana” su basi solidali. Il reportage In cammino si protrae per sei anni tra l’India, l’Iraq, il Brasile, Shanghai, Giacarta, Manila, il Vietnam, l’Indonesia, i Balcani e diversi paesi dell’America Latina.

Galápagos, Ecuador, 2004 © Sebastião Salgado/Amazonas Images/Contrasto

Galápagos, Ecuador, 2004 © Sebastião Salgado/Amazonas Images/Contrasto

Dopo i lavori sui migranti e sulle guerre in Mozambico, Ruanda e Tanzania, è la volta della denuncia dell’inquinamento e della distruzione delle foreste. Salgado pianifica con la moglie una trentina di reportage per il progetto Genesi, poi portato a termine in otto anni attraversando Sahara, Galápagos, Madagascar, Sumatra, Mentawai, Nuova Guinea, Papuasia Occidentale, Himalaya, Russia asiatica, Stati Uniti, Canada, Alaska, Cile, Argentina, Venezuela, Falkland, Isole Sandwich…

Nel 2013 escono i primi due libri su Genesi a cui seguono mostre in tutto il mondo. Il fotografo sottolinea di non aver affrontato i reportage con la logica dell’entomologo o del giornalista ma di averli realizzati per se stesso, al solo fine di scoprire il pianeta e trarre piacere da ciò.

Sino a Genesi Salgado si è occupato esclusivamente di esseri umani ma improvvisamente sente di dover fare qualcosa di analogo anche per gli animali: prima di scattare occorre, in entrambi i casi, farsi conoscere e conoscere. Il rispetto per chi si ha di fronte ed il piacere per l’incontro sono alla base della fotografia degli animali così come degli esseri umani. Il contatto diretto con la natura ha anche consentito al fotografo di conoscere gruppi umani che ancora vivono in equilibrio con l’ambiente naturale.

Genesi coincide anche con il momento in cui Salgado passa dall’analogico al digitale, passaggio che avviene soltanto dopo lo svolgimento di una serie di test comparativi nell’estate del 2008. Anche in Genesi il fotografo rinuncia al colore, utilizzato in poche occasioni in passato e soltanto per lavori su commissione per riviste. Il fotografo ricorda anche le faticose sperimentazioni di laboratorio al fine di ottenere negativi in bianco e nero di qualità partendo da file digitali al fine di realizzare stampe ai sali d’argento ovviando, momentaneamente, al problema della conservazione degli archivi su dischi rigidi.

Anche con il digitale Salgado preferisce far affidamento, durante i reportage, soltanto su ciò che vede dall’obiettivo e l’editing non viene fatto dallo schermo di un computer ma dalle stampe, così come ha sempre fatto. Il fotografo ci tiene a sottolineare come il passaggio dall’analogico al digitale ha portato ad una qualità di stampa nettamente superiore rispetto al passato. Salgado lavora con la luce naturale ed oggi il processo di stampa permette un controllo infinitamente maggiore sull’immagine inoltre è possibile lavorare a luce molto bassa ed aumentare la sensibilità.

Uno dei primissimi reportage in digitale del brasiliano viene realizzato nel 2008 sulle alture etiopi e questo viene considerato dall’autore forse il suo lavoro più bello ed interessante. Si tratta di un reportage effettuato percorrendo quasi novecento chilometri a piedi sulle montagne, camminando per quasi due mesi su sentieri tracciati da passaggi millenari di cui non esiste alcun rilevamento tipografico e superando per ben tre volte i quattromila metri di quota.

Quando Salgado termina i reportage di Genesi è ormai settantenne ed alla fine di questa avventura ritiene di avere davvero “incontrato il pianeta”, che è cosa diversa dall’aver “girato il mondo”. Oltre ad aver messo i piedi (e gli occhi) ovunque, il fotografo ha finito anche col ripercorrere all’indietro la storia, riuscendo a vedere “come eravamo all’inizio dell’umanità”, quando ancora l’umanità era dotata “dell’istinto”. «Ho visto ciò che eravamo prima di lanciarci nella violenza della città, dove il nostro diritto allo spazio, all’aria, al cielo e alla natura si è perso fra i muri delle case. Abbiamo eretto barriere che ci separano dalla natura. Di colpo, non siamo più in grado di vedere, di sentire… […] Se nel mio libro, La mano dell’uomo, ero fiero di mostrare che noi umani siamo un tipo di animale molto abile a produrre, ho visto anche che nella nostra maniera di vivere abbiamo fatto di tutto per distruggere ciò che garantisce la sopravvivenza della nostra specie» (p. 168).

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[Le fotografie riportate nel testo sono state pubblicate con il consenso dell’editore – gh]

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Se i migranti sono gli europei: apocalissi future per la disumanità del Potere https://www.carmillaonline.com/2016/11/20/migranti-gli-europei-apocalissi-future-la-disumanita-del-potere/ Sat, 19 Nov 2016 23:01:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=34370 di Paolo Lago

cover_qualcosa_fuoriBruno Arpaia, Qualcosa là fuori, Guanda, Milano, 2016, 220 pp., € 16,00

Qualcosa là fuori, l’ultimo romanzo di Bruno Arpaia, parla, in forma distopica, soprattutto del nostro tempo, piuttosto che del futuro: non soltanto perché l’intero racconto ruota attorno al reale pericolo del surriscaldamento globale del pianeta, ma anche perché l’autore insiste continuamente sulla fine dell’umanità, intesa sia come razza umana che come humanitas, come sentimento di comprensione, solidarietà e apertura all’altro. Ed è così che, nello specchio dell’Europa del 2070 tratteggiata nel libro, dobbiamo guardare noi stessi. Sembra che [...]]]> di Paolo Lago

cover_qualcosa_fuoriBruno Arpaia, Qualcosa là fuori, Guanda, Milano, 2016, 220 pp., € 16,00

Qualcosa là fuori, l’ultimo romanzo di Bruno Arpaia, parla, in forma distopica, soprattutto del nostro tempo, piuttosto che del futuro: non soltanto perché l’intero racconto ruota attorno al reale pericolo del surriscaldamento globale del pianeta, ma anche perché l’autore insiste continuamente sulla fine dell’umanità, intesa sia come razza umana che come humanitas, come sentimento di comprensione, solidarietà e apertura all’altro. Ed è così che, nello specchio dell’Europa del 2070 tratteggiata nel libro, dobbiamo guardare noi stessi. Sembra che Arpaia abbia utilizzato la stessa strategia attuata a suo tempo da George Orwell in 1984: ambientare un racconto nel futuro per denunciare (a cominciare dal titolo, rovesciamento della data della stesura del romanzo, 1948) le problematiche del suo tempo.

Protagonista della storia è il napoletano Livio Delmastro, anziano professore universitario di neuroscienze, che si ritrova incolonnato insieme a migliaia di altri profughi italiani verso l’Europa del Nord. Siamo intorno al 2070 e tutta l’Italia e l’Europa centrale si sono trasformate in deserto. A causa dell’inquinamento, infatti, il pianeta si è surriscaldato e le fasce climatiche aride si sono espanse; il clima temperato, quello che ha sempre caratterizzato la zona del Mediterraneo e l’Europa, ormai, si è spostato a nord, in Scandinavia la quale, insieme al Canada e ai territori settentrionali del Globo, si presenta come l’unica terra abitabile. Il racconto ci mostra, in forma distopica, un futuro che però non è solo fantascienza, purtroppo: la principale denuncia del romanzo è contro la leggerezza con la quale i governanti affrontano il problema del surriscaldamento globale. Come Arpaia scrive in una Avvertenza finale, il suo racconto si basa sugli scritti e sui saggi di numerosi scienziati, nonché sui rapporti dell’Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change) – e non è la prima volta che lo scrittore si confronta direttamente con la scienza: basti ricordare il precedente L’energia del vuoto (2011), ambientato nel mondo dei fisici delle particelle.

Si tratta di un immaginato scenario futuro apocalittico che potrà essere non troppo lontano da quello reale se non si ridurranno drasticamente e rapidamente le emissioni inquinanti. La narrazione prosegue alternando le vicende di Livio e degli altri profughi in viaggio verso il Nord a quelle di un lungo flashback in cui viene raccontata la giovinezza del protagonista: l’amicizia con Victor e la loro diversità di opinioni in fatto di cambiamento climatico, l’innamoramento con la fisica Leila e la loro successiva convivenza, la nascita del figlio Matias, la decisione dei due giovani di trasferirsi in California per seguire le proprie ricerche scientifiche. Sullo sfondo, l’aumento progressivo delle temperature, l’inaridimento della terra e l’innalzamento del livello dei mari, eventi segnati, periodicamente, da terribili catastrofi naturali.

Oltre, quindi, al ‘macrotema’ del cambiamento climatico, il romanzo ci offre altri ed interessanti spunti di riflessione. Come precedentemente accennato, quell’Europa del futuro che si sta sgretolando sotto distruzioni e disumanità non è nient’altro che uno specchio in cui guardare la nostra società. Quelle migliaia di migranti europei che si muovono verso il Nord come profughi in fuga dalla desertificazione e dalle guerre chi altro sono se non i migranti del nostro tempo, che fuggono dalle guerre e dalla progressiva desertificazione di molti paesi africani e asiatici? E quegli stati, Svezia, Norvegia, Finlandia, Canada ecc. che nel racconto di Arpaia si chiudono a riccio in una Unione del Nord e che, dopo un rigidissimo controllo, permettono l’ingresso solo ai profughi che abbiano già dei parenti sul loro territorio cos’altro sono se non la civilissima, attuale Unione Europea, all’interno della quale si erigono muri e si creano sempre maggiori controlli per impedire l’arrivo di profughi dal sud e dall’est del mondo? E quella specie di campi di concentramento, che l’autore descrive con orrore, come veri e propri inferni, che si trovano sulle coste del Mare del Nord e nei quali vengono rinchiusi i profughi che non riescono a entrare in Svezia, cos’altro sono se non i nostri cosiddetti “CPT”, i “centri di permanenza temporanea”, spesso dei veri e propri lager dove vengono rinchiusi gli immigrati?
Vale la pena, a questo proposito, leggere uno dei numerosi flashback presenti nel libro, nel quale, quando ancora Livio e Leila sono giovani e non si è arrivati al disastro finale, si narra una situazione mondiale in netto peggioramento, situazione che sembra avere le sue radici al giorno d’oggi:

Il Mar Mediterraneo era relativamente piccolo e poco profondo: si stava riscaldando molto, perdendo la capacità di mitigare le temperature sulla terraferma dei paesi che bagnava. E l’afflusso di clandestini dalle sue coste meridionali sembrava impossibile da arginare se non con le maniere forti. Alla Germania, alla Francia e ai paesi nordici non era bastato cancellare gli accordi di Schengen per evitare di essere invasi da quei disperati, anche se l’Unione europea aveva deciso di vendere a prezzo ridotto derrate alimentari all’Italia, alla Spagna e alla Grecia per calmare le acque. Il capitano dell’incrociatore Ardito, Olimpio De Falco, era diventato famoso perché era stato il primo a dover eseguire l’ordine di sparare a vista sui barconi degli immigranti. Il numero dei morti non era mai stato accertato (p. 65).

E, successivamente, dopo alcuni anni, quando Livio, Leila e Matias sono tornati in Italia, a Napoli, per stare vicino alle rispettive famiglie, la situazione è notevolmente peggiorata: le strade della città ormai sono irrimediabilmente sconnesse, i cinema, i teatri e le librerie sono scomparsi, dovunque “baraccopoli di cartoni e lamiere che nascevano e si sviluppavano come un cancro alla periferia e nel cuore del centro urbano” e i “pochi ricchi si barricavano in quartieri recintati da poliziotti e cani”, mentre per le strade imperversa la violenza in uno scenario socialmente e politicamente apocalittico:

i moti di piazza di folle affamate e assetate che saccheggiavano supermercati, magazzini, chiese, moschee e palazzi, Venezia che sprofondava in mare, piazza Navona e la fontana del Bernini completamente distrutte durante i violenti scontri del 2068, il Colosseo ridotto a un accampamento di senzatetto, la terra arida delle campagne che si spaccava e luccicava di sale, i profughi africani e italiani che si spostavano in massa verso nord, i palazzi Vaticani razziati da un’orda di miserabili, il mare che lambiva Padova, L’ultima cena ridotta a calcinacci durante gli scontri fra bande rivali per il controllo di Milano, gli Uffizi accartocciati su se stessi sotto un fitto fuoco di mortai, gli attentati ai server e la Rete che funzionava sempre peggio finché una sera non aveva più dato segni di vita e anche l’Italia si era ritrovata catapultata a un secolo prima, ma senza più nessuno che fosse in grado di fare a meno dei computer. Livio l’aveva visto da bambino nei vecchi film di fantascienza, ma non avrebbe mai pensato di potervi assistere davvero: l’ultima finzione di Stato si esaurì per stanchezza, per inutilità. Senza troppa sorpresa, le elezioni non vennero più celebrate e nessuno sembrò sentirne la mancanza. Le bande dei signorotti locali, spesso malavitosi, si spartirono il territorio in miriadi di guerre locali che sembravano non avere mai fine. Era già successo in Spagna e in Grecia, poi avvenne in Francia, in Belgio, nell’Olanda risucchiata dal mare, nella Germania centrale, lontana dalle acque fredde dell’Atlantico e devastata ormai quasi quanto l’Italia. Allora l’Unione del Nord si era chiusa a riccio come l’Inghilterra: aveva arretrato le proprie frontiere allo Skagerrak e al mar Baltico, abbandonando al proprio destino il resto dell’Europa (pp. 190-191).

Si tratta di uno scenario veramente apocalittico: un mondo devastato dal disastro climatico ma anche dall’autodistruzione verso cui l’umanità si è incamminata, un’umanità che, sempre più chiusa in se stessa, ha perduto le sue prerogative ‘umane’. Lo scenario inquietante delineato da Arpaia fa venire in mente un altro bel romanzo italiano di questi ultimi anni, Nina dei lupi (2011) di Alessandro Bertante – venato comunque di tonalità più fantastiche – nel quale si narra di una “sciagura” che avviene in Italia e nel mondo e che provoca una grave crisi finanziaria. Anche nella storia di Bertante, le città vengono abbandonate, tutti si chiudono in se stessi e vige il diritto del più forte: quelli che nella società erano stati i più cinici ed egoisti (rozzi manager e uomini di potere) adesso imbracciano armi e fucili e si organizzano in bande violente. Solo il montanaro anarchico Alessio, intrepido e generoso, erede della Resistenza partigiana, riuscirà, in un paesino perduto fra le montagne, a salvare e proteggere la piccola Nina dalle violenze e dal disastro.

In questa apocalisse infernale, i muri, le barriere, la chiusura non sono altro che sinonimi di autodistruzione. Il più significativo punto di forza di Qualcosa là fuori, perciò, è la capacità di rappresentare questa devastata società del futuro come se fosse la nostra società en travesti, in una narrazione all’interno della quale l’allusione spesso si fa metafora. Come a voler dire: non dimentichiamo, noi europei ‘benestanti’, che, se un tempo fummo noi stessi migranti, potremmo ridiventarlo in futuro a causa di una apocalisse naturale scatenata dall’incuria e dal cinismo degli uomini di potere sottoposti al diktat neocapitalistico. Nel romanzo si possono intravedere, inoltre, altre allusioni alla società contemporanea, soprattutto a quella statunitense. Ad esempio, nel poliziotto corrotto che, a un posto di blocco a Napoli ferma Leila e il piccolo Matias diretti all’ospedale e che, di fronte all’impossibilità di Leila di pagarlo, non esita ad ucciderli, si può incontrare un riferimento alla violenza della polizia nei confronti di molti giovani di colore in America; oppure, nella figura del reverendo Thomas Hayne, della Coalizione di Dio, ferocemente xenofobo, in corsa per la presidenza degli Stati Uniti nel 2050, si può intravedere un riferimento all’attuale candidato repubblicano Donald Trump.

Nei momenti finali del libro, i personaggi, dopo essere stati controllati da poliziotti in tute protettive e rinchiusi in una stanza in attesa (davvero, vengono in mente molte sequenze del toccante documentario Fuocoammare, del 2016, di Gianfranco Rosi, dedicato agli sbarchi dei migranti a Lampedusa), guardano da una finestra la vita che si svolge nella cittadina svedese, una vita ancora ‘normale’. Due bambini, che facevano parte della colonna dei migranti europei e italiani – e che potrebbero essere benissimo bambini africani che al giorno d’oggi vedono per la prima volta una città italiana – la osservano: “loro non avevano mai visto una città calma e ordinata, la gente che passeggiava tranquilla in riva al mare, le auto silenziose, i grattacieli, l’acqua delle fontane sul corso principale, le case dai colori accesi senza una sbavatura nell’intonaco, i giardini così belli e rigogliosi” (pp. 209-210).

Perciò, in quel “qualcosa là fuori”, nella realtà codificata dal nostro cervello, come spiega Livio a Marta, una compagna di sventura con la quale si stabilisce un rapporto di affetto, mentre marciano incolonnati per il Nord, ci dovrebbe essere spazio per l’umanità, per l’apertura all’altro, per l’ibridazione di società e di culture. Nell’erigere muri contro i migranti, nella chiusura a riccio di un’Unione europea che conosce solo le leggi dell’economia e della finanza, dimenticandosi i diritti umani, nell’arringa populista dello xenofobo di turno, c’è la distruzione, la catastrofe, l’apocalisse. Nell’apertura all’altro, nella solidarietà, nell’ibridazione, nel “restare umani”, invece, c’è un mondo da guadagnare.

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