gotico italiano – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 14 Jun 2025 20:00:29 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Et in arcade ego https://www.carmillaonline.com/2025/06/07/et-in-arcade-ego/ Sat, 07 Jun 2025 20:00:24 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=88808 di Franco Pezzini

Orazio Labbate, Cravuni, pp. 128, € 16, Grey Interzona, Napoli 2025.

“Pescò sotto la sedia un pacco di cereali Frostie’s violati da scritte in miniatura quasi da commentario giuridico medievale. La sedia ricordava quelle papali epperò di inferiore qualità, una sedia superstite di molti papi morti su di essa”.

“Nenti, non funzionava l’arma”.

Come in genere le codificazioni mitiche letterarie, anche quella del gotico siciliano di Orazio Labbate si allarga progressivamente sull’onda di creazioni, suggestioni e trovate successive. Chiusa così la prima trilogia (Lo Scuru, 2014 e 2024; Suttaterra, 2017; Spirdu, 2021) che offre un [...]]]> di Franco Pezzini

Orazio Labbate, Cravuni, pp. 128, € 16, Grey Interzona, Napoli 2025.

“Pescò sotto la sedia un pacco di cereali Frostie’s violati da scritte in miniatura quasi da commentario giuridico medievale. La sedia ricordava quelle papali epperò di inferiore qualità, una sedia superstite di molti papi morti su di essa”.

“Nenti, non funzionava l’arma”.

Come in genere le codificazioni mitiche letterarie, anche quella del gotico siciliano di Orazio Labbate si allarga progressivamente sull’onda di creazioni, suggestioni e trovate successive. Chiusa così la prima trilogia (Lo Scuru, 2014 e 2024; Suttaterra, 2017; Spirdu, 2021) che offre un impianto anzitutto linguistico ma anche tematico (ossessioni e possessioni, catabasi ctonie, viaggi sciamanici e ritorno dei morti, ibridazioni cultuali, retaggi inferi arcaici), gettate le basi di una tassonomia febbrile ma perfettamente giustificata per il panorama che ha fondato le sue fantasie (L’orrore letterario, 2022), aperte le porte a una nuova – non diversa perché contigua – ramificazione nella direzione del mito (La Schiaffiatùra, 2024), l’autore le offre ora un nuovo sviluppo triforcuto come una zampa artigliata o il tridente di qualche divinità.

Cravuni (molto bella la veste grafica) è infatti la prima avventura di una trilogia pensata in modo transmediale: se da Lo Scuru stanno infatti emergendo a posteriori un videogioco e un film – linguaggi entrambi seminali per l’orizzonte narrativo di Labbate –, al contrario Cravuni è pensato a monte come prodotto che si muove sui tre piani. Senza tradirne alcuno: la scrittura è quella curatissima, indocile, delirante e francamente mannara degli altri romanzi, lingua delle ombre per scendere sotto le lande dove Ade rapì Kore e dove non si è mai sicuri se interagiamo – se siamo noi stessi – vivi a questo mondo, quindi una lingua letteraria in senso proprio; ma gli sviluppi visivi e d’azione trascinano già dentro gli spazi videoludici e cinematografici, deserti e cieli mossi, luoghi equivoci, miniere. Che ci piaccia o no, i diversi linguaggi sono ormai imprescindibili dall’occhio di un narratore: e come i vecchi gotici si muovevano negli spazi di altre arti – architettura, pittura, ovviamente teatro… – per definire le proprie oscurità, così oggi il gotico migliore si muove nel dedalo di tali differenti dimensioni. Walpole non avrebbe scritto il suo Castello d’Otranto senza l’appoggio del teatro da un lato, di architettura e arti figurative dall’altro; e per altro verso, Füssli ha influito direttamente su Mary Shelley e Poe, Le Fanu e Stoker, non solo nella sagoma-tormentone del suo Incubo dipinto, ma per tutto ciò che in generale vi sta dietro di allucinatorio, spettacolare e febbricitante.

Del tutto coerente dunque lo sviluppo crossmediale per cui è stata appositamente fondata la sinergia Grey Interzona (edizioni Polidoro, casa di produzione multimediale Grey Ladder, sviluppatore di videogiochi Tiny Bull Studios), la natura per Cravuni di “arcade letterario” – nel senso della parola “inglese arcade […], che indica genericamente una galleria commerciale, [e] significa in questo caso sala giochi” (Wikipedia) – con la scelta di un ritmo incalzante e uno sviluppo paginale congruo all’avventura.

Che richiama d’altronde (riflessioni non nuove, ma bello vedervi conferma) a una dimensione di mistero specifica del gotico. Mistero proprio nel senso tecnico, di riti collettivi appartati che nel mondo antico in chiave religiosa definivano attraverso azioni rituali più o meno indicibili il rapporto con la natura (agricoltura, eccetera) e via via con una sopravvivenza oltremondana; ma nella chiave moderna e laica di una società urbana, la natura passa quasi solo attraverso la percezione degli eventi nascita, sessualità e morte, che soltanto una narrazione fortemente intrisa di simbolo può dire. Proprio nell’esperienza di chi vive una sensibilità – e magari prassi comunitarie: rapporto con le arti, eventi, persino abbigliamento – nel segno del gotico è evidente che una certa mitopoiesi non si esaurisca nella facile mascherata, afferendo piuttosto a un linguaggio interiore con cui trattare per simboli e allusioni le grandi domande. Un linguaggio interiore fatto – si è detto – di riti (laici, per carità, ma densi di simbolismo) e brandendo oggetti transizionali e “liturgici”: e a ben vedere anche certe prassi videoludiche presentano elementi in senso lato rituali e il ricorso a certe attrezzature. Cravuni capitalizza tutto questo: la catabasi in scena sembra presentare delle componenti rituali, di azione “sacra” (nel senso di essere compiuta da figure divine).

E proprio coi piedi ben saldi tra miti e misteri, Labbate narra nella lingua e coi topoi del gotico siciliano – il rapporto tra America polverosa delle grandi strade e calcinate origini trinacrie, le mostruosità e il sincretismo ctonio – la vicenda naturaliter poliziesca (cfr. le partizioni individuate in L’orrore letterario) di un detective un po’ all’Angel Heart. Ma il paganesimo che sostanzia l’oscurità non è qui quello dei culti ibridati degli schiavi, bensì quello del mito antico mediterraneo, non meno meticcio e incerto. Se nella prima trilogia il substrato “cristiano” – con tutte le virgolette del caso, perché grondante antichi miti inferi del paganesimo – era più marcato, qui la sovrapposizione / compenetrazione è con gli dei di una grecità ben poco luminosa: siamo nei territori minacciosi dell’Apollo con il coltello in mano di Detienne, dei cani inferi di Ecate – l’uomo-cane Calorio (di nome Larrie, come l’uomo lupo Larry Talbot dei vecchi horror Universal) –, di una mafia trasfigurata in consorzio spettrale.

Il detective Frank LaBella, orbato di un occhio nel segno di quelle mutilazioni mitiche che lo accomunano a Odino e altri ciclopi, abbandona l’Oklahoma per tornare a Riesi in provincia di Caltanissetta, da dove veniva suo nonno. Sta seguendo una pista privata, l’orrendo omicidio di sua madre, e intanto specula sul Divino, in una continua opposizione venata di blasfemia tra le sue divinità misteriche – sfuggenti come i Grandi piccoli di Samotracia – e il Dio cattolico. Non è troppo strano: LaBella è a sua volta una divinità, un Apollo impegnato in una teomachia notturna, allucinata e fitta di oggetti simbolici e desueti alla Francesco Orlando come improbabili attrezzi liturgici (spadini, una forchettina a due punte, un graal di metallo, una bottiglietta di amaro, coltellini, “varie piccidde armi nate da un accoppiamento tra armi che facevano parte di altre armi”, su un altare “svariati oggetti che sembravano da toilette”, immaginette eccetera) nonché d’ombre di Cerberi e Arpie. Ma tutto il quadro è fervente di echi: i cannocchiali di Pino Badrose, carpentiere e “archeologo delle coscienze” (Efesto? vive tra i fornelli), sembrano usciti dalla bottega dell’equivoco Coppola de L’uomo della sabbia di Hoffmann, a ricollegare alla più solida tradizione gotica dell’onirico e della visione smaniante.

Dimentichiamo le malinconie romantiche da ritorno dell’emigrato, canzoni come Torno a casa o Paese mio. Qui come per il Giuseppe Buscemi di Suttaterra – amico del nonno di LaBella – è un ritorno dal sapore di morte legato a un bigliettino: la scrittura, in Suttaterra di una lettera, ha sempre potenzialità nel segno del passaggio. Il vilain con cui fare i conti è il tenebroso Boss Tony Lavuru (un Ermes degradato, deformato come in un altorilievo tardivo) di una Mafia spiritica, e LaBella dovrà affrontarlo.

La presenza di cereali (Kellogg’s Frosties, Kellogg’s d’Ermes e altro), in tutta questa storia, rimanda al loro ruolo negli antichi misteri, Eleusi e non solo, ma anche a un’antieucarestia nel segno dell’infezione; e lontano dagli scintillii di La Cabala di Thornton Wilder e dall’umbratile claustrofobia fiamminga di Malpertuis di Jean Ray, il ritorno degli antichi dei – a volerlo definire con Aby Warburg – si consuma nel sordido. Con Jung e Hillman “Gli dèi sono diventati malattie”, ma di statuto divino è anche l’incredibile psicopompa Cuncittina Bity con cui nascerà un amore. Nonché un nuovo sottogenere narrativo, il thriller della mitologia siciliana criminale, che qui trova qui un visionario, iniziatico cominciamento al ritmo serrato del videogioco. “Siamo costituiti di membra condite da stanchezze mostruose”. E a sovvenirvi, tanto più nei nostri tempi bui, ci sostengono le storie.

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La Labbazia degli incubi (2) https://www.carmillaonline.com/2024/04/20/la-labbazia-degli-incubi-2/ Sat, 20 Apr 2024 20:00:35 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82013 di Franco Pezzini

Il genere scuru

Orazio Labbate, Lo Scuru, pp. 144, € 16, Bompiani, Milano 2024.

1970 (o giù di lì). Mio padre, dipendente Fiat a Torino, è stato trasferito per un lavoro alla Grandi Motori a Trieste: trattandosi di un soggiorno di anni, porta tutta la famiglia e prende in affitto dalla famiglia di un collega una casetta a due piani su Scala Santa, una delle vie scoscese che si inerpicano sulla collina dal popolarissimo e periferico (almeno allora) quartiere Roiano. La casetta è arredata secondo un gusto che oggi potremmo definire un po’ rétro, compresi una tappezzeria vinaccia [...]]]> di Franco Pezzini

Il genere scuru

Orazio Labbate, Lo Scuru, pp. 144, € 16, Bompiani, Milano 2024.

1970 (o giù di lì). Mio padre, dipendente Fiat a Torino, è stato trasferito per un lavoro alla Grandi Motori a Trieste: trattandosi di un soggiorno di anni, porta tutta la famiglia e prende in affitto dalla famiglia di un collega una casetta a due piani su Scala Santa, una delle vie scoscese che si inerpicano sulla collina dal popolarissimo e periferico (almeno allora) quartiere Roiano. La casetta è arredata secondo un gusto che oggi potremmo definire un po’ rétro, compresi una tappezzeria vinaccia nel salotto, una pittoresca cucina e un gigantesco quadro – quasi un’inquadratura all’americana, ma per il resto grandezza naturale – della Madonna sovrastante il letto dei miei. Quadro oggetto della vicenda che segue.

L’episodio che narro si svolge un tardo pomeriggio d’inverno, a tramonto consumato: con vari amici coetanei – neanche dieci anni a testa – saliamo al piano superiore per recuperare un paio di forbici (arrotondate) dalla nostra camera da letto, comunicante con quella dei miei. In stile piccoli esploratori nel buio, non accendiamo la luce, brandendo invece una piccola pila elettrica.

Recuperiamo le forbici, il temerario che regge la pila la punta distrattamente attraverso la porta aperta della stanza dei miei, illumina l’enorme quadro sul loro letto. Sappiamo che scherzi combini una luce su un quadro… Al grido “La Madonna si muove!”, presi dal panico, ci tuffiamo giù dalle scale e raggiungiamo le luci tranquillizzanti del piano di sotto e le madri in attesa. Ultima della fila, mia sorella – al tempo piccola – che non ha capito niente e trotterella giù dai gradini.

L’episodio è oggi incomprensibile a buona parte dei bambini, ma il panico descritto, e omogeneamente diffuso nella nostra piccola squadra, la dice lunga su un linguaggio d’epoca, che ci faceva considerare neppure troppo implausibile un simile evento. Al tempo, storie di apparizioni mariane più o meno impressionanti (quadri che piangono o – peggio – sanguinano, immagini che si staccano da dipinti per interagire con gli umani, eccetera) facevano ancora parte di un linguaggio devoto diffuso. Fortunatamente, nella fede della mia famiglia – o tra gli stessi preti incontrati via via – quell’arsenale miracolistico faceva parte di curiosità tramandate più per spiegare soggetti d’affreschi o fenomeni sociodevozionali che per punti saldi d’un credere: il Vaticano II stava venendo metabolizzato, e la fede medievaleggiante dei prodigi e della paura si ritraeva. Ma nello stanzone d’ingresso della casa di campagna dove andavamo d’estate ci sarebbe stato per anni – e lo ricordo con vaga inquietudine – un vecchio quadro molto scuro riproducente non so quale effigie della Madonna che colpita da sassi avrebbe sanguinato, e storie di rapporti agitati tra il sacro e le immagini sono del resto documentate un po’ su tutto il territorio nazionale.

L’idea che entità luminose – uso volutamente una formulazione generica – scelgano di comunicare con fragili esseri umani e tanto più con impressionabili bambini attraverso simili epifanie da cardiopalmo mi è sempre risultata difficile da comprendere: io ne avrei tratto più panico che confidenza spirituale. Vero che i testimoni – veri o presunti, non ci interessa – di simili eventi non ne risulterebbero in genere scioccati, ma almeno nelle Scritture l’apparizione mette subito le mani avanti: “non aver paura”, “non abbiate timore” sono le formule ricorrenti, perché è chiaro che paura e timore sono i nostri atteggiamenti più immediati di fronte a tali epifanie che lacerano il velo del naturale.

D’altronde la devozione popolare, allargando indebitamente e in modo talora molto losco il fronte del miracoloso, è ricorsa assai spesso a un immaginario che con le Scritture c’entra ben poco. Il teatro di mirabilia allestito una ventina d’anni fa da Carlo Dogheria nel volume Santi e vampiri. Le avventure del cadavere (Stampa alternativa, 2006), mostrando i percorsi di due assai diversi tipi di corpi, ricorda come un certo tipo di linguaggio devoto parli assai più di convinzioni arcaiche, di paure e archetipi primordiali e senz’altro pagani, che non del credo delle grandi religioni odierne. Tra i miracoli degli Acta sanctorum, di sconcertante varietà, si ravvisano manifestazioni talora incongrue o addirittura frivole o ingiuste – al punto che solo le pirotecnie interpretative di agiografi compiacenti riescono a conciliarle (in termini anche parecchio laschi) con lo spirito evangelico.

E un elemento risulta determinante: il ruolo di un supporto materiale vicario al corpo, di un’icona – dipinto, statua… – che catalizza l’inquietudine. Da bambino non potevo sapere che quell’effetto viene definito Perturbante: quando si muove qualcosa che per definizione non dovrebbe muoversi, quando interagisce con noi qualcosa che non dovrebbe farlo (pensiamo anche solo agli occhi di certi quadri, capaci di inseguirti in giro per la stanza). Ma è qualcosa che colpiva già gli antichi: non si contano le storie – e anzi i rituali teurgici – sull’animazione di statue. Come bambino dalla ricca fantasia, bastavano alcune immagini a colpirmi, tanto più se collocate in spazi dove dovevo passare da solo, o persino in certi libri – dove sapevo che voltando le pagine avrei incontrato a un certo punto una figura disturbante. E tante storie di miracoli non le avrei conosciute, se girando per la Torino barocca con mia madre e mia nonna non avessi ricevuto spiegazioni sul senso di una certa figura, sull’immagine in cera di un certo santo coricato, su certi soggetti di tele negli altari minori: tranquillissime, ma tali da attecchire come a una miccia del materiale esplosivo della mia fantasia.

Un simile carnevale di paure sovrannaturalistiche “pie”, “devote”, può accedere oggi a un linguaggio narrativo codificato, quello del folk horror – o piuttosto, considerando la scena italica, dell’orrore popolare, come riflettono Fabio Camilletti e Fabrizio Foni in una coppia di belle raccolte edite da Odoya (Almanacco dell’orrore popolare. Folk horror e immaginario italiano, 2021 e Almanacco dell’Italia occulta. Orrore popolare e inquietudini metropolitane, 2022); e rientra nell’orizzonte ormai riconosciuto di un gotico mediterraneo e peculiarmente nostrano (cfr. Italian Gothic. An Edinburgh Companion, a cura di Marco Malvestio e Stefano Serafini, Edinburgh University Press, 2023). Ma da un lato presuppone, per essere compreso davvero, una intensa appartenenza – culturale o psicologica – o almeno una vivida impressione recata da un orizzonte di convinzioni e di linguaggio, con adesione a un sistema immaginale diffuso. Ben difficilmente un gruppo di bambini di oggi può vivere un evento come quello descritto supra, legato alla cultura cattolicissima di un passato italiano.

Mentre avrebbe potuto capirlo, con lo stacco critico di un diverso referente culturale ma insieme con l’impressione di un’esperienza fortissima, un viaggiatore eccellente come Horace Walpole, che proprio quel tipo di suggestioni devote stranianti, oniriche, grottesche, traghetterà nel suo Castello d’Otranto. Giocando sulle situazioni incontrate in gioventù durante il Grand Tour in Italia, Walpole avrà la genialità di sviluppare questo immaginario in chiave narrativa, a colpi di incubi e miracoli. Eppure, persino nel grembo del genere gotico da lui avviato, pochi sapranno coglierne l’esplosivo specifico, il teatro emotivo e iconico, e gli stessi epigoni anglosassoni ne recupereranno solo modiche suggestioni, in genere tramite altri filtri (l’Irlanda cattolica a monte della santabarbara di res sacrae del Dracula, alcuni elementi sincretizzati nelle culture creole o latinoamericane, il Camera con vista folkloristico-streghesco stile Aradia).

E, molto tempo dopo, sta qui – più che nel set trinacrio in sé – una delle spiazzanti novità del gotico siciliano di Orazio Labbate: capace di riprendere in nero miracolismi e devozioni, icone e rituali idealmente sulla scia di Walpole. Immagini conturbanti come quelle del Signore dei Puci e della Madonna dell’Alemanna, riti di liberazione esorcistica che non liberano affatto, castelli e chiese e un intero abitato dalle presenze convulse e disturbanti: processioni da incubo, incendi finali dal sapor di crollo…

Di più: in Labbate troviamo il ricorso ad altri due elementi-chiave della novità walpoliana, cioè l’uso del grottesco – figure ossesse e burattinesche, sghembe derive, un teatro di eccessi che alla poesia alterna il sogghigno – e il contrappunto a un mondo anglosassone qui non inglese, ma americano. D’altra parte, vedendo citare (giustamente), tra le fonti ideali di Labbate, oltre a Bufalino, Consolo e D’Arrigo, anche Faulkner e McCarthy, sembra senz’altro il caso di ascrivere all’elenco il landlord di Strawberry Hill.

Di più: il Walpole tanto colpito da linguaggio e febbri immaginali del barocco “papista” – estremo e paradossale per un viaggiatore giunto da un’esperienza culturale diversa come quella britannica – vede eruttare le sue fantasie da un bacino onirico, un sogno o piuttosto (confesserà) un incubo occorsogli: quel set non è dunque colto puramente al filtro di un linguaggio da folklorista, filologo o protosemiologo, ma ruminato nel segno del notturno e dell’inconscio. Un linguaggio degli abissi, interiori come inferi, che può ben riconoscersi – a leggere Labbate – come peculiare linguaggio dello Scuru, come linguaggio scuru: un linguaggio aspro, febbricitante e immansueto, voce della perturbazione e del notturno, voce delle crisi di mondi diversi. E che paradossalmente ci accoglie in questo nostro faticoso oggi, prestandoci toni per parlarne e forse placarci:

 

La notte mi parla con la lingua dei fantasmi e mi dice che sarò perdonato. […] Vienimi a prendere Scuru. Proprio tu, Scuru. Salvami. Ti imploro. Prenditi la mia luce e spegnimi. Taglia la glossa e dalla a qualcheduno perché io possa spirare subito.

 

Di qui idealmente promanano le riflessioni articolate da Labbate nel suo saggio L’orrore letterario (Italo Svevo, 2022) che de Lo Scuru diventa l’esito inevitabile a raccolta di tutta una letteratura.

 

La riproposta in libreria de Lo Scuru, uscito inizialmente per Tunué, 2014 – dunque dieci anni fa – e riedito ora da Bompiani in attesa di un videogioco ispirato (entro l’anno) e della trasposizione cinematografica attualmente in lavorazione (2024 o 2025), sembra una buona occasione per riflettere sul rapporto con le fonti prime di un genere che Labbate non si limita a riprendere con passione, ma reinventa originalmente sulla base di un personale sentire. E proprio l’edizione Bompiani in uscita accompagna al testo del romanzo un vero e proprio manifesto, Genesi del Gotico siciliano di Orazio Labbate.

Che è anzitutto un bellissimo e intenso racconto autobiografico, a partire dai venti chilometri di deserto della strada provinciale tra Butera e Gela. Un deserto “sconfinato, eppure conchiuso nei pochi chilometri, su tutti i lati, in cui la desolazione domina lo sguardo”; un deserto malinconico e crudele, privo d’illuminazione notturna, ma insieme pronto a liberare energie in chi lo traversi non accidentalmente. Di qui la volontà dell’autore diciottenne di far sua quell’esperienza di iniziazione all’estremo vivendo la strada frammento dopo frammento: “Sentivo […] di dare un nome definitivo alla tenebra, non poteva considerarsi mero buio, emanava, complice il deserto, un’orribile filosofia esistenziale, emanava un’identità” diversa dalle entità cristianeggiate – ma memori di un retroterra antichissimo, pagano – dei riti comunitari di Butera.

Brandendo come ideali testi sacri le sue letture del tempo (McCarthy e Faulkner, Kafka, Bufalino e Consolo, D’Arrigo, Cioran: “Queste opere tentavano di suggerire un nome al buio della Sp8, mi aiutavano a definire l’astrattezza emotiva e teologica del territorio attorno e dentro di me”) Labbate riflette sul tipo di lingua necessaria a narrare quel tipo di esperienza. Che come nel gotico americano vede sostanziarsi

 

prospettive simboliche, culturali, visionarie, locative, in comune. A partire dall’attenzione nei confronti di una religione cattolica quale centro fanaticamente nevralgico della fede, dall’onnipresenza di ambientazioni desolate (nella cristica e avventurosa dimensione del deserto, come in quella di una più tangibile trascuratezza cittadina di contorno). Senza tralasciare la focale questione dell’invocazione delle divinità cattoliche, da parte dei più dubbiosi e controversi filosofi del posto, non per acquietarle bensì per scatenarvisi contro. Causa del dolore, della solitudine, della pazzia di tutta la popolazione.

 

Una religione in nero dove sedimenta il Perturbante da cui siamo partiti, certo da un altro luogo e un altro tempo, e che conduce a esiti simbolicamente anche molto distanti. Ma che in fondo richiama ancora una volta al lascito impressionante di devozioni & inquietudine importato in letteratura per la prima volta da Walpole.

Il tutto in una lingua congrua, un siciliano inconciliante, scheggiato e gutturale privo di ironia da commedia all’italiana o concessioni folkloriche. E la notte di Natale del 2010 (ricordiamo che il vecchio gotico era nato con Walpole la vigilia di Natale), nel buio della strada, l’autore vive un’agnizione che costituirà lo sbocco della sua narrativa, proclamando “al vento freddo del deserto, con sicurezza, certo del battesimo soprannaturale, come quando si dice a sé stessi una cosa giusta senza alcuna prova: ‘Questo è lo Scuru’”. Che acquista una sorta di dignità teologica e insieme finisce col richiamare vagamente le entità fronteggiate nel Salmo 91 (91), versetti 5-6: “Tu non temerai gli spaventi della notte, / né la freccia che vola di giorno, / né la peste che vaga nelle tenebre, / né lo sterminio che imperversa in pieno mezzogiorno” – a loro volta in origine, probabilmente, non concetti astratti ma figure demoniache.

Di qui, a reinventare il gotico americano in chiave nuova, nasce il gotico siciliano di Labbate, con la sua simbologia, l’iconografia, l’“immaginario cattolico quasi draculesco”, paganeggiante e connotato da una sorta di minacciosa retroflessione simbolica: e un viaggio del 2023 negli Stati Uniti lungo la storica Route 66 porrà una sorta di suggello immaginale a quell’esperienza pregressa.

Si è accennato al linguaggio scuru, qualcosa che in Labbate erutta in voce e lingua narrativa propria (il visionario, puntuto, apocrifo italo-buterese della sua saga) declinando il referente americano – ma, vorrei dire, la stessa remota eredità gotica settecentesca – in forma postmoderna. Dove il senso di un gioco di specchi – oscuri, ci ricorderebbe Le Fanu – finisce con il dire qualcosa sulla voce e le potenzialità del gotico in quanto tale: che non si consuma nell’horror, neppure trattenendo di tale termine (latino, prima che inglese) la nuda accezione di brivido e compulsione. Il gotico è il linguaggio del nostro specchio umbratile e di identità irriconosciute, del labirinto di un passato che ci portiamo dentro a sperderci (castello interiore, camera da letto infestata e relativi sipari). Un linguaggio che provoca la nostra fantasia fin dalle paure d’infanzia – se vogliamo, dal “La Madonna si muove!” del cardiopalmo bambino nutrito di racconti devoti maldigeriti, ma senz’altro da prima – e fino a nostalgie e malinconie, al non detto e non dicibile del trovarci invecchiati, che visita le insonnie e innerva le tentazioni. Proprio come ne Lo Scuro le confidenze in articulo mortis di Razziddu Buscemi accanto al corpo della donna amata, sul precipizio di una vita, e il riagganciare la sua esperienza di bimbo e la svolta di formazione, e tutte le dualità e contraddizioni conseguenti.

Persino provocatorio – serendipity, serendipity… – è che il Theodore del Castello d’Otranto appartenga alla stirpe siciliana dei signori di Falconara: la sua avventura di formazione (nel buio come tutte le iniziazioni) comporta il recupero di quel lignaggio. Ma anche Razziddu consuma la propria formazione al castello di Falconara, suggestivamente vicino a Butera. Mi conferma Labbate di non aver assolutamente pensato di stabilire un nesso, semplicemente il castello di Falconara sorge nell’area della sua storia. Tout se tient, come nel caso di Walpole che scopre a posteriori che un castello a Otranto esistesse davvero.

Poi, vero che Razziddu in punto di morte commenta: “Rosa non mi ha dato figli. Però li ho sognati. Li abbiamo sognati”, e invece nel seguito Suttaterra un suo figlio lo troviamo, il protagonista Giuseppe. Ennesimo paradosso che conduce al mondo dei sogni e dei morti: e insieme alla letteratura, ai figli letterari, a un teatro in costume come quello del Castello per celebrare pantomime interiori – in particolare quelle dei piani bassi di noi.

E poi (vorrei dire soprattutto) c’è appunto la lingua, magmatica e ipnotica, congrua alle catabasi e alle agnizioni, alle emersioni dal buio e alle iniziazioni infere. Del resto, come spiegava Labbate in un incontro a Torino, la Sicilia delle sue storie e della sua lingua è ancora quella nera dei culti inferi grecosiculi e del ratto di Kore, di gorgoniche entità pagane e di misteri di discesa nell’abisso. Le processioni sono quelle che ricorda lui, anche se – forse per scelta di qualche parroco prudente – l’antica statua del Signore dei Puci dei riti della Passione è stata ormai sostituita da una meno impressionante. Ma il fiato che esala come vapori allucinatori dall’ipotetica fenditura sotto il tripode della Sibilla pitonica è quello antico.

E antichi sono gli echi di questa storia al buio. Come in quella sorta di disperato rito di passaggio in cui Razziddu tenta il suicidio – quello rituale-iniziatico, di corda – e viene salvato dalla propria Arianna in un labirinto scuru anzitutto interiore, come il dedalo tenebroso di Manfred sottostante il castello. E poi ecco una schiera di doppi, figure grottesche o deformate nei fondamentali connotati umani e sociali (il mago, il prete, lo zio piromane, il pazzo Pidocchiuso che balla dietro la macchina delle pompe funebri come nell’inversione mortifera della danza di Davide avanti all’Arca); una Madre Terribile – per Razziddu, la nonna, il cui funerale si svela momento d’agnizione – e un padre dalla sorte inconosciuta come accaduto ai legittimi eredi dell’Otranto walpoliana; una Kore deliziosa dal ruolo salvifico, che gli permette di varcare l’oceano – che, com’è noto, permette lo sbarco alla terra dei morti – dopo un viaggio assai più lungo di quello toccato al genitore.

Leggere Lo Scuru alla luce del manifesto ora premessovi – e che pure sintetizza racconti offerti dall’autore in varie occasioni – è sicuramente illuminante: e l’intera saga di Butera vi trova un’esegesi fondamentale. Se d’altra parte può essere difficile prefigurarsi a quali sviluppi ulteriori condurrà la machina immaginale avviata da Labbate, resta fin d’ora il dato oggettivo di uno sviluppo nuovo, che porta il gotico salutarmente lontano da cortiletti fandom e loro beghe di pollaio per pretendergli pubblicamente una dignità meritata e opportuna.

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La Labbazia degli incubi (1) https://www.carmillaonline.com/2024/04/13/la-labbazia-degli-incubi-1/ Sat, 13 Apr 2024 20:00:14 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81938 di Franco Pezzini

Gorgó, Trinacria e la Schiaffiatùra

 

Si dice che scese tra gli uliveti simile al capitombolo

della notte, un essere tremendo come un’apparizione

in difficoltà, col capo avvolto da piccoli serpenti e

insieme da minute corone di spine piene di animazione.

 

Orazio Labbate, La Schiaffiatùra. Nascita, doppelgänger e scomparsa della gorgone buterese, Italo Svevo, Trieste-Roma 2024.

La trilogia del gotico siciliano partorita nel tempo da Orazio Labbate (cfr. qui e qui) non poteva che condurre a una serie di sviluppi – più che innesti, si tratta cioè di ineludibili e coerenti gemmazioni. Leggerle alla luce [...]]]> di Franco Pezzini

Gorgó, Trinacria e la Schiaffiatùra

 

Si dice che scese tra gli uliveti simile al capitombolo

della notte, un essere tremendo come un’apparizione

in difficoltà, col capo avvolto da piccoli serpenti e

insieme da minute corone di spine piene di animazione.

 

Orazio Labbate, La Schiaffiatùra. Nascita, doppelgänger e scomparsa della gorgone buterese, Italo Svevo, Trieste-Roma 2024.

La trilogia del gotico siciliano partorita nel tempo da Orazio Labbate (cfr. qui e qui) non poteva che condurre a una serie di sviluppi – più che innesti, si tratta cioè di ineludibili e coerenti gemmazioni. Leggerle alla luce di una ormai lunga storia del gotico pare quanto mai opportuno: sia per richiamarne il radicarsi in uno sviluppo letterario del genere troppo spesso svilito alla percezione di lettori e scrittori nei suoi effetti più facili e naïf, laddove invece traghetta non-detti ulceranti, inquietudini serie, turbamenti epocali; sia per rimarcarne il carattere di ricerca e laboratorio, di inventio continua e lucida, scipita da tanti adagiamenti mediocri nella formula conchiusa e invece sempre fertile a chi sappia spalancarla e lavorarci. Il cantiere di Labbate, la sua Labbazia degli incubi, è appunto sempre aperto come una forgia ben avviata.

Sviluppi, dunque, alla trilogia. Il primo naturalmente in chiave di sistematizzazione teorica, saggistica, con il piccolo repertorio sull’Orrore letterario uscito per Italo Svevo nel 2022: a radicare idealmente il suo gotico siciliano nella storia della letteratura italiana contemporanea. Ma un secondo sviluppo, questa Schiaffiatùra, rimanda idealmente assai più indietro nel tempo, e con un linguaggio narrativo-sapienziale da testo (anti-)sacro e sovversivamente mitologizzante. Se mythos è – da antica accezione – parola importante, merita comprendere in che senso.

Assai più indietro nel tempo: non solo per il richiamo agli antichi miti mediterranei (greci, e insieme vertiginosamente meticci) e al lascito ctonio pagàno sottesi alla trilogia, ma per il ruolo non accidentale che il topos qui ripreso della Gorgone riveste all’alba del gotico. Se cioè Medusa, o l’arcaica figura-ombra ecatea da cui irrompe nei cataloghi mitologici classici – diciamo genericamente Gorgó, nella forma contratta di allarme d’un intero catalogo di pericoli notturni (Mormó, Gelló, Lamó…) – finisce in effetti con il rappresentare la dea-mostro/alpha, all’origine e all’omphalòs del discorso occidentale sul mostruoso e insieme sul Femminile, a sovrapporsi a una Sicilia omphalòs del Mediterraneo, essa insieme non perde la dimensione di maschera fatale: la reliquia numinosa di un dramma mitico e rituale che resta sotteso al linguaggio nero del gotico e insieme ne innerva esplicitamente il modellarsi storico. Il gorgoneion come maschera di sconcerto pietrificante e rivelazione fatale di verità connota infatti ossessivamente l’esperienza della rivoluzione e l’idea stessa di libertà “alla francese”, impastati con l’idea di un Terrore che dona alla scrittura del gotico scioccanti echi storici e svela nessi denunciati con lucidità per esempio da Sade.

La Schiaffiatùra si inserisce insomma in una tradizione letteraria non solo risalente e genuina, ma dagli echi – vorrei dire – necessari per capire un’operazione come quella di Labbate: ben collocabile e insieme innovativa sull’orizzonte di un gotico mediterraneo fin dall’Otranto walpoliana e dai suoi immediati sviluppi. D’altra parte proprio in Walpole troviamo un richiamo congruo alla lettura di questo nuovo testo: là dove la seconda edizione del Castello d’Otranto, quella firmata dall’autore con il nome vero, altera alcuni versi di un altro Orazio – il poeta latino – nella citazione d’incipit  “Vanae / fingentur species, tamen ut pes, & caput uni / reddantur formae”. In sostanza le immagini che appaiono “vanae” e la bizzarria delle parti estreme di creature chimeriche sorte come da deliri febbrili conducono egualmente (a differenza che nell’originale latino) a una forma completa, a un senso artistico, a un’efficacia reale. Ciò che si riscontra nelle “formae” tenebrose di queste pagine, con le continue epifanie quasi lisergiche o allucinatorie del demone/divinità protagonista, e il controcanto delle citazioni iniziali da Guénon ed Edgar Wind. Dove due sembrano le chiavi per decrittare sequenze tanto imbizzarrite d’immagini.

Anzitutto quella dei miti sottostanti la trilogia: miti ctoni, inferi, tellurici, legati a una gnosi perturbante come di oscuri gruppi ereticali brandenti blasfemia e inversioni. Un’epopea forse carpocraziana, nicolaita, se non fosse che il sesso evocato non ha granché d’un nesso di libertino & soteriologico e si innerva piuttosto in ipotetici e oscuri misteri agrari, in incubi rurali, in beffarde paure notturne delle campagne. In questo contesto, di Gorgoni ne esisterebbe una pluralità: dove prima viene idealmente la tripode Trinacria (una Sicilia archetipica e mostruosa) e solo dopo, come circonfusa da un nimbo colloso di oscurità, l’indicibile Schiaffiatùra emersa nella zona arida e fatale di Butera, centro della geografia del gotico di Labbate.

Sorta di trickster carnascialesco, vorace e voluttuoso, ipostasi di orrore nelle sue epifanie tra “animelle di campagnoli morti” e “demonietti lussuriosi”, la Schiaffiatùra inverte la crescita verso l’alto dei rami degli alberi sovvertendone “l’intuizione del bene” e obbliga i cani, i gatti, i gechi a rovesciare la testa (ecco le inversioni associate nel mondo latino alle streghe), imbeve la terra di un sangue corrotto in disturbante, inconveniente profanazione di quello eucaristico, strappa imprevedibilmente alle campagne buteresi “il senso prensile della materia”. Dio della menzogna e degli oracoli, protegge “bricconi, bugiardi, mistificatori, bestemmiatori, viaggiatori buteresi. Coloro che amano di nascosto tra le selve e nei trogoli”, salvo poi ingannarli senza pietà. Opera soprattutto per confondere e “rendere i cristiani mescolanze mostruose” a suon di insultanti ricombinazioni anatomiche, come nella walpoliana sovversione dei versi dell’antico Orazio; e per disorientare i fedeli scatenando “in essi visioni di second’ordine”. Del resto, gli “esseri inferiori, ricchi di infingimenti e assenti della più alta dignità, operano nell’orrore tra il vuoto e la terra”. Di suo, la “Schiaffiatùra rappresentava daccapo: la morte alla carne, la morte allo spirito, il punto di rovesciamento delle croci, il buffone che si traveste di ogni divino mediatore cristiano per curarsi con il contrario dei suoi simboli”.

Una certa complessità da magistero gnostico avvolge le operazioni dissacramentali dell’entità, e non è questa la sede per seguirne il filo: ma l’autore ben riesce a offrire all’antiteologia della gorgone rurale una vertigine genuina tra ostie blasfemizzate, possessioni di statue, straniate veggenze. Fino alla fine della sua parabola mitica, o se si preferisce agli ultimi capitoli del suo cacovangelo. Dove cioè prende avvio quanto così anticipato:

 

Vi era nell’incorporea psiche della Trinacria il proposito di generare un Doppelgänger della Schiaffiatùra. Nel sinistro carnevale perpetuo della sua psicologia germinavano considerazioni su una morte scherzosa del demone obliquo a lei indigesto poiché contrario al macabro riso embriogenico.

 

Il che condurrà alla sconfitta del demone. Segue Compendio fotografico: i territori della Schiaffiatùra, cioè una breve raccolto di foto d’una Butera scabra e impressionante, dall’apparenza tempestosa.

Indubbiamente in queste pagine che stillano nigredo, umori putridi e sogni intossicati si coglie la lezione di Ligotti – non quello modaiolo feticizzato superficialmente dai nerd, che allargano solo il lovecraftismo degli stentatelli a un nuovo oggetto da altarini biascicando facile l’orrore, l’orrore, ma il maestro sornione di stile dalla disperazione onesta: però con Labbate si va ben oltre e a maggiore profondità, in grazia di una ricchezza variegata di letture ben al di là dell’horror. Ricordare la mole di opere recensita settimanalmente da un autore in fondo giovane, a corona di una pregressa formazione vastissima, permette di non cadere in equivoci grotteschi.

La prima cifra è insomma quella del gorgoneion gnostico, idealmente alla base delle livide e tortuose fedi della trilogia, dei suoi climi ossessi, delle sue comunità infestate. Ma, come detto, c’è una seconda chiave, fondamentale per capire quest’opera e ricondurla a uno statuto di mito, parola importante: e cioè quella della lingua, della voce. La Schiaffiatùra è in qualche modo la lingua stessa della trilogia, ne illumina la voce sul piano delle visioni come il saggio L’orrore letterario lo fa sul piano critico dell’analisi di un filone. Ne colloca insomma le catabasi e i guizzi beffardi, le sfide e provocazioni: e come la Gorgone classica urla a lingua spiegata, così La Schiaffiatùra racconta la lingua immansueta del suo autore, i suoi rituali immaginali, la potenza di fuoco del suo approccio letterario.

Però c’è un terzo sviluppo, dopo il saggio critico e il racconto sapienziale: ed è quello del manifesto sul gotico siciliano. Vi torneremo a proposito della prossima riproposta in libreria del seminale Lo Scuru.

(1. Continua)

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Orazio Labbate e la Clavicula horroris https://www.carmillaonline.com/2022/12/16/orazio-labbate-e-la-clavicula-horroris/ Fri, 16 Dec 2022 21:00:38 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75166 di Franco Pezzini

Orazio Labbate, L’orrore letterario, pp. 120, € 15,  Italo Svevo, Trieste-Roma 2022.

“Qualità primaria è la lingua: da essa ha fondamento e conio quest’orrore letterario. Le opere esemplari, difatti, sono innanzitutto la prova di una voce”. Così in epigrafe, sulla quarta di copertina: una frase che, se non può sintetizzare in formula unitaria la rutilante ricchezza di spunti di questo vertiginoso piccolo libro – una clavicula, poco più di cento pagine densissime sui riti di un lavoro letterario eccellente – ne offre senz’altro lo snodo fondamentale. [...]]]> di Franco Pezzini

Orazio Labbate, L’orrore letterario, pp. 120, € 15,  Italo Svevo, Trieste-Roma 2022.

“Qualità primaria è la lingua: da essa ha fondamento e conio quest’orrore letterario. Le opere esemplari, difatti, sono innanzitutto la prova di una voce”. Così in epigrafe, sulla quarta di copertina: una frase che, se non può sintetizzare in formula unitaria la rutilante ricchezza di spunti di questo vertiginoso piccolo libro – una clavicula, poco più di cento pagine densissime sui riti di un lavoro letterario eccellente – ne offre senz’altro lo snodo fondamentale. A dispetto di una certa timidezza corrente nell’uso del riferimento all’orrore – pudicamente sostituito in tanta editoria e in eventi pubblici con altri termini meno compromettenti (come noir o un più vago “nero”, che possono ben dire altro ma tant’è) –, questo grimorio letterario addita con coraggio rabdomantico una cifra identificabile anche nella letteratura italiana, senza ribadire l’ovvio e invece scavando in percorsi vergini, o almeno vergini da questo punto di vista.

Ci viene dunque offerta una serie di schedature critiche, ciascuna con un “cuore”, un exemplum dal testo che evidenzi alcune linee di fondo: e l’aspetto che salta all’occhio è la considerazione di opere mainstream, consacrate senza dubbi come letteratura, a fianco d’altre che almeno negli scaffali della grande distribuzione verrebbero collocate più prossime al genere. Perché la scelta, sacrosantamente, non è nel segno di una classificazione astratta ma di quella qualità di scrittura che, unica, è requisito di “letterarietà” (concetto complesso, sfuggente ma ancora utile, che investe ricerca formale e consapevolezza narrativa, qualità di voce – appunto – e vitalità respirante di un testo).

Qualcosa che può apparire una provocatoria – ma mai sterile – risposta insieme a certa critica pudibonda (di orrore non è bene parlare, certe sottolineature orride sono ineleganti…) e per contro alla spocchia di cerchie chiusissime di un fandom di genere orgogliosamente ripiegato sul proprio ombelico, anche in fatto di horror. Laddove proprio la contaminazione e la ricerca senza pregiudizi di una qualità alta dovrebbero non porre steccati tra “noi che ci siamo sempre occupati di questo” (a volte con linguaggio da strapaese, rinvii d’ascensore tra adepti di conventicole, autopromozioni a pezzi mediocri grazie a pletore di nickname e legioni di taggature, grandi proclami sulla cultura che “all’estero è ancora una cosa seria” abbinata a dichiarazioni imbarazzantemente poco informate, ammiccamenti grati a qualche figuro che hai visto mai, mi fa pubblicare sulla sua rivistina…) e i “salotti” della letteratura. Quel che Le strade di Alphaville di Evangelisti esalta, cioè la vocazione di una paraletteratura ruspante e vitale a trattare dei grandi temi, negletti nei teatrini modaioli di certa grande editoria (eterne paturnie di coppia ed esangui masturbazioni mentali da salotto, appena glassate da una fittizia patina engagé), non è purtroppo comune – ma Evangelisti lo dice chiaro – in questa Italia. Dove mainstream e genere, letteratura e paraletteratura, classici e non, sono spesso oggetto di confusioni grottesche, e non solo sui social. Per cui da un lato si costruiscono teorie barocchissime per giustificare una pochezza nell’uso di strumenti d’analisi (non è necessario sostenere che Tolkien non sia genere, non sia fantasy perché è letteratura: può esistere un genere letterario, cioè le distinzioni letterario/non letterario e mainstream/genere non si sovrappongono automaticamente). Dall’altro, per contro, si è costretti a sottolineare che i classici della letteratura non sono strumenti da venerare nella polvere, ma presentano una funzione ideale di macchina per pensare nell’oggi, con tutte le finezze del buon senso, del rigore storico e dell’onestà (nonostante il sofista di turno sia sempre pronto a saltar su dalla propria poltroncina, pontificando che il profugus dell’Eneide non si identifica nei profughi che vediamo soffrire ai nostri giorni: nomina nuda tenemus). Il fatto è che i classici ci permettono di andare un passo oltre i letteralismi asfittici e aiutano riflessioni più profonde e dialettiche del rozzo strumento dell’equivalenza…

Chiaro che l’orrore di cui parla Labbate sia un concetto più sottile di quello oggi spesso banalizzato a base di effettacci: e richiede, vorrei dire, un’apertura alla complessità e una vita mentale (e interiore) del lettore abbastanza allenata. D’altra parte, pensare di ridurre oggi l’orrore a una semplice virulenza di gore o a maledettismi da poseur (magari quelli che strombettano l’astio per il politicamente corretto onde potersi titillare col politicamente infame) è, prima ancora che becero o infantile, radicalmente sprecato. E invece ha tanto più senso indagare su cosa l’orrore possa dirci, nella ricchezza d’echi del relativo concetto. A partire, come sostiene Labbate in modo convinto e convincente fin dal tessuto febbricitante della sua narrativa (cfr. qui e qui), dalla lingua, dalla voce.

Forte delle letture di Todorov (che non è verità rivelata, ma resta più interessante delle sussiegose critiche snocciolategli addosso anche in tempi recenti, e portatore a tutt’oggi di spunti utilissimi) e di Francesco Orlando, ma anche di un’intera serie di preziosi testi ispiratori (Gardini, Bufalino, Sciascia, Manganelli, Ceronetti, come pure Ligotti, Bernhard e Danielewski) e del riferimento persino a opere videoludiche di livello (Silent Hill di Konami) Labbate propone dunque tre “pance contenutistiche”: mito e gotico, inquietudine e horror teologico-esistenziale, perturbamento investigativo. Tre “pance” che possiamo utilizzare serenamente anche nello studio di altre declinazioni nazionali del fantastico e dell’orrore.

Prima cifra, il mito. Che il gotico – che ovviamente non è sinonimo tout court di horror, ma ne coglie alcuni aspetti fondamentali – possa avere a che fare con il linguaggio del mito, è sottolineatura essenziale: pena il ridurre a freudismi precotti figure che hanno assai più a che vedere con le parole importanti legate alla ricerca di un senso fondante della realtà, dei suoi archetipi e dei suoi pantheon (magari inferi). Cosa diventa il Gran Dio Pan di Machen se lo esauriamo in psicologismi da rotocalco o mode sociologiche sul sesso estremo?

Per cui ecco D’Arrigo, Horcynus Orca (“Romanzo planetario in cui dialetto siciliano e italiano si contrastano, combattono, con la mobilità archetipa dei referenti astratti di un immaginario mitico”); Consolo, Nottetempo, casa per casa (“Là dove le pagine potrebbero offrire subitamente una fantasia paranoica, in verità Consolo sta raccontando una possente fantasmagoria sulla metamorfosi e il suo rovinoso fardello in un territorio siciliano dove la completa disperazione della ratio accoglie, con passione, il Diavolo”); Manganelli, La palude definitiva (“l’opera è riflessa in sé stessa come una preziosa sala di specchi. Il romanzo opera un nuovo livello della forma gotica, perché la lingua è scritta per procurare una dissoluzione psicologica attraverso la trattazione di immagini teologiche e filosofiche”). E poi Gentile, L’impero familiare delle tenebre future; Morstabilini, Il demone meridiano; Di Monopoli, Nella perfida terra di Dio; Ortese, Il Monaciello di Napoli; Lipperini, La notte si avvicina (“A confermare l’orrore letterario sono due elementi: l’apparente innocuità del gruppo femminile, che rappresenta in verità una sostenuta manifestazione fisica del limbo in cui vivono e operano, e la lingua del libro, dal calibrato movimento spirituale, fondata su una all’apparenza mansueta cronaca del soprannaturale, che si affida alla concettosità di una storia realistico-finzionale”). Dove è interessante riprendere in mano un breve, gustoso volume varato anni fa proprio da Lipperini con Giovanni Arduino, Danza macabra. Un ballo nel fantastico sui passi di Stephen King (Bompiani, 2021), che dello scrittore americano riprendeva l’analisi degli archetipi presente nel famoso volume saggistico Danse Macabre, accostandovi però schegge narrative. Il tentativo insomma di ragionare oggi sulle categorie dell’orrore – e di farlo cercando forme non classicamente trattatistiche – non costituisce insomma un’eccentrica novità: l’originalità, in L’orrore letterario, è data dal tipo di indagine (uno specifico italiano con il dato scottante della letterarietà), dalla voce (ricchissima, labirintica, tutta sua) con cui Labbate analizza le altre voci,  e dall’identificazione – da clavicula, appunto – di alcune poche chiavi ermeneutiche.

Un secondo fronte, molto caro all’autore, e vertiginosamente rappresentato nella sua opera, riguarda inquietudine e horror teologico-esistenziale. Lo sappiamo, il fantastico (e in particolare le sue varianti orrifiche) ci sfida a riparlare del Male, a prenderlo sul serio almeno come impegnativa e misteriosa categoria simbolica su cui riflettere: qualcosa che erompe nella storia ma trova poi guizzi spiazzanti nelle singole vite. Vero, la manifestazione pura del Male nella vita quotidiana è rara (trovare una persona realmente malvagia è più difficile che trovare un santo, non foss’altro per lo sforzo antinaturale che comporta): ma se la letteratura è – com’è – laboratorio, permette di rifletterne in modo non inutile a fronte della vertigine di un Male assai più meschino che si fa demone nelle esistenze singole e associate, nelle realtà collettive, politiche, economiche (trattenendo magari con qualche adattamento la distinzione scritturistica tra demoni e diavolo, che implicano contenuti diversi). Aggiungiamo che Labbate tratta lo specifico di un’Italia (post)cattolica, dove un certo tipo di eredità giocata con orrore e ironia dal vecchio Walpole trova nonostante tutto un peso peculiare.

Dunque ecco analizzati Landolfi, Le più belle pagine scelte da Italo Calvino (“Si legge di un orrido psicologico, di una spremitura di divagazioni nella tragedia di una mente consimile a quella di un monaco intento a disegnare, nottetempo, impazzite miniature medievali”); Moresco, Gli esordi (“spezza la cornice del romanzo didatticamente sensibile, di mera fedeltà letterale, poiché suscita estasi e orrore dei sensi. Non permette che tali moti si sperdano in un sentimento indeterminato o fantastico, li eleva a simboli metaforici della morte umana”); Tonon, Il nemico (“scritto, potremmo affermare, da un dolciniano contemporaneo piuttosto che da un chierico istituzionale”); Pierantozzi, Uno in diviso (“Il supporto biblico, l’amuleto tatuato, in Pierantozzi è quindi un’occasione narrativa, una spinta secca per lordare il simbolismo religioso grazie al raptus delle visioni veraci tipiche di un santo durante il martirio”); Genna, Italia De Profundis (“Per effettuare questo racconto Genna deve per forza usare una lingua poetica, massimalista – direi spesso oltranzista –, che tocca con piacere il cut-up burroughsiano, in species quello di Nova Express e I ragazzi selvaggi”); Jaeggy, Le statue d’acqua (“L’orrore letterario si compie soprattutto nello stile, che mostra uno strano collegamento fra dolcezza e perturbante”); Bufalino, Le menzogne della notte (“Sentirsi il Diavolo, quindi esserlo, invocarlo al meglio, per esserlo. Non attraverso un nobile e borghese senso pirandelliano, ma in senso ontologico e dell’orrore”).

Il terzo fronte, il perturbamento investigativo, ci ricorda che, attraverso Poe ma anche Conan Doyle e persino Agatha Christie – quindi nella grande tradizione di genere universalmente riconosciuta –, ma già prima dei misteri alla Ann Radcliffe e altrove, la storia d’indagine come disvelamento di misteri e delle relative inquietudini promana senza dubbi dal medesimo ceppo del gotico. Ciò che non stupisce: l’ennesima mutazione letteraria della quest si consuma in quel labirinto di carni, morte & diavoli che è l’indagine, condotta o meno da un detective (basti pensare a L’uomo della folla di Poe, dove un detective vero e proprio non c’è). Potremmo dire che si indaga sempre in umbra, quindi un brivido nero – “l’orrore, l’orrore” – è inevitabilmente compreso.

Ecco dunque Mari, Fantasmagonia (“Mari decide di divertire usando il soprannaturale, che abbia origine dalla storia oppure dalla finzione romanzesca. […] Il soprannaturale è deriso. Una derisione, in sostanza, che ha una dignità fondativa”); Meldini, L’avvocata delle vertigini (“L’attenzione investigativa […] è rivolta al meraviglioso cristiano e al paganesimo archeologico attorno ai suoi codici. Un esperimento letterario che trova spazio attraverso un’erudita trattazione razionale e indagatoria”); Sortino, Elisabeth (“La cronaca viene rivisitata attraverso una scrittura dell’orrore quotidiano. Cruda, nevralgica ma composta”); Sciascia, La strega e il capitano (“Non è azzardato riscontrare la vicinanza di Sciascia ai toni indecisi tra la storia della realtà e la storia fantasmatica dei luoghi passati propri di uno scrittore dell’orrore letterario come W.G. Sebald”); Eco, Il cimitero di Praga (“A differenza dello stile metallico e preciso di William Peter Blatty – che dal reale serpeggia verso un credo pieno nei confronti del soprannaturale –, Eco si serve di una turbolenta erudizione che si legge come se fosse il verbale di una seduta psicanalitica di caratura hillmaniana sotto sotto parodistica […] Eco non dà effettivo credito alle manifestazioni del soprannaturale, preferendo un orrore donchisciottesco, non religioso, neppure filosofico. Risulta far parte pienamente, semmai, di una valida declinazione razionalistica dell’orrore letterario: il perturbamento investigativo”).

La clavicula di Labbate trattiene tutta la ricchezza autenticamente letteraria dei suoi romanzi – può essere in fondo anche apprezzata come tale, nella forma vertiginosa e godibilissima delle sue stazioni – e anche una certa complessità, per cui non è scontato che raggiunga le mani che più necessiterebbero di essa. Per cui è un libro da far girare, essendo stato varato – come la patafisica di Jarry, anche se con differenti contenuti – “perché ve n’era un gran bisogno”.

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Conosciuta non riconosciuta https://www.carmillaonline.com/2022/04/12/conosciuta-non-riconosciuta/ Tue, 12 Apr 2022 20:39:34 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=71348 di Franco Pezzini

Almanacco dell’Italia occulta. Orrore popolare e inquietudini metropolitane, a cura di Fabio Camilletti e Fabrizio Foni, pp. 336, € 24,00, Odoya, Città di Castello 2022.

Seguito ideale dell’Almanacco dell’orrore popolare. Folk horror e immaginario italiano degli stessi curatori Camilletti e Foni e per gli stessi tipi Odoya, questo nuovo Almanacco – il termine è importante, a suggerire una varietà di temi da compendio popolare – torna anche a riproporre la dialettica del volume precedente tra Folk Horror e Urban Wyrd. Soffermandosi qui maggiormente su questo secondo aspetto, per cui l’inurbarsi [...]]]> di Franco Pezzini

Almanacco dell’Italia occulta. Orrore popolare e inquietudini metropolitane, a cura di Fabio Camilletti e Fabrizio Foni, pp. 336, € 24,00, Odoya, Città di Castello 2022.

Seguito ideale dell’Almanacco dell’orrore popolare. Folk horror e immaginario italiano degli stessi curatori Camilletti e Foni e per gli stessi tipi Odoya, questo nuovo Almanacco – il termine è importante, a suggerire una varietà di temi da compendio popolare – torna anche a riproporre la dialettica del volume precedente tra Folk Horror e Urban Wyrd. Soffermandosi qui maggiormente su questo secondo aspetto, per cui l’inurbarsi dell’orrore popolare legato alla civiltà rurale a seguito dei fenomeni di migrazione interna al Paese, e lo stesso imprevisto innesto di storie perturbanti sul tessuto cittadino, conducono all’assorbimento di inquietudini specifiche della vita metropolitana. Ne emergono paure dai connotati arcaicissimi ma in realtà sempre presenti – magari con disagio, vergogna o strappando ironie forzate – al nostro orizzonte interiore, irruzioni dell’occulto, dell’insolito e dello strano che in un’indagine di questo tipo (in gran parte saggistica e memoriale, con modiche dosi di fiction) permettono di svelarsi anche a noi quale conosciuto non riconosciuto: in sostanza, perturbante. Il volume richiama anche uno studio precedente di Camilletti, Italia lunare. Gli anni Sessanta e l’occulto (Lang, 2018), virato su editoria, cinema e televisione nei Sixties: in questa coppia di Almanacchi ne troviamo l’ideale sviluppo cronologico con una fase topica negli anni Settanta e strascichi fino all’oggi.

Articolato in tre parti, dopo la bella introduzione Storie arcane di Fabrizio Foni (qui maestro di cerimonie, come Camilletti lo era stato del primo volume), il volume presenta ricche spigolature dai rotocalchi e incomparabili amarcord, con storie altrimenti destinate a perdersi. Teniamo presente il ricchissimo fondo di storie familiari che nutre gli annali dei fantasmi nostrani: sarebbe davvero prezioso che si prendesse l’abitudine di trascrivere tali storie, con tutte le ricchezze e le trasversalità delle appartenenze sociali. Come ricorda Pupi Avati,

 

La tavola veniva sgombrata, tutti si sceglievano una sedia e mia zia Laura tirava fuori da non so dove un tabellone con le lettere e un piattino: era il momento della seduta spiritica. Non avendo televisione né altri passatempi, la grande passione di quel periodo era l’evocazione dei defunti, praticata come gioco, senza alcuna titubanza in una famiglia cattolica come la mia, malgrado la tassativa proibizione della Chiesa.

 

A casa mia non si usava (lo faremo noi, da ragazzi, negli anni Settanta, con un ruspante spirito sperimentale che oggi mi appare piuttosto naïf), però ricordo il fascino e il brivido quando questi temi venivano evocati, magari alla venuta dei parenti, a casa di mia nonna. Storie spesso legate alla guerra: dall’amica che pettinandosi al mattino allo specchio se n’era uscita nel raggelante e incomprensibile epiteto “vedova” senza sapere che il marito era appunto caduto su qualche fronte, al conoscente di mio zio angosciato perché sapeva quali dei compagni d’armi non sarebbero tornati dalle missioni, doveva resistere alle loro pressioni sul tema e rientrando in casa si vedeva accogliere dal tavolino – tanto gonfio di medianità da muoversi sua sponte, lasciando tracce di sporco dove la gamba andava a battere sulle imbottiture circostanti… Prendeteli come mi sono arrivati: ma io li trovavo – e li trovo, ancora – terribili e meravigliosi.

La prima parte del volume riguarda – inevitabilmente, diremmo – Fantasmi d’oggi e leggende nere dell’età moderna: dopo una gustosa introduzione sul tema tra Leo Talamonti e le leggende metropolitane, vediamo così sfilare in spettrale processione i contributi di Francesco Scimemi, Via Principe di Scalea, 42, tra sedute spiritiche e riti crowleyani in quel di Palermo; Alessandro Scarsella, Nord e magia. Buzzati e altri reporter dell’occulto (Barzini, Pitigrilli, Angela, Bevilacqua); Tommaso Braccini, Culti innominabili. Percorsi popolari di sette diaboliche, rapimenti e sacrifici tra cronaca, leggenda e narrativa; Ivan Cenzi, SHOCK! Mezzo secolo di ‘Cronaca Vera’; Irene Incarico, Un devil dietro la schiena. Dalle leggende delle Tre Strade alla storia dei tre santerenzini in Brasile; Bruna Dal Lago, La Salwarìa (straordinario il tema della defunta strappata alla morte per altri sette anni, come attraverso certi rituali documentati in magia cerimoniale).

La seconda parte, Nel mezzo sta l’orrore, presenta – debitamente incorniciata dai cenni dei curatori – una lanterna magica di temi orrifici dove il folk traghetta al pop. Vi troviamo, a firma del leggendario Tony Binarelli, Alfredo: il Maestro; le ricognizioni di Antonio Tentori, La paura viene dal profondo. I film gotici di Pupi Avati (su un regista di importanza capitale per il recupero di queste tradizioni) e di Howard David Ingham, Tè, biscotti e satanismo, sull’immaginario nero di una serie di thriller cinematografici anni Settanta; i contributi di Felice Pozzo, «Chi l’ha vomitato? L’Inferno!». Superstizioni, spiritismo, magnetismo e tafofobia in Emilio Salgari, di Stefano Curreli sulla storica collana horror popolare I Racconti di Dracula, di Moreno Burattini, Nostra Italia degli Orrori. Breve cronistoria dell’horror nel fumetto italiano da Virus a Dylan Dog, di Luigi Cozzi, Horror: un ricordo (sullo storico mensile a fumetti 1969-1971, edito da Gino Sansoni), di Fabio Camilletti & Paolo Di Orazio, Splatter. La rivista che faceva incazzare i genitori (molto più tarda, compare nel 1989) e di Stefano Marzorati, Party on, dudes. Le stagioni del Dylan Dog Horror Fest; i testi dello iamatologo Massimo Soumaré, Guerrieri leggendari e creature soprannaturali del folclore italiano (e un confronto con le loro controparti del Sol Levante) e di Davide Bosco (già Davide Tarò), Suta la pàuta la carta campa, suta la pàuta la carta crepa, “un racconto di terrore e nostalgia, atto d’amore verso i periodici che ci piacciono” (dall’introduzione alla parte II).

La terza parte, Trilli del diavolo, da Tartini & Paganini di nuovo a folk e pop, denuncia già nel titolo come una certa musica strappi brividi d’epoca. Vi troviamo i testi di Claudia Padalino, Il fantastico viaggio del bagarozzo Goblin. Ovvero come la musica di ‘Profondo rosso’ (ma anche di altri film) si è infiltrata nel nostro immaginario; Eduardo Vitolo, Paranormal rock. «…e tu vivrai nel terrore!»; Antonello Cresti, Il black metal alla ricerca delle oscure radici; e il racconto di Maso Bisi (all’anagrafe Tommaso Bisi), Il violino di zio Bruno, apparso nel 1906. Il tutto con una quantità di ricchissime schede di approfondimento dei curatori.

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Venti giornate per Cora delle ombre https://www.carmillaonline.com/2021/07/06/venti-giornate-per-cora-delle-ombre/ Tue, 06 Jul 2021 20:45:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=67017 di Franco Pezzini

È difficile […] fare entrare le epidemie del novero degli eventi storici, a pieno diritto, come avviene per le guerre. Chi cade per primo in una guerra, talvolta ha un nome ben scolpito, e così chi ha la sventura di morirvi per ultimo, nell’attimo in cui cessano le ostilità. Perché allora occuparci di Bergesio, se «le venti giornate di Torino» non furono né una guerra né una rivoluzione, ma, come si dice, un fenomeno di psicosi collettiva, con quanto sottende di epidemico questa definizione?

Innanzitutto, i giornali del 3 luglio [...]]]> di Franco Pezzini

È difficile […] fare entrare le epidemie del novero degli eventi storici, a pieno diritto, come avviene per le guerre. Chi cade per primo in una guerra, talvolta ha un nome ben scolpito, e così chi ha la sventura di morirvi per ultimo, nell’attimo in cui cessano le ostilità. Perché allora occuparci di Bergesio, se «le venti giornate di Torino» non furono né una guerra né una rivoluzione, ma, come si dice, un fenomeno di psicosi collettiva, con quanto sottende di epidemico questa definizione?

Innanzitutto, i giornali del 3 luglio di dieci anni fa parlarono di lui. Con quanta preveggenza di cosa sarebbe accaduto in seguito, è superfluo dirlo. Si aggiunga che alcuni membri della sua famiglia sono ancora in vita, e che con uno di essi, almeno, ci è stato possibile parlare.

 

Dato il periodo che abbiamo vissuto, fa effetto trovare queste speculazioni in tema epidemico della voce narrante di Le venti giornate di Torino di Giorgio De Maria (1924-2009), romanzo chiuso nell’ottobre 1976 e uscito originariamente per Il Formichiere nel 1977. Ma proprio dal caso del povero Giovanni Bergesio prende le mosse quella che il sottotitolo del romanzo definisce Inchiesta di fine secolo, dipanata nella Torino di (viene detto) dieci anni dopo. Si è tentati di pensare all’anno della scrittura, anche se datare gli eventi di un romanzo fantastico resta spesso problematico: pensiamo al cenno “giovani dalle lunghe chiome e dalle barbe incolte, come si vedevano trent’anni addietro, ai tempi delle «contestazioni»” – trent’anni dal Sessantotto farebbe Novantotto, il vago referente da sottotitolo è in effetti fine secolo –, e a quel punto all’Ottantotto dovrebbero datarsi le venti giornate.

Certo è che proprio la pandemia ha permesso a Corallina De Maria, figlia di Giorgio, attrice, musicista e cofondatrice, insieme ad Alberto Jona e Jenaro Meléndrez Chas, della compagnia Controluce Teatro d’Ombre, di varare alla scuola di Ceronetti un qualche tipo di spettacolo teatrale che non richiedesse complicate o costose attrezzature: un’occasione di riaccostare il romanzo del padre e, a distanza di quarant’anni dalla prima uscita, offrirgli una degna trasposizione.

Il che, a me che scrivo, finisce col porre una domanda: cosa facevo, chi ero in quell’anno di un intero mondo fa? La questione mi sorge spontanea assistendo all’elegante, meravigliosa trasposizione in forma di teatro d’ombre appunto offerta da Corallina, e proposta in più serate al Mufant di Torino. Una riduzione, ovviamente, perché i rivoli del testo erano molti e Cora ha scelto un taglio intelligente che permettesse al pubblico di seguire in modo agevole il filo della trama, ma anche di coglierne più in generale l’atmosfera sospesa e onirica. Con uno sguardo ai giochi ottici antesignani del cinema, questa Torino di figure di cartone nero proiettate contro uno schermo lattiginoso, con personaggi di cui cogliamo le silhouette in movimento, svela un’incredibile potenza visionaria e rappresenta forse la forma di espressione in assoluto più adeguata per una trasposizione del testo. (Nel corso del presente articolo se ne offre qualche immagine, ringraziando il felice obiettivo di Paolo S. Cavazza, benemerito e abilissimo fotografo di tante iniziative del fantastico torinese.)

1977, lo sappiamo, anno di un movimento studentesco che a Torino ha conosciuto vivacità e drammi (impossibile non ricordare la tragedia dell’Angelo Azzurro, il 1º ottobre). Non è questa la sede per pretendere di dipanare con qualche pretesa di esaustività quello sfondo, che ovviamente non si riduce alla cifra asfittica degli anni di piombo con cui una certa vulgata ha avuto fretta di archiviarlo. A puro scopo di testimonianza, io nel 1977 mi trovavo al liceo (la “R.” di Regio, cancellata, era ancora visibile) D’Azeglio di Torino, a concludere la V ginnasio e iniziare appunto il triennio liceale: e mio compagno nel banco di V era un ragazzo inquieto con una marcia in più, che poi sarebbe stato l’amico di una vita ed è mancato troppo presto (il 6 luglio 2015, sei anni fa), cioè lo scrittore, giornalista e operatore umanitario Luca Rastello. È uscita da pochi giorni per Chiarelettere la sua preziosa raccolta Uno sguardo tagliente. Articoli e reportage 1986-2015, ma stiamo parlando di un’epoca in cui il giornalista era ancora da venire. Proprio invece del periodo al ginnasio, e della Torino di quegli anni – con un’attenzione particolare al ’77 – Luca ha narrato in una delle sue prime prove di fiction edite, Piove all’insù (Bollati Boringhieri, 2006, secondo Marco Revelli il romanzo più bello sugli anni Settanta), a cui non posso che rinviare.

Come emerge con chiarezza in quelle pagine, frutto di anni di continuo studio, ricerca di testimoni, confronti con chi potesse fornire ricordi su tale stagione torinese (la prima versione del romanzo, assai più corposa e filologica sul piano documentale, ha conosciuto un drastico sfoltimento e qualche modifica in sede di editing – ma per fortuna ne esiste copia), la vulgata degli anni Settanta quale epoca unitaria va drasticamente ripensata. Pur nella difficoltà di sintetizzare profili “comuni” in un orizzonte tanto complesso, l’antropologia del Settantasette è molto diversa da quella del Sessantotto, che influisce sulla prima metà del decennio: all’idea precedente di una conquista della libertà attraverso la presa del potere e lo dimensione del lavoro, in modo più simile a una serie di esperienze del Novecento, il movimento del Settantasette, composto da giovanissimi e con connotati assai più sfuggenti (qualche membro storico delle BR ammetterà di non capirne nulla) almeno a Torino conduceva piuttosto una riflessione sul tempo libero/liberato – quello non soggiogato dal lavoro – e sul corpo come spazio peculiare di liberazione.

Se d’altronde per la critica ortodossa di sinistra e ancora per tanti esponenti del Sessantotto il linguaggio del fantastico era visto come escapismo, fuga da una realtà che invece dev’essere impegno nel reale, al contrario nella logica del Settantasette il fantastico diventa un linguaggio d’interesse e di beffarda provocazione. Per dire, in quell’anno scolastico è proprio Luca a iniziarmi al Signore degli anelli, all’epoca chiamato da qualcuno la bibbia degli hippie e che – con buona pace degli evoliani e dei Campi Hobbit – non è affatto merce da neofascisti. Queste connotazioni non sembrano inutili affrontando un romanzo fantastico come Le venti giornate di Torino, che di riferimenti sotto traccia, certo molto sfumati ma presenti, a tutto un orizzonte politico è ricco – a partire da un ritratto parecchio idealizzato nel buon sindaco Bonfante di Diego Novelli, al tempo a capo della giunta di Torino. Bonfante, con la sua “carica d’umanità soffusa di mestizia”, in carica nei giorni della narrazione, viene detto tanto diverso dallo spavaldo e sanguigno predecessore Ambesi attivo al tempo delle “venti giornate”, immagine dei precedenti sindaci della città.

Sul romanzo di Giorgio De Maria molto è stato detto, la critica (a partire dal curatore della più recente edizione, Giovanni Arduino, autore anche di un apprezzabile Il diavolo è nei dettagli. La storia de Le venti giornate di Torino, Frassinelli ebook, 2017) ne ha sviscerati i nodi principali e sull’inquadramento generale si può rinviare a quanto sintetizzato all’epoca della riproposta 2017 per Frassinelli. Può semmai aver senso in questa sede soffermarsi su alcuni, singoli aspetti: a partire dall’etichetta che oggi si tende ad attribuire a tale genere narrativo, weird. In sé corretto e un po’ generico; per cui pare preferibile utilizzare la definizione che De Maria stesso conosceva da mille letture d’epoca, che avrebbe potuto sottoscrivere e che ci dà conto di una lunga storia – cioè insolito.

Negli anni Sessanta, complici una serie di contingenze storiche, culturali e sociali internazionali (dalla guerra fredda a quel progresso che in occidente si fa boom economico ma insieme rischia un altro e più sinistro boom atomico di tutto il pianeta) e relative reazioni di pancia, il cosiddetto insolito mostra di fermentare con dignità artistica sotto la scorza e tra le pieghe della moderna cultura mainstream. Figlio del ritorno ai fremiti gotici (si pensi agli horror della Hammer e all’horror italiano), di un certo ritorno all’irrazionale romantico, provocatorio e insieme consolatorio, ma anche dell’emergere beffardo in sordina di controculture diversissime e di un’attenzione nuova alla figura dell’outsider (emblematico per l’Inghilterra il lavoro di Colin Wilson, ma per l’Italia lo stesso De Maria può presentarne alcuni caratteri), l’insolito borbotta un po’ defilato – come sotto il coperchio di una pentola a pressione – tra gli articoli dei rotocalchi e alcune opere letterarie e cinematografiche di successo. Certo, studiosi delle riviste popolari tra Otto e Novecento attestano che simili storie “strane” sono sempre state presenti, anche in Italia; e ora le troviamo sussunte nel concetto di insolito con un rapporto di tensione e contaminazione tra i due termini folk e pop resi dal vocabolario nostrano con un unico aggettivo, popolare, dalla valenza molto ambigua (cfr. qui). Se oggi fosse vivo, il De Maria dei Cantacronache, estremamente attento alla cultura popolare, avrebbe potuto esprimersi sul tema in termini di grande interesse.

Ovviamente negli anni Sessanta l’insolito assume forme congrue all’uomo dell’età dell’atomica, che considera residuali e liminari i fenomeni incompatibili con una visione scientifico-tecnologica, o non canonizzati in fedi istituzionali (teniamo conto che l’Italia del tempo è ancora un paese fortissimamente cattolico). Ma proprio in reazione a una certa impostazione, l’insolito fermenta e sobbolle sotto il coperchio del mainstream.

Non è un caso che proprio in quegli anni gli eredi italiani di Charles Fort – citiamone solo uno, Peter Kolosimo, ex-partigiano e militante comunista – indaghino sulle liminarità: ma il fenomeno trova paralleli in Francia (Pauwels e Bergier col Mattino dei maghi del 1960, Hutin, Charroux, eccetera – con impostazioni ideologiche assai varie), in Inghilterra (Walter Raymond Drake) e altrove. Nell’Italia lunare degli anni Sessanta – a citare l’espressione usata nel saggio fondamentale sul tema di Fabio Camilletti – l’insolito, per quanto effervescente, resta comunque una bizzarria marginale: lo possono frequentare scrittori e artisti considerati eccentrici o estrosi come Landolfi, Buzzati o Fellini, o per altri versi un tipo di studiosi che dalla cultura alta (De Martino, Ginzburg…) trascolorano in quella pop (Leo Talamonti, poi Massimo Inardi, Ugo Dettore…). A livello internazionale va d’altronde considerato il ruolo delle controculture che trovano esse pure un punto di sbocco nelle rivoluzioni culturali di fine decennio – grande contestazione, rivoluzione sessuale, successo dell’underground… – anche se in chiave dialettica e molto diversificata: ed è in questo clima che l’insolito erompe da sottoterra, come nell’ambito dei misteriosi fenomeni ctoni evocati nelle Venti giornate di Torino.

In effetti tra fine anni Sessanta e inizio Settanta troviamo un altro boom, il grande revival magico che tripudierà per un decennio per conoscere come tante altre utopie un riflusso a inizio Ottanta – lasciando però un’eredità potente nella cosiddetta occultura. Anche se questo revival mostra le prime uscite fin da qualche anno prima, possiamo individuare una data simbolica d’avvio nel 1970, con l’irruzione nelle edicole britanniche della prima enciclopedia del magico a fascicoli, la leggendaria Man, Myth and Magic. Ma anche in Italia l’occulto emerge ovunque, dai rotocalchi (Grazia, Gente, Oggi, La domenica del Corriere eccetera) che riportano invariabilmente qualche articolo su medium, fantasmi o altri misteri assortiti, ai giornali come Stampa sera con le attenzioni a presunti poltergeist cittadini e all’altrettanto ipotetico passaggio subalpino di Nostradamus, alla televisione – di fronte alla quale nel 1971 l’Italia resta inchiodata da Il segno del comando, prima ed epocale storia di mistero – e occorre attendere l’Indagine sulla parapsicologia di Piero Angela, non a caso a fine decennio (Rete 1, 1978) per trovare una parziale sterzata, comunque limitata al fronte parapsicologico. Il soggetto della copertina originale delle Venti giornate – una rivisitazione dell’immagine poi proposta più filologicamente da Frassinelli, la xilografia Satana semina la zizzania del pittore maledetto belga Félicien Rops specializzato in icone sataniche ad alto tasso erotico – pare insomma particolarmente congrua alle inquietudini di un’epoca di guerra civile, sdoganamento del sesso e diabolismo.

Insomma, l’insolito e in particolare l’occulto impazzano. E proprio su quest’onda si definisce un mito locale, quello della Torino magica, che pur veicolando elementi autentici della storia dell’area – Torino città di passaggio, città laboratorio, culla dell’anticlericalismo sabaudo che per un breve periodo (fino al 1870) apre le porte a esperienze pneumatiche non allineate, eccetera – si definisce come un tassello importante di una geografia dell’immaginario vivissima ancor oggi, una nebulosa mitica che è ormai diventata un brand. Proprio negli anni Settanta il mito si struttura, attraverso articoli e volumi di Giuditta Dembech, pubblicazioni di Renucio Boscolo, Renzo Baschera e tanti altri, voci su Rol, articoli di “Stampa sera” e film horror (vietatissimi in Rai) programmati sulle prime reti private cittadine, ma proprio sull’onda di un fenomeno internazionale di eruzione dell’insolito, un’eredità nel complesso genuinamente gotica. Torino magica ma nel segno del notturno (A che punto è la notte di Fruttero & Lucentini rimonta al 1979), a tratti del demoniaco: dalla bufala – tecnicamente un pesce d’aprile di un gruppo di goliardi – sui ventimila satanisti attivi in città, al mito di piazza Statuto come piazza più demoniaca del mondo. E fà ch’ it n’ abie (fa’ che ti basti), come si dice in Piemonte.

Pur non essendo un romanzo tecnicamente di magia, Le venti giornate di Torino sboccia in un tale clima, ne recepisce i fremiti escatologici (basti pensare alle infinite pubblicazioni su profezie apocalittiche più o meno spurie curate a Torino da Enzo Baschera), i trasalimenti che affondano da un lato in un certo clima sociale e politico – terrorismo compreso – e dall’altro nel magma di un mito che sobbolle tutto intorno. Il “lago molto basso”, prosciugato, delle visioni interiori di Bergesio, sul cui fondo “invece di sassi c’erano bassorilievi”, e che persino riempito nuovamente non permetterebbe di immergervisi del tutto, “come se qualcuno, dal basso, l’avesse spinto in su”, pare un’immagine estremamente congrua al senso di un’emersione epocale di qualcosa che prima stava sotto – da qualche parte. Ma i bassorilievi in questione, troppo “logori, consunti” perché si possa esser certi del soggetto, sembravano richiamare gli anni d’infanzia di Bergesio, i suoi genitori: e in effetti alcune suggestioni richiamano a un mondo di mito, glorie e oscurità che tratteniamo nel nostro sottofondo, di cui è plasmata tutta la fase iniziale della nostra storia e a cui tornano di continuo i  nostri sogni.

Nel periodo di luglio di dieci anni prima ricordato come le “venti giornate”, un’insonnia collettiva costringeva la gente a deambulare come spettri inquieti la notte, stagnava nell’aria un odore come d’aceto, e s’erano consumati delitti assurdi, con gente afferrata e sbattuta a sfracellarsi contro alberi o monumenti come da qualche forza sovrannaturale. Per non parlare delle impronte di piedi troppo pesanti qui e là rilevate… Ma in realtà tutto era stato preceduto da fenomeni curiosi, come alcune grida terribili “di qualità inorganica, non so se mi riesce di rendere l’idea” echeggiate in città fin dall’8 maggio da direzioni opposte dei quartieri storici, a raggelare testimoni come il maturo avvocato Segre (modellato su Emilio Jona dei Cantacronache, padre dell’Alberto Jona dei Controluce).

Non mancano i soliti arresti per tranquillizzare l’opinione pubblica, di innocenti infine rilasciati per decorrenza dei termini di carcerazione preventiva. Tanto più che, il 22 luglio, le “venti giornate” si sono improvvisamente concluse. Per ricominciare dieci anni dopo, quando qualcuno inizia a indagare sul caso: e tra monumenti che cambiano di basamento, minacciosi avvertimenti e obliqui tentativi di contatto, pedinatori e passi pesanti fuori dall’uscio nella notte, la faccenda si rimette in moto – salvo il fatto che i massacratori ora sembrano anche più puntualmente manovrati.

Troppo elegante per finire alla deriva del kitch magico per turisti, De Maria conduce i lettori in angoli della città assai più appartati e meno consueti – a partire dall’avvio in corso Castelfidardo quasi all’angolo con corso Vittorio, poi la zona delle villette dietro corso Galileo Ferraris, piazza Carlo Felice, corso Regina Margherita e la chiesa di Maria Ausiliatrice, via Cigna, corso Valdocco, il rondò della forca, il colle della Maddalena, corso Casale… anche se poi c’è la Gran Madre, must delle storie magiche torinesi. Una geografia popolata da presenze sfuggenti – gruppi millenaristi, una suora cottolenghina melliflua e non troppo tranquillizzante, un critico d’arte patito di parapsicologia che finirà malissimo – e resa inquieta da minacce senz’altro paranaturali, se non proprio soprannaturali, ma con equivoci alleati umani.

Mi soffermerei qui su due aspetti: a partire da ciò che, nel recente ripescaggio del romanzo, è stato definito una vera e propria prefigurazione del voyeurismo da social e di una certa corsa dissennata al self-publishing. Laddove l’autore immagina la fantomatica Biblioteca sorta in un padiglione del Cottolengo (lo stesso istituto dove la voce popolare avrebbe collocato “una genìa forsennata di giganti che la notte venivano messi in libertà”, a rileggere gli echi della più ingovernabile vulgata torinese sul nascondimento in certi reparti di mostruosi uomini con teste – magari – da cavallo). Biblioteca costituita non da volumi effettivamente editi, ma raccogliendo a beneficio economico della Piccola Casa testi accreditati come più “veri”: cioè manoscritti spurgati in forma anonima da confessioni privatissime dei cittadini, con contenuti più o meno inconfessabili, e la possibilità dei lettori, pagando, di conoscere l’identità degli scriventi. Non si tratterebbe insomma di un fenomeno neutro di condivisione di memorie, ma di qualcosa che sedimenta e partecipa il torbido che è in noi: narcisistiche o angosciate circumnavigazioni del proprio ombelico, confessioni totali che – a detta degli stessi anonimi autori, e il dettaglio non è peregrino – lasciavano prosciugati, idealmente come il lago della febbrile fantasia di Bergesio… e che trovavano l’appoggio del clero torinese, entusiasta di quell’opera a fini benefici. E forse non solo per quello, a fronte di oggettive potenzialità di controllo sociale attraverso un simile strumento: dove emerge il De Maria furiosamente anticlericale dell’epoca, passato negli ultimi anni a una deriva iperortodossa misticheggiante.

 

Sorvoliamo [spiega Bonfante] sulla tendenza diffusa in molti cittadini di affidare i propri umori a certe rubriche giornalistiche, a certe emittenti radiofoniche… Certo è che da quei mezzi di informazione si passò a un limaccioso sottosuolo, un bacino di scarico dove ognuno poteva rovesciare ciò che voleva, tutta la poltiglia che teneva dentro.

 

Qualcosa – ricorda il sindaco – che non spezzava la solitudine in cui i cittadini si trovavano reclusi, ma forniva solo “l’illusione di un rapporto con il mondo esterno: una misera scappatoia alimentata da un potere cinico e centralizzato, interessato a mantenere le persone nel loro stato di perpetuo isolamento”. Tra i fatti registrati dieci anni prima troviamo del resto un’atmosfera “di morte” regnante in città, il collasso delle sue industrie, una terribile siccità nell’arco alpino (altro particolare che il lettore fa bene a notare) e quell’esodo degli immigrati che faceva ritrovare da soli i piemontesi in una città sempre più vuota, con razzistica e imbarazzante soddisfazione di una parte della popolazione, nell’impotenza kafkiana delle autorità. Al senso diffuso di disagio psichico avevano tentato invano di offrire risposte le realtà aggregative, e in questo contesto era sorta appunto la losca Biblioteca. Osserva ancora Bonfante:

 

Lei pensa che gli uomini siano davvero dei pozzi senza fondo? Che ci si possa trivellare all’infinito senza che prima o poi la nostra anima si svuoti? [Torniamo cioè al tema del prosciugare le falde del nostro profondo, ma in senso più materiale è inevitabile pensare oggi alla trivella in Val Susa, n.d.r.] Con ogni probabilità lo si è creduto, altrimenti ci si sarebbe fermati in tempo; purtroppo però si è preferito gettare ai vampiri tutto quanto, fino alle estreme conseguenze. […] [Quanto ai delitti] La sola cosa che le posso dire è che la nostra città è tutta da reinventare. È una città che soffre di scompensi profondi, con una gigantesca e monolitica base produttiva, ma con un vertice rachitico; grandi polmoni per respirare, ma una trachea stretta da cui passa pochissima aria. Cominciamo solo ora a rompere quel velo soffocante di astrazione e di ipocondria funzionale che ha espresso fin qui la dissociazione fra mezzi e fini nel modo di intendere la vita urbana. È un compito difficilissimo. Abbiamo un secolo e mezzo di storia alle nostre spalle, a partire dallo statuto albertino, che congiura per frenarci nelle nostre iniziative; le forze oscure che mirano a reprimerci sono tutt’altro che sconfitte. Tuttavia ci battiamo. Abbiamo l’ottimismo della volontà e una larga disponibilità all’immaginazione costruttiva.

 

Certo, a distanza di dieci anni la gente nutre imbarazzo a ricordare di aver frequentato la Biblioteca (ormai smantellata), di avervi portato diari e quaderni con cenni a pulsioni tanto personali. Inevitabile pensare alla prefigurazione di una situazione odierna in cui la scrittura ha lo spirito del selfie, di un Narciso vuoto e gonfio specchiato nell’acqua torbida. Tanto più che i giovani dall’aria tanto educata che hanno organizzato la Biblioteca fanno pensare ai neofascisti coevi (“si mormorava che alle loro spalle agissero forze oscure, organizzazioni nazionali e internazionali bramose di rivincite a causa di certe recenti sconfitte subite”). Ma se questo è il significato ideale dell’apologo, sembra interessante indagarne anche il linguaggio storico: da un lato la provocazione trattiene in filigrana il disincanto dell’autore verso l’editoria tradizionale, e dall’altro vi può emergere anche un clima in cui galoppava il mito del “parlare”, l’uso di scriversi lettere personalissime e diluviali… col privato che diventava pubblico e magari politico, in un modo e con caratteri oggi impensabili.

 

Non credo che si possano più stabilire linee di demarcazione fra quei massacratori e chi, almeno all’apparenza, li comanda. È una malvagità troppo profonda, troppo diramata, che coinvolge persone e oggetti… Gli esecutori materiali dei delitti sono entità troppo al di là di ogni sospetto perché li si possa menzionare senza sentirsi franare la ragione: il male assoluto non avrebbe potuto assumere forme più inattaccabili…

 

E un secondo punto non può che riguardare i perpetratori materiali dei delitti, cioè (si conceda lo spoiler, la soluzione è nota) le statue animate dirette discendenti di quelle perturbanti e macabre del Castello d’Otranto di Horace Walpole – autore genuinamente colpito da Torino, e padre con quel romanzo dell’intero genere gotico – come in fondo l’“insolito” è un derivato del gotico stesso. Le statue sono spesso gigantesche, e scontrandosi tra loro uccidono i malcapitati umani come Omero mostra fare da Polifemo, cioè sbattendo contro la roccia i compagni di Ulisse: nelle Venti giornate sono solo un po’ meno colossali del ciclope e devono sbattere maggiormente i corpi (la vittima fracassata contro la statua di Edmondo De Amicis finisce col suonare uno sberleffo su Cuore…). D’altra parte si è citata piazza Statuto: e i giganti possono richiamare in modo interessante i titani caduti del monumento al traforo del Fréjus, inaugurato poco più di cent’anni prima nel 1879. Com’è noto, la piramide di enormi massi provenienti dallo scavo del traforo è sovrastata da un Genio alato: un’allegoria positivista del trionfo della ragione sulla forza bruta, che però il mito della Torino magica leggerebbe in modo diverso vedendo nel Genio alato nientemeno che l’angelo caduto. Come che sia, i titani si stanno rialzando: e se l’Istituto Cottolengo viene immaginato nel romanzo come tanto ansioso di tacere la verità è anche forse perché a venire animate sarebbero – scandalosamente – le stesse statue sacre. Di nuovo un richiamo al gotico del Castello d’Otranto, dove il sacro e l’onirico andavano a braccetto giocando d’ironia…

La spiegazione però, nelle Venti giornate, non è sovrannaturale in senso tecnico (come credono gli spiritualisti in scena), bensì appunto paranaturale – conformemente al linguaggio dell’insolito. Le confessioni raccolte a riempire la Biblioteca vedono fermentare ed esondare le ombre interiori di grandi numeri di cittadini: e nel clima di siccità evocato, non facciamo fatica a immaginare le misteriose abbeverazioni qui descritte con toni vagamente lovecraftiani (“come se centinaia di bocche si stessero immergendo in un pozzo gigantesco intenzionate a prosciugarlo. Pareva che una sete millenaria avesse trovato finalmente una fonte a cui saziarsi”) proprio come un nutrirsi della psiche, delle emozioni e degli spurghi interiori di un’intera cittadinanza.

 

Fui colto da un improvviso malessere; ebbi la sensazione che quelle labbra riarse pescassero dentro di me la linfa di cui avevano bisogno […] sentendo quei risucchi, il sospetto di essere stato pure io, sebbene in parte, vittima di una misteriosa osmosi andava facendosi concreto. Da quali oscure porosità era filtrato il liquame che quelle bocche stavano suggendo?

 

Se Torino è città-laboratorio, proprio la citata sovrabbondanza di risacca psichica permetterebbe quella sorta di laboratorio epocale, quell’esperimento della Natura stessa di cui il romanzo favoleggia, cioè l’animazione del minerale – appunto le statue – teorizzata in mille epopee da Pigmalione in poi. “Non sono uno scienziato” osserva l’avvocato Segre,

 

ma penso che un biologo, un fisico, un esperto di mineralogia, non saprebbero fornirci una diagnosi soddisfacente di certi fenomeni senza tener conto di quel ‘vuoto di potere’. […] Anche la Natura può pervertirsi se la si induce ostinatamente a farlo… e deve aver compreso, la Natura, dando un’occhiatina spregiudicata alla nostra storia, dove avrebbe trovato le condizioni di sicurezza necessarie per tentare qualche nuovo esperimento di vita. Gli inamovibili, gli insospettabili, per quanto intimamente inerti e lordi di sangue dalla testa ai piedi, hanno sempre trovato condizioni di vita ideali, di assoluta sicurezza nel nostro paese. Milioni di bocche osannanti o cucite a doppio filo li hanno sempre protetti. Compreso questo, la Natura può essersi decisa a tentare un nuovo passo, fino a ora inosato. Saprebbe indicarmi qualcosa di più inamovibile, di più insospettabile di quei massacratori? […] Il futuro è molto buio… divinità meschine e infami sono emerse dal cuore della roccia… ed esseri in carne e ossa come noi si stanno felicitando per questo mostruoso evento…

 

E la scelta può esser caduta su Torino “perché è una città isolata, fuori dal traffico internazionale, dove certi esperimenti possono essere compiuti senza dar troppo nell’occhio…”. O forse anche in grazia di meccanismi tanto radicati in Italia e specificamente a Torino, di chi la governa effettivamente – tra grattacieli bancari e madamine – e di vecchie ideologie mai morte: suppuranti magari in salsa rossobruna, o sotto l’egida (che abbina figurativamente caratteri ossimorici come rigidità e moto delle statue) di una qualche rivoluzione conservatrice.

Alla pietra e alle sue diverse, oniriche possibilità di animazione Le venti giornate di Torino offre continui richiami: dai bassorilievi sotto il laghetto, alle statue in azione, al sogno del narrante in cui “alcuni giovani archeologi scavando nei pressi di Volterra avevano scoperto dei bassorilievi [di nuovo] da cui risultava che il grande poeta Virgilio era in realtà uno struzzo” – che finiva in ultimo appeso a un gancio di macelleria. Come a dire che neppure la storia della letteratura va indenne dalla perturbante offensiva minerale. E lo scontro tra statue inscenato nel Teatro dei pupi di una via periferica – sorta di lettura ruspante di chi non teme di interpretare l’assurdo che erompe – viene interrotto bruscamente da una scossa tellurica.

Come nella Torino di sera alla luce dei lampioni, nel 1977 o in queste sere d’estate, le statue – monumenti laici di sovrani, militari e notabili, o invece sacri di profeti e di santi – gettano ombre dai loro basamenti. E proprio alle ombre è affidata la trasposizione di Corallina De Maria: particolarmente congrua a una vicenda che tutta da ombre è costituita. Come la storia d’Italia, del resto.

. Corallina De Maria al termine dello spettacolo al Mufant: sulla destra, l’edicola del teatro d’ombre (foto, come le altre, di Paolo S. Cavazza)

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Augusta Wampyrorum https://www.carmillaonline.com/2021/06/19/augusta-wampyrorum/ Sat, 19 Jun 2021 21:23:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=66804 di Franco Pezzini

È appena uscito, a cura di Fabio Camilletti e Fabrizio Foni, Almanacco dell’orrore popolare. Folk horror e immaginario italiano, per i tipi Odoya (pp. 400, € 25,00), Città di Castello 2021 – dove lo scarto tra i due termini anglosassoni folk e pop (entrambi resi in italiano con l’aggettivo popolare) è colto come tensione e contaminazione. Un’altra coppia di fattispecie resta però implicita, quella tra Folk Horror e Urban Wyrd: il volume, attraverso saggi e brevi narrazioni, affronta in chiave liberissima il primo ma con aperture al secondo, oggetto di [...]]]> di Franco Pezzini

È appena uscito, a cura di Fabio Camilletti e Fabrizio Foni, Almanacco dell’orrore popolare. Folk horror e immaginario italiano, per i tipi Odoya (pp. 400, € 25,00), Città di Castello 2021 – dove lo scarto tra i due termini anglosassoni folk e pop (entrambi resi in italiano con l’aggettivo popolare) è colto come tensione e contaminazione. Un’altra coppia di fattispecie resta però implicita, quella tra Folk Horror e Urban Wyrd: il volume, attraverso saggi e brevi narrazioni, affronta in chiave liberissima il primo ma con aperture al secondo, oggetto di un successivo volume dei curatori al momento in preparazione. In questo, tra storie di lupi e fantasie su Lovecraft in Italia, etruscologia metapsichica e teatri della morte, anime pezzentelle, bambole sinistre, sopravvivenze sciamaniche, massoni a Trieste e tanti diavoli, è apparso anche un contributo di chi scrive sulla genesi di un fortunato mito pop da giornali della sera emerso nella Torino degli anni Settanta e ormai assurto a brand: The Wicker Town. Torino magica & orrore popolare. Se ne riporta uno stralcio.

 

[…] Nella galleria di Haining & Parker [Peter Haining, Stregoneria e magia nera, I colibrì Mondadori 1972, a poca distanza dall’originale inglese Witchcraft and Black Magic, 1971, con un meraviglioso corpus d’illustrazioni di Jan Parker – cfr. qui] non manca uno spazio sui vampiri: e la bellissima raffigurazione di un volto inquietante con occhi azzurri, capelli rossi e labbro leporino, la consistenza incorporea venata però da una circolazione malsana, che emerge in un cimitero con aria maligna e assetata, è accompagnata da una spiegazione (un po’ banalizzante, ma tant’è) deliziosamente vintage.

 

Recentemente fantasiosi romanzi e films (specialmente quelli su Dracula, personaggio creato da Bram Stoker) hanno reso molto popolari questi “mostri” che molto probabilmente erano solo persone che soffrivano di disturbi mentali, bandite a causa della loro brama morbosa per il sangue [Peter Haining, Stregoneria e magia nera, cit., p. 93]

 

Tra le concause del revival magico si può senz’altro identificare – si è detto – il decennio di successo capitalizzato dai film gotici Hammer, a partire dai primi a fine anni Cinquanta con i quattro moschettieri Cushing, Lee, Fisher, Sangster (due attori, un regista, uno sceneggiatore) a innesco di una straordinaria operazione di mitopoiesi: e Haining pensa proprio a quelli. Non è questa la sede per un’analisi del fenomeno, dove la riappropriazione di un’eredità gotica inglese già sfruttata e buttata oltre oceano, ristrutturata film dopo film in chiave di sistema mitologico, si accompagna alla vera e propria liturgizzazione di misteri pagani: e tutto ciò attraverso storie che sempre più innervano i classici del fantastico di concessioni a una cultura del magico (riti, culti, sette…) covata nelle Isole Britanniche fin dall’Ottocento, poi rinverdita dai fasti popolari delle tesi negli anni Venti/Trenta di Margaret Murray sul presunto “dio delle streghe” e dal successo popolare dei romanzi di Dennis Wheatley. La provocatoria saldatura tra tutto questo e una Swinging London per una breve stagione tornata centro del mondo offre una nuova marcia all’horror popolare saldando nostalgie e nuove provocazioni. E incentivando lo sviluppo di filoni dall’origine autonoma come la (grande) stagione del gotico italiano su schermo.

Certo il pantheon (o pandemonium) Hammer comprende un’estrema varietà teratologica: ma altrettanto certamente i vampiri vi vantano un ruolo e un fascino particolare. Sia quelli della vecchia generazione – in particolare Dracula/Lee, vero mattatore dell’epoca nonostante le continue frenate dell’interprete che teme di restare confinato nella parte – sia le sempre più disinibite nipotine del ciclo Karnstein, Carmilla & Co. In rapporto da un lato, del resto, con un boom vampiresco nel segno della trasgressione, a cavalcare un’euforia sessuale d’epoca che vede ammorbidirsi drasticamente le maglie della censura: si pensi alle belle succhiatrici di Jean Rollin e Jess Franco, a La novia ensangrentada di Vicente Aranda, 1972, allo stesso recupero filmico di una figura amata dai surrealisti fin dagli anni sessanta, la Contessa sanguinaria Erzsébet Báthory, da cui la definizione per i primi anni del nuovo decennio come “the Golden Age of the Lesbian Vampires”. E dall’altro con l’entusiastica divulgazione da parte di Raymond T. McNally e Radu Florescu dell’esistenza di un Dracula storico, Vlad III Țepeș, argomento presto amato dalle riviste anche italiane [cfr. qui].

Inevitabile che il successo della creatura liminare per definizione – tra vita e morte, materiale e spettrale, umano e bestiale, ripugnante e seducente – influisca anche sui miti di una città liminare quale Torino. Dove fantasie vampiresche sono attestate in realtà da parecchio tempo, sia pure in forme liberissime: si pensi all’opera lirica Il vampiro di A. De Gasparini rappresentata per la prima volta proprio in città nel 1801; alla commedia satirica in cinque atti Il vampiro del torinese Angelo Brofferio, 1827; allo sfarfallare vampiresco attorno a due veronesi eccellenti insediati a Torino, cioè Emilio Salgari (che ben prima della truce saga uruguayana Il Vampiro della foresta, 1902, aveva messo in scena un Sandokan “che più di una volta era stato visto bere sangue umano, e, orribile a dirsi, succiare le cervella dei moribondi” in La Tigre della Malesia, 1883-1884, protoversione a forti tinte del poi rielaborato Le tigri di Mompracem, 1900) e Cesare Lombroso (che definisce il serial killer Vincenzo Verzeni “Sadico sessuale, vampiro e divoratore di carne umana” e viene omaggiato da Luigi Capuana della sua novella Il vampiro, 1904). Anche non in presenza di un nesso diretto, la pratica (barocca, ma perpetuata a lungo) di conservare nelle chiese corpi santi sotto cera che riempiva d’orrore me bambino traghetta a quella dimensione di cadaveri inquietantemente conservati che trova qualche eco anche nella mitologia vampiresca.

Un discorso a parte andrebbe poi condotto sulle pratiche di assunzione di sangue per via orale: a volte per mantenere un aspetto giovanile (come nel caso della “vampira di Torino” Agnese Draghetti, originaria di Serralunga d’Alba e morta novantottenne nel 1785 a Villadeati, nell’Alessandrino, ma vissuta a lungo nella Contrada degli Angeli, poi chiamata Contrada della Dogana, attuale via Carlo Alberto, al n. 2, che girava i sobborghi pagando giovani donatrici di piccole quantità ematiche); a volte a fini di cura dell’anemia, anche se in quel caso si ricorreva normalmente al sangue animale dei macelli, e la pratica è attestata diffusamente nell’Italia dell’Ottocento.

È una fiaba scherzosa la storia dell’uomo vampiro catturato nel 1863 in città: riportata sul sito del C.A.U.S. – Centro Arti Umoristiche e Satiriche, racconta di questo tipo enorme tenuto agli arresti domiciliari in uno spazio annesso alla caserma di San Salvario onde svolgere con più efficacia il compito di salassare secondo prescrizioni mediche (al tempo normalmente gestito con sanguisughe). Alla sua morte, così vien detto, la municipalità lo ricorderebbe favorendo l’inserimento sulle case di San Salvario di immagini vampiresche (ovviamente i mascheroni sulle facciate degli edifici torinesi presentano spesso fattezze più o meno richiamabili a tali tipologie). Vera e propria leggenda metropolitana è invece quella del vampiro di San Mauro Torinese che nell’autunno 1947 semina il panico soprattutto in due frazioni confinanti con Torino, Cascina del Molino e Barca, guadagnandosi gli onori della cronaca. Occhi fosforescenti, vestito di nero, cappa e cappello da montanaro, morderebbe il collo a donne sole e soprattutto giovani; ma presto emerge che la voce è stata messa in giro per frenare un po’ le figliole in un momento in cui, terminata la guerra, sembra più difficile trattenerle da fughe serali. E tuttavia un’aggressione vera e in apparenza analoga – almeno secondo la vittima, che però non ha il tempo di perdere sangue – si verificherebbe poco dopo in corso Matteotti, pieno centro di Torino. Impossibile ormai stabilire la consistenza dei fatti.

Ma coi nuovi tempi il richiamo assume un altro peso. È difficile non cogliere un nesso in chiave di sogghigno colto tra le pellicole vampiresche Hammer e un’opera-chiave del fantastico torinese, L’ultima notte di Furio Jesi (1941-1980), eminente studioso del rapporto tra miti e storia: un romanzo di vertiginosa erudizione e scintillante, divertita intelligenza composto tra il 1962 e il 1970 – in due versioni piuttosto diverse – e pubblicato solo postuma da Marietti nel 1987 (riedizione per Nino Aragno, 2015). Jesi, autore anche della voce “Vampiri” nel Grande Dizionario Enciclopedico Utet e della fiaba vampirica La casa incantata (Vallardi, 1982, poi Mondadori 2000), mette in scena nel romanzo il tentativo di rivincita dei vampiri, stirpe altra un tempo dominatrice della Terra: Dio concede loro, stanco dei guasti prodotti dagli uomini, di riprendersi quanto hanno perduto. Conquisteranno quasi tutto il pianeta, ridando spazio alla natura che gli uomini hanno violato in tutti i modi – torniamo insomma al fiato apocalittico di un’epoca – e proprio a Torino, dove i vampiri hanno installato il quartier generale nella Torre littoria sovrastante Piazza Castello, avverrà lo scontro definitivo. Tra scontri in piazza, piccoli eroi e profittatori, affannati conciliaboli coi santi e giochi anche di piccolo cabotaggio tra Cielo e mondo umano, il risultato lascerà intravedere la fine della Terra…

Con lo sguardo pure alle nuove provocazioni e insieme a una Torino-osservatorio è il film fantastico, visionario e ironico di Corrado Farina Hanno cambiato faccia, 1971, dove il dipendente di una grande azienda torinese dell’auto, Alberto Valle, viene invitato – novello Jonathan Harker – nella villa di campagna del presidente, l’ingegner Giovanni Nosferatu interpretato da Adolfo Celi. Nel parco si aggirano come lupi delle Fiat (pardon, Auto Avio Motor) 500, e il povero Valle dovrà constatare la natura vampiresca dell’industriale e del suo potere sui mezzi di produzione e di comunicazione.

Negli anni che seguono, l’icona del vampiro è molto presente nell’immaginario, veicolata a Torino attraverso pubblicazioni popolari, giornali, proiezioni del Movie Club – piccolo ma importante, sul tesserino figurava l’immagine di Dracula/Lee – e programmazioni sulle prime minuscole televisioni private locali: dove con molta fortuna, in assenza di segnalazioni dei palinsesti, ci si poteva imbattere in quei film horror ancora banditi dalla tv di Stato (la mia prima visione di Dracula il vampiro, incontrato al tempo su una di queste reti, parte in effetti da metà film). La ribellione magica dei Settanta trova nel vampiro eversore di ogni punto fisso di natura e cultura un’icona eminente, e nelle fantasie dei miei anni di liceo (conclusi nel 1980) si tratta di uno degli archetipi fantastici più amati; anche se sul tema non compaiono al tempo e per qualche decennio altri romanzi o produzioni di rilievo torinesi. Negli anni Ottanta, con l’inabissarsi dell’icona vampirica al cinema, si sviluppa però in Italia una vera e propria critica in tema di fantastico, iniziano a moltiplicarsi edizioni di autori introvabili (come Le Fanu, per esempio la bella edizione Sellerio di Carmilla, 1980, o la proposta di altri suoi testi per Serra e Riva e soprattutto per Theoria); e con il revival gotico dei Novanta e nuovi mezzi come i VHS anche la cinematografia sul tema inizia a essere più avvicinabile.

 

Vampiri di passaggio

Un discorso a parte può poi valere per alcuni dei citati (presunti) visitatori a Torino abbinati a storie vampiresche. Si parte naturalmente dall’esorcista di protovampire Apollonio, antenato virtuale di Van Helsing & Co.; mentre il vampiro Nostradamus interpretato da Germán Robles in alcune pellicole messicane (1960-62) sarebbe un solo ipotetico figlio del veggente. Quanto all’immortale Saint-Germain capace a sua volta – secondo alcuni racconti – di cacciare parassiti sovrannaturali, lo troviamo assurgere a vampiro buono nei romanzi di Chelsea Quinn Yarbro: a partire da quell’Hôtel Transylvania, 1978, proposto in Italia agli esordi (2005) della breve gloriosa stagione gotica della Gargoyle di Paolo De Crescenzo, a sua volta grande fucina editoriale di storie di vampiri.  

 

Una svolta si ha a Torino con il nuovo millennio, che vede uscire a breve distanza il film Io sono un vampiro di Max Ferro, 2002 – dove il non-morto attraversa i secoli dall’assedio del 1706 alla nuovissima movida – e il romanzo erotico/ironico L’ultima ceretta di Anna Berra per Garzanti, 2003: quest’ultimo avrebbe anzi dovuto intitolarsi Bevimi, a saldare suggestioni da Alice in Wonderland con le suzioni di una setta (umana) praticante il vampirismo in una villa di zona Crocetta. Qualche suggestione vampiresca emerge anche nella sua bella raccolta Piume di sangue. 69 racconti noir, Enrico Casaccia/Co.RE Editrice, 2009 [per un suo lavoro più recente in tema vampiri, cfr. qui]. In Quarto di luna per i tipi SBC, 2008, il musicista Marco Gallesi inscena invece l’arrivo a Torino di un vero vampiro, il soldato tedesco Rutger Haussman, trasformato durante la battaglia di Stalingrado; e vampiri vi porta Carla Oddoero/Blake B (Blink), che nel 2010 inizia a raccontare la saga di Zora von Malice, ventisettenne non-morta svegliatasi all’improvviso in una villa decadente della collina, edita in due volumi per i tipi Golem, La curiosità uccide il gatto e Il silenzio è dorato (l’autrice è purtroppo mancata prematuramente nel dicembre 2017). Più avanti nella città inizia e termina – anche se gran parte è ambientata a Budapest – il romanzo Tutto quel buio di Cristiana Astori per Elliot, 2018, nuova avventura della cacciatrice di film perduti Susanna Marino: la ricerca della prima pellicola su Dracula di attestata produzione, Drakula halála di Károly Lajthay, 1921, conduce a confrontarsi con le dimensioni vampiresche dell’uomo e della Storia. E ancora è chiaramente Torino la città non identificata della storia fantasiosissima e lugubre, e soprattutto vampiresca, narrata da Ade Zeno in L’incanto del pesce luna per Bollati Boringhieri, 2020.

Ma ormai e sempre più i vampiri sono raggiungibili via internet, mentre fioriscono iniziative aperte al tema come il TOHorror Film Fest, fondato nel 1999 e in progressiva crescita, alcuni eventi sgranati negli anni (per esempio la mostra Diversamente vivi al Museo Nazionale del Cinema, tra settembre 2010 e febbraio 2011) e spazi nell’ambito di realtà museali come il MUFANT – MuseoLab del Fantastico e della Fantascienza. Non stupisce peraltro che proprio a Torino, tra Centro, Borgo Medievale e Valentino vengano girate scene della seconda stagione di A Discovery of Witches (Il manoscritto delle streghe), produzione televisiva britannica – 2018-in produzione  – ispirata alla Trilogia delle anime di Deborah Harkness, fitta di fattucchiere e appunto vampiri.

Certo, le storie di non-morti come normalmente presentate non sono ascrivibili a un contesto di Folk Horror o Urban Wyrd. E tuttavia attraverso il tessuto della Torino magica si può parlare di una sorta di obliquo genius loci. Che non movimenta ovviamente i Dracula Tour; ma in una città dagli scorci barocchi come le capitali mitteleuropee delle grandi epidemie vampiriche, e dove i non pochi richiami letterari e cinematografici al tema mantengono sottotono un’elusività tutta piemontese, un intero itinerario nel segno del vampiro potrebbe essere agevolmente disegnato sulla mappa urbana. Una Torino/Karlstadt, a dirla con la Hammer, tra gli uffici di grandi aziende e le chiese con corpi stranamente conservati, le palazzine di sette vampiresche e quel certo negozio (ormai chiuso) di San Salvario dove si trovavano un po’ sottobanco i film sulle vampire di Franco e Rollin; tra il pop dei Seventies, dalla vertiginosa saldatura di miti, e quello di oggi, coi real vampires che rilasciano interviste e la stessa domanda che mi è capitato di sentirmi porre (con serietà, e senza citare Emilio de’ Rossignoli) se credo nei vampiri. A un livello più sottile, per capire la natura di Augusta Wampyrorum occorre considerare come detto la circolazione negli anni Settanta dei primi testi di cinema horror, le apparizioni dei film di vampiri sfarfallanti e sgranate sulle prime tv locali, le fantasie di adolescenti che nell’icona dell’arconte dell’indecidibile – anni luce prima del mieloso Twilight – ritrovavano qualcosa delle loro inquietudini. Ma poi, e sempre più mentre crescevamo, emergeva la percezione di un vampirismo come sopravvivenza di dimensioni non-morte nella storia e nella società italiana, che hanno soltanto cambiato faccia: qualcosa certo non esaurito in Torino, ma che sul set della città di passaggio (già prima capitale, già capitale industriale, già città olimpica, eccetera eccetera) trova un teatro eccellente, a suo modo emblematico. […]

 

P.s. Seguendo i consigli di un’amica specializzata in Lingua e letteratura romena, adotto in questo pezzo la lezione  Augusta Wampyrorum invece che Augusta Vampyrorum come nel contributo al volume o in altre precedenti occasioni.

 

 

 

 

 

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Occidente lunare https://www.carmillaonline.com/2018/08/14/occidente-lunare/ Tue, 14 Aug 2018 21:41:42 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=47992 di Franco Pezzini

Tale è la mente degli uomini sulla terra, quale è la giornata che loro invia il padre degli dei e dei mortali. (Odissea 18, 136-7)

Fa uno strano effetto recarsi ai Bray Studios, nel profondo della campagna inglese. Se in tempi recenti è stato possibile accedere all’interno solo in speciali occasioni memoriali (e con le nuove destinazioni immobiliari è difficile comprendere cosa sarà dell’area), anche il semplice colpo d’occhio sull’ingresso può emozionare chi ami il cinema popolare: da quel cancello degli studios (un tempo) della casa di produzione Hammer sono [...]]]> di Franco Pezzini

Tale è la mente degli uomini sulla terra, quale è la giornata che loro invia il padre degli dei e dei mortali. (Odissea 18, 136-7)

Fa uno strano effetto recarsi ai Bray Studios, nel profondo della campagna inglese. Se in tempi recenti è stato possibile accedere all’interno solo in speciali occasioni memoriali (e con le nuove destinazioni immobiliari è difficile comprendere cosa sarà dell’area), anche il semplice colpo d’occhio sull’ingresso può emozionare chi ami il cinema popolare: da quel cancello degli studios (un tempo) della casa di produzione Hammer sono passati personaggi che hanno modellato in modo impressionante il nostro orizzonte immaginale, muovendo archetipi e dinamizzando strutture mitiche. A partire dai quattro moschettieri che sotto i vessilli Hammer hanno segnato in modo più evidente – senza far torto a tutti i compagni nelle retrovie produttive, organizzative e di collaborazione artistica – la rinascita del gotico/horror alla fine degli anni Cinquanta. Cioè il regista Terence Fisher (1904-1980), col suo immaginario vittoriano, la fascinazione per la Scienza e l’approccio allusivo che evoca senza mostrare; lo sceneggiatore Jimmy Sangster (1927-2011), il cui stile sogghignante svela dall’inizio una potente carica critica; e soprattutto i due interpreti Peter Cushing (1913-1994), già divo del piccolo schermo, la cui carriera conosce al tempo una nuova nascita nel segno del gotico, e l’allora quasi esordiente – aveva avuto in precedenza solo piccole parti – Christopher Lee (1922-2015).

Il fatto è che il peso di quell’epopea, avviata nel 1957 con La maschera di Frankenstein e subito dopo – stessa squadra, sull’onda dell’enorme successo di pubblico – dall’ancor più fortunato Dracula il vampiro del 1958, non tocca solo la storia del cinema fantastico. Attraverso un complesso interscambio con fenomeni culturali, economici e sociali di vario genere, in un Occidente che sta uscendo dai postumi del Secondo conflitto mondiale e fa i conti con la Guerra fredda, la Hammer si pone come un potente motore di quella riscoperta del linguaggio dell’insolito, del gotico e dell’occulto che influenzerà ad ampio raggio non solo la fiction popolare – e i relativi studi – ma letteratura e arte “canonizzati” e più in generale il modo di comunicare e pensare in tutto l’Occidente. Un fenomeno che, fermentato lungo il corso degli anni Sessanta, condurrà alla fine del decennio in tutto l’Occidente al grande revival magico, spesso in chiave antiautoritaria (a sfatare un po’ la vulgata che abbina magia e pensiero reazionario) e con declinazioni – va detto – anche bizzarre. Se poi in questione è un orizzonte (come detto) occidentale, soprattutto del Vecchio Mondo ma con impatto potente in quegli Stati Uniti che per anni lasciano all’Inghilterra il timone dell’immaginario gotico, occorre considerare che le ripercussioni saranno planetarie. L’influsso per esempio sul fantastico dell’Oriente, anche estremo, sarà avvertibilissimo.

A ricordarci topoi, impatto e sviluppi di questa mitopoiesi sono oggi due studi straordinari, usciti a un po’ di mesi l’uno dall’altro e di diverso taglio, ma che idealmente si integrano: due volumi varati con rigore e passione – ben avvertibile, il che è sempre una marcia in più – da specialisti riconosciuti e destinati, per la loro ricchezza, a restare punti di riferimento e basi ineludibili da cui partire per successive ricerche.

Il primo e più recente, a firma di un’autorità nel campo degli studi sulla teratologia sociale, Fabio Giovannini, è il monumentale Dracula il vampiro. Il capolavoro gotico della Hammer 60 anni dopo, volume autoprodotto a tiratura limitata (2018, pp. 363, euro 49, cfr. sito), perché “nessuno degli editori con cui sono in contatto o collaboro abitualmente avrebbe mai pubblicato un volume illustrato, di molte pagine, tutto a colori e con le caratteristiche che desideravo”. Il risultato è una festa dell’immaginazione gotica in otto capitoli più introduzione e allegati, con un corpo impressionante di foto – da quelle più note alle rarissime –, una esaustiva presentazione del film, la sceneggiatura comprensiva di scene rimosse o invece aggiunte rispetto al testo originale, il cineromanzo trattone, un commento puntuale alle scene e poi uno generale, più tutto il resto che si può chiedere su una pellicola. Informazioni sugli attori e sulla scenografia, sulla critica, i flani e il merchandising… Un regalo che l’autore si fa per i suoi sessant’anni, quelli del film e la sessantina di pubblicazioni al suo attivo, a celebrare l’opera che anche più profondamente de La maschera di Frankenstein dell’anno prima ha segnato l’avvio di un fenomeno di massa: basti pensare che Lee, già imbastito nel trucco “da incidente stradale” della Creatura di Frankenstein (mancavano i diritti sul classico make-up Universal costruito da Jack Pierce) ora nei panni del Conte può mostrare tutta la sua eleganza da danzatore, torrida seduttività e aristocratica distanza. Se d’altra parte nella rivisitazione della storia di Frankenstein si aveva già il botto del gotico (la Hammer aveva varato fino a quel punto solidi film di fantascienza, ma negli anni Cinquanta le fantasie gotiche erano state in generale abbandonate dal cinema un po’ in tutto l’Occidente), con Dracula il vampiro irrompe il sovrannaturale e quell’occulto – con richiami sempre più avvertibili al pagano e al magico – che poi emergerà per mille rivoli. Quella che oggi è uso chiamare occulture.

Come ricorda una delle frasi un po’ enigmatiche del disegno ad anelli concentrici sul pavimento della biblioteca dove si consuma la distruzione di Dracula, “Tale è la mente degli uomini sulla terra, quale è la giornata che loro invia il padre degli dei e dei mortali” (Odissea 18, 136-7: nel disegno il testo è in greco). Come a dire che la giornata che sorge a Bray, quella idealmente degli anni Sessanta coi demoni e dei del pandemonium Hammer, impatta sulle menti di uomini che si affannano a proclamarsi moderni, baloccandosi anche con l’atomica, per riscoprirsi affascinati da un mondo mitico-magico ancora dotato evidentemente di buone ragioni simboliche.

Giovannini si basa su una bibliografia molto ampia – e penso, oltre ai libri, alla quantità di articoli su riviste. Tra i volumi citati mi fa però piacere ricordare un testo solido, completissimo e relativamente recente di Stefano Leonforte, A qualcuno piace l’horror. Il cinema della Hammer Films (Leima, Palermo 2014) che oltre a ricordare per ariosità di formato il volume recensito, permette di collocarne l’oggetto in una più generale galleria di titoli.

Al di là dell’estrema godibilità, la summa di Giovannini sul film del ’58 non si consuma nell’orizzonte del puro fandom; e addentrandoci nel dedalo di suggestioni che propone ci imbattiamo in una quantità di indicatori di un’epoca (l’immaginario visivo e il nuovo uso del colore, la dimensione musicale, i rapporti con la censura…) e insieme di provocazioni verso gli anni che verranno. Inizia in sostanza l’età del Swinging Gothic in cui s’incrociano mantelli di Dracula e minigonne alla Carnaby Street, vertigini della modernità e vaghe nostalgie imperiali; sesso e sangue – mostrati e soprattutto allusi – vengono celebrati nell’ambito di film-liturgie con un linguaggio rituale molto articolato, in cui il pubblico partecipa (oltre lo schermo, come da un palco teatrale o sulle panche di un tempio) delle trasgressioni del Conte e dell’affidabile maturità del suo avversario; e il pubblico – compresi i giovani come nuovo target di riferimento, da cui suggestioni iniziatiche del rito – torna a interessarsi in via derivata di un certo tipo di narrativa che pareva aver perso appeal. In particolare Dracula il vampiro si pone come causa principale del boom orrifico e specificamente vampirico dei primi anni Sessanta: anche in termini di fiction e saggistica, e si pensi alle scampagnate vampiriche di Tony Faivre, Ornella Volta, Valerio Riva, Emilio De’ Rossignoli. Ed è qui che passiamo al secondo volume.

Fabio Camilletti, professore associato e Reader a Warwick ha nel giro di pochi anni pubblicato non solo ottime curatele di classici gotici ma illuminanti studi saggistici e anche testi divulgativi di qualità come una Guida alla letteratura gotica per Odoya (Bologna 2018). Il suo terreno è la letteratura e il suo nuovo volume Italia lunare. Gli anni Sessanta e l’occulto (Lang, Oxford-Bern-Berlin-Bruxelles-New York-Wien 2018, pp. X-248, euro 51,47) è anzitutto un grande saggio di letteratura; ma non solo, perché le spettro è più ampio, e nei quattro capitoli più introduzione e conclusione troviamo cinema, studi sociali e un po’ di storia contemporanea. Si tratta di uno studio pionieristico (soprattutto le conclusioni potrebbero figliare parecchi altri volumi) ma con una compattezza e una ricchezza d’analisi che lo rendono fin d’ora preziosissimo.

Camilletti prende le mosse da un prodotto televisivo italico, cioè Il Segno del comando del 1971: un prodotto popolare di ottimo livello e dalla complessa genesi che si colloca al termine di quella stagione dei Sessanta che il Dracula di Fisher preparava. Dalle suggestioni occulte di quegli anni – nei due sensi, quello magico e quello poliziesco-spionistico (trame, servizi, golpe, Italia dei misteri e quant’altro) Il Segno del comando è epifania e metafora: e di qui un carotaggio nella cultura a monte per identificare una serie di radici di quest’Italia “lunare”.

Il panorama è ricchissimo, e l’autore segue quattro principali piste immaginali. Anzitutto (non a caso) il vampirismo tra Landolfi e Valerio Riva, Ornella Volta e De Rossignoli, Scerbanenco e i film di Polselli, Bava e Mastrocinque, ad analizzare le ricadute nostrane di un mito che al tempo spiazza i critici. Quindi i fantasmi: ed ecco entrare in gioco Fruttero e Lucentini (partendo dalla straordinaria antologia Storie di fantasmi, Einaudi 1960) e poi Soldati e Pitigrilli, Rol e tutta la stagione di una ghost story italicissima, nel complesso poco nota al grande pubblico odierno ma spesso qualitativamente alta, coi suoi perturbanti e perturbati. Si passa poi all’Italia dei dannati tra Charles Fort, Pauwels e Bergier, Folk Horror, Urban Wyrd e quel concetto di insolito che trova in Buzzati un grande anfitrione, in De Martino e Ginzburg studiosi d’eccezione e in Talamonti e Inardi curiosi repertoriatori. Fino al quarto tema, il demoniaco, alla luce livida del Toby Dammit riletto da Fellini e Bernardino Zapponi e delle risposte pontificie di quattro anni dopo. A quel punto Il Segno del comando “segna anche il momento in cui l’‘Italia dei misteri’ delle ‘Guide’ Sugar e dei vagabondaggi di Buzzati e Fellini lascia il posto a ‘misteri d’Italia’ di natura ben diversa”, nel segno del potere (il “comando”) e dei suoi giochi spregiudicati: dove i nessi tra paradigma esoterico – con quanto di paranoia implichi – e complottismo politico trovano rapporti in realtà concretissimi.

Di qui vicende che purtroppo conosciamo, compreso quel caso Pinelli che ha visto spesso il palazzo della questura presentato come sorta d’inconoscibile spazio gotico (con patologie misteriose come il malore attivo – prima considerazione del recensore), dunque con buona pace dei tentativi di avere giustizia (meglio pacificazioni senza verità scomode, e l’Italia-mamma ha riportato tanta bella concordia – seconda considerazione del recensore). È insomma “possibile che prodotti culturali come Il Segno del comando […] intercettino un preciso clima politico-sociale piuttosto che essere, rispetto a esso, strumenti di evasione”, disseppellendo “in pieno 1971, la capacità del gotico di afferrare obliquamente le tensioni e i conflitti di una società che si percepisce sempre di più alienata rispetto al ‘Palazzo’”.

D’altronde (come ben mostra l’autore) il gotico va “letto”, e la sua fittizia narrazione del passato in realtà parla del presente, di tutti i “presenti” che via via scorrono; ed è vero che a volte pare di trovarsi collettivamente in un romanzo gotico di cattiva qualità. In un castello d’Otranto dove l’occulto è spesso solo ciò che non si vuol vedere: e vengono in mente altre letture recenti che aiutano a guardare dietro quel velo di Pulcinella. Le impressionanti pagine di Vittorio Coco, Polizie speciali. Dal fascismo alla repubblica (Laterza, Bari-Roma 2017) e Davide Conti, Gli uomini di Mussolini. Prefetti, questori e criminali di guerra dal fascismo alla Repubblica italiana (Einaudi, Torino 2017) mostrano per esempio con chiarezza il pacifico e anzi onorato perpetuarsi di personale fascistissimo nell’amministrazione repubblicana, dove l’epurazione è stata limitata: e questi personaggi hanno avuto tutto il tempo di selezionare propri simili, perpetuare convinzioni mentalità atteggiamenti, e relativizzare valori (presuntamente) condivisi. Solo un tassello nell’Italia di misteri tra i decenni Sessanta e Settanta, ma che può dire qualcosa su quel passato e per li rami ancora su un certo fetore del nostro presente.

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Ombre e malombre del gotico italiano (Nightmare Abbey 8) https://www.carmillaonline.com/2016/03/29/ombre-malombre-del-gotico-italiano-nightmare-abbey-8/ Tue, 29 Mar 2016 21:27:46 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=29521 di Franco Pezzini

LepifaniadellorroreConsiderata per convenzionale la nascita del gotico letterario con The Castle of Otranto di Walpole, 1764, c’è chi lo giudica chiuso col Melmoth di Maturin, 1820, altri con il racconto The Household Wreck di De Quincey, 1838, o invece col Dracula di Stoker, 1897, tutti con motivazioni comprensibili; mentre per molti il gotico non è affatto morto, sta bene e ci saluta tutti. Il fatto è che da un lato un genere narrativo (letterario e non solo) difficilmente “muore” davvero, in presenza di un’evoluzione sociale con elementi – [...]]]> di Franco Pezzini

LepifaniadellorroreConsiderata per convenzionale la nascita del gotico letterario con The Castle of Otranto di Walpole, 1764, c’è chi lo giudica chiuso col Melmoth di Maturin, 1820, altri con il racconto The Household Wreck di De Quincey, 1838, o invece col Dracula di Stoker, 1897, tutti con motivazioni comprensibili; mentre per molti il gotico non è affatto morto, sta bene e ci saluta tutti. Il fatto è che da un lato un genere narrativo (letterario e non solo) difficilmente “muore” davvero, in presenza di un’evoluzione sociale con elementi – almeno qualcuno – di continuità; e per contro, più specificamente, il gotico risulta un genere assai più variegato e plastico di quanto spesso si consideri. Chi legga con attenzione Walpole vi trova una serie di suggestioni che il gotico successivo frequenterà poco, mentre riemergeranno in certo “fantastico” genericamente inteso: penso a un certo lussureggiante miracolismo associato al mondo papista, o allo stesso peso di un grottesco onirico guardato con sospetto da tanti autori gotici più “seri” (emblematici i commenti un po’ rigidi di Clara Reeve, 1777). Non dovremmo considerare questi aspetti come elementi “congrui” al genere? In realtà quando parliamo di gotico facciamo i conti con un’etichetta che mantiene ampie connotazioni di fluidità, e qualunque definizione non può che tenerne conto.
Un problema ulteriore riguarda del resto la valenza “nazionale” di un certo tipo di esperienza narrativa. Il fatto che il gotico trovi codificazione in Inghilterra, ma con riferimento – ideale, di cartapesta – all’Italia e influssi del clima “gotico” tedesco (se non direttamente in Walpole, almeno in predecessori ideali come Smollett, e poi con ampiezza nei successori), già suggerisce qualcosa di una certa vocazione geografica. A partire da pregiudizi culturali e nervi scoperti, è vero, ma offrendo così uno strumento duttile a esperienze narrative diverse. Lo sviluppo del gotico al di fuori dell’Inghilterra – Germania, Francia, Russia… – pur nella varietà delle forme ne è l’immediata conseguenza.
Tutto ciò riguarda la stessa Italia, non solo oggetto ma anche soggetto di produzione gotica, come emerge dall’ottima raccolta L’epifania dell’orrore. Novelle gotiche italiane curata da Giuseppe Ceddia per i tipi Stilo (Bari 2015, pp. 196, € 14,00): un prezioso itinerario tra testi meno noti, a firme in gran parte di autori minori, ma proprio per questi rivelatori di un clima, un tessuto che testimonia la non improprietà dell’uso del termine gotico anche in un panorama come quello italiano. Le novelle, presentate da Ceddia nella bella Introduzione alle cui motivazioni sull’uso del termine si rimanda, corrono per tutto l’Ottocento, dal 1819 fino anzi all’avvio del secolo breve, 1906, lasciando volutamente da parte le opere nere scapigliate e veriste già presenti in tante antologie.
Senza assassinare il piacere della lettura, una breve disamina dei testi s’impone. A partire – non impropriamente, considerando il peso delle Madri gotiche in Inghilterra – da un’autrice elogiata per i suoi versi dal gotha della letteratura italiana del tempo (Monti, Alfieri, Parini, Foscolo, Manzoni…), cioè Diodata Saluzzo Roero, qui presente con Il castello di Binasco. Novella dell’anno 1418 (1819). Certo, non aspettiamoci Ann Radcliffe: ma nell’ambito di un melodramma romantico che ricama (liberissimamente) sulla storia di Beatrice di Tenda, spinta al matrimonio con Filippo Maria Visconti e poi giustiziata, i classici temi dell’eroina vittima innocente, e dell’amore cavalleresco cui si contrappone la predazione nuziale del vilain, sono godibilmente punteggiati di ombre spettrali.
Segue il testo di un nome noto del primo ottocento nostrano, Margherita di Cesare Balbo (1829), con nuovo set medioevaleggiante e nuova vittima femminile – stavolta, più sottilmente, di un disamore che uccide. Le tinte gotiche emergono in chiusura, con una scena che sembra prefigurare insieme gli Usher e la Morte Rossa di Poe, e seguita da una suggestiva coda fantasmatico-vampiresca. Se il nome del cattivo è lo stesso di quello walpoliano, Manfredi, rimandando così esplicitamente alla logica del gotico, per il nome della protagonista/vittima viene da pensare al Faust goethiano.
Davvero interessante per le sue connotazioni oniriche è poi lo strano racconto Il sotterraneo di Porta Nuova di Giambattista Bazzoni (1832): dove da un avvio di grande efficacia visiva – il palazzo chiuso per il caldo torrido estivo – il clima claustrofobico si sviluppa attraverso una catabasi nel labirinto di rovine maledette e fino a un sotterraneo da sepolti vivi (ci si astiene da spoilerarne il finale). La vicenda è cinquecentesca, ma ammicca a un passato di tre secoli prima, circonfondendo di un brivido satanico la storia della mistica Guglielma la Boema e del suo culto stroncato come eretico dall’Inquisizione (cfr. Luisa Muraro, Guglielma e Maifreda. Storia di un’eresia femminista, Libreria delle donne, 2015).
Fin qui un’ideale prima fase del gotico nostrano: il primo Ottocento che ama ricondurre il lettore tra le vie del passato, e che vede – come del resto testimoniano i romanzi storici con le loro venature orride, i mostruosi vilain e le damsel in distress – sfumare nel genere (appunto) storico quello che possiamo ben definire gotico.
Con un salto cronologico significativo la nostra antologia passa dunque a una seconda fase, postunitaria, con il racconto Il duca zoppo di Domenico Ciampoli (1880). Già il testo di Balbo rimarcava la presenza (anche ingombrante) di un narratore, ma a introdurre compiutamente nella storia: mentre ora la nuova prospettiva di un passato confinato a distanza, di uno stacco critico ed emotivo, è ben resa dall’incipit “Forse è storia, ed è in voce di leggenda”, con la vicenda simil-pulp di una specie di Vlad Dracula in sedicesimo, nostrano e cattivissimo. Del resto cambia anche l’ambientazione, in questo caso abruzzese: se le prime novelle trovavano sfondo tra l’aristocrazia di un medioevo norditalico, ora a unità consumata e con attenzioni assai più ampie al popolo minuto, si passa al grembo di un’Italia centro-meridionale fitta di storie nere, incognita e pittoresca.
Come nella Calabria di Nicola Misasi, Accanto al fuoco (1882), che già nel titolo denuncia un sovrannaturale quale oggetto anzitutto di affabulazione; o come nella Toscana di un altro ottimo “racconto sul racconto”, Il diavolo di Giovanni Magherini Graziani (1886), sviluppo originalissimo del tema della casa infestata. E che in dettagli come gli affreschi-fantasma – le immagini delle contadine costrette dal cattivo padrone a spogliarsi e farsi così ritrarre sulle pareti, immagini poi coperte per decenza – sembra già evocare il clima onirico e le ombre danzanti sui muri di sale abbandonate di un caposaldo del giovane cinema spettrale, Vampyr di Carl Theodor Dreyer (1932).
Ancora un fantastico per affabulazione e ancora Toscana troviamo ne L’ombra del Sire di Narbona di Emma Perodi (1893), dove il tema iniziale dell’aristocratico maledetto si stempera in un’avventura nera tra storia di fantasmi e macabro fiabesco. Il medioevo c’è ancora ma è come in cornice, con lo stacco netto dal presente di una voce narrante; ed entra piuttosto in dialogo con le mappature folkloriche di fiabe condotte in un paese che scricchiola tra problemi e scandali, cerca di consolidare l’unità ma gronda fin troppi fantasmi.
Si badi che le due fasi evidenziate attraverso i racconti non esauriscono il panorama del gotico italiano, che dovrebbe ammettere opere anche parecchio diverse – penso per esempio a certi elementi del Malombra di Antonio Fogazzaro, scritto tra l’inizio degli anni Settanta e la fine del 1880 e pubblicato nel 1881. Tuttavia questa produzione minore, di novelle sparse tra riviste, a volte recanti caratteri di suggestiva originalità, ma che più spesso ripropongono in forma conservativa esiti già consolidati o superati nei romanzi (un rapporto che fa pensare a quello di un secolo dopo tra televisione e cinema) offre un vivacissimo tessuto connettivo tra i grandi titoli, e una specie di cartina al tornasole di gusti, provocazioni, inquietudini diffuse. I carotaggi di Fabrizio Foni su tale materiale – citati in Bibliografia alla presente raccolta – costituiscono in questo senso un fondamentale punto di riferimento.
Una terza fase sembra comunque annunciarsi nella novellistica di fine secolo. Ormai l’enfasi non è più sulla ricostruzione diretta (prima fase) e neppure sulla narrazione affabulatoria (seconda fase) del passato gotico: questo è piuttosto evocato per allusioni o attraverso il ricorso a talune suggestioni.
Ben poco si sa del C. Spagnolo-Turco, in apparenza pugliese, autore di Al di là (1897), che riprende liberamente tra grottesco e amaro – qualcosa a metà tra Nightmare Before Christmas e Bierce – le tregende paleoromantiche di scheletri deambulanti. L’esperimento è di far parlare proprio uno di quelli, con tanto di macabra vicenda sentimentale: e se si tratti di un gioco ad anticare il successo coevo dello spiritismo è difficile dire. Egisto Roggero con Il vecchio orologio (1901), ambientato in Romagna, propone invece un castello infestato da qualcosa connesso a un’enorme pendola, ancora una volta a fare il verso a modelli romantici (per esempio il ben altrimenti raggelante Maître Zacharius di Jules Verne, 1854). In Spagnolo-Turco come in Roggero si può anzi pensare a un’eredità del fantastico (genericamente) riconducibile alla Scapigliatura, coi suoi sogghigni e bizzarrie.
Ma la vera svolta verso fantasmi più sfuggenti e insidiosi – eredità di Maupassant, e di una mutazione della geografia gotica verso terre incognite sempre più radicate in alterità interiori – sembra rappresentata dall’ultimo testo, Non voglio più essere ciò che sono di Giovanni Papini (1906). Una novella fulminante che nella vertigine e provocazione dell’assunto, evidente fin dal titolo, può forse dirla lunga delle delusioni del paese che la legge.

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