Giustizia – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Fri, 01 Aug 2025 20:00:30 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Nessuna epoca è simile alla nostra https://www.carmillaonline.com/2024/05/26/nessuna-epoca-e-simile-alla-nostra/ Sun, 26 May 2024 20:00:45 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82701 di Sandro Moiso

Yves Delhoysie, Georges Lapierre, L’incendio millenarista tra apocalisse e rivoluzione, Malamente/Tabor, Urbino-Valsusa 2024, pp. 574, 22 euro

«No age like unto this age» (Discorso di un digger apparso in un pamphlet anonimo del 1653)

Molto tempo prima che testi come Il manifesto del partito comunista, Stato e anarchia oppure Stato e rivoluzione potessero anche solo lontanamente essere concepiti, ne è esistito uno che, pur essendo quasi mai letto dai suoi estimatori, è stato per secoli indirettamente alla base di rivolte, insurrezioni e movimenti intrinsecamente rivoluzionari.

Si tratta dell’Apocalisse di Giovanni, conosciuta altrimenti come Rivelazione o Libro [...]]]> di Sandro Moiso

Yves Delhoysie, Georges Lapierre, L’incendio millenarista tra apocalisse e rivoluzione, Malamente/Tabor, Urbino-Valsusa 2024, pp. 574, 22 euro

«No age like unto this age» (Discorso di un digger apparso in un pamphlet anonimo del 1653)

Molto tempo prima che testi come Il manifesto del partito comunista, Stato e anarchia oppure Stato e rivoluzione potessero anche solo lontanamente essere concepiti, ne è esistito uno che, pur essendo quasi mai letto dai suoi estimatori, è stato per secoli indirettamente alla base di rivolte, insurrezioni e movimenti intrinsecamente rivoluzionari.

Si tratta dell’Apocalisse di Giovanni, conosciuta altrimenti come Rivelazione o Libro della Rivelazione, l’ultimo libro del Nuovo Testamento.

Come per gran parte dei testi posti all’origine della seconda parte della Bibbia, l’attribuzione è incerta così come il luogo in cui sarebbe stata redatta, mentre per quanto riguarda la data di composizione, si ammette abbastanza comunemente che sarebbe stata composta nella prima metà degli anni 90 del I secolo.

Nell’opera si parla di persecuzioni da parte di pubblici ufficiali, si dice che ci sono stati già dei martiri della fede e che tutta la cristianità corre un tremendo pericolo. Inoltre si afferma che la partecipazione al regno millenario è il premio dei martiri che hanno rifiutato il “segno della bestia” sulla fronte e sulla mano, un riferimento al culto imperiale romano, ma che nel tempo assunse significati simbolici più ampi collegando il segno della bestia più genericamente al Male (sotto qualsiasi forma questo si presentasse).

Involontariamente il testo finì col far attendere ai credenti una battaglia finale con quest’ultimo che avrebbe dovuto realizzare già in terra la volontà e il regno di Dio, materializzando in qualche modo la promessa di regno che non sarebbe stato più soltanto ultraterreno, ma millenario nel mondo reale. Da qui la sua forza nel colpire l’immaginario popolare e delle classi meno abbienti sottoposte al potere di monarchi, imperatori e papi. Tutti egualmente corrotti e tutti ugualmente segnati dal marchio infamante della Bestia.

Il testo appena pubblicato dalle edizioni Malamente/Tabor, uscito originariamente in Francia nel 1987 per le edizioni del gruppo Os Cangaceiros, riporta alla ribalta e all’attenzione dei lettori i movimenti millenaristi, per l’appunto, che dal Medio Evo fino al movimento dei diggers durante la guerra civile inglese del XVII secolo oppure all’anarchismo andaluso all’interno di quella spagnola o, ancora, al banditismo sociale del Nord-est del Brasile e ai culti messianici melanesiani tra XIX e XX secolo, hanno per periodi più o meno lunghi infranto le regole delle società divise in classi oppure coloniali per instaurare forme di comunismo e uguaglianza sociale, anche attraverso la violenza e l’espropriazione dei beni e delle ricchezze1.

Non a caso Luigi Balsamini, nella prefazione alla nuova edizione italiana del testo, sottolinea e ricorda, a proposito del gruppo Os Cangaceiros2, che proprio dal banditismo sociale del Nord-est brasiliano aveva tratto il nome, che:

Le azioni di quel gruppo hanno in particolar modo preso di mira il sistema penitenziario, muovendosi dalla solidarietà attiva alle lotte dei detenuti fino ai sabotaggi nei cantieri delle carceri in costruzione, alla distruzione degli uffici delle ditte appaltatrici e alla sottrazione e diffusione di dettagliate piantine e preziose informazioni tecniche degli edifici.
Tra il gennaio 1985 e il giugno 1987 Os Cangaceiros ha diffuso tre numeri di un’omonima rivista contenenti analisi e documenti relativi a lotte e insorgenze sociali di quegli anni, non solo in Francia. Sempre nel 1987, il gruppo pubblica la prima edizione di L’incendie millénariste, firmato con gli pseudonimi Yves Delhoysie e Georges Lapierre. La loro pessima fama era però in crescita, tanto che alcuni distributori rifiutarono di far circolare il libro lasciando Os Cangaceiros con buona parte della tiratura in magazzino. Facendosi sempre più pesante la pressione poliziesca, il gruppo decide di abbandonare la maggior parte delle copie in luoghi pubblici, lasciandole al loro destino fuori da ogni logica mercantile. Dopo aver rivendicato numerose azioni dirette, il gruppo si è sciolto ed è scomparso dalla scena, riuscendo in parte a sottrarsi alla successiva ondata repressiva3.

Il millenarismo costituisce uno dei più antichi sogni di libertà e giustizia, l’idea dell’avvento di un’Età dell’oro, di un mondo radicalmente diverso, di fraternità e beatitudine, in cui vivere liberi dalla maledizione del denaro, dello sfruttamento, della proprietà. Autentici marchi della Bestia proprietaria e capitalista. Finendo col dare vita a un torrente carsico di speranza e passione rivoluzionaria, disperso in mille rivoli sotterranei o esplosivi, che ricollega gli insorti di tutti i tempi e luoghi per «trasformare il mondo fino a renderlo riconoscibile». Mentre per ognuno di quei movimenti e per ogni movimento radicalmente rivoluzionario ogni volta si è trattato della fine dei tempi o, perlomeno, della fine del tempo dell’oppressione, dell’alienazione e della separazione degli uomini e delle donne dai e dalle loro consimili.

La religione cristiana conteneva, prima di tutto, una promessa di vita futura. Era la concezione di una società alla ricerca di una finalità esteriore, la redenzione. La religione realizzava nel pensiero il passaggio dal quaggiù – la miseria – all’aldilà – il regno di Dio; i sacramenti erano i riti di questo passaggio concepito in teoria. La religione è la forma pensata dell’alienazione.
I millenaristi attaccavano l’alienazione, in teoria e in pratica. Ciò di cui l’umanità era stata spossessata e che era stato esiliato in cielo, intendevano realizzarlo sulla terra. Ecco perché attaccavano tutto ciò che su questa terra, si opponeva a tale realizzazione. Tutti i loro tentativi hanno immancabilmente messo in discussione l’ordine sociale, cosa che li differenziava dal misticismo – quello di Mastro Eickhart o Jacob Böehme4.

E che, si potrebbe aggiungere, ancora differenzia dai discorsi partitici, dalle speranze nel sole dell’avvenire e da tutte le altre filosofie utopistiche o politiche che hanno promesso, e ancora promettono, la felicità soltanto oltre un certo orizzonte, chi invece nelle lotte e nelle insurrezioni, dai movimenti ereticali alla Comune di Parigi oppure dal ‘68 e al ‘77, ha cercato e cerca ancora di realizzare l’ultramondano direttamente in questo mondo: qui, ora, adesso e subito. Per ognuno dei protagonisti di tutti quei movimenti, infatti, nessuna altra epoca è stata, è o potrà mai essere «come la nostra». Poiché la rivoluzione è viva mentre la si compie e soltanto “poi” sarà argomento di riflessione per gli storici o per i tutori dell’ordine. Anche di quello post-rivoluzionario. Così, una promessa magnifica è contenuta nelle storie di tutti quei rivoltosi, di ogni epoca, che sempre dovettero confrontarsi con tutte le forme e tutti i rappresentanti di ogni tipo di potere (ecclesiastico, nobiliare, borghese, giuridico, militare, scientifico, economico, fascista, stalinista e liberale).

[I millenaristi] Volendo realizzare il regno di Dio erano portati ad attaccare la radice dell’alienazione, il suo fondamento sulla terra. Eseguivano cioè il movimento inverso dell’alienazione: riconducevano sulla terra ciò che era stato esiliato in cielo […] La loro prima preoccupazione fu dunque di fondare delle città che dovevano essere l’imitazione della mitica Gerusalemme: Tábor, Münster, Canudos, i villaggi interamente ricostruiti in Melanesia durante i culti del Cargo.
Attinsero la propria ispirazione da quella parte dell’esperienza sociale ripiegata nella clandestinità: questa parte costituiva l’inconscio di una società, la somma delle sue angosce e delle sue aspirazioni che si esprimevano nei sogni e nei miti […]In tal modo, tutto ciò che veniva ricacciato nella clandestinità poteva riemergere alla luce del sole in na forma comunicabile. Le profezie costituivano un momento di questa comunicazione. Un’idea sotterranea vi trovava la sua eloquente espressione. L’unità della vita veniva così a essere ristabilita contro l’ordine sociale5.

Come rovesciamento delle pratiche della psichiatria moderna, la rivoluzione e l’insurrezione collettiva ribaltano l’impostazione basata sull’inconscio dell’individuo solitario, disperatamente solo con la propria sofferenza:

Freud considerava l’angoscia come pura tragedia individuale, anche se ammetteva che era un effetto della società esistente. Egli poté porre il problema in questo modo dato che l’individuo viveva in una società senza comunicazione. L’angoscia e la nevrosi non mostrano altro che l’assenza di comunicazione nella quale ciascuno è immerso; siamo dunque di fronte alla tragedia di una società disumana, cosa che Freud non disse. Per lui l’angoscia e la nevrosi son un affare individuale che non pone alcuna questione sociale. Con i profeti, l’angoscia acquisiva una funzione storica, venendo vissuta come una tragedia sociale e collettiva.
L’entusiasmo dei millenaristi era dunque basato su un’esperienza comune del cui significato si erano impadroniti. Erano sicuri di sé. E’ questo che rimproverano loro in maniera superficiale gli storici – non essendo in grado di scorgere cosa determinasse una simile certezza6!

Quella realizzazione immediata e terrena della felicità individuale e collettiva abbiamo, però, potuto continuare a intravederla nelle lotte, da Mirafiori alla Valsusa, da corso Traiano a Seattle, dai ghetti di Detroit e Los Angeles in fiamme fino alle università occupate e a Radio Alice e, perché no, nella rivoluzione portoghese dei garofani e, ancora, in tante battaglie definite superficialmente “di strada”. Tutti brevi, ma indimenticabili momenti di un’eternità condivisa che continua a manifestarsi in ogni angolo del mondo, ovunque la richiesta di felicità e giustizia si armi del coraggio e del desiderio necessari.

Un libro da leggere tutto d’un fiato e da conservare nella memoria, e possibilmente in biblioteca, per sempre.


  1. Sul collegamento tra Apocalisse e movimenti sociali di protesta o insurrezionali si vedano anche N. Cohn, I fanatici dell’Apocalisse, Edizioni di Comunità, Milano 1965 e R. Gobbi, I figli dell’Apocalisse, Rizzoli, Milano 1993.  

  2. Per chi volesse saperne di più a proposito di tale formazione di azione politica militante, si ricorda qui un altro testo prodotto dalla stessa: Os Cangaceiros, Un crimine chiamato libertà, edizioni NN/l’arrembaggio, Trieste- Torino – Catania 2003.  

  3. L. Balsamini, Prefazione a Yves Delhoysie, Georges Lapierre, L’incendio millenarista tra apocalisse e rivoluzione, Malamente/Tabor, Urbino-Valsusa 2024, pp. 10-11.  

  4. Ibidem, p. 531.  

  5. Ivi, p. 532.  

  6. ibid, p.533.  

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Quindici anni fa. Solo quindici https://www.carmillaonline.com/2018/04/05/quindici-anni-solo-quindici/ Thu, 05 Apr 2018 21:30:49 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=44564 di Giovanni Iozzoli

Nei giorni scorsi hanno commemorato l’anniversario della morte di Marco Biagi. Non ci avevo pensato, me ne sono ricordato solo la sera, guardando il Tg mentre cenavo. Sono rimasto un po’ interdetto vedendo le immagini di repertorio – il senso malinconico e inafferrabile del tempo che passa, delle immagini che si sgranano, dei morti che vengono periodicamente rievocati (nel caso di Biagi, pervicacemente, per l’uso abusivo del suo nome in relazione alla famigerata legge 30) e dei vivi sepolti e innominati, di cui nessuno sa più niente e nessuno vuol più sentire parlare. Morti e vivi nella medesima [...]]]> di Giovanni Iozzoli

Nei giorni scorsi hanno commemorato l’anniversario della morte di Marco Biagi. Non ci avevo pensato, me ne sono ricordato solo la sera, guardando il Tg mentre cenavo. Sono rimasto un po’ interdetto vedendo le immagini di repertorio – il senso malinconico e inafferrabile del tempo che passa, delle immagini che si sgranano, dei morti che vengono periodicamente rievocati (nel caso di Biagi, pervicacemente, per l’uso abusivo del suo nome in relazione alla famigerata legge 30) e dei vivi sepolti e innominati, di cui nessuno sa più niente e nessuno vuol più sentire parlare. Morti e vivi nella medesima linea di nebbia, foschia, ombra e indefinitezza.

Dov’ero io quando spararono a Biagi? Boh. Non mi ricordo. Nella fabbrichetta in cui sono ancora oggi, suppongo. Una sera di quasi primavera, in cui esci che c’è ancora luce. Ricordo bene, invece, che il sindacato ci chiese il giorno dopo di scioperare, per un’ora, “in difesa della democrazia”. La rivendicazione non era ancora arrivata ma tutti intuivano il senso di quelle pistolettate. Io, da delegato, durante la pausa caffè, dissi chiaro chiaro ai miei colleghi che non avrei scioperato – chi aveva voglia poteva anche farlo. Mi sarebbe sembrata un’intollerabile ipocrisia assumere un’altra posizione: per quanto sconosciuto al grande pubblico, si sapeva che Biagi era uno dei tecnici, consulenti e professori che avevano dedicato gli ultimi anni della loro esistenza a trovare il modo più efficace di licenziarmi e smontare diritti e tutele di una vita già abbastanza povera di entrambi. Perché avrei dovuto scioperare? La democrazia, per noi, era la difesa intransigente dell’art. 18 (ingenui sognatori, allora eravamo convinti che l’avremmo pure mantenuto). Delle “nuove BR” sapevo poco. Da vecchio militante, non avevo amato quelle “storiche” e non capivo quelle “nuove” – il senso di questa coazione a ripetere così cerebrale, questa costruzione tanto artificiosa da apparire prepolitica, testardamente idealistica, tenere in vita “l’idea della lotta armata” senza che la società ne rivendicasse in alcun modo la necessità. Quello era il 2003. Quindici anni fa.

Le immagini dei TG, nei filmati di repertorio, ripropongono frammenti della scena del crimine. Mostrano fogge, acconciature e abiti non più consueti: possibile che in 15 anni sia cambiato tutto? Sembrano facce fuori tempo, fuori stagione. Che stranezza. Dopo che il nucleo neo-brigatista venne sgominato, nell’operazione che condusse alla morte di Mario Galesi e del sovrintendente Emanuele Petri, emerse un’idea più chiara sulle ragioni dell’omicidio Biagi. Quell’anonimo professore non era stato scelto per il suo “ruolo di punta nei processi di ristrutturazione del mercato del lavoro”. E il ministro Scajola, con la sua franchezza da potente arrogante, ricordò a tutti l’opinione di governo sul suo peso di consulente (c’era una folla di giuslavoristi-questuanti, in fila davanti alle porte dei centri studi di Confindustria e del Ministero del Lavoro, in quegli anni). No, l’anonimo Biagi venne scelto, tra diversi, solo perché era un obiettivo relativamente facile, senza scorta, senza rischi, sul quale si poteva inscenare un’operazione a colpo sicuro, quasi una esercitazione militare – con tutto il fecondo strascico politico da mettere in valore. Una cosa schifosa. Scegliere “quella” vittima solo perché indifesa. Certo, qualche collega mi avrebbe fatto notare che anche loro, gli operai, erano in qualche modo indifesi davanti alle macchinazioni infernali dei “riformisti” – agli ammonimenti dei tecnici di Bruxelles, agli editoriali del «Corriere», ai ddl anti-operai depositati a grappolo in Parlamento. Ma la cosa non mi evocava facili equiparazioni. Un uomo indifeso è tale, al di là di quello che custodisce nella valigetta.

Quindici anni. Come passa il tempo. Molti dei colleghi che quel giorno scelsero di non scioperare (ah, ecco, ricordo: non scioperò nessuno) non ci sono più, approdati alla faticosa e agognata pensione, ognuno nella condizione che il tempo gli ha permesso, tra acciacchi, disillusioni e calcoli cervellotici. Gli altri sono ancora lì, in fabbrica, a contarsi gli spiccioli in tasca. Gli aumenti in paga oraria, negli ultimi rinnovi contrattuali, sono stati sostituiti da buoni benzina e altri moderni “benefit”. Gli anni sono passati come una schiacciasassi sulle vite della piccola gente: e l’esercito dei riformisti non ha fatto prigionieri – tutti, centro destra, centro sinistra, tecnici, rottamatori, tutti hanno provveduto scrupolosamente a bonificare quelle “sacche di socialismo” (cfr. Cossiga, buonanima) rappresentate da quella che era la nostra residua dotazione di diritti e poteri. Siamo stati sgominati anche noi – anche se non eravamo propriamente un nucleo, ma una cospicua massa di uomini e donne, illusi dalla convinzione che, tutto sommato, data la perdurante ostinata buona condotta, i padroni e i loro ascari non avrebbero infierito ancora e ancora e ancora sulla nostra condizione.

No, non sciopererei neanche oggi. Né mi auguro il ritorno di vendicatori e vittime. Mi piacerebbe, però, che esistesse un tempo e un luogo in cui, se non proprio “caro e tutto”, riuscissimo comunque a far pagare qualcosa a qualcuno. Ma anche questo della resa dei conti è un tema puerile, un barlume di consapevole impotenza, probabilmente un inizio di senilità.

Nadia Desdemona Lioce, ergastolana, è sotto processo per aver sbattuto una bottiglietta di plastica sulle grate della sua cella – una specie di disturbo della quiete carceraria, o qualcosa del genere. Protestava perché il suo 41 bis le impedisce di detenere troppe carte, penne, libri. Le impedisce di comunicare, di parlare, di scrivere, le impedisce tutto – tranne il diritto di impazzire, di disgregare l’identità e la memoria del suo essere stata donna, rivoluzionaria, persona. Chissà se la condanneranno anche per la faccenda della bottiglietta.

Bruno Fortunato, l’agente ferito nella sparatoria sul treno, nel corso della quale la Lioce fu arrestata, si è invece suicidato un po’ di anni fa. Senza una ragione – o forse carico di ragioni a noi insondabili. Di solito il suicidio tocca ai prigionieri, agli sconfitti, non a chi sta nell’elenco degli eroi e dei servitori dello Stato. Vai a capire i destini, gli incroci, i significati esoterici delle vite ordinarie. Nel 2005 dichiarò a «Repubblica» che il suo rammarico più grande era stato quello di non essere riuscito ad ammazzare Nadia Lioce. Non ce ne sarebbe stato bisogno. Di lei sopravvive solo la sua condizione, immutabile, di prigioniera, di corpo in ostaggio – di testimone silenziata del brandello finale di una storia. Morire su quel treno non sarebbe stato il modo peggiore di morire.

Intanto le faccende italiane vanno pigramente avanti. Chi ha avuto ha avuto – commemorazioni o ergastoli, il passato ormai sta solo nei telegiornali, perché il declino civile e culturale in questi anni è stato tale da riprodurre solo un eterno posticcio presente. La povera gente crede di vendicarsi delle élite votando Grillo e Salvini, in un crescendo di equivoci e illusioni. La legge Biagi è stata surclassata dalla ricca produzione legislativa successiva. Qualche scritta stizzita sui muri vorrebbe guastare la festa e fare da controcanto alle narrazioni ufficiali. Ma serve un’altra mano per riscrivere la storia; una mano enorme, gigantesca, capcae di stringersi a pugno quando serve, ma abbastanza forte, intelligente e autorevole, da costruire giustizia, facendo a meno dei giustizieri.

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Quante volte dovrà ancora essere ucciso Giulio Regeni? https://www.carmillaonline.com/2016/02/09/quante-volte-dovra-ancora-essere-ucciso-giulio-regeni/ Mon, 08 Feb 2016 23:01:01 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=28531 di Sandro Moiso

giulio regeni Ce lo porteremo dentro con il ricordo di un volto giovane, bello, simpatico ed intelligente. Un volto come quello di tantissimi giovani che sono morti negli ultimi decenni a causa della violenza terroristica promossa dagli Stati e dai loro tutori del disordine. Perché Giulio Regeni non è morto soltanto in qualche squallida stanza usata dai servizi segreti di Al Sisi per torturare, seviziare ed uccidere gli oppositori di un regime autoritario, sanguinario, corrotto e bugiardo.

Giulio è morto nell’indifferenza italiana verso le reali condizioni di vita e di lavoro in un paese alleato di cui l’Italia [...]]]> di Sandro Moiso

giulio regeni Ce lo porteremo dentro con il ricordo di un volto giovane, bello, simpatico ed intelligente. Un volto come quello di tantissimi giovani che sono morti negli ultimi decenni a causa della violenza terroristica promossa dagli Stati e dai loro tutori del disordine.
Perché Giulio Regeni non è morto soltanto in qualche squallida stanza usata dai servizi segreti di Al Sisi per torturare, seviziare ed uccidere gli oppositori di un regime autoritario, sanguinario, corrotto e bugiardo.

Giulio è morto nell’indifferenza italiana verso le reali condizioni di vita e di lavoro in un paese alleato di cui l’Italia è il primo partner commerciale europeo.1 Giulio è morto per le sue idee e per la sua volontà di capire ed informare sulla realtà di quelle “primavere arabe” di cui si è parlato molto a vanvera, ma senza mai distinguere tra area e area, paese e paese, economia ed economia. Giulio è morto così come muore la ricerca, quella vera. Quella che il capitale ed il potere, a ogni latitudine, cercano di soffocare e vietare. Quella in cui il concetto di “classe” esiste ancora e non è stato rimosso con artifici mediatici ed ideologici.

Giulio è morto per la scienza, quella sociale, e per la passione, quella per la giustizia. Che stanno alla base di ogni ricerca della verità. Che è tipica dell’entusiasmo giovanile e che non appartiene ai gazzettieri che declamano che Giulio potrebbe essere stato arrestato “per sbaglio” oppure perché ritenuto “una spia”. E che non appartiene a tutti coloro che trovano stupido ed insulso occuparsi degli “affari altrui” a meno che questi ultimi non siano rigidamente relegati a livello di gossip.

Giulio è morto con le centinaia di attivisti egiziani scomparsi, di cui cinquecento soltanto nello scorso anno,2 e di cui non è più stato ritrovato né corpo né traccia. E sui quali è stato mantenuto il silenzio della stampa occidentale, fino ad oggi, in nome di una sacra alleanza che è servita non a combattere l’Isis e i suoi mandanti, ma soltanto ad impedire la formazione e lo sviluppo di una reale alternativa di classe.

Giulio ha cominciato a morire ancora prima di nascere, nell’Argentina della tripla A e dei generali golpisti che hanno fatto sparire un’intera generazione nel disinteresse nazionale ed internazionale e di quel PCI che, dopo aver liquidato le stragi cilene con la bella trovata del “compromesso storico”, ignorò quegli avvenimenti in nome della lotta al terrorismo; così come il PD di oggi vorrebbe poter fare per mandare avanti i propri affari interni ed internazionali. E poi è morto in Messico con gli studenti, le donne e i giornalisti massacrati dai narcos e dal governo.

Giulio è morto a Genova a fianco di Carlo Giuliani. Giulio è stato torturato nella scuola Diaz e nella caserma di Bolzaneto, i cui responsabili sono ancora impuniti perché in Italia non esiste il reato di tortura. Il corpo di Giulio ha riportato lividi, contusioni, fratture, sevizie come quelli di Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi, Giuseppe Uva e molti, troppi altri, vittime della violenza di Stato e dell’indifferenza. Vittime di un conformismo generalizzato che, fidandosi per viltà delle parole di leader tutti altrettanto corrotti, differenzia la democrazia dai regimi tirannici soltanto sul presupposto, mai dimostrato, che i governi occidentali siano i migliori.

Giulio è morto al Bataclan e nelle banlieue parigine dove i giovani della stessa età finiscono con l’imboccare strade diverse ed assassine nel vuoto di una proposta politica e morale che lascia spazio soltanto all’estremismo reazionario, all’integralismo religioso in ogni sua variante, giudaico-cristiana o islamica, oppure all’indifferenza esistenziale. Giulio è morto nella recente proposta fatta alle Nazioni Unite dal segretario Ban Ki Moon per un piano globale di azione contro il terrorismo e l’estremismo;3 il cui vero obiettivo sembra essere quello di rafforzare e rendere più efficaci le istituzioni nella loro azione di repressione nei confronti di qualsiasi dissenso che potrebbe essere, da ora in poi e come spesso in passato, equiparato al terrorismo.

Giulio è morto sotto le manganellate in Val di Susa e nella repressione di ogni lotta in difesa della specie e dell’ambiente. Giulio è morto nelle parole e sulla bocca di tutti i politici italiani ipocriti e corrotti che oggi fingono dolore per la sua morte e per la sorte di milioni di giovani disoccupati. Giulio è morto al family day e nelle parole di odio e disprezzo pronunciate contro ogni tipo di diversità . Giulio ha subito le ingiurie subite dagli omosessuali aggrediti per strada e nelle aggressioni subite dalle donne ovunque.

Giulio è morto con i bambini affogati nel Mar Egeo e in tutto il Mediterraneo. Giulio è crollato insieme ai migranti fermati ai confini d’Europa o rinchiusi nei campi profughi turchi. E’ morto con i Palestinesi condannati ad un inverno di freddo nella striscia di Gaza e con i Curdi aggrediti dai Turchi e dall’Isis nel Rojava e nel sud-est della Turchia. Giulio è morto con i finanziamenti e la fiducia rinnovati ad un presidente-dittatore come Erdogan e nell’alleanza con gli stati più retrivi ed oppressivi del Golfo.

E’ morto per una materia prima, il petrolio, che non vale più un cazzo 4 e il cui modello di sviluppo è stato sempre e soltanto motivo di guerre, di inquinamento e di morte. Giulio è morto ammazzato.
Ma quante volte dovrà ancora morire? Quanti, giovani e no, saranno ancora uccisi per difendere, con la violenza giustificata dalla ragione di Stato, un modo di produzione fallimentare e distruttivo al quale cercano ancora coraggiosamente di opporsi?


  1. http://www.infomercatiesteri.it/bilancia_commerciale.php?id_paesi=101  

  2. http://www.repubblica.it/esteri/2016/02/06/news/egitto_desaparecidos-132828753/?ref=HRER1-1  

  3. Ban Ki Moon, Un piano globale contro il terrorismo e l’estremismo violento, Corriere della sera , 3 febbraio 2016  

  4. http://www.repubblica.it/economia/finanza/2016/02/06/news/arabia_saudita_crolla_petrolio_costretta_a_chiedere_un_prestito-132809487/  

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L’ultimo narcos: epopea e segreti del Chapo Guzmán https://www.carmillaonline.com/2016/01/30/lultimo-narcos-epopea-e-segreti-del-chapo-guzman/ Fri, 29 Jan 2016 23:00:32 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=28358 di Fabrizio Lorusso

chapo pensoso[La narrazione viaggia su cinque capitoli, intervallati da alcuni video e foto. Si può pure saltare da uno all’altro in caso di necessità. Indice: 1. Il Cartello  2. Ayotzinapa  3. La terza cattura  4. Estradizione?  5. Triangolo: Kate del Castillo, Sean Penn e “El Chapo” Guzmán]

“A cosa starà pensando El Chapo?” Questa semplice domanda, contenuta in un tweet del giornalista messicano Diego Enrique Osorno diventa virale la sera dell’8 gennaio. Sono passate poche ore dalla cattura, la terza, del narcotrafficante [...]]]> di Fabrizio Lorusso

chapo pensoso[La narrazione viaggia su cinque capitoli, intervallati da alcuni video e foto. Si può pure saltare da uno all’altro in caso di necessità. Indice: 1. Il Cartello  2. Ayotzinapa  3. La terza cattura  4. Estradizione?  5. Triangolo: Kate del Castillo, Sean Penn e “El Chapo” Guzmán]

“A cosa starà pensando El Chapo?” Questa semplice domanda, contenuta in un tweet del giornalista messicano Diego Enrique Osorno diventa virale la sera dell’8 gennaio. Sono passate poche ore dalla cattura, la terza, del narcotrafficante più ricercato al mondo, Joaquín Archivaldo Guzmán Loera, capo dell’organizzazione criminale di Sinaloa. Più conosciuto ormai per il suo alias, “El Chapo”, ossia il tozzo o tarchiato, il capo rinchiuso è diventato un numero: prigioniero 3870 del penitenziario di massima sicurezza El Altiplano, prima La Palma. Nel tweet di Osorno è incorporata una delle foto diffuse dalla stampa dopo l’arresto. Guzmán sta seduto al suo posto vicino al finestrino, in canotta, con lo sguardo perso nel vuoto e la testa reclinata sul vetro. Pensoso, con un suo scagnozzo affianco, e provato dopo un risveglio di sparatorie e fuggifuggi. Il cartello di Sinaloa, conosciuto anche come del Pacifico o Federazione, è l’organizzazione criminale più potente del continente americano e probabilmente del mondo. Muove la gran parte dell’eroina, della cocaina, della marijuana e delle droghe sintetiche negli Stati Uniti e ha espanso le sue attività illegali nel pregiato mercato europeo, in Asia e in Oceania, dove i prezzi degli stupefacenti crescono ancora promettendo lauti guadagni. Il cartello di Sinaloa la fa da padrone nella spartizione di una torta globale psicotropica stimata tra i 300 e i 400 miliardi di dollari. E’ forte a New York come a Buenos Aires ed è presente in ogni grande città tra queste due. Al di là del tradizionale business delle droghe, i cartelli messicani hanno diversificato le loro attività delinquenziali orizzontalmente, cioè si dedicano al contrabbando di metalli preziosi e petrolio, al commercio di armi e alla tratta di persone, al traffico di migranti, all’estorsione, al sequestro di persona, al riciclaggio, e a un’altra dozzina di tipologie criminali.

Capitolo 1. Il Cartello

winslow cartelLe aree degli affari mafiosi non dipendono da una sola persona ma da reti, franchigie, gruppi, bande, strutture, organizzazioni, connivenze e associazioni che tendono a persistere: morto un Papa, cioè un boss, o smantellato uno degli anelli della catena, se ne fanno altri o altri già ne esistono, mentre i flussi globali di merci e servizi seguono il loro corso. In seguito all’arresto di un capo o allo smantellamento del grosso delle sue reti, possono avvenire scissioni o ristrutturazioni all’interno dell’organizzazione. Alcuni gruppi, clan o famiglie provano a “lavorare in proprio” o si specializzano in uno o più business criminali su cui avevano acquisito un vantaggio competitivo.

Circolano queste ipotesi circa le possibili future evoluzioni del cartello di Sinaloa che, sia ora sia nel precedente periodo di incarceramento del Chapo (febbraio 2014-luglio 2015), ha continuato a funzionare “normalmente” vista la solidità dei suoi affari e delle sue ramificazioni. E grazie anche ad altre leadership consolidate: c’è Ismael “El Mayo” Zambada, suo figlio “El Vicentillo”, attualmente neutralizzato e in carcere negli USA, i figli di Joaquín Guzmán o vecchie glorie come Rafael Caro Quintero che, nel silenzio, potrebbe essere tornato in attività dopo la sua liberazione nel 2013. E infine c’è anche “El Azul”, Juan José Esparragoza Moreno, capo storico dato per morto nel giugno 2014 ma che pare possa essere redivivo secondo varie fonti.

Infine, come sostiene lo scrittore noir americano Don Winslow, autore dei bellissimi Il potere del cane (2005) e Il cartello (2015), c’è e lì resta il Cartello, inteso non solo come l’organizzazione criminale, ma anche come tutto quello che ci sta intorno e la fa funzionare, ossia gli apparati dello stato, le polizie e i politici implicati nel contrabbando di stupefacenti o nella protezione di tali illeciti commerci (ascolta qui un’interessante intervista del giornalista di RSI Daniel Bilenko allo scrittore).

Missione compiuta? E Gisela Mota, la sindaca ammazzata?

gisela mota“Missione compiuta: ce l’abbiamo. Voglio informare i messicani che Joaquín Guzmán Loera è stato arrestato”. Arriva alle 12:19 PM – 8 Jan 2016 il cinguettio di @EPN, account twitter del presidente del Messico Enrique Peña Nieto. Per lui e il suo esecutivo è un momento di rivincita e festeggiamenti, mentre le voci critiche parlano di una “finzione compiuta”, alludendo alle incoerenze nelle narrazioni che si susseguono ora dopo ora, alle filtrazioni premeditate di informazioni e dettagli, secondo un copione occulto, e infine alla pomposità dello spettacolo presidenziale riprodotto dalle TV.

Tra l’altro la ricattura del boss arrivava proprio in un momento delicatissimo, con un timing e una precisione impressionanti. Il 2 gennaio, infatti, veniva uccisa Gisela Mota, neosindaca di Temixco, vicino a Cuernavaca, nella regione del Morelos, da un commando armato di presunti narcos del gruppo dei Los Rojos. Questi, come i tristemente famosi Guerreros Unidos, sono una cellula scissionista dell’ex potente cartello dei fratelli Beltrán Leyva, a loro volta fuoriusciti da quello di Sinaloa nel 2009.

La notizia del crudele assassinio, perpetrato nella casa della giovane funzionaria nel secondo giorno del suo mandato di fronte ai suoi familiari, ha fatto il giro del mondo, mettendo nei guai il governo e il presidente, giusto nel mese in cui si preparava la sfilata nella vetrina del World Economic Forum. In terra azteca sono un centinaio i presidenti municipali, come sono chiamati i sindaci nei comuni, ammazzati negli ultimi dieci anni. Gisela non s’era piegata ai dettami della delinquenza organizzata della zona, sempre più confusa e infiltrata nelle polizie locali e statali. Graco Ramírez, governatore del Morelos, ha approfittato del femminicidio mafioso per assumere pieni poteri sulle polizie dei comuni, il che di per sé non risolve le gravi disfunzioni di questi corpi corrotti, putrefatti. Di fatto gli osservatori più attenti, tra cui il poeta attivista Javier Sicilia, attribuiscono proprio all’incapacità e ai contuberni del governo statale la deriva violenta degli ultimi cinque anni. Si protegge il crimine organizzato, i suoi affari e i loro complici nella funzione pubblica, ma non si tutelano gli amministratori e i politici onesti che sono minacciati.

Quando in Italia e in Colombia la violenza crebbe sproporzionatamente fino a toccare il cuore del mondo politico e dell’élite, lo scossone cominciò a smuovere l’opinione di coloro che vivevano nel e del sistema politico-mafioso e della classe dirigente nel suo complesso. Il dilemma era diventato: o noi, o loro. E quindi arrivarono misure d’emergenza e maxiprocessi. E’ la spiegazione del paradosso che hanno vissuto questi paesi a detta dell’accademico Edgardo Buscaglia. In Messico, invece, gli assassini politici a tutti i livelli non hanno provocato nessuna reazione complessiva e decisa del sistema e nel sistema, per cui la violenza pare inarrestabile.

chapo entrevistaEcco che allora prendere il Chapo diventa strategico, vitale, di fronte all’opinione pubblica mondiale. Le critiche per l’insicurezza e l’indignazione per l’ennesimo crimine di stampo mafioso vengono smorzate e, almeno momentaneamente, dimenticate dinnanzi allo show del jefe de jefes che viene scortato nell’aeroporto Benito Juárez della capitale. L’intervista dell’attore Sean Penn al Chapo, che esce sulla rivista Rolling Stone il 9 gennaio, e la persecuzione contro lo stesso Penn e l’intermediaria dell’incontro, Kate del Castillo, fungeranno da distrazione massiva per tutto gennaio e oltre, mentre la memoria di Gisela Mota e delle altre vittime della narcoviolenza e del narco-stato solo viene difesa da parenti, movimenti sociali e media indipendenti.

Il 22 febbraio del 2014 il capo sinaloense era stato imprigionato, ma il 12 luglio di un anno dopo era riuscito a fuggire clamorosamente dal carcere di “massima sicurezza” El Altiplano, nei pressi della capitale, grazie a un tunnel di un chilometro e mezzo scavato sotto la prigione. Fu uno sberleffo per i responsabili della sicurezza e specialmente per il governo che dal momento del suo insediamento, nel dicembre 2012, ha provato a costruire di fronte al mondo l’immagine di un Paese sicuro e moderno, pronto ad accogliere investimenti e capitali offrendo le garanzie di un vero stato di diritto e d’una economia dinamica. Che poi in soldoni non si traduce in sicurezza sul lavoro, diritti, certezza della legge e responsabilità sociale, come il discorso ufficiale ambiguamente prova a comunicare, ma in una forza lavoro sottopagata, ricattabile e “ben disciplinata”, in vantaggi fiscali enormi per le multinazionali, nella privatizzazione di educazione, salute e beni comuni e infine nell’apertura allo sfruttamento delle risorse naturali, in primis quelle minerarie ed energetiche.

Capitolo 2. Ayotzinapa

Di lì a poco, il 26 settembre, la “notte di Iguala” avrebbe nuovamente e definitivamente stravolto i sogni di gloria dell’esecutivo, rivelando le trame della narco-politica e della narco-polizia, così come la volontà di governo e procura di sotterrare il caso, occultare responsabilità e adulterare le indagini. Ma ormai non si poteva più lasciare all’oscuro il grosso dell’opinione pubblica nazionale e internazionale e i genitori dei 43 ragazzi, sostenuti da un solido e indignato movimento di protesta, sono diventati subito una spina nel fianco, ancor più di quanto non lo fosse stata la fuga del boss più ricercato e ricco del mondo (leggi qui gli articoli su Iguala-Ayotzinapa).

Tanto in là s’è spinta la brama di manipolare, prima, e chiudere, poi, il caso, oltreché di zittire le proteste e le voci discordanti, che è stata creata una confusa “verità storica”, sbandierata messianicamente come “buona e giusta” dall’ex procuratore Jesús Murillo Karam. Era invece fallace e menzognera, un insulto. L’effetto boomerang è stato dirompente e il movimento di sostegno ai genitori di Ayotzinapa e alle vittime di sparizione forzata, tra cui si contano migliaia di centroamericani, oltre che 30mila messicani, s’è internazionalizzato e rinforzato, malgrado le continue denigrazioni mediatiche e la repressione fisica di attivisti e giornalisti.

Gli studenti restano desaparecidos, cioè in un limbo burocratico e ontologico tra la vita e la morte, introvabili, per cui campeggiano i loro volti e i loro nomi, giganti di dignità e lotta, per le strade e le piazze, come a simboleggiare e denunciare le infinite impotenze e corruzioni strutturali dei diversi apparati statali coinvolti nei delitti commessi contro di loro. Il rischio che venga riconosciuto internazionalmente il crimine di lesa umanità per il caso Iguala-Ayotzinapa è alto e concreto e il presidente, che è capo supremo delle forze armate, ne dovrebbe rispondere direttamente. I pochi “punti d’immagine” che gli restano sarebbero immediatamente seppelliti in una delle tante fosse comuni dell’oblio, colme di ossa e segreti di stato, di cui per lungo tempo s’è voluta negare financo l’esistenza. Ma prima di tornare al Chapo…

Ayotzi 2016Breve aggiornamento

Al termina di una carovana che ha portati in 15 stati della repubblica messicana, il 26 gennaio 2015, a 16 mesi dalla sparizione dei loro figli, i genitori di Ayotzinapa e i movimenti solidali hanno marciato per le strade di Città del Messico e hanno chiamato i collettivi all’estero a realizzare una giornata globale di protesta. La rivista Proceso ha pubblicato un reportage che mostra come vi sia del materiale audiovisuale importantissimo per il caso che è estato lasciato fuori dalle indagini ufficiali e come nella notte del 26 settembre 2014 il C4 (Centro di Controllo, Comando, Comunicazione e Computer) di Iguala fosse controllato da militari. Stiamo parlando del più importante snodo per il commercio di oppiacei ed eroina del continente americano. Iguala e i vertici del “pentagono dell’oppio” messicano nello stato del Guerrero sono vigilati da distaccamenti militari, ben informati circa i flussi che vi transitano. Le forze armate sono state protette dal governo durante le indagini e sono blindatissime per cui non è possibile interrogare nessuno dei militari che erano presenti durante i massacri e le desapariciones della notte di Iguala. Nel video occultato dalle autorità si nota chiaramente il passaggio di un convoglio composto da varie auto della polizia e, tra queste, vi sono altri veicoli che potrebbero essere “ufficiali” e avere a bordo funzionari pubblici. Viene quindi confermata la natura organizzata e complessa dell’operazione contro gli studenti sopravvissuti, le vittime e i desaparecidos di Ayotzinapa. Il 5 e 6 febbraio si svolgerà il Primo Incontro Nazionale dell’Indignazione, convocato dai genitori di Ayotzinapa e dai gruppi solidali, per articolare un fronte nazionale di lotta comune.

 

Capitolo 3. La terza cattura

chapo capturado“Burla e sfida”, furono le parole usate da Peña dopo la fuga di luglio. La sua credibilità cadde in picchiata, il mito del narcos Guzmán si consolidava. Invece la sera di venerdì 8, in attesa di una risalita negli indici di gradimento, il presidente appare raggiante di fronte alle telecamere. Declama sorridente la riacquisita solidità di quelle stesse istituzioni che, pochi mesi prima, s’erano mostrate porose e corrotte nel custodire e lasciar scappare il jefe de jefes. Certo, adesso i complimenti veri vanno alla Marina, probabilmente l’apparato meno corrotto e più efficiente nel Messico della narcoguerra, ma vengono profusi altresì elogi e complimenti a tutte le istituzioni e in generale a presunti miglioramenti nello stato di diritto.

Peña s’è vantato dei 98 arresti compiuti dei 122 “obiettivi criminali” prioritari nel Paese. L’opinione pubblica invece si chiede come mai i mercati delle droghe illecite siano fiorenti come mai prima e la violenza di omicidi, sparizioni forzate e sequestri di persona non dia cenni di cedimento. La guerra alle droghe, così com’è stata concepita sin dai tempi di Nixon negli anni ’70, è una sfida persa in partenza. Ciononostante il trionfalismo di Osorio Chong, il ministro degli interni, è imperturbabile: “Oggi il cartello di Sinaloa è totalmente un altro”. “Gli Zetas e il Jalisco Nueva Generación sono polverizzati”, ha chiosato al quotidiano La Jornada provando a ridisegnare a modo suo la mappa del crimine organizzato in Messico. Nel 2015 gli omicidi dolosi hanno superato la cifra di 18mila, in crescita rispetto ai due anni precedenti in cui c’era stato un calo. I desaparecidos sono ufficialmente quasi 27mila, ma Ong e associazioni della società civile ne contano oltre 30mila. L’Ufficio delle Dogane e il Controllo di Frontiera statunitense (CBP, in inglese) in un rapporto del 2010 spiegava che la cattura dei narco-boss non colpisce la dinamica del narcotraffico che, al contrario, vive e si rinnova anche grazie al ricambio dei vertici.

La procuratrice generale della repubblica, Arely Gómez, ha annunciato il ritorno di Guzmán nello stesso reclusorio in cui si trovava prima della fuga, El Altiplano. Ci resterà almeno un anno, mentre s’attendono i risultati dei processi di estradizione negli USA e i vari ricorsi che i suoi avvocati stanno già inoltrando a ripetizione. L’operazione di cattura della Marina messicana è durata alcune ore e il bilancio finale è di un militare ferito, cinque presunti delinquenti uccisi e sei arresti. El Chapo, raggiunto dai marines in una delle sue case-nascondiglio (casa de seguridad, in spagnolo) a Los Mochis, città costiera dello stato del Sinaloa, s’è inizialmente addentrato nei condotti delle fognature per poi riemergere da un tombino nel bel mezzo di un viale e rubare un’automobile. Non era un copione nuovo. Lo accompagnava Orso Iván Gastélum Cruz, alias “El Cholo”, sicario al suo servizio. Con il mezzo sono riusciti ad allontanarsi prima di essere fermati dalla polizia federale. Dapprima i due hanno cercato di corrompere i poliziotti, senza successo. Poi, una volta ammanettati, sono stati condotti in un motel dove i marines li hanno chiusi in una stanza e fotografati in attesa dei rinforzi.

Anche El Cholo è un personaggio interessante, di certo non un novellino: era già stato preso il marzo scorso a Guamúchil, in Sinaloa, e nel 2008 era evaso dal carcere di Culiacán. Il 24 novembre 2012 la reginetta di bellezza Miss Sinaloa venne crivellata durante uno scontro a fuoco tra i pistoleri di Gastélum e l’esercito. Restano ignote le ragioni per cui, dopo l’arresto solo pochi mesi fa, già si trovasse di nuovo in libertà e operativo affianco al suo mentore. La città de Los Mochis, una delle più prospere del Nordovest messicano, vive dal 2009 l’incubo della violenza scatenata dalla scissione tra il cartello di Sinaloa e quello dei fratelli Beltrán Leyva, ormai decadente a livello nazionale ma forte e presente in città. La cattura del Chapo minaccia di far esplodere reazioni a catena che rischiano di mettere a ferro e fuoco l’intera zona.

Trofeo e narco-capitali

MLOS MOCHIS, SINALOA, 08ENERO2016.- En un operetivo realizado por la Marina Armada de México durante la madrugada, fue recaptrado Joaquín "El Chapo" Guzman Lorea. FOTO: ESPECIAL /CUARTOSCURO.COMFOTO: Cuartoscuro ESPECIAL /CUARTOSCURO.COM

Gli USA vogliono El Chapo e ne hanno chiesto l’estradizione il 25 giugno scorso, poco prima della sua fuga. Non se lo sono portati via subito dopo l’arresto per via dello zelo e prontezza dei suoi avvocati che si sono dati da fare sin da prima della cattura. E’ ricercato in sei corti statunitensi per reati di crimine organizzato, traffico di droga, riciclaggio e omicidio, tra gli altri.

Guzmán e Zambada, quest’ultimo ancora a piede libero, sono accusati di 21 reati e le procure sperano di recuperare capitali stimati tra i 4 e i 14 miliardi di dollari, in buona parte ricavati dal traffico di una quantità di cocaina che va da 127 a 465 tonnellate tra il 1999 e il 2014. In Messico un altro grande interrogativo riguarda proprio i patrimoni dei capi estradati. Il rischio di perderli è altissimo, dato che non vengono sequestrati a tempo debito, e dunque la beffa per una società violentata dalla narcoguerra e poi espropriata dei proventi del traffico illecito diventa doppia. La rivista Forbes stimava il patrimonio del Chapo in un miliardo di dollari, chi, o quale governo, riuscirà mai a recuperarne anche solo una quota?

Molti capitali sono già nei circuiti legali, ma non vengono né tracciati né, in caso, sequestrati. Men che meno si riutilizzano socialmente in beneficio delle comunità colpite dalla violenza. E’ il paradiso dell’impunità imprenditorial-criminale, finanziaria e del riciclaggio. Decine di imprese legalmente costituite, anche se legate all’organizzazione criminale, funzionano coll’annuenza o le sovvenzioni dello stato e non sono sottoposte a auditing tributario. L’esperto Edgardo Buscaglia, autore di un libro sul riciclaggio del denaro sporco, sostiene che “non si mette mano al patrimonio del cartello di Sinaloa perché la stessa classe politica ha paura di farlo visto che ci sarebbero ripercussioni sul finanziamento delle campagne elettorali”. Inoltre, sul tema dell’estradizione, Buscaglia ritiene che sarebbe l’ammissione del collasso dello stato messicano e che “se succede, nel processo giudiziario il PM americano si concentrerà sui delitti commessi negli USA e non coinvolgerà la classe politica messicana […] cioè coinvolgerà alcuni imprenditori messicani e statunitensi ma non la classe politica nel suo insieme”.

chapo sierra esconditeContro la brama statunitense di mettere le mani sul loro cliente gli avvocati del boss difendono coi cosiddetti “amparos”, strumenti legali del diritto messicano che bloccano temporaneamente i processi per tutelare i diritti dell’accusato. Dunque ci potrebbero volere mesi o anni, sempre che la volontà politica del capo dell’esecutivo si orienti per l’estradizione. La PGR, Procura Generale della Repubblica, vi s’era opposta nel 2014, ma ora ha cambiato opinione, così come l’esecutivo di Peña che comunica posizioni possibiliste. E d’altronde è una scelta quasi obbligata, dopo quanto è successo. “Non ci sono prigioni adatte al Chapo in Messico”, ha sentenziato a ragione il giornalista e specialista di criminalità organizzata Ricardo Ravelo. “La notizia dell’arresto è stata una sorpresa all’inizio perché nessuno credeva che lo stessero cercando dopo la sua fuga che, a detta di molti dentro e fuori dal Messico, era stata quasi pattuita”, ha spiegato a caldo dopo l’arresto al sito Aristegui Noticias. “Più che un colpo della Marina, sembra che ci sia stato un errore di logistica del team di Guzmán”, ha aggiunto.

Tra burocrazie e ritardi, oltre ai dovuti passaggi legali, El Chapo avrà il tempo per provare a fuggire di nuovo trovando spiragli nelle maglie del sistema penale e carcerario. Oppure per negoziare con calma un accordo con gli Stati Uniti da un posizione di forza, magari in seguito a una ammissione di colpa e al pagamento di una multa milionaria. Ci sta lavorando su la sua squadra di difensori: erano ben sette nel 2014, ma ora ne sono stati ratificati solo due. D’altronde un’estradizione fast track violerebbe i diritti del boss e sarebbe l’ammissione dell’impotenza di una lunga serie di istituzioni messicane, ossia il contrario di quanto ha cercato d’affermare il governo dopo la sua cattura.

A cosa starà pensando El Chapo? Era la domanda iniziale. Di certo l’elaborazione di un nuovo piano di fuga è un’ipotesi plausibile, nonostante i notevoli mezzi messi in campo per la sicurezza della cella e dell’intero penitenziario: un centinaio di federali all’esterno e trentacinque custodi all’interno, cinque filtri di controllo e due elicotteri all’esterno e persino un mastino (con la museruola) all’interno. Il boss sinaloense, almeno per il momento, non gode più delle prerogative che aveva in prigione nel 2014, cioè le visite intime di sua moglie, la ventiseienne Emma Coronel, la televisione con casse acustiche e non con le cuffie e incontri più lunghi del normale coi suoi avvocati-messaggeri. In alcune occasioni aveva anche ricevuto visite di una deputata dello stato del Sinaloa, Lucero Guadalupe Sánchez, del partito conservatore Acción Nacional, la quale s’era introdotta con documenti falsi e, secondo le versioni giornalistiche dei fatti, aveva una relazione sentimentale con El Chapo.

Capitolo 4. Estradizione?

chapo pena nietoCi sono motivi validi contro l’estradizione. Da una parte il governo cerca di difendere almeno una qualche parvenza di autonomia e sovranità nella sua relazione col Paese vicino, dall’altra esiste il rischio concreto che un capo storico come Guzmán possa trasformarsi in collaboratore di giustizia negli USA e rivelare le complicità nel mondo politico e imprenditoriale che gli hanno permesso di evadere due volte e di creare un’organizzazione criminale tra le più potenti del mondo, presente in 59 paesi. In questo caso si scoperchierebbe un vaso di Pandora che potrebbe provocare un collasso del sistema politico messicano, oppure, vista la capacità di persistenza dell’élite al potere, solo qualche rimpasto e giustificazione da sotterrare col sostegno dei mass media “amici” alla prima occasione. El Chapo potrebbe testimoniare addirittura contro alcuni membri della sua stessa organizzazione, ormai usciti dalle sue grazie, in cambio di sconti di pena e altri benefici. Si vedrà, ma intanto c’è ancora tempo prima che la giustizia americana e la messicana seguano il loro corso. C’è tempo anche per digerire la massa di opinioni e dichiarazioni che nei cinque continenti cercano di spiegare questo arresto e le complesse evoluzioni della “guerra alle droghe”.

La fuga del trafficante sinaloense nel luglio 2015 aveva provocato un problema di stato, comparabile solo alla crisi di legittimità provocata dal caso dei 43 studenti di Ayotzinapa e dalla conseguente emersione delle trame della narco-politica. Quindi, così come era successo con la “versione storica” delle autorità sui 43, la cattura del Chapo viene ora esibita come un successo, un trofeo, ma potrebbe trasformarsi in un nuovo incubo per l’intera classe politica e generare un effetto domino dalle conseguenze imprevedibili. Inoltre per l’evasione dell’anno scorso sono sotto processo solo pesci piccoli dell’amministrazione del carcere e quel gravissimo scandalo sta rientrando senza grossi scossoni.

ESTRADIZIONE BOSS MESSICOLa logica e gli argomenti del governo messicano in tema di estradizione dei baroni della droga sono state storicamente erratiche e poco incomprensibili: il leader del cartello del Golfo è stato inviato negli USA, ma un suo successore, Eduardo Costilla “El Coss”, è rimasto in Messico; quando era possibile farlo, Guzmán Loera non è stato estradato, mentre il figlio e il fratello de “El Mayo” Zambada sì (vedi infografica di Insight Crime). Un caso clamoroso è quello del ex capo del cartello di Guadalajara Rafael Caro Quintero, coinvolto nell’omicidio dell’agente americano della DEA (Drug Enforcement Administration) Enrique Camarena nel 1985, poi condannato e imprigionato, il quale è stato liberato “per motivi tecnici” da una corte messicana nel 2013. Ora è latitante. Lo stupore e l’indignazione statunitensi raggiunsero l’apice dopo la sua scarcerazione. Ad ogni modo la decisione sull’estradizione resta squisitamente politica, tecnicamente nelle mani del Ministero degli Esteri, e per adesso El Chapo è considerato “estradabile”.

Bio e un po’ di storia

Joaquín Archivaldo Guzmán Loera, comunità La Tuna, città di Badiraguato, stato di Sinaloa, 4 aprile 1957. Figlio di Consuelo ed Emilio, copia di contadini, genitori di undici figli, otto maschi e tre femmine, cresciuti in povertà e senza possibilità di studiare oltre le scuole elementari in una casa dal tetto di lamiera. Una storia abbastanza comune nel Messico rurale.

Dopo anni d’esperienze come coltivatore di amapola o papavero da oppio durante l’adolescenza, il “padrino” del mitico cartello di Guadalajara degli anni ottanta, Miguel Ángel Félix Gallardo, prende il giovane Guzmán Loera al suo servizio e questi si fa le ossa nella principale organizzazione per il contrabbando di stupefacenti nel Paese. Tra il 1985 e il 1989 i principali capi dell’organizzazione vengono arrestati e comincia la lotta per la successione.

Chapo Guzman FUGAS infografica TeleSurIl Padrino stabilisce dalla prigione una spartizione dei territorio tra le varie famiglie e gruppi, anche se poi gli equilibri non reggono. Guzmán si allea con Ismael “El Mayo” Zambada e nasce il Cártel de Sinaloa o Pacífico. I fratelli Arellano Félix fondano l’organizzazione di Tijuana e Amado Carrillo si stabilisce a Ciudad Juárez. Carrillo decide di modificare i suoi tratti somatici e si reca in una clinica privata di Città del Messico. E’ il 1997. I medici “sbagliano” la dose di anestetici e lo uccidono. La pagheranno cara e moriranno tutti ammazzati. Negli anni Novanta Amado Carrillo era riuscito a dominare la scena del narcotraffico ed era noto come “Il Signore dei Cieli”. In Messico l’omonima serie di successo è arrivata alla quarta stagione. Nel 1993, durante una sparatoria tra sicari del Chapo Guzmán e pistoleri degli Arellano Félix, viene ucciso il cardinale Juan Jesús Posadas Ocampo a Guadalajara. Guzmán è accusato dell’omicidio e viene arrestato in Guatemala prima di essere spedito in Messico, nelle prigioni di Almoloya e Puente Grande, in Jalisco. Qui, paradossalmente, riesce a rafforzare i suoi affari e nel 2001 evade nascondendosi in un carrello della lavanderia.

I dettagli di questa evasione sono ormai un cocktail di storia e leggenda, ma il fatto certo è che da quell’anno Sinaloa inizia la scalata al potere criminale globale. Tra il 30% e il 50% della coca in entrata negli USA passa dalle sue mani. I colombiani, dopo l’intensificazione dei blocchi navali statunitensi nei Caraibi negli anni ’80, la morte del capo del cartello di Medellín, Pablo Escobar, nel 1993 e l’avvio del Plan Colombia, a direzione statunitense, nel 2002, sono progressivamente soppiantati dai messicani. Nel 2000 in Messico vince il PAN, partito di destra che promette grossi cambiamenti, dopo oltre settant’anni di egemonia del populista PRI. Il fiammante presidente Vicente Fox s’insedia nel dicembre di quell’anno. Il suo successore, Felipe Calderón, anche lui del PAN, governa dal 2006 al 2012 e lancia un’offensiva militare contro i baroni della droga conosciuta come “narcoguerra”. Almeno 100.000 morti in sei anni e decine di migliaia di desaparecidos sono le eredità di quella strategia che, però, non è stata modificata sostanzialente fino ad oggi.

Nel frattempo le droghe sperimentano un boom nei mercati “sviluppati” ed “emergenti”, la globalizzazione e l’impennata del commercio interessa anche loro. El Chapo entra nella classifica di Forbes tra gli uomini più ricchi del mondo, con un patrimonio stimato di un miliardo di dollari. Gli anni del PAN sono gli anni in cui Sinaloa diventa “il Cartello”, grazie alle connivenze e alla partecipazione delle istituzioni a tutti i livelli. Nel 2012 il PRI torna al potere e il presidente Peña mantiene i soldati per le strade, continua a ricevere i fondi USA dell’Iniziativa Merida, in diminuzione e criticati ormai anche dal congresso americano, e solo cambia il suo discorso, improntato alla modernizzazione e alle riforme. Le armi made in USA inondano e invadono il Paese. I giornalisti e gli attivisti vengono perseguitati senza tregua, il numero dei desaparecidos cresce a dismisura, la società viene limitata nelle sue possibilità d’espressione, nell’esercizio delle libertà e della democrazia ed è preda della morsa tra autorità inefficienti o corrotte e criminalità organizzata. Due facce della stessa medaglia, frequentemente confuse tra loro o indistinguibili.

Capitolo 5. Triangolo: Kate del Castillo, Sean Penn e “El Chapo” Guzmán

Chapo-Guzmán-y-Sean-Penn1A poche ore dall’arresto di Guzmán la procuratrice Arely Gómez ha dichiarato che l’intenzione del capo di girare un film autobiografico e proprio i suoi contatti con attori e produttori avevano permesso alle autorità di trovarlo, anche se le indagini duravano comunque da sei mesi. Su tutta la vicenda ad oggi restano più domande che risposte.

Il 2 ottobre 2015 l’attore Sean Penn e l’attrice Kate del Castillo, che ha stabilito il contatto tramite gli avvocati del capo, hanno fatto visita a Joaquín Guzmán Loera in una delle sue proprietà sperdute nella sierra tra il Durango e il Sinaloa e hanno passato la serata con lui, con le sue guardie del corpo e i suoi figli. Tequila e tacos a volontà. E anche qualche chiacchiera, giustamente.

Nel gennaio 2012 del Castillo pubblicò un tweet che diventò virale e polemico perché l’attrice affermava, provocatoriamente, di avere più fiducia nel Chapo Guzmán che nel governo messicano. Pare che il boss, che presumibilmente ha avuto diciotto figli con sette mogli e amanti diverse, sia avvezzo ai messaggini di testo e alle donne, quando è in libertà e quando è recluso. Inoltre l’idea del film lo stimolava. Kate del Castillo comunicava con lui servendosi del sistema di messaggeria BBM Black Berry e di lettere manoscritte. Solo a lei, come persona ritenuta di fiducia, El Chapo avrebbe rivelato e concesso i diritti sulla sceneggiatura. Anche per questo è stata fissata una visita in un luogo segreto e alcuni produttori di Hollywood, informati da del Castillo, hanno deciso di contattare Sean Penn che ha accettato di accompagnare la messicana nel viaggio nella sierra occidentale e ha proposto al narcos di realizzare un’intervista.

Però il video di 17 minuti spedito dal Chapo a Kate del Castillo non è stato registrato quella sera ma nelle settimane seguenti. Si tratta di un documento interessante anche se rappresenta più che altro una confessione, un messaggio di Guzmán al mondo, e non una vera e propria intervista in cui il giornalista ha la possibilità di controbattere. D’altronde, per come è stata fatta, non ce n’era il modo. Il testo finale è dovuto passare dall’approvazione del Chapo prima della pubblicazione. In questo senso sono piovute critiche a Rolling Stone e all’autore, accusato di aver costruito l’apologia di un delinquente responsabile di migliaia di morti. Penn ha definito El Chapo “prima di tutto un business man, che ricorre alla violenza quando lo considera vantaggioso per se stesso o i suoi interessi commerciali”.

Una visione forse romantica, anche se un po’ di verità c’è. Stiamo parlando di un impresario e commerciante, ma anche di un capo mafioso corresponsabile di mattanze e atrocità, malgrado l’affabilità e semplicità teatrali che ha sfoggiato nel video e durante la visita degli attori. Grazie ad essi ha potuto lanciare al mondo messaggi importanti, comunicare il suo potere come trafficante e burlarsi in diretta delle “solide istituzioni” propagandate da Peña Nieto. Il tempismo è stato eccellente: il giorno dopo l’arresto è uscita l’intervista, come a voler dare una sberla al governo e a comunicare che il capo resta il capo anche in prigione.

Sean Penn ha accusato le autorità messicane di mettere in pericolo la sua vita. Infatti, la procura ha sostenuto che l’intervista è stata un elemento decisivo per poterlo riacciuffare. Comunque la sua intenzione era quella d’accendere i riflettori su una giusta causa, cioè la denuncia dell’ipocrisia della guerra alle droghe, per cui i morti restano a sud mentre gli stupefacenti e i narco-capitali e le sostanze vanno a nord, e sul ruolo che gli Stati Uniti hanno in essa. In qualche modo c’è riuscito, nonostante le critiche e le speculazioni che immediatamente hanno ricoperto lui e Kate del Castillo. La strategia dei mass media s’è concentrata dunque sui personaggi, sulle frasi dei governanti, sull’etica giornalistica, sui messaggini tra Kate e Guzmán e i suoi legali e su vari dettagli morbosi, ma non sul nucleo del problema e sulle responsabilità a monte dell’ondata di violenza e corruzione che sta distruggendo la società e l’economia messicana.

Rivelazioni, film e depistaggi

chapo kate del castilloEl Chapo voleva eternizzarsi con un film, prodotto da Kate del Castillo e soci, che raccontasse la sua vita e che potesse offrire una visione diversa da quella cristallizzata nei libri, nelle inchieste, negli articoli, nei miti e nelle cronache. Per questo motivo aveva contattato tramite i suoi legali l’attrice messicana, di recente naturalizzata statunitense, che era nota al capo e al grande pubblico per il ruolo da protagonista nella serie La Reina del Sur (La Regina del Sud). Del resto da anni i suoi avvocati fanno da intermediari anche con vari potenziali ghost writer per far scrivere la sua biografia che dovrebbe intitolarsi “El Ahijado”, il figlioccio.

Nella video-intervista El Chapo ha senza dubbio rotto una tradizione, quella dei capi-mafia che mai dichiarano d’essere dei trafficanti, ma si definiscono invece imprenditori o semplici lavoratori e negano ogni vincolo con la delinquenza fino alla fine. “Traffico più eroina, metanfetamine, cocaina e marijuana di chiunque altro al mondo, ho una flotta di sottomarini, aerei, camion e autobotti”, ha dichiarato invece il sinaloense. E poi ha aggiunto, perentorio: “Il giorno in cui io non ci sarò più, non cambierà niente [nei traffici]”. Infine ha ammesso: “Son più di vent’anni che non consumo droghe” e “le droghe distruggono”.

chapo triangulo doradoIl reportage dell’attore, intitolato “El Chapo parla”, ha fatto sorgere dubbi sostanziali sul governo messicano dato che vi si descrive il momento in cui le auto su cui viaggiavano Penn e Kate del Catillo vengono fermate da un posto di blocco dell’esercito. Alcuni soldati riconoscono Alfredo, uno dei figli del Chapo, e lo lasciano passare non senza nascondere un certo imbarazzo. Il testo su Rolling Stone narra di come gli aeroplani del cartello di Sinaloa, a disposizione del gruppo, riescono a rendersi invisibili ai radar di terra e, inoltre, conferma che l’organizzazione criminale è puntualmente informata quando l’esercito esegue perlustrazioni aeree a grandi altezze che possono scoprire i loro movimenti.

Non si tratta di informazioni nuove, ma l’impatto sull’immagine dell’esecutivo è stato dirompente e imbarazzante, così come lo è stato il fatto stesso che un incontro di questo genere si sia potuto realizzare. In qualche modo le affermazioni di diversi funzionari subito dopo l’intervista hanno preannunciato la “vendetta”, cioè il ciclone mediatico e accusatorio contro Sean Penn e, in particolare, contro la sua compagna di viaggio nel ranch del Chapo.

L’attrice è oggetto di continui attacchi che mettono in pericolo persino la sua vita. La procura ha fatto in modo che venissero alla luce informazioni e comunicazioni provate contro di lei secondo un piano-montaggio orchestrato per sviare l’attenzione e colpevolizzare l’attrice. La giornalista Lydia Cacho su Proceso ha parlato di una “persecuzione di stato” che fa sospettare vi siano molti altri segreti inenarrabili dietro a tutta la vicenda e che la “logica della comunicazione politica istituzionale non solo si focalizza sulla spettacolarizzazione del caso, ma anche sulla violazione della legge”. E conclude: “L’impero di Guzmán non esisterebbe senza la connivenza delle autorità federali”. Altro che messaggini e chat. Tutti si chiedono piuttosto dove sono i soldi del Chapo e chi se li intascherà.

La polemica delle alte autorità messicane, gli inviti a comparire delle procure messicane e americane per Penn e del Castillo e l’attacco mediatico contro di loro risponde alla volontà di voler sotterrare i particolari vergognosi di questa storia per lo stato messicano: la prima fuga del narcos grazie alla corruzione di funzionari e politici, la rete intoccata delle imprese legate al cartello, la corruzione nelle forze armate, le menzogne raccontate per tappare la cloaca della narco-politica, l’omicidio di una giovane sindachessa in un territorio fuori controllo e l’impossibilità di offrire spiegazioni per il crimine di stato di Iguala contro gli studenti di Ayotzinapa e per gli altri 26mila desaparecidos. Ecco le vere questioni aperte.

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Parte l’EuroCarovana per i Desaparecidos di Ayotzinapa e del Messico https://www.carmillaonline.com/2015/04/16/parte-leurocarovana-per-i-desaparecidos-di-ayotzinapa-e-del-messico/ Thu, 16 Apr 2015 20:27:36 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=21958 di Fabrizio Lorusso

EuroCaravana43 AyotzinapaNarcos e stato, conniventi, compenetrati. Una strage. 30mila desaparecidos in un decennio. 100mila morti per la narcoguerra. La repressione sociale legittimata e potenziata dalla guerra alle droghe. Casi irrisolti: il 97%. Il Messico è anche questo. Il 17 aprile parte una carovana per denunciare, ricordare, ottenere giustizia. Dopo un mese negli Stati Uniti, ora tocca all’Europa: 13 paesi in 33 giorni. Eleucadio Ortega, uno dei genitori delle vittime della strage degli studenti di Ayotzinapa, Omar García, sopravvissuto all’attacco del 26 settembre scorso e portavoce del Comitato [...]]]> di Fabrizio Lorusso

EuroCaravana43 AyotzinapaNarcos e stato, conniventi, compenetrati. Una strage. 30mila desaparecidos in un decennio. 100mila morti per la narcoguerra. La repressione sociale legittimata e potenziata dalla guerra alle droghe. Casi irrisolti: il 97%. Il Messico è anche questo. Il 17 aprile parte una carovana per denunciare, ricordare, ottenere giustizia. Dopo un mese negli Stati Uniti, ora tocca all’Europa: 13 paesi in 33 giorni. Eleucadio Ortega, uno dei genitori delle vittime della strage degli studenti di Ayotzinapa, Omar García, sopravvissuto all’attacco del 26 settembre scorso e portavoce del Comitato studentesco della scuola rurale normale di Ayotzinapa, e Román Hernández, del Centro per i Diritti Umani della Montagna Tlachinollan, sono partiti il 15 aprile da Città del Messico alla volta di Oslo, prima tappa di un lungo tour per denunciare la grave crisi dei diritti umani in Messico e chiedere giustizia. Il 28 aprile saranno a Milano e il giorno dopo a Roma.

Il 26 settembre 2014, a Iguala, nel meridionale stato del Guerrero, la carneficina di studenti della scuola rurale di Ayotzinapa e la sparizione forzata, cioè la desaparicion, di 43 di loro ha scosso il paese e il mondo intero. A quasi 7 mesi dai fatti di Iguala non è stata fatta giustizia, la procura messicana ha praticamente chiuso il caso, e allora restano le istanze internazionali. Collettivi e comunità, studenti e lavoratori, organizzazioni civili e sindacali, movimenti sociali e difensori dei diritti umani, media alternativi e indipendenti hanno unito i loro sforzi per realizzare una carovana con le vittime e i portavoce di Ayotzinapa, esigere la presentazione in vita dei desaparecidos e la fine della repressione contro il loro movimento.

La carovana, che si può seguire su Twitter con l’hashtag #EuroCaravana43, ha diversi scopi.

Lo stato messicano deve farsi responsabile dei crimini di lesa umanità e delle violazioni ai diritti umani che i propri apparati incessantemente commettono in una quasi totale impunità: l’esigenza che siano ritrovati vivi i desaparecidos, in questo senso, non è pura retorica, né un grido disperato senza speranza, ma rappresenta la denuncia più forte e tagliente dell’inettitudine statale e della sua complicità nella crisi umanitaria del paese. Per questo: “Vivos se los llevaron, vivos los queremos”, “Vivi li han portati via, vivi li rivogliamo”, perché non è possibile che la procura non abbia potuto dare risposte plausibili e che se la cavi con l’arresto di alcuni narco-poliziotti (forze dell’ordine al soldo dei narcos e di narco-politici).

Dietro alla mattanza di Iguala c’è molto di più: frammenti di narco-stato, volontà politica di annichilamento della dissidenza sociale, difesa di interessi economici locali e transnazionali, militarizzazione dei territori, mantenimento dei patti d’impunità tra le élite politico-economiche.

Si chiede all’Unione Europea di mantenere sotto osservazione internazionale gli atti di repressione contro i movimenti sociali messicani e di fornire un sostegno concreto per costruire vere garanzie di “non-ripetizione” delle violazioni, di rispetto e accesso pieno ai diritti dell’uomo e di riparazione del danno. “Cerchiamo garanzie reali di non-ripetizione e le dobbiamo costruire tra di noi, con i popoli e le comunità, insieme alle organizzazioni sociali e ai collettivi. Queste garanzie non le possiamo chiedere alle stesse istituzioni del governo da cui vengono le violazioni ai diritti umani”, spiega Omar García.

I partecipanti puntano a informare la comunità internazionale sulla lotta dei genitori che continua e sfida le versioni ufficiali degli inquirenti che, invece, danno per chiuso il caso e sostengono che gli studenti sono stati bruciati nella discarica di Cocula da un gruppo di narcotrafficanti. Ciononostante le voci di studiosi ed esperti che, dati alla mano, negano categoricamente questa possibilità sono state ignorate. L’attenzione mondiale non può spegnersi e adeguarsi a mezze verità ufficiali.

Per questo la carovana percorrerà l’Europa, specialmente la Otra, l’Altra Europa, organizzata dal basso: da Londra a Madrid, da Berlino a Helsinki, da Zurigo a Parigi e tante altre città sono previste camminate, manifestazioni, incontri pubblici, atti di denuncia, sit-in fuori da consolati e ambasciate messicane. La brigata di Ayotzinapa condividerà quasi sette mesi di resistenza, lotte e organizzazione.

Gli inquirenti messicani non hanno aperto nessuna indagine sull’Esercito e sulla polizia federale, né hanno previsto di imputare il reato di “sparizione forzata” ai funzionari e in stato d’arresto. Perché? Perché implicherebbe riconoscere le responsabilità dello stato stesso. La brigata chiede a gran voce che le indagini vadano a fondo anche se questo significa investigare il nucleo malato e corrotto delle istituzioni.

Sono tanti i governi e i paesi europei che hanno firmato accordi e trattati con Il Messico che includono capitoli sul rispetto dei diritti umani, ma resta debole la pressione in tal senso. S’implementano più efficacemente, invece, gli accordi sui temi della sicurezza e del commercio, sulla vendita di armi e la formazione di polizia ed esercito, anche se poi parte di queste risorse finisce per essere canalizzata verso la repressione e rifocilla le leve della criminalità organizzata. I genitori di Ayotzinapa denunciano anche queste complicità.

“I nostri interlocutori in Europa in questa occasione sono le organizzazioni sociali, i collettivi, i media liberi, o come si chiamino, la società civile organizzata. Veniamo a ringraziarvi per tutto il vostro sostegno e a insistere sul fatto che è necessario che come comunità e società dal basso continuiamo a organizzarci per trasformare una volta per tutte questo sistema di potere e corruzione fondato sulla spoliazione, il disprezzo, lo sfruttamento e la repressione contro le nostre genti. Dobbiamo farlo insieme, dai nostri luoghi d’origine, coordinati e organizzati, perché così come i potenti hanno globalizzato il saccheggio, noi abbiamo il dovere sacro di globalizzare la resistenza, la degna rabbia e l’allegra ribellione”, chiarisce García. La carovana si concluderà il 20 maggio e la brigata ripartirà per il Messico da Londra.

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Amianto ai bambini https://www.carmillaonline.com/2014/11/25/amianto-ai-bambini/ Mon, 24 Nov 2014 23:04:30 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=18943 di Alberto Prunetti

Premessa

dueMi ero preparato per tempo e avevo prenotato con largo anticipo questa data per commentare su Carmilla la sentenza Eternit. Mi ero preso qualche giorno perché pensavo di schiarirmi le idee e di recuperare lucidità, magari dopo aver festeggiato a Casale con Afeva e Voci della Memoria e con tutti gli altri comitati che ci avrebbero raggiunto: i francesi dell’Andeva, gli inglesi della Greater Manchester e quelli di Liverpool (nella foto a destra), i belgi, persino gli svizzeri e poi i brasiliani, forse i più combattivi. Invece sapete tutti com’è [...]]]> di Alberto Prunetti

Premessa

dueMi ero preparato per tempo e avevo prenotato con largo anticipo questa data per commentare su Carmilla la sentenza Eternit. Mi ero preso qualche giorno perché pensavo di schiarirmi le idee e di recuperare lucidità, magari dopo aver festeggiato a Casale con Afeva e Voci della Memoria e con tutti gli altri comitati che ci avrebbero raggiunto: i francesi dell’Andeva, gli inglesi della Greater Manchester e quelli di Liverpool (nella foto a destra), i belgi, persino gli svizzeri e poi i brasiliani, forse i più combattivi. Invece sapete tutti com’è andata: ha vinto l’ingiustizia. Quanto a me, mi sono chiuso in casa col mal di pancia  a scrivere e a fare interviste e adesso ho poco di nuovo da dire su Carmilla, a riguardo dell’ingiusta e inaccettabile sentenza Eternit. Ingenui noi, a pensare che la morte di 3mila vecchi lavoratori valesse quanto e più dell’impunità di un miliardario, sui piatti della bilancia della dea bendata. Quel che è certo è che dopo poche ore di rabbia e lacrime, la gente di Casale è scesa in piazza e quasi non è più tornata a casa. La mobilitazione è continua e si va avanti: senza recriminazioni, senza rotture, con ostinazione. Si tenterà di ricorrere alla Corte di Strasburgo ma soprattutto, dato che si continua a morire (tre morti di mesotelioma nei tre giorni successivi alla sentenza di mercoledì scorso) si ripartirà con un nuovo capo di intestazione e nuovi casi, per evitare il ne bis in idem: i morti di oggi non si prescrivono (o forse si, se l’imputato è della stessa classe sociale di chi deve condannarlo…).

Intanto, dopo aver scritto sulla sentenza in continuazione, non voglio ripetermi (si vedrà alla fine di questa pagina che a dire il vero non ho potuto trattenermi dal tornare a commentare). Mi limito a riprendere e segnalare alcuni miei commenti su altre testate e poi voglio lanciare un allarme.

Cominciamo col commento scritto a caldo. Il settimanale Internazionale ha pubblicato sul nuovo quotidiano web un mio commento “di pancia” successivo alla sentenza che ha prescritto il reato di disastro ambientale (prescritto ma non assolto). Il giorno prima della sentenza sempre Internazionale aveva pubblicato un brano dalla nuova edizione del mio libro Amianto una storia operaia. Dopo la sentenza della Cassazione il lettore potrà pensare  che l’unica giustizia sia quella che viene da Steve McQueen o dai film di Peckinpah. Proprio questa idea stava alla base di una testimonianza sulle morti d’amianto che mi ha chiesto Il Manifesto e che ho pensato come un modo per raccontare una vita operaia tra Casale Monferrato e il Far West. L’articolo è stato ripreso anche  da il Lavoro culturale, assieme a un mio piccolo reportage fotografico degli attivisti venuti in solidarietà da altri paesi. Infine alcune riflessioni più discorsive sono apparse su Vice in un’intervista che mi ha fatto Leonardo Bianchi. Aggiungo che un’altra intervista sta per uscire sul sito di Clash City Workers.

Detto questo, visto che per il problema amianto, escrescenza del capitalismo in cui viviamo, il peggio in termini di malattie e decessi deve ancora venire, scrivo le righe che seguono sperando che si voglia un giorno affrontare seriamente la questione, senza buttarcisi sopra per convenienza come è stato fatto da molti politici in questi giorni. Se non per chi si ammala adesso, almeno per le prossime generazioni.

L’amianto ai bambini

Un paio di mesi fa avevo appuntamento con Bruno Pesce dell’Afeva di Casale Monferrato a Firenze  e ho colto l’occasione, assieme a un amico, per visitare la mostra sull’amianto ospitata nel Palazzo della Regione Toscana, in via Cavour. I pannelli illustrativi avevano un impianto didascalico ma al terzo piano mi ha colpito la presenza di una serie di manufatti d’uso comune, in fibrocemento, disposti dietro provvidenziali teche di vetro che impedivano l’eventuale disseminazione di fibre pericolose.

Erano perlopiù materiali domestici, quindi non quelli di tipo industriale o abitativo (come le condotte o gli ondulini). C’era un po’ di tutto: i phon che contenevano coperture delle resistenze in amianto accanto alle presine ignifughe per la cucina. Ma la cosa che ci ha colpito come un colpo allo stomaco, a me e al mio amico, sono stati i giochi per bambini. Due giochi per l’infanzia che contenevano amianto.

Uno era un gioco che non mi diceva niente. Forse perché nella mia infanzia le attività ludiche dei bambini erano rigorosamente diversificate per genere, c’erano i giochi per maschi e quelli per bambine, non bambini e bambine ma maschi e bambine, così ci dicevano. E quello, nella visione da “piccole donne” d’un tempo, era un gioco da bambine, perché c’erano di mezzo i fornelli. Ma il mio amico, un po’ più giovane di me, ha subito esclamato: “Mia sorella ce l’aveva! Negli anni Ottanta…” Eravamo entrambi abbastanza allibiti, perché abbiamo scoperto che attorno alle lampadine che cuocevano il cibo nel “Dolce forno” c’era una protezione, alquanto pericolosa per il bambino che avesse voluto vedere com’era fatto il gioco dentro: era in amianto.

Accanto, in un’altra teca di vetro, c’era una cosa molto familiare, che mi ha fatto strozzare la gola. Il pongo. Il dash che ho modellato tante di quelle volte sui banchi di scuola. D’incanto, ne ho pure sentito l’odore, in un gioco della memoria. Ma non erano madeleine. Era amianto. Ho cominciato a esclamare barbarità a caso fino a quando un inserviente per tranquillizzarmi mi ha fatto leggere un cartello che diceva che il periodo in cui c’era amianto in quel materiale così diffuso nelle scuole si riferiva agli anni Sessanta. Dal 1965 fino ai primi Settanta. Poi hanno cambiato formula e, insomma, ero salvo, visto che ho iniziato la prima elementare nel ’79. Magari però sono problemi per i miei amici un poco più vecchi di me. L’inserviente mi ha fatto vedere che oltre al pongo umido, conservato sottovuoto, c’era una versione anteriore in polvere, che i bambini impastavano con l’acqua sotto la direzione delle maestre. Quel pongo conteneva anche amianto. E ovviamente, essendo in polvere, senz’acqua, era altamente volatile e poteva essere inalato dagli scolari.

Roba da pazzi. “Non sai se è cattiveria, ignoranza o follia”, ti viene da dire. Ma del resto, se si pensa che alla Eternit gli operai sull’amianto ci mangiavano, che la Eternit regalava il polverino, la polvere di risulta delle lavorazioni dell’amianto agli oratori di Casale Monferrato, perché i bambini che giocavano a pallavolo potessero cascare senza farsi male… Era una strategia di marketing che serviva a far apprezzare l’uso del materiale, a renderlo indispensabile e a normalizzare la sua presenza come oggetto d’uso comune. Pensate che un’insegnante casalese mi diceva che in città la polvere d’amianto era così diffusa che c’era chi la usava per fare la neve nei presepi di Natale. Allora non ti stupisci neanche che il polverino lo regalassero ai vecchi pensionati per farci gli stradini nei loro orti. O che l’industria del cemento amianto ha svuotato i propri magazzini mettendo i propri manufatti sulla testa dei terremotati dell’Irpinia, aggiungendo disastro a disastro e raggiungendo un picco di vendite nei primi anni Ottanta, a dimostrazione che i terremoti devono far sorridere non solo i costruttori ma anche i cementieri.

Problema del presente allora, non del passato. Anche perché se tra dieci anni dovessero diminuire le morti per esposizione professionale, la curva dei morti per amianto comunque non decrescerà, perché aumenteranno nel frattempo i morti per esposizione ambientale. Gente che ha respirato le fibre non per il lavoro ma per aver avuto una canna fumaria in eternit nella propria abitazione o per avere il tetto della palestra o dell’officina dove vanno a riparare il motorino in cemento amianto. E intanto i nuovi morti di amianto, i cittadini che si ammalano di mesotelioma, tendono a morire prima dei lavoratori. Sono casi limite, ma  a Casale è morta quest’estate una ragazza di 35 anni. Qualche settimana fa, è mancata una ragazza di 28 anni. Ovviamente nessuna delle due aveva lavorato all’Eternit. Se si pensa che la malattia ha tempi di incubazione molto lunghi, dai 20 ai 35 anni, a volte anche 40, ne rimane da concludere che i nuovi ammalati da patologie correlate all’esposizione ambientale di amianto erano giovani, molto giovani al momento del loro contatto con la fibra maledetta. Adolescenti. A volte bambini.

L’ho già detto ma lo ripeto: per l’amianto, il peggio deve ancora venire e il picco verrà ancora posticipato. Perché l’amianto che ci sta in testa comincia a invecchiare e a rilasciare fibre.  Perché il possessore di quel triste logo che continuerà a impestare per l’eternità le vite di tante persone è impunito per scelta ponderata della giustizia italiana. “Perché non ci sono i soldi per fare le bonifiche”, ci dicono, ma quando si potevano prendere al padrone della Eternit lo hanno prescritto. E perché  c’è amianto anche a scuola. Perché nelle scuole italiane (e immagino che le cifre vadano interpretate per difetto) si parla di contaminazione di amianto in 2400 istituti scolastici, dove rischiano di essere esposti più di 300mila ragazzi. Si tratta di un ventaglio che va  dalle scuole dell’infanzia fino alle superiori. Non negli anni Sessanta, all’epoca del pongo della morte. Oggi, nell’epoca della “buona scuola” di Renzi. Nell’epoca dei tagli di bilancio che lasciano l’edilizia scolastica in condizioni pietose, oggi si mandano bambini di 6 anni a fare ginnastica in palestre col tetto di amianto, o col linoleum d’amianto, o con le condotte dello scarico delle grondaie in amianto. Sapendo che tutto questo può rovinare la loro vita.

Ci aspettiamo dati precisi dal ministero sulla presenza dell’amianto in tutte le scuole italiane e un programma per la bonifica, da applicare in tempi brevissimi. Paghi chi inquina o chi prescrive. Stavolta non ve la caverete con le promesse: vogliamo vedere quell’amianto rimosso dalle scuole italiane. E poi da ogni altro edificio pubblico. Costi quel che costi, vogliamo tutto. Vogliamo anche il padrone della Eternit che viene a rimuovercelo lui, il suo amianto, e senza mascherina, come lui faceva lavorare i suoi operai. E si faccia aiutare da tutti quei politici che battono le mani sulle spalle ai familiari delle vittime dell’amianto mentre si apprestano a approvare leggi che infieriranno ancora di più sulle condizioni dei lavoratori italiani. Perché siamo stanchi di filantropi che ci portano via i babbi e di politici che ci portano via il futuro, di tribunali che chiedono una condanna ai no tav di 9 anni per un compressore e che prescrivono un miliardario per la morte di 3mila lavoratori. Almeno i nostri vecchi sono morti senza dover assistere alla ridicola parodia dei loro sogni di giustizia sociale, di impegno politico e di etica del lavoro. Forse questa è l’unica consolazione che ci rimane. Lo scriveremo sui muri dei cimiteri: voi non lo sapete cosa vi siete persi.

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Giustizia esemplare https://www.carmillaonline.com/2014/11/25/giustizia-esemplare/ Mon, 24 Nov 2014 23:02:09 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=19035 di Alessandra Daniele

In Italia si assolve. Darren Wilson, il poliziotto bianco che ha ammazzato Mike Brown, non sarà neanche processato. Gli USA sono sempre più avanti.

ferguson

 

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di Alessandra Daniele

In Italia si assolve. Darren Wilson, il poliziotto bianco che ha ammazzato Mike Brown, non sarà neanche processato.
Gli USA sono sempre più avanti.

ferguson

 

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Chi ha incastrato l’articolo 18? https://www.carmillaonline.com/2014/10/13/incastrato-larticolo-18/ Mon, 13 Oct 2014 21:15:10 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=18086 di Alessandro Villari

Chi-ha-incastrato[In via eccezionale rispetto alla prassi editoriale di Carmilla abbiamo deciso di riprendere un post pubblicato sul blog Avvocato Laser che riguarda l’articolo 18 dello Statuto del Lavoratori]

Si può comprendere la frustrazione di chi ha sempre alternato disoccupazione a lavori precari di fronte alla discussione sull’articolo 18: che volete che m’importi del diritto alla reintegrazione per chi è assunto a tempo indeterminato, quando io non ho mai visto un contratto più lungo di un anno? L’indifferenza, o addirittura l’aperta ostilità, che molti giovani esprimono nei confronti della [...]]]> di Alessandro Villari

Chi-ha-incastrato[In via eccezionale rispetto alla prassi editoriale di Carmilla abbiamo deciso di riprendere un post pubblicato sul blog Avvocato Laser che riguarda l’articolo 18 dello Statuto del Lavoratori]

Si può comprendere la frustrazione di chi ha sempre alternato disoccupazione a lavori precari di fronte alla discussione sull’articolo 18: che volete che m’importi del diritto alla reintegrazione per chi è assunto a tempo indeterminato, quando io non ho mai visto un contratto più lungo di un anno? L’indifferenza, o addirittura l’aperta ostilità, che molti giovani esprimono nei confronti della battaglia per il diritto alla reintegrazione è in parte la misura di quanto profondamente è stata interiorizzata, da chi appartiene alla generazione del “pacchetto Treu” e della “legge 30”, la propria condizione di precarietà, al punto da essere percepita come normale e senza alternative: evidentemente un ventennio di propaganda martellante sui benefici e la necessità della “flessibilità” ha lasciato il segno, un segno reso ancora più difficile da cancellare dalla crisi economica peggiore della storia.

D’altra parte, questa è una generazione che è stata davvero abbandonata a se stessa, spesso trascurata da sindacati che in più di un’occasione hanno scambiato (magrissimi) aumenti salariali con i più spudorati via libera alle assunzioni a termine, che non hanno mai fatto un’efficace campagna di informazione, che raramente hanno organizzato vertenze combattive e anzi in qualche occasione hanno perfino tentato di imbrigliare lotte radicali partite dal basso (come quella di Atesia, per citare la più famosa).

Questo scetticismo perciò non deve essere snobbato, anche perché contiene un fondo di verità: in effetti non è che mantenendo l’articolo 18 nel sistema attuale, così com’è, siano destinate a migliorare le condizioni di lavoro di precari e giovani. Si tratta piuttosto di spiegare perché, invece, dalla sua abrogazione deriveranno ulteriori peggioramenti anche per chi il diritto alla reintegrazione non l’ha mai visto neppure col binocolo, e di pretendere, uniti, le condizioni che possono davvero incidere sulla vita dei lavoratori privi di tutele.

Forse è più semplice se si prova a capire perché mai il padronato italiano ci tenga tanto a eliminare questo benedetto articolo 18, che in fin dei conti non vieta affatto di licenziare i lavoratori, ma si limita a prevedere sanzioni relativamente elevate per le aziende (sopra i 15 dipendenti) che licenziano senza ragioni, né economiche né disciplinari.

Io credo che i motivi principali siano due. Il primo è immediato: con sanzioni modeste contro i licenziamenti illegittimi, i datori di lavoro si possono sbarazzare senza problemi di chi, magari con più anzianità, guadagna di più dell’eventuale rimpiazzo precario; di chi, per la malattia di un parente o magari la nascita di un figlio, ha necessità (e diritto) di assentarsi di più e quindi produrre di meno; di chi alza la voce per ottenere, che so, condizioni di sicurezza sufficienti per evitare infortuni, o il rispetto di un piano ferie che consenta di trascorrere con la famiglia almeno un paio di settimane all’anno, o altri diritti. Quei diritti che, è giusto ricordarlo, non hanno i precari, alcuni anche formalmente, ma tutti sostanzialmente, perché a chi si lamenta non sarà rinnovato il contratto. Abrogare, per tutti o anche “solo” per i nuovi assunti, in tutto o in parte, l’articolo 18, significa eliminare, o ridurre significativamente, tutti i diritti per tutti quanti. Senza con questo riconoscerne anche solo una parte a chi oggi non li ha.

Ma c’è un secondo motivo, meno immediato ma probabilmente più importante, per cui da almeno vent’anni il padronato punta a distruggere il diritto alla reintegrazione. Il punto è che un posto di lavoro con pochi o nessun diritto vale meno di un posto di lavoro tutelato. Allora, se togliendo il diritto alla reintegrazione si tolgono, o perlomeno si comprimono, indirettamente anche gli altri, eliminare, o depotenziare l’articolo 18 significa togliere valore a quei posti di lavoro.

Posso dimostrarlo con un esempio concreto. Prima della legge Fornero, la sanzione per qualsiasi licenziamento illegittimo in aziende con più di 15 dipendenti era sempre e comunque la reintegrazione nel posto di lavoro oppure, a scelta del lavoratore, un’indennità di 15 mesi di stipendio, oltre al risarcimento di tutti gli stipendi maturati dal licenziamento con un minimo di 5 mesi. Nel 2012 la riforma del governo Monti ha introdotto la possibilità per il giudice di sostituire la reintegrazione (e l’annessa opzione per l’indennità sostitutiva di 15 mesi) con una indennità onnicomprensiva tra i 12 e i 24 mesi di stipendio: il valore economico minimo del posto di lavoro è dunque sceso da 20 (15 più almeno 5) a 12 mesi di stipendio.

Nei due anni che sono trascorsi da allora, il valore delle conciliazioni economiche, quelle in cui il lavoratore preferisce monetizzare il proprio diritto al posto per evitare di rientrare là dove sa che gliela faranno pagare, è sceso in misura corrispondente, dalle 15-20 mensilità che si ottenevano prima alle 8-12 di adesso. Badate bene, non parlo solo di accordi fatti in casi di licenziamento illegittimo, ma soprattutto di conciliazioni firmate da precari che avrebbero avuto diritto a un posto di lavoro a tempo indeterminato.

Ma le vertenze di lavoro interessano relativamente agli imprenditori, considerato che, specialmente tra chi ha contratti a termine e a progetto (che prima della riforma dello scorso marzo erano quasi tutti illegittimi), soltanto una parte minuscola porta il datore in tribunale. Il punto essenziale invece è che posti di lavoro che valgono meno finiranno ben presto per essere anche pagati meno. Avete mai fatto caso che i precari hanno in genere uno stipendio molto più basso di chi ha un posto fisso? Suppongo di sì, e immagino sia chiaro che questo è il perché.

Scomparsa per tutti la tutela della reintegrazione, il “mercato” del lavoro si riduce, ancor più di oggi, a un’asta al ribasso in cui vince il posto chi si accontenta di meno e solo fino a quando si accontenta di quel poco, con l’effetto di diminuire gli stipendi al minimo possibile: tutti gli stipendi, compresi quelli già miseri di molti giovani.

Maggiore precarietà non servirà a migliorare le condizioni dei precari, né tantomeno a risolvere il dramma della disoccupazione, ma solo a gonfiare le tasche degli imprenditori. L’unica via per uscire dalla crisi economica evitando una catastrofe sociale è estendere i diritti, in primis quello alla stabilità, e garantire un reddito adeguato a tutti i lavoratori e ai disoccupati, a spese del profitto dei padroni.

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Il Processo https://www.carmillaonline.com/2014/04/16/il-processo/ Tue, 15 Apr 2014 22:50:50 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=13993 george_grosz_023_interrogatdi Mauro Baldrati

Riassunto delle puntate precedenti 1 e 2: Rick e Max, giovani attivisti del movimento No Tav, sono stati condannati a trent’anni di carcere per avere bruciato un compressore d’aria durante una manifestazione. Evasi dal penitenziario, stavano cercando di raggiungere la Slovenia, dove speravano di trovare aiuto e protezione, quando sono stati catturati dai militanti del Partito Democratico, condotti in un carcere privato della Lega Coop, e sottoposti a tortura.

Rick cercò di massaggiare l’articolazione della spalla slogata. In certi momenti il dolore diventava insopportabile. L’altra articolazione era miracolosamente rimasta intatta dopo ripetute applicazioni della tortura della [...]]]> george_grosz_023_interrogatdi Mauro Baldrati

Riassunto delle puntate precedenti 1 e 2: Rick e Max, giovani attivisti del movimento No Tav, sono stati condannati a trent’anni di carcere per avere bruciato un compressore d’aria durante una manifestazione. Evasi dal penitenziario, stavano cercando di raggiungere la Slovenia, dove speravano di trovare aiuto e protezione, quando sono stati catturati dai militanti del Partito Democratico, condotti in un carcere privato della Lega Coop, e sottoposti a tortura.

Rick cercò di massaggiare l’articolazione della spalla slogata. In certi momenti il dolore diventava insopportabile. L’altra articolazione era miracolosamente rimasta intatta dopo ripetute applicazioni della tortura della corda, una pratica che risaliva all’Inquisizione. Erano procedure superate, gli specialisti dalemiani usavano i farmaci, come tutti, ma “due sporchi terroristi NO TAV” non meritavano neanche la spesa di un’aspirina.
Max aveva due dita fratturate e una ferita, causata da un chiodo conficcato nella mano destra, che si era infettata. Gemevano, ormai ridotti a ombre, spettri tra altri spettri, nella sala buia e quasi priva di ossigeno del carcere privato della Legacoop.
Non avevano rivelato nulla, nonostante i ripetuti interrogatori. D’altra parte cosa avrebbero potuto rivelare? I loro compagni del movimento erano stati quasi tutti arrestati. In quanto al “covo” sloveno, che sembrava interessare molto i dirigenti del Partito Democratico preposti alla repressione dei NO TAV , non avevano informazioni precise, a parte l’indirizzo di un bar dove “forse” avrebbero potuto incontrare qualcuno. Ovviamente i dalemiani non credevano una parola, e avevano continuato a torturarli fin quasi a ridurli in fin di vita.
“Ed ora?” chiese Rick. “Cosa succederà?”
Max non rispose. La debolezza, la disidratazione lo privavano di ogni energia.
“Ora vi processeranno” disse l’uomo barbuto che ormai impersonava il cicerone degli orrori. “Sarete condannati alla forca, o al plotone di esecuzione, o alla galera a vita. Dipende dal giudice. E’ discrezionale.”
Rick sospirò. Tutto era discrezionale, dopo che il terzo governo Superbone aveva privatizzato la giustizia, affidandola ai tribunali privati del Partito Democratico, e tutto il sistema di detenzione e pena, appaltandolo alle aziende della Legacoop.

Forse era mattina, forse era notte – la concezione del tempo era saltata nella stanza buia, senza finestre – quando la porta si spalancò e quattro energumeni dalemiani irruppero nella cella. Frugarono con le torce elettriche tra i presenti, allontanarono a calci i soliti disperati che invocavano acqua, finché individuarono Rick e Max, accasciati sul pavimento. Max fu trascinato fuori per i capelli, Rick per i piedi. In corridoio, imprecando, furono costretti a trasportarli con una barella, vista l’impossibilità di camminare.

Max si sentì afferrare per i polsi e per le caviglie, poi la testa gli girò e lo stomaco si rivoltò, perché ondeggiava in orizzontale, mentre i guardiani gridavano “oh-ohh-ho!”, e lo lanciavano in una camera, dove atterrò con violenza sul pavimento, sbattendo la testa e perdendo i sensi. Un colpo altrettanto violento lo fece per un attimo rinvenire: il corpo di Rick che precipitava su di lui.

Quando riaprì gli occhi, forse per gli schiaffi che qualcuno gli sferrava, forse per l’acqua che gli veniva versata sulla faccia, vide varie persone intorno a lui. Numerosi occhi scuri lo fissavano. Volti giovani, ghignanti. Qualche donna, giovane e carina, lo indicava con un dito e ridacchiava.
Renziani.
Non c’erano dubbi.
Erano caduti in mano ai renziani.
Ora non esistevano più alternative.
Allo stupro selvaggio.

“Ma come sono messi questi qua?” disse una voce. Chi aveva parlato sedeva indolente su una poltrona rossa, con una coperta sulle gambe. Era un tipo scuro di capelli, dalla fisionomia inconfondibile: il deputato sosia di Riccardo Schicchi, lo stupratore ufficiale del Partito Democratico, colui che rivendicava lo ius primae noctis. Sì, era davvero finita. L’ultimo atto. “Non vedete che sono coperti di merda e di pidocchi?” Risatine e squittìì tra i renziani. “Andate subito a lavarli. E disinfettateli. E fategli anche un’iniezione di metamfetamina, sono morti in piedi!”

george-grosz-hintergrund-p7I vestiti, fradici e puzzolenti, vennero tagliati con le forbici. Poi Rick e Max furono posti di fronte a un muro rivestito di piastrelle, e un guardiano li irrorò con un idrante. La pressione era elevata, e l’acqua quasi bollente, oltre che odorosa di disinfettante.
In condizioni normali sarebbero stramazzati al suolo, ma l’anfe correva furiosa nelle loro arterie, lanciava staffilate lungo la schiena, scariche nello stomaco, e li teneva in piedi con la sua forza bruta.
Nudi, gocciolanti, tremanti, vennero condotti per corridoi rivestiti di moquette, tra i lazzi, le risate e gli insulti di chi li incrociava. Qualcuno li spintonò, altri li colpirono con calci o scapaccioni. Ci fu chi sputò loro in faccia.

Di nuovo nella camera, di nuovo di fronte al sosia di Riccardo Schicchi, che era sempre seduto mollemente sulla poltrona.
“Inchinatevi di fronte all’onorevole presidente!” urlò uno dei giovanotti renziani. Un colpo dietro le gambe, sferrato con una mazza, li fece stramazzare in ginocchio.
Nessuno si mosse. Nessuno parlò.
Tutti aspettavano.
Soprattutto non parlava, né si muoveva, il sosia di Riccardo Schicchi.
“Sono due cadaveri” disse infine, con voce piatta. “Mi fa schifo farmi succhiare l’uccello da due zombies. Dategli qualcosa da mangiare, e da bere. Che prendano un po’ di colore.”
Mani li afferrarono, li trascinarono. Con calci, sberle e pizzicotti li costrinsero a mettersi a quattro zampe, poi vennero poste loro di fronte due ciotole a testa: una conteneva una poltiglia di un colore marrone scuro, l’altra acqua.
“Mangiate, cuccioli bastardi!”
Max iniziò a ingoiare la poltiglia. Era cibo per cani, spezzatino, polpette. Squisito. Saporito, tenero. Non mangiavano qualcosa di solido da settimane. Li avevano nutriti con una specie di brodo andato a male, dove i guardiani dalemiani orinavano.
Bere era più complicato. Come appartenenti alla specie umana non disponevano di una lingua sovradimensionata come i canidi, per cui dovevano succhiare, mentre i renziani li molestavano di continuo con pizzicotti e sculacciate.
Mangiare e bere li rinfrancò, e diede nuovo impulso alla forza motrice dell’anfe, che ruggiva nelle vene e negli organi interni.
Nuovamente in ginocchio davanti al sosia di Riccardo Schicchi.
In attesa.
Dell’inevitabile.
Il sosia di Riccardo Schicchi, con un gesto brusco, gettò via lo coperta. Sotto era nudo. Un pene di ragguardevoli dimensioni, già eretto, sembrava volersi protendere verso di loro.
“E ora” disse, con uno dei suoi ghigni linguacciuti, “datevi da fare, miei piccoli, adorabili, disgustosi maialini.”

george-grosz-hintergrund-p2Fecero loro indossare una specie di djellabah, una tunica bianca larga, svolazzante, pulita e ruvida. Così abbigliati, a piedi nudi, percorsero per l’ennesima volta lunghi corridoi, fino a una doppia porta di legno chiaro, spalancata, al di là della quale si intravedeva un tavolo di legno scuro.
Vennero condotti in un spazio recintato da sbarre di legno, alte circa un metro. Non c’erano sedie, per cui restarono in piedi.
Ancora confusi, anche per la metamfetamina che, in fase calante, confondeva loro i sensi, lanciarono occhiate in tutte le direzioni, occhiate voraci, forse disperate, per cercare di capire, o per avere conferme: alla loro destra, dietro a un tavolo piccolo, sedevano due persone, un uomo e una donna. Un altro uomo dall’aria indefinibile, con la testa bassa, sedeva a sinistra. Altri erano i piedi, addossati ai muri. E di fronte, dietro al tavolo di legno scuro, sedeva un tipo coi capelli grigi, una barbetta curata, un ciuffo ribelle da intellettuale sulla fronte.
Max lo riconobbe subito: era uno dei ministri plenipotenziari di Superbone, che si dilettava a presiedere i tribunali.
Perché quello era un tribunale.
Dunque li stavano processando.
E quel giudice, di cui non ricordava il nome, era famoso per la sua mancanza di pietà. Tutti ne parlavano. Non era cattivo, cioè non era dotato del sadismo naturale dei dalemiani, o dell’arroganza e della crudeltà adolescenziali dei renziani; semplicemente era del tutto privo di compassione umana.
“Apriamo il procedimento contro Ricciardi Massimo e Robecchi Riccardo” disse il giudice, fissandoli. I suoi occhi erano freddi, calcolatori. “Siete accusati di terrorismo, sabotaggio, devastazioni, attentato dinamitardo, resistenza a pubblico ufficiale, nonché dell’evasione violenta dal penitenziario di Piacenza.”
Violenta? Ma che stava dicendo, pensò Max. Semplicemente un secondino aveva dimenticato la porta aperta.
“La parola all’accusa” disse il giudice, indicando l’uomo e la donna seduti sulla destra.
Si alzò l’uomo, che si portò di fronte al tavolo.
“I due terroristi qui presenti sono tristemente famosi per le loro reiterate azioni di sabotaggio, nel corso delle quali ci sono stati numerosi feriti, oltre che danni molto gravi ad attrezzature tecniche, macchinari, utensili. Quando sono evasi dal penitenziario un agente di custodia, da loro aggredito, è rimasto gravemente ferito e rischia l’invalidità permanente.”
L’avvocato dell’accusa stava per continuare, ma il giudice alzò una mano. “Basta così, avvocato, grazie. Ho letto i rapporti. Ora voglio sentire la difesa. Prego, avvocato.”
Si alzò l’uomo che si trovava a sinistra. Aveva un’aria dimessa, un’espressione infelice sul volto pallido. Le spalle, gracili, erano spioventi, forse per l’abitudine di tenere la schiena curva. La corporatura, i modi, l’età, l’energia compressa, la postura depressiva lo qualificavano senza alcun dubbio come un fassina-civatiano.
“Signor giudice” esordì con voce bassa, poco più che un sussurro, “io… non sarei d’accordo con certi sistemi. Secondo me… dovremmo garantire qualche garanzia in più… ecco, agli accusati…”
Il giudice ebbe un moto di fastidio che fece immediatamente tacere l’avvocato della difesa.
Secondo me” disse, con voce tagliente, facendogli il verso. Fissò Rick e Max, fissò l’avvocato. I suoi occhi bruciavano di gelido disprezzo. “Sa cosa le dico avvocato? Secondo me lei deve piantarla di rompere i coglioni e fare il suo dovere! E’ chiaro?”
L’avvocato fassina-civatiano ascoltava immobile, con le braccia inerti lungo i fianchi.
“Dunque ha qualcosa di interessante da dire? Un’obiezione? Vuole pronunciare un’arringa?”
L’avvocato fassina-civatiano non alzò il capo. Parlò rivolto al pavimento. “No signor giudice. La difesa non ha nulla da aggiungere.”
“Oh. Questo si chiama parlare. Bene, torni al suo posto allora.”
L’avvocato, come un automa, raggiunse il suo tavolo, dove restò immobile, col capo chino, le mani giunte.
Il giudice tornò a fissare Rick e Max. I gelidi occhi grigi erano rasoi di ghiaccio che li tagliavano a fette.
“Ricciardi e Robecchi” disse, dopo una lunga, minacciosa pausa. “Col vostro agire avete creato gravissimi danni alla crescita e al progresso di questo paese. La vostra filosofia è solo distruttiva, i vostri cosiddetti ideali confusi e negativi. Il vostro egoismo è criminale. Voi non siete nulla, non rappresentate nessuno, a parte il vostro rancore, la vostra violenza e il vostro isolamento. Per cui, sentiti i rappresentanti dell’accusa e della difesa, ed esaminati gli atti, questa corte vi giudica colpevoli di terrorismo, con l’aggravante dell’odio sociale. La pena adeguata ai criminali sociali come voi sarebbe il plotone di esecuzione, ma il nostro Presidente del Consiglio, nella sua lungimiranza, ci sta chiedendo di essere magnanimi, comprensivi a generosi. Pertanto vi condanno all’ergastolo, da scontare ai lavori forzati, senza sconti di pena né concessione di permessi, presso le aziende della filiera agro-alimentare Figa. I vostri guadagni saranno interamente confiscati, per ripagare almeno in parte i danni che avete provocato al vostro paese. La seduta è tolta.”
E sferrò un colpo sul tavolo con un martelletto, proprio come nei film.

George-Grosz“Magnanimi un corno” disse Rick, senza smettere di fissare il soffitto della cella. “Il fatto è che Semoletti ha bisogno di nuovi schiavi.”
“Semoletti, eh?” disse Max, che era steso sulla branda a castello sottostante. Dalla sua posizione vedeva la finestra con le sbarre. La cella era piccola, ma pulita. Erano in attesa del trasferimento al campo di lavoro, li avevano ripuliti, curati, nutriti. Semoletti li voleva in forze, i lavoranti.

L’imprenditore miliardario del Partito Democratico, uno dei grandi spin-docktor di Superbone, era continuamente in espansione con la sua Figa (Federazione Italiana Grastronomi Agricoltori. Il nome era dovuto al fatto – secondo l’idea di Semoletti, peraltro suffragata dai risultati di mercato – che i prodotti italiani all’estero con quel marchio avrebbero goduto di uno straordinario appeal). La manodopera scarseggiava. Superbone aveva dato disposizioni che gli venissero assegnati i detenuti, oltre ai pochi immigrati che ancora si azzardavano a mettere piede in Italia, dove venivano immediatamente catturati e ridotti in schiavitù. Era leggendaria la sua entrata in scena in Puglia, con lo scopo di impadronirsi di tutta la produzione agroalimentare. Suoi inviati si erano presentati dai boss della Sacra Corona Unita intimando loro di aderire alla Figa. A Semoletti interessava soprattutto la rete di capolarato, che garantiva ogni giorno centinaia di braccianti a basso costo, senza contratto. I boss scoppiarono a ridere. Erano loro i padroni, chi cazzo credeva di essere questo Semoletti?
Il problema era serio, e andava risolto in fretta. Una guerriglia con la mafia pugliese avrebbe avuto effetti deleteri sul governo “del fare”. Così il Premier Superbone ebbe un’idea geniale: affidò le operazioni a un gruppo di nuova formazione, di cui si iniziava molto a parlare: i mercenari montiani. Spietati, efficienti, erano considerati assolutamente affidabili.
A bordo di SUV corazzati, armati con fucili automatici e lanciarazzi anticarro RPG, prelevarono i boss dalle ville fortificate e li giustiziarono sul posto con un colpo alla nuca. Poi, secondo la tradizione antica, i famigliari, i parenti, gli amici presenti furono tutti massacrati, e le ville date alle fiamme. Immediatamente dopo i sopravvissuti, coi loro affiliati, divennero dei “collaboratori” della Figa.

I giorni seguenti Superbone si presentò agli italiani dal video del network dove, adulato e magnificato dai “giornalisti” televisivi, annunciò con enfasi e un numero incalcolabile di sorrisi che la mafia pugliese era definitivamente smantellata. Secondo i sondaggi il suo indice di popolarità passò dall’82.54 all’89,91%.

“Così ora siamo diventati schiavi di Semoletti” disse Rick, con la sua migliore aria fatalista.
“Poteva andare peggio” ribatté Max. “Potevano impiccarci, strangolarci con la garrota. Ce la faremo.”
“Ah, sì? Certo, lavorando dieci-dodici ore al giorno sette giorni su sette. Beh, almeno ci daranno da mangiare, giusto?”
Sarcarsmo nella sua voce. Max si alzò in piedi, costrinse anche l’amico a fare altrettanto.
Lo abbracciò, lo strinse forte.
“Ce la faremo ti dico. Fuggiremo. Siamo sempre fuggiti. Non riusciranno a tenerci.”
“E poi?” disse Rick, con la bocca premuta contro la sua spalla. “Dove andremo? Ci cattureranno di nuovo.”
“Non è detto. Abbiamo imparato molto, nel frattempo. Cammineremo di notte, niente passaggi, niente autostrada. Andremo in Francia. Si sta creando una resistenza, ce la faremo ti dico. Abbatteremo i mostri, distruggeremo i demoni.”
Rick respirava forte. Il suo corpo era scosso da una vibrazione, come una scarica elettrica.
Cercava di nascondere la testa. Cercava protezione.
Forse piangeva.
Oppure rideva.

(Fine?!?!)
(Le immagini sono di George Grosz)

[Le vicende qui narrate sono finzioni letterarie. In esse compaiono nomi e circostanze reali in qualità di pure occasioni narrative. I nomi di personaggi e di enti del mondo della politica e dell’economia vengono usati soltanto ai fini di denotare figure, immagini e sostanze dei sogni collettivi che sono stati formulati intorno ad essi, e si riferiscono quindi a un ambito mitologico che non ha nulla a che vedere con informazioni o opinioni circa la verità storica effettiva degli avvenimenti o delle persone su cui questo racconto elabora una pura fantasia]

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La visita. Storie e pensieri da una prigione messicana https://www.carmillaonline.com/2014/03/19/la-visita-storie-e-pensieri-da-una-prigione-messicana/ Tue, 18 Mar 2014 23:00:59 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=13532 di Fabrizio Lorusso

Prigione Messico Florence Cassez[Questo reportage narrativo si basa sugli appunti, le riflessioni e le esperienze legate ad alcuni incontri del 2011 e 2012 con la francese Florence Cassez, in prigione dal dicembre 2005 nel penitenziario femminile di Tepepan a Città del Messico e condannata a 60 anni per rapimento. Dopo anni di conflitti diplomatici tra Messico e Francia, nonostante la polarizzazione estrema dell’opinione pubblica e le strumentalizzazioni politiche del caso, Florence è stata liberata nel gennaio 2013 perché il processo, secondo la Corte Suprema messicana, era stato viziato da gravi violazioni e incoerenze, oltre [...]]]> di Fabrizio Lorusso

Prigione Messico Florence Cassez[Questo reportage narrativo si basa sugli appunti, le riflessioni e le esperienze legate ad alcuni incontri del 2011 e 2012 con la francese Florence Cassez, in prigione dal dicembre 2005 nel penitenziario femminile di Tepepan a Città del Messico e condannata a 60 anni per rapimento. Dopo anni di conflitti diplomatici tra Messico e Francia, nonostante la polarizzazione estrema dell’opinione pubblica e le strumentalizzazioni politiche del caso, Florence è stata liberata nel gennaio 2013 perché il processo, secondo la Corte Suprema messicana, era stato viziato da gravi violazioni e incoerenze, oltre che da un montaggio televisivo orchestrato dalle autorità al momento dell’arresto, F.L.].

Rompere il muro del silenzio, dal mattino. Porto abiti speciali: pantaloni marroni di tela, rigorosamente senza cintura, scarpe verdi innocenti, camicia sobria e giacca antivento, antisilenzio. Zero vivacità cromatica. Direzione Sud, Mexico City Sur, zona dominata dalle classi medie metropolitane. Le gincane e l’aria mattutina mi distraggono. Parcheggio la moto, più splendente se la lascio affianco al mio palo della luce preferito, quello sbilenco, sempre pendente. Nella città mostro più grande del mondo sono un sopravvissuto del traffico, sento che la libertà sono quest’aria e la strada, preziose anche se inquinate. Per ordini superiori, per la forza dello stato, applico la norma, svuoto le tasche e il cervello. Lo sciacquo con una meditazione forzata e repentina. Tutti gli averi, il cellulare, le chiavi, i ciondoli, gli eccedenti e gli eccessi, il buon umore e le idee, tutto quanto insomma, l’ho lasciato in custodia al padrone della trattoria di fronte, buon uomo.

“A chi fai visita da queste parti, muchacho?”, mi chiede. Uomo curioso. “A una che, pare, è proprio ben voluta da queste parti perché non la lasciano andare via, sono sette anni ormai”, rispondo. Intanto bevo avidamente il succo d’arancia che, da sempre, è puntuale. Cinque minuti prima delle dieci e sono pronto. Esco dall’ultimo minuto di tranquillità, attraverso la strada, abbandono speranze e asprezze, come il vate sulla soglia degli inferi. L’avvicinamento induce fantasie: gabbie di caramello in fusione e gendarmi di carta igienica, crollando su se stessi. Riciclati ad altri usi, più igienici, appunto.

L’ora esatta. Aprono la porta ed è giorno, s’alza il sole messicano e stridono le sbarre delle celle. Accedo all’area federale, circondato da gente davvero molto federale. E’ uno dei tristi depositi delle e dei dimenticati del paese. Sono quasi un quarto di milione, gli oblii stipati, cioè le persone respinte dalla società per “essersi comportate male”, forse.

Favorisco il mio permesso di soggiorno e l’agente uniformato ripone la mia identità in un cassetto di legno marcio. La imprigiona nella polvere, in pasto alle termiti. Gli andrà di traverso la marca da bollo plastificata, ne sono sicuro, e sorrido. Quindi sono un altro per un po’, come sono un altro al lavoro, per la strada, in famiglia o all’università. La danza dei soggetti sperduti. Abbiamo passaporti e tesserini, tanti “Io” viaggianti nella vita. A volte tentiamo di riconciliarli per farli convivere e, quando non si sopportano proprio, ci sono terapie e terapeuti che promettono miracoli per aiutarci, dicono.

Comunque qui io sono “la visita”. Gli abitanti del posto, anzi le abitanti del posto, sono invece delle liste di numeri ordinali e hanno colori diversi: le beige attendono un giudizio, le blu scontano una pena. D e f i n i t i v a m e n t e. Oggi partecipo anch’io del cosiddetto “reinserimento sociale”, fuori dalla società, in un’enclave asociale.

“Chi viene a trovare? Florence per caso?”, chiede uno sbirro. La parola Florence mi rimette in libertà, istantaneamente, mi rimanda alla città di Lorenzo de Medici o ai gigli, alla flora e ai sensi. Non alla prigione. Non glielo confesso, sto zitto. La mia voce risponde: “Sì”, e filtrano sguardi solenni. Se hai la faccia da güero, da straniero, sanno già da chi vai. Nel CeReSo femminile, il Centro de Readaptación Social del quartiere Tepepan, sono abituati al viavai di forestieri e giornalisti, c’est normal. “Cassez”, risposta esatta. “Adelante”.

Giustizia o vendetta? La stampa fa solo casini. “Se c’è un delitto, ci sarà un castigo per qualcuno, la verità in fondo non conta”, sostengono alcuni. Contano di più le cifre, le prove e i video, anche se fasulli, dei successi nella lotta alla criminalità. Ci vuole un’espressione convincente, la facciata restaurata del “buon governo” che sparla al mondo. “Lavoriamo per te e la tua famiglia, sicurezza stellare e legalità, lo stato di diritto, diritto fino a casa tua”, ripete il disco.

E così succede che un interesse nazionale fabbricato dai media e dalla politica va a scontrarsi furiosamente con un altro interesse nazionale, altrettanto fittizio come lo è il concetto stesso di nazione. La Francia vuole prendersi la rivincita della sconfitta nella Battaglia di Puebla, quando il Generale Ignacio Zaragoza, fedelissimo del presidente Benito Juárez, vinse contro l’armata imperiale inviata da Napoleone III. Il Messico decide che è ora di vendicare l’affronto di Massimiliano d’Asburgo, effimero incoronato dell’impero francese in Messico tra il 1864 e il 1867, mandato da Trieste a morire fucilato in terra azteca.

Di ritorno nel nostro secolo, la riedizione sciovinista del teatrino è opera di Sarkozy e Calderón. I grandi capi tribù, rumorosi e populisti. E nel mezzo ci sono le persone, le vittime, la presunta innocente trasformata in colpevole e, infine, la verità violentata. Ci sono i montaggi televisivi di un ministro, l’impavido Genaro García Luna, che formalmente dirige il dicastero della pubblica sicurezza, ma s’occupa soprattutto della propaganda. Le nazioni, comunità immaginate della modernità, sono più bestiali, più beceramente fiere, se vivono solamente del loro nazionalismo.

Lei m’aspetta, sta ridendo di gusto con una signora del rione popolare di Tepito, noto anche come “Barrio Bravo” o quartiere selvaggio, indomabile quadrilatero dalla mala fama nel centro della capitale. Una scheggia impazzita del Messico profondo. La donna veste di blu, come Florence, ma lei non è condannata per sequestro di persona. E’ dentro per un omicidio che giura di non aver commesso. “Ho difeso mio figlio, sono andata alla Commissione per i Diritti Umani per denunciare i poliziotti che l’avevano torturato dopo il suo primo arresto e come ritorsione sono venuti a prendere me, e poi anche lui”, confessa. “Molti disprezzano Tepito, senza sapere che ormai i gringos, gli americani, considerano tutto il Messico come il ‘Tepito del mondo’ e si prendono gioco di noi”, conclude la Doña. Mi chiede di portare una lettera ad alcuni amici del quartiere e la scriviamo insieme. “Mi sento sola, mandatemi qualche visita, fatemi sapere di mio figlio, grazie”, conclude la missiva.

Ci spostiamo dal corridoio all’ampia sala riservata alle visite dei parenti e degli amici. I bagni sono in fondo, i tavoli di plastica nel centro, e c’è un negozietto coi beni di prima necessità in un angolo del salone. “Ciao, come va?”. “Bene, más o menos”. Saluto, bacio sulla guancia, uno solo, non tre come in Francia. Se non rinunci al tuo sorriso, da qui puoi uscirne vincitore. Se non perdi il decoro, non ti perdi. Gli anni passano, la speranza no. Alcuni insegnamenti. La depressione è la Nemica, eterna compagna indesiderata. Nelle gabbie amare di metallo, in carcere, anche la Solitudine è onnipresente, nonostante ci sia sempre qualcuno intorno a te. Cento guardie su di te.

Cos’è la presunzione? E quella d’innocenza? Un principio astratto, uno scherzo legale o una semplice dicitura inserita per caso nella Costituzione? Dovrebbe essere un pilastro del cosiddetto “stato di diritto” in democrazia. Perché più di quattro detenuti su dieci sono vestiti di beige e rimangono in cattività anche per alcuni anni? Giustizia lenta, ma soprattutto svogliata, inerte. Risorse scarse e indifferenza, come fosse giusto, come fosse funzionale.

Eccoli lì, sono i presunti colpevoli, la negazione vivente e abusata del principio d’innocenza, e vivono la prigionia nell’attesa del giudizio finale. Se sono accusati di crimini gravi, non possono difendersi in libertà, di là dal muro, ma restano nella zona del silenzio. Non sono più presunti innocenti, ma dei “pericoli”. Ma cos’è un delitto grave? Spesso dipende dal giudice e da chi è l’accusato. Interpretazioni, denari, oblazioni, reverenze e manipolazioni fanno assai la differenza. Bisogna proteggere la società, si dice. Quella società che loro, presumibilmente (?), hanno offeso. Discutibile, ma giusto, secondo i più. La pubblica opinione.

Se esistesse in Messico un accettabile fair play giudiziario e investigativo, un arbitro vero e legittimo che sanzionasse gli ideatori della “fabbrica dei colpevoli” nazionale e i corrotti d’ogni casta e livello, allora il ragionamento funzionerebbe, sarebbe fluido, quasi giusto. Ma non è così. Gli studenti e i professori della facoltà di giurisprudenza dell’ateneo più grande del mondo, la Universidad Nacional Autónoma de México, hanno del sarcasmo da vendere. E, infatti, dicono che in Messico un bicchier d’acqua e un ordine di carcerazione non si negano mai a nessuno.

Ci sediamo. Caffè solubile, acqua in bottiglia, una tovaglietta. Io ho portato i biscotti. Parliamo. Ore di dubbi, per conoscere, per capire che cos’è successo, cosa dice la gente e com’è l’esistenza in quello spazio di sospensione. Mancano ancora 53 anni, una vita, sepolta. Ma c’è una speranza, i riflettori sono accesi. “E’ una famosa, ha degli appoggi nelle più alte sfere”, si vocifera. Ronzii, fischi nelle orecchie, è la politica, la strumentalizzazione, i mezzi di comunicazione, e in fondo nell’epicentro del rumore si è più soli che mai, laggiù nella stanza, nella cella.

Viviamo il Messico, non solo in Messico, e fa male sapere e spiegare che non c’è pace. Impunità e delitto son due lati della stessa medaglia, la guerra comincia dalla marea delle ingiustizie quotidiane. Per chi le subisce, non c’è voce possibile, né per i colpevoli né per gli innocenti, e così il confine tra di loro sfuma, digrada nei gangli perversi del sistema. Il funzionario non funziona e non ha mai funzionato. L’assedio del mutismo, il muro del silenzio, sta nella mente, non è cemento ma idea. Tutti siamo prigionieri della nostra storia o di noi stessi, delle nostre abitudini e credenze, di stereotipi e pregiudizi. Alla fine tutti siamo prigionieri politici delle nostre teste e presunti colpevoli di qualcosa. Basta saperlo e provare a disfarsi della gabbia.

Mi devo fare da parte. La mañana è diventata tarde, sono le 12 e qualche minuto, c’è un’altra “visita” dopo di me. Un abbraccio amichevole, un au revoir, e un pensiero a chi di visite ormai non ne ha più, a chi non ha voce per superare il muro e ha perso ogni speranza.

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