guerre culturali – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 02 Nov 2025 09:17:12 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 God save the drag queen! La cultura woke tra antagonismo e neoliberismo https://www.carmillaonline.com/2024/09/17/god-save-the-drag-queen-la-cultura-woke-tra-antagonismo-e-neoliberismo/ Mon, 16 Sep 2024 22:10:42 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84247 di Fabio Ciabatti

Mimmo Cangiano, Guerre culturali e neoliberismo, Nottetempo 2024, € 17, pp. 192.

C’è una singolare coincidenza nella strategia politica dei due partiti che competono per la presidenza americana. I due candidati vicepresidenti, Tim Walz per i democratici e J.D. Vance per i repubblicani, sembrano essere stati scelti per contendersi le spoglie della classe lavoratrice americana. Le questioni legate all’identità di classe non possono certamente prendere troppo spazio nella campagna elettorale. Siamo pur sempre nel ventre della bestia capitalistica mondiale. Eppure la classe non è questione che possa essere bellamente ignorata perché, come si suol dire anche se in modo [...]]]> di Fabio Ciabatti

Mimmo Cangiano, Guerre culturali e neoliberismo, Nottetempo 2024, € 17, pp. 192.

C’è una singolare coincidenza nella strategia politica dei due partiti che competono per la presidenza americana. I due candidati vicepresidenti, Tim Walz per i democratici e J.D. Vance per i repubblicani, sembrano essere stati scelti per contendersi le spoglie della classe lavoratrice americana. Le questioni legate all’identità di classe non possono certamente prendere troppo spazio nella campagna elettorale. Siamo pur sempre nel ventre della bestia capitalistica mondiale. Eppure la classe non è questione che possa essere bellamente ignorata perché, come si suol dire anche se in modo decisamente banalizzante, gli elettori votano soprattutto con il portafoglio. Perciò non rimane che evocare un sbiadito simulacro della classe per poi farlo agitare con cura da due personaggi secondari dello spettacolo elettorale.
Ed ecco spuntare dal cilindro Tim Walz, particolarmente gradito ai sindacati americani. A dirla tutta, però, J.D. Vance sembra più adatto a invocare il fantasma dell’America lavoratrice: nella sua famosa autobiografia, Hillbilly Elegy: A Memoir of a Family and Culture in Crisis, egli rivendica apertamente le sue origini popolari, ovviamente dal punto di vista di chi ce l’ha fatta a diventare un uomo di successo. Con l’assumere su di sé il connotato dispregiativo della parola hillbilly (nella sua accezione negativa, il termine significa cafone, zoticone ecc.) l’autore vuole evidentemente marcare la propria distanza dall’élite dominante. Insomma ci troviamo nel bel mezzo di un guazzabuglio postmoderno con i repubblicani che sembrano più a loro agio nell’evocare, certamente a modo loro, temi legati all’appartenenza di classe rispetto ai democratici. Questi ultimi, invece, attraverso la loro candidata alla presidenza, una donna di colore di origini asiatiche, hanno il physique du rôle per impersonare le questioni legate alle cosiddette identity politics, nonostante si guardino bene dal farne un tema centrale della propaganda elettorale.

Tutto ciò non accade per caso, ma è il frutto di una trasformazione della cultura di sinistra, in ambito politico e accademico, compresa quella che si vorrebbe radicale. Come ci spiega Mimmo Cangiano nel suo Guerre culturali e neoliberismo (pubblicato all’inizio dell’anno, prima delle vicende elettorali americane cui ho fatto cenno), “Già ampiamente demonizzata dal reaganismo e dal thatcherismo come identità da cui smarcarsi a ogni costo, la classe lavoratrice è diventata una identity che la storia ha posto dal lato sbagliato della barricata”.1 Ridurre la classe a un’identity significa che nella sua definizione l’“Essere” ha preso il sopravvento sul “Fare”: la considerazione dello status culturale ha sovrastato gli aspetti legati all’attività lavorativa in senso proprio che sono di natura relazionale in quanto determinati nell’ambito dei rapporti sociali di produzione. Giudicata su basi culturali, la classe lavoratrice può essere considerata “retrograda, intollerante, pronta a votare Trump (o Giorgia Meloni) sulla base del proprio privilegio di genere o di razza”.2 La stessa espressione working class “è praticamente scomparsa dal dizionario politico, in ambito culturale è invece cresciuto esponenzialmente il suo utilizzo accompagnato da aggettivi identitari (white working class, male working class ecc.)”.3
Cangiano, professore di Critica letteraria e letterature comparate all’università Ca’ Foscari di Venezia, ripercorre la storia delle idee che hanno portato a questa trasformazione partendo dal post-strutturalismo francese, passando per la sua reinterpretazione americana da parte della cosiddetta French Theory, per continuare con i Cultural studies inglesi e americani. Una storia che prosegue e si ramifica ulteriormente, arrivando fino alla cosiddetta woke culture (in breve la woke), espressione che indica un milieu politico fortemente impegnato nella lotta contro le discriminazioni sociali come il razzismo, il sessismo e la negazione dei diritti LGBTQIA+ (anche se la stessa espressione è oramai utilizzata frequentemente in senso dispregiativo nel dibattito americano). In questa sede non ci soffermeremo su questa genealogia preferendo seguire altre tracce presenti nel testo nel tentativo di dare conto della duplice prospettiva con cui Cangiano affronta il suo oggetto di studio: 

Ciò che […] vorrei tentare di fare qui è appunto comprendere le ragioni per cui la woke potrebbe al tempo stesso essere tanto una cultura perfettamente sintonica con le attuali modalità operative del mercato (come volgarmente credono i rosso-bruni) quanto, se portata fuori dall’ambito culturalistico, un effettivo e potente strumento di lotta anti-capitalista.4

Partiamo dalla considerazione che nelle identity politics è 

la condizione di vittima a dettare le ragioni della scelta del soggetto rivoluzionario e/o resistente. Già in questo caso, l’allontanamento dal marxismo non potrebbe essere più netto. In Marx, infatti, la classe non è centrale perché oppressa, perché vittima, ma perché sul suo essere forza lavoro vendibile, cuore della produzione capitalista, si basa l’intero sistema economico.5

La prima cosa da sottolineare, insieme all’autore, è che l’oppressione viene disgiunta dallo sfruttamento, cioè dalle sue radici economico-materiali. In questa logica, “il capitalismo passa sempre più a essere inteso come forza anzitutto etico-culturale”6 piuttosto che un sistema connotato da rapporti sociali di produzione finalizzati prioritariamente alla ricerca incessante del profitto. Al vertice del sistema di dominio vi sarebbero le gerarchie del sapere-potere in grado di riprodurre sistematicamente meccanismi di discriminazione e oppressione come il razzismo e il sessismo. Il tutto porta a una visione culturalista che Cangiano interpreta come un sintomo legato alla percezione dell’immodificabilità del sistema economico. Le guerre culturali, sintetizziamo, diventano un succedaneo della guerra di classe. Solo per fare un esempio, la lotta contro il razzismo non punta ad abolire le forme di sfruttamento che su di esso fanno leva, ma, con spirito sostanzialmente riformista, sull’educazione antirazzista. Insomma i rapporti economici vengono depoliticizzati proprio mentre, giustamente, si politicizzano ambiti sempre più ampi delle relazioni sociali.
Una volta naturalizzato il sistema economico ai soggetti oppressi non resta che chiedere un riconoscimento a partire da “chi sono”, cioè a partire dalla loro sofferenza. Tutto ciò rischia però di risolversi in “una lotta infinita fra tribù che, perso il comune riferimento al sistema economico, o si auto-accusano o riescono a compattarsi solo mediante l’utilizzo di strumenti normativi come il politically correct”.7 Il risultato è la balcanizzazione del fronte dei subalterni. “Si crea infatti un vero e proprio meccanismo concorrenziale, teso ad accaparrarsi quella merce che è la penosa benevolenza verso la ‘vittima’ concessa dalla società”.8 Ciascuna identità subalterna, rispetto a tutte le altre, perde lo status di “compagno” per acquisire, al massimo, quello di “alleato”. Il diritto dell’individuo alla propria particolare separatezza e cioè alle proprie molteplici specificità identitarie è, infatti, “uno dei fondamenti di quella coesione senza-coesione” tipica delle società occidentali contemporanee.

In realtà, la frammentazione dei soggetti individuali e politici può essere letta in due modi molto diversi tra loro, sostiene Cangiano. Da un lato come un avanzamento etico-culturale contraddistinto dal superamento delle astrazioni universalistiche. Dall’altra, è questa l’opzione dell’autore, come sintomo di una situazione storicamente determinata che è il risultato, allo stesso tempo, 

della frammentazione competitiva indotta dal mercato neoliberale e di quella ipertrofia del simbolico e del sovra-culturale che si crea nel momento in cui in Occidente decade, insieme alla produzione di tipo fordista, anche l’egemonia a sinistra della classe operaia.9

In tutto ciò, e veniamo qui ad un altro punto centrale dell’argomentazione dell’autore, la cultura capitalistica viene letta in modo unilaterale, sostanzialmente equiparata a un meccanismo monologico e universalizzante che tende a negare e normalizzare tutto ciò che è molteplice, fluido, marginale, ibrido, diasporico, nomadico ecc. Ma le cose sono ben più complesse. 

L’universalismo capitalista coincide cioè con lo sviluppo del “particolarismo” (universale e particolare, monologico e molteplice sono coesistenti nel capitalismo), vale a dire con una società in cui gli individui, alieni gli uni agli altri, strumenti gli uni degli altri (merce gli uni degli altri), si relazionano sulla base dei propri interessi egoistici (“particolari”) e si ricompattano solo mediante le astrazioni dell’ideologia e la fedeltà “obbligata” alle norme prammatiche del modo di produzione e consumo. È per questa ragione che i capitalisti possono poi mettere a profitto sia l’universalismo che la differenza: perché l’universalismo capitalista si fonda su ostilità e divisioni (di classe, di genere, di razza, alienazione dai propri simili, competizione fra gli stessi capitalisti ecc.) che vanno continuamente tanto rinfocolate quanto standardizzate attraverso la falsa coscienza.10

Per dirla con i termini lacaniani richiamati da Cangiano, la cultura del capitalismo viene appiattita sul “discorso del padrone”. Questo impone repressione, astinenza, risparmio ecc. per ridislocare le energie così immagazzinate verso il lavoro e l’accumulazione. Ma proprio perché il capitalismo non è una riducibile a un’istanza culturale, esso dal punto di vista ideologico può giocare su più tavoli e farsi portatore, come accaduto soprattutto negli anni ruggenti della globalizzazione, anche del lacaniano “discorso del capitalista”, quello che esprime l’imperativo consumistico a un godimento senza fine che travalica ogni limite e non conosce alcuna misura. Proprio per queste sue caratteristiche il godimento valorizza il molteplice, il fluido, l’ibrido ecc., tutto ciò che è fuori norma, cioè quegli elementi che il progressismo contemporaneo considera naturalmente antagonisti allo stato di cose presenti. E i paradossi non finiscono qui. In ambito etico-politico, in aperto contrasto con il suo relativismo epistemologico, la cultura woke finisce affermare una sorta di “essenzialismo di ritorno” perché sostiene una “rigida e binaria separazione fra bene (ibrido, nomade, non-normato) e male (univoco, monologico, universalista)”.11

Riassumendo, il soggetto resistente viene identificato nella sua qualità di vittima dell’oppressione. L’oppressione, a sua volta, è disgiunta dallo sfruttamento e di conseguenza il capitalismo viene culturalizzato. La cultura capitalistica, però, viene unilateralmente identificata con il discorso del padrone. Tutti gli elementi che si oppongono a quest’ultimo vengono considerati come naturalmente antagonisti allo stato di cose presenti, ignorando come questi stessi elementi possano essere funzionali al discorso del capitalista.
Fin qui abbiamo visto perché la woke può rivelarsi una cultura in sintonia con le attuali modalità operative del mercato. Ora bisogna vedere quale sono gli elementi che, almeno potenzialmente, la rendono funzionale a un possibile discorso antagonista. Questa considerazione di tipo dialettico distingue nettamente le critiche di Cangiano dalla becera ostilità del rosso-brunismo. Quest’ultimo, infatti, denuncia la complicità e l’omologia della woke con il capitalismo contemporaneo che, però, viene completamente appiattito sul discorso del capitalista ignorando del tutto come esso possa esprimersi anche attraverso il discorso del padrone. Di fatto i rosso bruni adottano una posizione che, nella sua unilateralità, è uguale e contraria a quella dell’ideologia che vorrebbero criticare.

Tornando alle potenzialità antagonistiche della woke, occorre partire da alcune considerazioni sulla struttura sociale del mondo contemporaneo. Oggi, sostiene Cangiano,

non abbiamo perso né la classe né il soggetto rivoluzionario; ciò che abbiamo perso, almeno in Occidente (e dipende ovviamente dalle trasformazioni materiali interne al capitalismo), è il soggetto egemonico (l’operaio industriale) all’interno della classe. Il che ovviamente ci mette in una posizione difficile, perché dobbiamo ora operare con tutta una serie di soggetti e gruppi sociali la cui relazione col modo produttivo, il cui essere classe, è meno evidente.12

Oggi risulta chiaro che non è più possibile pensare alla classe come un tutto omogeneo perchè genere, razza ecc. influiscono, anche se in modi storicamente mutevoli, sia sui rapporti lavorativi sia sui processi di soggettivazione. Attraverso le battaglie delle cosiddette minoranze, le diverse identity sono state funzionali a individuare una serie di specifiche tipologie di oppressione, permettendo l’articolazione di un linguaggio rivendicativo. In questo contesto, sostiene Cangiano, una woke in grado di riconnettersi materialisticamente al modo in cui il capitale opera

potrebbe effettivamente porsi come strumento fondamentale di lotta, proprio nel suo riconnettere al centro della classe (che poi vuol dire al centro della società vista come un intero) tutte quelle soggettività sociali che prima vi avevano operato in funzione solo in apparenza più laterale.13

In questo percorso si può recuperare il concetto di intersezionalità, a patto di ripensarlo “materialisticamente, cioè a partire dalla relazione che intratteniamo con produzione e mercato, non dalla condizione di vittima”.14 La relazione della classe lavoratrice col modo produttivo rimane secondo l’autore il luogo dove le molteplici forme di oppressione si intersecano connettendosi al piano dello sfruttamento.  Essa è anche il luogo dove i diversi gruppi subalterni, seppure diversamente oppressi e diversamente sfruttati, possono riconoscere che la logica del sistema cui tutti quanti soggiacciono è fondata sull’estrazione di plusvalore dalla forza lavoro, sullo sfruttamento. Solo riconoscendo questa logica è possibile articolare un’azione unitaria coinvolgendo le diverse soggettività che formano la classe. La coscienza di essere classe (e la conseguente lotta di classe), insomma, è ciò che consente ai soggetti oppressi di scoprire la loro condizione storico-oggettiva, cioè la loro  posizione nella totalità delle relazioni sociali. 

Tornare a parlare di totalità significa anche contrastare il particolarismo e la tribalizzazione degli oppressi riprendendo in mano l’universalismo inteso non come un qualcosa di presupposto, ma come un campo di battaglia:

non solo di battaglia per l’egemonia, ma anche per l’eliminazione di quelle contraddizioni fra gruppi sociali storicamente create dal modo di produzione capitalista. E non si tratta dunque di universalismo astratto (quello tipico del potere), ma della lotta per un universalismo concreto che è quello, a venire, della società non divisa.15

Al contrario, dove

l’universalismo rischia di ricomparire come monolite presupposto è ovviamente nel rosso-brunismo (che vede la classe come un vincolo comunitario intero e senza linee di divisione interne), ma anche in molteplici fenomeni correlati alle culture wars: nell’assolutismo identitario che caratterizza le identity politics; nello spostamento del concetto di comunità, ancora indiviso, nello spazio coloniale o ex coloniale.16

In conclusione, le necessarie critiche alla cultura woke non ci devono far dimenticare che 

Negli ultimi quarant’anni molte nuove questioni sono state poste al centro del dibattito, e da queste non si tornerà indietro. Si tratta di “materializzarle”, cioè di sottrarle all’orizzonte liberale e culturalista in cui in larga parte tendono a esprimersi. È impossibile farlo senza porre la questione di un’alternativa, cioè senza la domanda di un modo di vivere che chiuda davvero con sfruttamento e oppressione (oltre che con la loro dialettica).17

Da parte mia aggiungo solo che i funesti orizzonti bellici in cui siamo oramai immersi non fanno che approfondire le contraddizioni di cui il testo tratta. Da una parte la guerra richiede un inasprimento del discorso del padrone, funzionale alla repressione di ogni alterità e alla creazione di un corpo sociale omogeneo pronto all’estremo sacrificio; dall’altra lo scontro militare tende a presentarsi come scontro di civiltà e la cultura occidentale, per affermare la sua superiorità sul resto del mondo, difficilmente può fare a meno del discorso del capitalista. 
In questo contesto la cultura woke può certamente rappresentare un fattore di resistenza contro i rigurgiti di dio, patria e famiglia. Allo stesso tempo, però, può fornire armi per l’arsenale ideologico occidentale come accade nel caso dell’omonazionalismo in cui i diritti di gay, lesbiche, trans ecc, diventano ingredienti di un razzismo soprattutto anti-islamico. Insomma, le guerre culturali possono fornire ulteriore polvere da sparo per caricare le armi delle guerre di civiltà. Anche per questo è sempre più urgente riconnettere oppressione e sfruttamento, perché se non cogliamo le radici capitalistiche della guerra, rischiamo di farci arruolare in uno scontro ideologico senza né capo né coda dal punto di vista di una politica di emancipazione. Uno scontro in cui, contro il patriarcato grande russo, fantomatici soldati gay ucraini possono combattere fianco a fianco con i nazisti del battaglione Azov, attenti lettori della kantiana Per la pace perpetuaGod save the drag queen!


  1. M. Cangiano, Guerre culturali e neoliberismo, Nottetempo 2024, p. 38, ed. kindle. 

  2. Ivi, p. 37. 

  3. Ivi, p. 38. 

  4. Ivi, p. 25. 

  5. Ivi, p. 21. 

  6. Ivi, p. 35. 

  7. Ivi, p. 37. 

  8. Ivi, p. 36. 

  9. Ivi, p. 40. 

  10. Ibidem. 

  11. Ivi, p. 50. 

  12. Ivi, p. 169. 

  13. Ibidem. 

  14. Ivi, p. 177 

  15. Ivi, p. 168. 

  16. Ibidem. 

  17. Ivi, p. 180. 

]]>
La maschera col teschio e le immagini del mondo https://www.carmillaonline.com/2024/03/04/la-maschera-col-teschio-e-le-immagini-del-mondo/ Sun, 03 Mar 2024 23:36:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81564 Di Jack Orlando

Leonardo Bianchi; Le prime gocce della tempesta, miti armi e terrore dell’estrema destra globale; Solferino; Milano 2024; 277 pp. 18€

Per chi abbia mai avuto familiarità con le forme dell’antifascismo militante il monitoraggio e l’inchiesta sui portali e sui canali di comunicazione di estrema destra è qualcosa di ben assodato. Pratica ricorrente e, per alcuni, quasi hobbistica, tipo entomologia. Con i suoi piccoli alieni da osservare e gallerie degli orrori da collezionare. Una pratica in sé abbastanza lineare: osservare, scartabellare e mettere ordine nei rimandi tra i portali ufficiali delle formazioni politiche, le riviste di area, i [...]]]> Di Jack Orlando

Leonardo Bianchi; Le prime gocce della tempesta, miti armi e terrore dell’estrema destra globale; Solferino; Milano 2024; 277 pp. 18€

Per chi abbia mai avuto familiarità con le forme dell’antifascismo militante il monitoraggio e l’inchiesta sui portali e sui canali di comunicazione di estrema destra è qualcosa di ben assodato.
Pratica ricorrente e, per alcuni, quasi hobbistica, tipo entomologia. Con i suoi piccoli alieni da osservare e gallerie degli orrori da collezionare.
Una pratica in sé abbastanza lineare: osservare, scartabellare e mettere ordine nei rimandi tra i portali ufficiali delle formazioni politiche, le riviste di area, i blog di approfondimento, le pagine social ecc…

Ecco, chi ha praticato in qualche forma questa disciplina nell’ultima dozzina di anni si sarà accorto di un mutamento genetico della “fasciosfera”, databile probabilmente tra il 2015 ed il 2017; poi inabissatosi progressivamente negli ultimi anni.

Accanto alle retoriche tradizionali, alle loro iconografie, alla propaganda cui si era abituati, iniziano a vedersi dapprima sparute, poi sempre più frequenti emersioni di un immaginario nuovo ed estraniante.
Su facebook iniziano a moltiplicarsi pagine che propongono video della wermacht in battaglia, filmati degli aerei kamikaze giapponesi, tutti restaurati in versione vaporwave e accompagnate da musica elettronica. Non c’è che dire, parecchio suggestivi. È la cosiddetta “Fashwave”, dura un po’, poi il megaban di Zuckemberg affonda tutte le pagine.
Nel frattempo Telegram, prima di essere normalizzata anch’essa, diviene un tripudio di canali neonazisti che riversano una cascata di materiale infografico e propagandistico.
Quel fenomeno di radicalizzazione molto americano che aveva interessato Reddit, 4chan e poi 8chan, passa da qui per solidificarsi in Europa.
Ora l’inchiesta da caccia virtuale va diventando pesca di profondità. Si passa da un canale all’altro, da una sigla all’altra, sempre più giù, si sondano maelstrom di orrori armati e sintetici.

Slogan, immagini, meme, suggestioni, slanci psicopolitici.
Tieni, ecco delle comode infografiche per imparare come si fa la guerra urbana.
Wait it’s all boogaloo? Always has been…
Anders Breivik è santificato da un sonnenrad, il sole nero runico, dietro la testa; la Divisione Charlemagne combatte; Dominique Venner samurai d’Europa che ha l’ideale della bellezza; Brenton Tarrant come Cristo con la tunica, che tiene il suo manifesto in una mano e l’iconico mitra nell’altra.
Fatti una cultura che è pieno di pdf. Lupi che si azzannano.
Nature hates equality.
E poi i manifesti per la Guerra razziale, i documenti programmatici per radicalizzare la lotta al 5G, i capitoli di The Siege. Soprattutto, la skull mask. Ossessiva, continua, che imbraccia il fucile, che fa il saluto romano, che rivolge allo spettatore gli occhi triggherati.
Hembrace your race.
La skull mask indossata in gruppo, nei boschi, nelle marce lugubri o calzata in solitudine, nella cameretta. Lo stendardo di un esercito senza capi né reparti, impegnato in una guerra senza quartiere né fronti. E fuori da internet colpisce duro e miete vittime innocenti.
The world you were born in no longer exist.

Ecco, di questa mutazione genetica, di cosa c’è dietro e soprattutto come si è tradotta fuori dagli schermi (spoiler: decine e decine di morti ammazzati per mano di stragisti sparsi per tutto il mondo occidentale) se ne è occupato Leonardo Bianchi, già autore di un volume sul complottismo1 e un altro sul deragliamento privatistico della politica in Italia,2 ritessendo il filo di una storia nera che ancora fatica ad essere presa in considerazione sul serio.

Un passo indietro per non perdere il filo.
Ormai si sa, gli Stati Uniti la sanno lunga in tema di suprematismo bianco: gli indiani da sterminare alla frontiera che erano poca cosa di fronte al Destino Manifesto di un Popolo Eletto, e fare posto per il lavoro schiavile prima e la segregazione razziale poi. Le masse si tengono a bada con un mix di razzismo di Stato e razzismo di strada, le pattuglie che catturavano gli schiavi si fanno polizia, l’epica sudista della guerra civile che veste i cappucci del KKK e nutre la pratica dei linciaggi. Insomma, c’è un gran bel campionario.
E quando tornano a casa dall’Europa in macerie gli yankees non si riportano indietro solo una muta di nazisti e criminali di guerra da riciclare nel conflitto con l’Unione Sovietica; tra i souvenir di alcuni soldati c’è anche una discreta fascinazione per nazismo e fascismo.
Il suprematismo americano ha incontrato il nazionalsocialismo europeo: un aggiornamento che ha come ricaduta immediata il fiorire di partitini nazi con tanto di camicia bruna tra gli anni ’50 e ’70, quei coglioni dei nazisti dell’Illinois per dare l’idea. Gruppi certamente minoritari ma ben organizzati e determinati, impotenti di fronte alla furiosa stagione della New Left e del Black Power, ma che fanno da terreno di coltura per una futura generazione di militanti.

È all’alba degli anni ’80 che infatti matura un nuovo paradigma. Il riflusso (leggasi la repressione) dei movimenti rivoluzionari lascia spazio al neoliberismo ed alla sua programmatica distruzione della politica e della società, l’imposizione dell’individualismo e la polverizzazione di ogni aggregato collettivo, non solo militante ma anche tradizionale. Non è semplicemente una ristrutturazione economica, è uno smottamento generale che mira a invadere tutto il campo delle attività umane: l’economia è il mezzo, l’obbiettivo è l’anima. Ma il trionfo del mercato, che mercifica qualsiasi cosa, ha come prezzo l’ipoteca degli stessi valori conservatori che lo accompagnano: un patrimonio che entrando nell’orbita dei consumi esistenziali inizia quindi a deperire, ma di questo se ne accorgono in pochi, almeno sul momento.

Tra quelli che sanno fiutare il cambio di passo ci sono proprio questi neonazi, riuniti in gruppuscoli che animano oscure radio e riviste, danno vita a sparute marce e aggrediscono minoranze e attivisti, nei loro campi si addestrano alla sopravvivenza, all’uso delle armi da fuoco e alle tecniche militari. Un ambiente claustrofobico, paranoide ed ultraviolento che, forse inconsapevolmente, sviluppa una strategia coerente e sistematica per la propria prassi politica.
Da questa melma emergono due testi che avranno un’importanza cruciale negli anni a venire e che sono imprescindibili per la comprensione del fenomeno.

Nel 1978 viene dato alle stampe The Turner Diaries3: un truce romanzo distopico che mette in scena le gesta di una fantomatica organizzazione di “patrioti” dedita a rovesciare il “sistema” attraverso il terrorismo sistematico e la guerra razziale, fino allo sterminio delle minoranze e dei liberali nel “Giorno della Forca”, all’instaurazione di un nuovo regime nazista e ad una apocalisse nucleare.
Letteratura da serie C che però amalgama la forza di diffusione ed identificazione della narrativa popolare, l’utilità tattica di un manuale di guerriglia con tanto di descrizioni minuziose delle azioni armate dei personaggi, e la necessità di un’indicazione strategica che risponda al senso di smarrimento e frustrazione dell’area suprematista. Metapolitica pura.
Che fosse voluto o meno, politicamente uno strumento simile con un pubblico tale è letteralmente un’arma di distruzione di massa. E non a caso diventerà un classico virale ancora oggi, in grado di fornire un orizzonte ed un vademecum per pletore di aspiranti stragisti.

Un paio d’anni dopo un ometto di nome James Mason dà il via ad una serie di articoli che culmineranno nel 1992 con la pubblicazione del libro The Siege (l’Assedio). La linea è la medesima dei Diari di Turner, ma si mettono un po’ di puntini sulle i. In estrema sintesi: il sistema democratico è controllato dagli ebrei attraverso i liberali, destinato a soppiantare l’egemonia dei bianchi grazie ad un piano di immigrazione massiccia e a finti valori femministi e antipatriottici, occorre reagire subito per evitare l’estinzione.
Siccome il declino è irreversibile, la linea è quella di accelerarne il collasso attraverso una pratica insurrezionale che punti prima al deflagramento di una guerra razziale e poi all’instaurazione di un etnostato bianco e reazionario. La tattica sarebbe quindi di costituire piccole cellule di combattimento anonime, autosufficienti, indipendenti e senza capi, che operano nella massima autonomia, eventualmente in coordinamento, per essere e colpire ovunque, seminare il panico, accelerare la caduta fino in fondo. La linea del fronte coincide esclusivamente con la volontà dei combattenti.
Per quanto i presupposti siano deliranti nondimeno intercettano una serie di nodi poco visibili sul momento ma che non tarderanno a manifestarsi come centrali; così come la pratica insurrezionale e accelerazionista non ha alcuna reale possibilità di vittoria, ma coglie nel segno indovinando una nuova metodologia che non solo fa fronte agli imperativi della lotta clandestina, ma che riesce a ricombinare il binomio spontaneità-organizzazione nella nuova fase dell’individualismo atomizzante.

Entrambi i testi saranno destinati ad una circolazione marginale e sotterranea per diversi anni, salvo riemergere in un contesto completamente diverso qualche decennio dopo. Non sono semplicemente dei disegni psicopatici e criminali, sono guizzi di avanguardia.
Gli animali politici sono tali quando fiutano la tendenza in anticipo, come i cani con i temporali, e questo non cambia anche quando la politica è quella degli “altri”, dei nemici, dei sadici.

E nemmeno è una peculiarità esclusiva degli americani. Anche l’Europa ha i suoi pionieri nella stessa fase: muore la stagione della politica rivoluzionaria e tra i suoi colpi di coda, negli edonistici ’80, in Italia assistiamo agli omicidi della sigla Ludwig,4 una storia paradigmatica dove non è mai stata chiarita del tutto la reale portata organizzativa del fenomeno, e dove il confine tra psicosi criminale e prassi politica si è fatto labile e confuso, complice anche l’incapacità mediatica di analizzare lucidamente gli eventi.
In generale la nouvelle droite di stampo italo-francese che aveva dominato il rinnovamento dell’estrema destra per un paio di decenni entra parzialmente in ombra di fronte al nuovo mondo globalizzato, in favore di una variante debitrice della lezione americana: l’alba del terzo millennio è il momento delle schegge impazzite, come la tedesca “Banda del Kebab”, e dei network internazionali di Hammerskin e Blood’n’Honour, molto più rozzi sul piano della teoria, molto più efficaci e aggressivi sul piano della pratica.

Un salto avanti, per non tirare troppo per le lunghe.
Nell’estate 2011, in una manciata di ore, Anders Breivik, neonazista norvegese, stermina da solo quasi settanta persone, per lo più teenager, tra il centro di Oslo e l’isoletta di Utoya. Ha pianificato da solo il suo attacco combinando un attentato con autobomba ad uno con fucili semiautomatici, contemporaneamente diffonde il suo delirante manifesto ideologico online.
È il caso più eclatante, ma non è l’unico. Negli stessi anni si moltiplicano gli attacchi dei cosiddetti “Lupi Solitari”, una sorta di spontaneismo armato ed individualista di matrice xenofoba e neofascista, gli Stati Uniti possono vantarne ad oggi il primato numerico e i tentativi di salto di qualità in organizzazioni paramilitari. Qui in Italia abbiamo avuto invece come rappresentanti Gianluca Casseri e Luca Traini; in tutti i casi si tratta sempre attivisti o simpatizzanti dell’estrema destra che, ad un certo punto, fanno il passo avanti e sparano senza aspettare direttive.
Solitari, ma non troppo.

2019, Christchurch, Nuova Zelanda. Brenton Tarrant, giovane australiano bianco e disoccupato, uccide cinquantuno persone a colpi di mitra in un doppio attentato contro una moschea e un centro islamico, e mentre lo fa trasmette tutto in diretta facebook con la sua gopro. Anche lui lascia un suo manifesto, anche lui è imbevuto di ideologia suprematista e teorie del complotto, ma non è mai stato un militante di estrema destra.
L’apprendistato politico, se così si può definire, di Tarrant è avvenuto on line a colpi di meme, forum e shitposting. È l’emblema della soggettività prodotta da una cultura virtuale psicopatica che mixa insieme xenofobia, misoginia, porno gore, teorie del complotto, umorismo cinico, videogame e alienazione sociale.5

Appresso a Tarrant ne arriveranno diversi altri, a brevissima distanza l’uno dall’altro, ognuno col suo manifesto. Attentati più o meno letali si rincorrono in giro per il globo, galvanizzando platee di account online.
È il manifestarsi del nuovo cambio di fase. È lo strabordare delle teorie dei Diari e dell’Assedio oltre sé stessi e il proprio ambiente.
Gli attentati sono tutti opera di giovani maschi bianchi di classe media che hanno perso il controllo della realtà e della propria vita.
In essi si concentra tutto il fallimento della cosmogonia occidentale che si presumeva principio ordinatore del mondo e invece si rivela una triste parruccata: il futuro felice che sognavano da bambini è una merda, gli improbabili standard di estetici e performativi che imperano li squalificano dal rapporto con l’altro sesso, le uniche comunità con cui interagire nel proprio disagio esistenziale sono quelle online, dove qualsiasi sensibilità è cauterizzata e il livore fermenta.
La famiglia, la scuola, il matrimonio, il lavoro, le regole, i sorrisi di cortesia, la cena coi colleghi, il barbecue coi parenti, il pakistano al minimarket sotto casa, la farina di grilli, l’economia, la crisi, le bollette, l’inflazione, l’immigrazione, il femminismo… La fottuta razza bianca è sotto assedio perché io sono sotto assedio.
Nell’intima anomia della propria cameretta crollano macerie su macerie e dallo schermo del pc urla un intero mondo che muore. La psiche individuale riceve la catastrofe e cerca di decifrarla mentre le soccombe.

Ecco che mitologie proprie d’Occidente, spinte all’esasperazione, vengono a galla come il canto del cigno della grande promessa tradita di una intera generazione. Specchi deformanti che restituiscono un senso traviato a ciò che è divenuto inesplicabile.
Ora gli scossoni della globalizzazione assumono i contorni di un malefico piano di sostituzione degli indigeni euroamericani con “popoli inferiori”; la crisi del predominio etero-maschile non è il prodotto di processi d’emancipazione storico-sociali ma ancora un ordito della lobby gay femminista per non far scopare i maschi etero e distruggere l’istituto della famiglia, come lo svuotamento di ogni forma di sovranità popolare rievoca il complotto pluto-giudaico dei Savi di Sion; il pericolo esistenziale della razza bianca non è che il riflesso perverso della classe media che affoga nei suoi debiti e nell’insostenibilità delle proprie illusioni.
In questo cervello collettivo deragliato c’è davvero il mondo al contrario.

Eccola qui l’ultima mutazione genetica, ibrido di arcaicismi e ipermodernità: il piano politico della violenza non opera più in linea con una deliberata scelta strategica. È qualcosa di più profondo; opera a livello soggettivo e salda la crisi strutturale e di senso dell’Occidente con la sofferenza psichica di individui disancorati e accelerati; alla base c’è una bruciante volontà di vendetta, contro tutto e tutti, la necessità di riscattare la propria vita svuotata in un unico gesto furente.
Lo rileva giustamente Leonardo Bianchi: è un atto di martirio, un evento estremo che in una sola volta riscatta tutta l’oppressione subita (o percepita) ed eleva l’attore al di sopra della propria misera condizione, testimonia la propria ribellione ed incita all’emulazione.
Ma il martirio, dalle comunità paleocristiane allo jihadismo contemporaneo, passando il risorgimento europeo, è sempre un gesto politico in senso assoluto.
Ecco perché è cruciale interrogare e interrogarsi su questo fenomeno al di là delle categorie patologizzanti e delle analisi superficiali; è sul senso ultimo della realtà e sulla possibilità di agire su di essa che si posizionano questi soggetti. In mezzo al sangue sparso tra supermarket e luoghi di culto, è l’immagine del mondo che ci si para davanti. Ed è uno spettacolo dell’orrore.

A conferma di ciò vi è lo sconfinamento di queste epifanie impazzite nell’arena del mainstream e del senso comune. Tanto per citarne un paio: la propaganda gender nelle scuole, la Grande Sostituzione Etnica, la dittatura del Politicamente Corretto; concetti ripetuti fino alla nausea da esponenti politici di primo piano, non di rado da capi di Stato, vomitati nei salotti televisivi e nelle campagne elettorali.
La destra mainstream parla una lingua simile a quella del peggior neonazismo; innegabile, ma non si pensi che significhi che il fascismo sia tornato al potere. Non quello che la Storia ci ha già consegnato per lo meno, nè si vede all’orizzonte la possibilità d’esistenza di un qualche etnostato bianco.

Se è possibile che non vi sia più una separazione netta tra ciò che è dicibile e ciò che è esecrabile, questo è proprio dovuto all’irreversibile deperimento di quel patrimonio ideale del liberalismo (non solo conservatore) che nominavamo più sopra e la cui arbitrarietà e mollezza ha finito per consumarlo dall’interno permettendo il reflusso degli istinti più estremi all’interno dello spazio moderato; tanto più che non vi è né vi può essere separazione netta dei corpi e degli ambienti politici, vedasi il caso dell’Alt-right americana in proposito; o se preferiamo andare ancora indietro si veda la parabola del MSI italiano con la sua natura ambigua e bifronte.

Non vi è mai stato alcun ambiente politico che sia vissuto senza un certo grado di osmosi tra le sue posizioni più radicali e quelle più accomodanti. Quella dell’esclusività delle idee moderate non è che una delle fandonie che il liberalismo ha raccontato a sé stesso.
Il punto semmai è comprendere come i cambi di fase strutturali interagiscano con la dialettica interna dei mondi politici.
In questo caso come il collasso privatistico e il conseguente annichilimento della politica tradizionalmente intesa abbia lasciato il campo a narrazioni spettacolariste ed esasperate buone per un elettoralismo da talk show, alimentate peraltro da un sistema mediatico-istituzionale che della paura e dell’emergenza permanenti ne ha fatto un paradigma di governo e business.
Ecco, questo svuotamento è coinciso con la progressiva riduzione della statualità ad agente amministrativo delle indicazioni capitalistiche, finendo per avvolgere tanto le società quanto i loro partiti in una dialettica sempre più irrazionale e intransigente. È in questo cortocircuito che una rinnovata mitologia protonazista si è inserita ed ha prolificato.

Ma non ci si può limitare a questo. Se a destra qualcosa non si è mai perso di vista negli anni, è l’elemento dell’assertività nella politica: più un discorso è ripetuto e sostenuto più esso ha possibilità di imporsi, più la posizione è spinta al proprio polo estremo, più il suddetto discorso finirà per far pendere il piano del politico dalla propria parte.
Non c’è un solo caso in cui la destra istituzionale (qualsiasi destra istituzionale) nel suo complesso non abbia mantenuto un atteggiamento ambivalente di fronte alle fughe in avanti della sua base: fossero uscite di pessimo gusto, manifestazioni grottescamente esplicite o veri e propri atti di terrore, i leader si sono limitati a smarcarsi dalle responsabilità dirette, al limite a condannare l’uso della violenza, ma mai sono arrivati a mettere in discussione gli assunti alla base di tali azioni.

Viceversa, a sinistra la resa totale al liberalismo tout court, con la messa in mora dell’istanza rinnovatrice anche più moderata, ha portato ad accettare una condizione di amministrazione della miseria e di guardia al bon ton del discorso pubblico ed alle proprie posizioni di rendita.
La visione progressista ha perso via via ogni contenuto finendo per sterilizzare e stigmatizzare qualsiasi spinta da sinistra, in un ottuso e pervicace equilibrismo ecumenico.
Nel mentre nella sua ala radicale, vittima di un pensiero debole e vittimistico che pensava possibile la critica al liberalismo senza pensarne il sostanziale superamento, si riduceva gradualmente lo spazio per l’offensività a sacche minoritarie e autoreferenziali, ci si è accasciati su schermaglie di rimessa e non certo per la repressione dei manganelli ma proprio per un’autocastrazione ideologica.

Il risultato è che oggi il piano inclinato della politica pende smaccatamente per la reazione, non tanto e non solo per quanto riguarda i risultati elettorali e l’agibilità delle formazioni di estrema destra, quanto per l’egemonia del discorso.
In ultima analisi, le destre in ogni loro forma non hanno vinto le loro guerre culturali per finezza strategica, ma perché non vi era nessuna alternativa degna che combattesse guerre opposte e così facendo ha avuto campo libero per invadere prepotentemente il terreno del reale.

A sinistra si è continuato a cianciare di diritti, ben attenti a soffocare ogni barlume di slancio vitalistico, immobili mentre tutto attorno si muoveva. A destra si è fiutato il vento e si è compreso che portava nubi di guerra civile6 e si è iniziato a parlarne la lingua, si è divenuti prime gocce della tempesta.

Ecco che, nella stagione in cui finalmente i nodi vengono al pettine, le finzioni si diradano e la realtà disvela il suo volto, il declino di un sistema mondo si fa manifesto lasciando che forze centrifughe accellerino la loro traiettoria; è questo il frangente in cui non si può più evitare di riguardare negli occhi ciò che il Novecento ha lasciato in sospeso, la verità scandalosa che trapela nonostante i mille mascheramenti: l’intero moto delle cose umane è retto dal rapporto di forze, una dialettica dell’inimicizia dispiegata e non più taciuta, in cui weltanschauung divergenti non possono che confliggere per determinare quale sia l’ordine delle cose a venire.
È la figura stessa del mondo la posta in palio ad ogni livello, da una parte essa ha già manifestato in schegge una sua proiezione futura, dall’altro c’è tutto un disegno che preme per essere ancora nominato.
O questo, oppure davvero avremo a scrivere di aver visto lo spirito del mondo al supermarket, che indossava la maschera di un teschio.


  1. Complotti; Minimum Fax 2021 

  2. La Gente; Minimum Fax 2017 

  3. tradotto in italiano come “La seconda guerra civile americana” 

  4. notevole nel merito il recente podcast Ludwig. Ultimi eredi del nazismo, di Laura Antonella Carli e Nicolò Tabarelli 

  5. per sinteticità, rispetto al fenomeno della radicalizzazione online rimandiamo all’articolo di qualche anno fa meme col fucile 

  6. per ovvi motivi di spazio rimandiamo al testo a cura di S. Moiso; Guerra Civile Globale. Fratture sociali del terzo millennio; Il Galeone edizioni; 2021 

]]>