Giuliano Santoro – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Nuova Rivista Letteraria n. 4 – Soltanto parole? https://www.carmillaonline.com/2017/01/18/nuova-rivista-letteraria-n-4-parole/ Tue, 17 Jan 2017 23:01:02 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=36046 NRL4_copertina[Segnaliamo l’uscita dell’ultimo numero di Nuova Rivista Letteraria. Un monografico dedicato al linguaggio, ai significati delle parole, al loro utilizzo e alla loro capacità di incidere sul reale. Di seguito trovate l’incipit degli articoli contenuti nel volume. Ne saranno felici i “collezionatori di incipit”, so che esistono. E se volete approfondire la lettura, qua potete acquistare il numero. ss].

Con lingua biforcuta di Giuseppe Ciarallo Nei film di indiani e cowboy della mia infanzia, i pellerossa accusavano spesso i bianchi di parlare con lingua biforcuta. Era un modo [...]]]> NRL4_copertina[Segnaliamo l’uscita dell’ultimo numero di Nuova Rivista Letteraria. Un monografico dedicato al linguaggio, ai significati delle parole, al loro utilizzo e alla loro capacità di incidere sul reale. Di seguito trovate l’incipit degli articoli contenuti nel volume. Ne saranno felici i “collezionatori di incipit”, so che esistono. E se volete approfondire la lettura, qua potete acquistare il numero. ss].

Con lingua biforcuta di Giuseppe Ciarallo
Nei film di indiani e cowboy della mia infanzia, i pellerossa accusavano spesso i bianchi di parlare con lingua biforcuta. Era un modo tanto colorito quanto appropriato per dire che le giubbe blu (che del potere erano i rappresentanti e il braccio armato) dicevano una cosa e ne facevano un’altra. Usavano cioè la parola, quella dei trattati ad esempio, in modo truffaldino.

Ogni scritta su un muro racconta una storia diversa di Silvia Albertazzi
Le immagini pubblicate in questo numero di Nuova Rivista Letteraria sembrano, paradossalmente, smentire e confermare al tempo stesso l’affermazione dello scrittore americano William Saroyan secondo cui una fotografia vale mille parole, ma solo a patto che qualcuno, guardandola, pensi o pronunci quelle mille parole.

Bologna: non più rossa, non più Blu di Agostino Giordano
Nella notte tra l’11 e il 12 marzo del 2016 a Bologna è accaduto un evento che, come spesso capita in questa città, è unico nel suo genere. Il noto writer Blu, considerato il «Banksy italiano» (inserito nel 2011 dal Guardian nella lista dei dieci migliori street artist del mondo), aiutato da un gruppo di militanti dei centri sociali bolognesi Xm24 e Crash, ha cancellato dai muri della città gran parte delle sue opere, realizzate nell’arco di circa vent’anni.

Fascismo social: la condivisione delle “idee senza parole” di Alberto Prunetti
Ieri. La lingua del duce. La retorica teatrale di Mussolini ‒ perentoria, decisionale, volontaristica, carica di iperboli e di allitterazioni ‒ non doveva convincere ma sedurre: era magia fonetica priva di semantica. Il suo lessico era povero di elementi tecnici ma carico di velleità nominaliste che attingevano ora dal registro spiritualista (“idea”, “fede”, “martirio”, “comunione”, “credere”), ora da quello militarista (“combattere”, “battaglia”), come dal volontarismo dell’azione (“audacia”, “dinamico”, “formidabile”, “osare”…). Quanto alla sua ironia, era una sarabanda fonetica che irrideva la vittime e strizzava l’occhio al carnefice: suffissi e postfissi, meta e –iolo, “ultrascemo” e “panciafichista”,“partitante” e “schedaiolo”.

Più bella e superba che pria.. di Giuseppe Ciarallo
Il grande Ettore Petrolini, che dell’uso tagliente e della manipolazione della lingua – seppur a fini satirici – ne sapeva, in uno dei suoi sketch più noti (quello di Nerone e del “domani Roma rinascerà più bella e più superba che pria… bravo! grazie!”) diceva che “il popolo, quando sente le parole difficili, s’affeziona”, e aggiungeva “il popolo, quando s’abitua a di’ che sei bravo, pure che non fai gnente, sei sempre bravo”.

Genesi e possibile cura del morbo razzista tra gli ultrà di Claudio Dionesalvi
Ciccio irruppe in piazza con gli occhi carichi di odio. Tanti anni di trasferte insieme, però lui si ritrovava qualche neurone fuorisede più dei nostri. Non salutò nessuno. Si appartò in un angolo e cominciò a pennellare uno stendardo. S’intravedeva la traccia bianca sotto il corpo suo prono sulla stoffa di colore nero, spalmata sul marciapiede. I primi che gli s’avvicinarono per capire il soggetto della sua opera, tornarono paonazzi. Incredibile: una svastica, Ciccio stava confezionando uno stendardo nero con una corposa svastica bianca.

Minime dosi di arsenico di Giuliano Santoro
Lo diceva con chiarezza William Burroughs. Abbiamo bisogno di «decifrare le parole»: «esse sono sempre più indistinte, si perdono in assurdo rompicapo». Per farlo, bisogna innanzitutto andare oltre le narrazioni pigre. Quella dominante è dettata dal già visto del codice penale e delle misure di polizia: se un processo è il tentativo di portare dentro schemi precostituiti fatti già avvenuti, a noi serve esattamente il contrario. Eppure, proprio l’opposizione è stata fagocitata, masticata e poi sputata a brandelli.

«Attendesi a mandar via questa canaglia». L’invenzione del nemico nella Ferrara estense di Girolamo De Michele
In un periodo nel quale il mio tempo era occupato da cinquecentine e carte d’archivio, mi sono imbattuto in un testo a suo modo intrigante. Si tratta di una perorazione contro la presenza dei giudei nei domini estensi fatta nel 1555 dal giureconsulto Gherardo Mazzoli, davanti al Consiglio degli Anziani di Reggio Emilia: «Molti ebrei vengono ai giorni nostri ad abitare in questa città, e si ritiene che ne verranno molt’altri ancora. Da costoro, come nimici della fede cristiana non v’è da aspettarsi altro che male, e quanti più saranno, tanto maggiore ne sarà la peste in questa città, poiché quando molti infetti accorrono in un luogo, vi si fa di giorno in giorno più spesso il contagio. Morbida facta pecus totum corrumpit ovile.

Un’angoscia straniera. Scrivere nella lingua dell’altro – Silvia Albertazzi
Mi chiedi che cosa intendo
quando dico che ho perso la mia lingua.
Ti chiedo, che faresti
se avessi due lingue in bocca,
e perdessi la prima,
la lingua madre
e non potessi conoscere del tutto l’altra,
la lingua straniera.
Non potresti usarle tutt’e due insieme
anche se così tu pensassi.
E se vivessi in un posto
dove devi parlare una lingua straniera,
la tua lingua madre marcirebbe,
marcirebbe e ti morirebbe in bocca
finché dovresti sputarla fuori.

Sono versi di una poetessa indiana, Sujata Bhatt che, con immagini degne di un David Cronenberg, racconta il suo rapporto con l’inglese e la difficoltà di scegliere tra la lingua autoctona, parlata in famiglia e la lingua degli ex-colonizzatori, ormai divenuta lingua ufficiale degli scambi pubblici e degli studi, non solo accademici.

Dal plurilinguismo all’ospitalità. Appunti sull’italiano (neo-epico e no) di Antonio Montefusco
L’11 e il 18 maggio del 2016 il blog nazioneindiana ha pubblicato un mio intervento su quelle che mi sembrano le caratteristiche salienti della cultura italiana se osservata dal punto di vista linguistico. L’articolo è stato ripreso anche da OperaViva e ha stimolato qualche reazione da parte di colleghi e scrittori, che mi ha permesso di riprendere il filo di quel discorso – inizialmente concepito come la recensione al bel volume di Luca Salza, Il vortice dei linguaggi – e di proporne qui, nel contesto di un numero di Nuova rivista letteraria dedicata alla lingua, una prima revisione a stampa.

Sotto il dialetto, niente di Federico Faloppa
Umberto Bossi probabilmente non l’avrebbe mai fatto. Cantare in dialetto romanesco – anzi, cimentarsi nientemeno con una delle canzoni simbolo di Roma, Roma non fa la stupida stasera – gli sarebbe venuto in mente, forse, solo per prendere per i fondelli i romani: storpiandone l’idioma e scimmiottandone la cultura “popolare”. Matteo Salvini invece l’ha fatto.

La gazzetta dello snuff di Selene Pascarella
L’estate del 2016 ha regalato poche soddisfazioni agli appassionati della cronaca nera “classica”. Nessun giallo da gustare sotto l’ombrellone, del genere che da Simonetta Cesaroni a Sarah Scazzi ha prodotto epopee mediatico-giudiziarie; molta commistione con narrazioni di non fiction limitrofe, popolate di terroristi islamici, catastrofi naturali e treni-killer. Ciononostante è stata una stagione pulp all’ennesima potenza, con fiumi di sangue e montagne di carne mutilata messi a disposizione del pubblico nazionalpopolare, con la complicità di massmurder in apparenza meno affascinanti degli assassini seriali o degli orchi della porta accanto, eppure impeccabilmente funzionali a una macchina dello storytelling giallo in cerca di nuovi terreni da esplorare.

Che geni, le parole di Cristina Muccioli
Siamo tutti Africani. “Volete trovare un vero e autentico africano in questa sala?”, chiedeva il genetista dell’Università di Ferrara Guido Barbujani all’uditorio di una sua relazione al Darwin Day di Milano nel 2010, “ebbene, guardate il vostro vicino”. Dall’Africa orientale sono cominciati non più di duecentomila anni fa i grandi viaggi migratori dei nostri progenitori, che solo negli ultimi quindicimila anni hanno mutato, per adattarsi alla scarsa radiazione solare dell’Europa nella morsa della glaciazione, il colore della pelle. I veri Europei, cioè i Neanderthal, meno attrezzati morfologicamente per l’uso esteso e sfaccettato del linguaggio che ci connota oggi, si estinsero definitivamente circa trentamila anni fa.

Le parole del corpo. Come la medicina utilizza il linguaggio per allontanare il paziente di Franco Foschi
Una delle figure più popolari della commedia dell’arte carnascialesca della mia città, Bologna, è il Dottor Balanzone. È una specie di pallone gonfiato, mezzo medico e mezzo leguleio (cioè verosimilmente nessuno dei due), abituato a pontificare su tutto e su tutti con lunghi monologhi che nient’altro sono se non sproloqui, che infarciti di paroloni spesso inventati e latinorum instupidiscono i questuanti senza ovviamente offrire alcuna soluzione comprensibile ai problemi proposti.

Le parole per dirlo di Sergio Rotino
Mi sento inadatto. Sono incapace a scriverne. Non ho gli strumenti necessari. Queste le reazioni che mi hanno posseduto e in parte ancora mi posseggono in questo tentativo di minima indagine sul linguaggio usato dalla narrativa per ragazzi, dal cinema e dal fumetto per raccontare l’immigrazione declinata in chiave odierna, con il suo investire il corpo irrigidito dell’Europa.

Nacheodomì. mulino bianco, biscotto nero di Massimo Vaggi
San Paolo del Brasile, giugno 2003. Mi chiedo come e quando riuscirò a interrompere la litania ossessionante che mio figlio, con noi da una settimana, continua a ripetere ad alta voce piangendo da quasi un’ora. Nacheodomì, nacheodomì, nacheodomì, uno zibaldone di suoni creato dal suo linguaggio elementare e infantile (ha quasi quattro anni, ma non parla bene). ñao quero dormir. Non vuole dormire anche se è pomeriggio e fa tanto caldo e noi vorremmo stare tranquilli per un po’ e lui è devastato dalla stanchezza nonché – forse – dalla paura.

Assalamu aleyku. La pace sia su di voi di Paolo Vachino
Operazione Colomba è un Corpo Nonviolento di Pace [www.operazionecolomba.it] e ha una presenza attiva in Libano dal 2013 all’interno dei campi profughi siriani di Bebnine e di Telabbas, che si trovano nel distretto di Akkar, la zona nord-occidentale del Libano al confine con la Siria. Parimenti a quanto accade nelle altre zone d’intervento di Operazione Colomba (Palestina/Isreale, Colombia, Albania) i volontari praticano la condivisione della vita con le vittime del conflitto, dando conforto e aiuto nel soddisfacimento dei bisogni più immediati, così come nell’affrontare le situazioni di emergenza; attuano la protezione non armata di civili esposti alle violenze della guerra, onde fungere da deterrente verso l’uso della violenza; promuovono il dialogo e la riconciliazione, traendo ispirazione dai principi della nonviolenza, della equivicinanza, e della partecipazione popolare; portano avanti un continuo e paziente lavoro di advocacy a livello politico e istituzionale.

Il “mare nostro” e le parole per i migranti di Alberto Sebastiani
Nel Vangelo di Matteo (Mt 6,9- 13), nel mezzo del Discorso della montagna (Mt 5,1-7,29), Gesù insegna il Padre nostro. È una preghiera composta da un’invocazione e sette richieste, divisa in due parti: la prima ospita tre domande che riguardano Dio, a cui Gesù si rivolge con il “tu”, e hanno come oggetto la gloria del Padre (la santificazione del nome, l’avvento del Regno e il compimento della volontà divina); le altre quattro presentano a Dio i desideri degli oranti (il “noi” corale e comunitario della preghiera) e riguardano la vita quotidiana, chiedono infatti pane (materiale e spirituale), perdono, liberazione dalla prova e dal male.

[Il passo del gambero] Razzismo senza parole di Wolf Bukowski
Sostiene Günter Grass che il gambero, proprio quando sembra camminare all’indietro, scarta invece lateralmente e “avanza con una certa rapidità”. Con ambizione di crostacei, in questa rubrica attingiamo al tema di precedenti numeri monografici, lo affrontiamo lateralmente e lo spingiamo avanti – in direzione del fascicolo presente. Qui riapriamo il numero 10 della vecchia serie, monografico sul cibo, e lo poniamo accanto a quello del novembre 2015 (nr. 2 nuova serie) su nazionalismi, populismi di destra e razzismi; poi avanziamo con una certa rapidità verso il tema di oggi, la lingua e il suo uso politico.

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Nuova Rivista Letteraria n. 3 – Utopie/Distopie https://www.carmillaonline.com/2016/06/28/nuova-rivista-letteraria-n-3-utopiedistopie/ Mon, 27 Jun 2016 22:01:57 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=30882 Utopia[Il precedente numero di Nuova Rivista Letteraria indagava e decostruiva l’immaginario che nutre l’avanzare di nazionalismi e prassi autoritarie. Il nuovo numero, fresco fresco di stampa, affronta invece il tema dell’utopia. Cos’è? Che forma ha? Quali sono gli spazi e i tempi in cui agisce? Gli autori e le autrici hanno scritto dei temi, dei tempi e dei luoghi più disparati, a dimostrazione che le utopie, nella loro concretezza d’immaginario, non hanno frontiere.

Dal racconto della fattoria senza padroni di Mondeggi in Toscana (con ottima documentazione fotografica dell’esperienza firmata [...]]]> Utopia[Il precedente numero di Nuova Rivista Letteraria indagava e decostruiva l’immaginario che nutre l’avanzare di nazionalismi e prassi autoritarie. Il nuovo numero, fresco fresco di stampa, affronta invece il tema dell’utopia. Cos’è? Che forma ha? Quali sono gli spazi e i tempi in cui agisce? Gli autori e le autrici hanno scritto dei temi, dei tempi e dei luoghi più disparati, a dimostrazione che le utopie, nella loro concretezza d’immaginario, non hanno frontiere.

Dal racconto della fattoria senza padroni di Mondeggi in Toscana (con ottima documentazione fotografica dell’esperienza firmata Luca Gavagna) al cristianesimo di base in Nicaragua; dalla resistenza delle donne maya ixil all’utopia autoritaria dei militari in Guatemala alle libere repubbliche No Tav della Val Susa; dall’anarchia tra Benevento e Campobasso di fine ‘800 alla  Colombia di Eduar Lanchero; dal municipalismo libertario dei curdi a Scientology e alle altre sette religiose nate dalle utopie naufragate dei movimenti di lotta. E poi ancora potrete l’utopia che alimenta la fantascienza, l’architettura, il cinema, la letteratura, la medicina, la follia, l’adolescenza, l’idea di una vita eterna e quella di spremere acqua dal vento. Qua sotto potete leggere un piccolo estratto per ogni singolo articolo che compone il volume].

Editoriale / Utopia.. pia… pia… – Giuseppe Ciarallo
Ma l’utopia è davvero qualcosa di irrealizzabile, e gli utopisti dei folli visionari, o quella di affibbiare l’etichetta di “utopico” è la maniera più comoda e veloce per liquidare un progetto che non si ha voglia, la capacità e il coraggio di realizzare? Perché se è innegabile che molte esperienze utopiche siano naufragate, è altrettanto vero che di utopia sono venate molte situazioni che invece esistono e strenuamente resistono opponendosi a una realtà che sempre più chiaramente mostra il proprio volto distopico.

Le immagini / L’utopia abitabile di Mondeggi – Silvia Albertazzi
Torna alla mente, di fronte a queste immagini, quanto Roland Barthes ebbe a scrivere sulle foto di paesaggi: che devono essere abitabili e non visitabili. Qui, Mondeggi, in effetti, non appare come un luogo per turisti, da visitare per poi passare oltre: tanto gli esterni quanto gli interni di Gavagna suscitano, piuttosto, la voglia di vivere in quei luoghi, fosse pure per un attimo.

letteraria_3dNicaragua / Gesù nella guerriglia – L’utopia del cristianesimo di base – Agostino Giordano
Nell’immaginario collettivo dei cosiddetti «cristiani del dissenso», non solo sudamericani ma anche europei e italiani in particolare, l’esperienza sandinista ha rappresentato senza dubbio un riflettore molto illuminante del percorso di lotta politica convergente con le istanze del marxismo-leninismo.

Colombia / Nel fango, l’oro dei passi – Paolo Vachino
Eduar Lanchero, non un personaggio di fantasia ma un uomo, un filosofo, un paladino dei diritti umani, un rivoluzionario, nato e vissuto in Colombia, le cui intuizioni, le sue letture del conflitto colombiano, la sua proposta di creare un modello alternativo alla violenza e allo sfruttamento, hanno scritto una pagina molto importante della Comunità di Pace di San José de Apartadó.

Anarchia / Il paese di Utopia? A metà strada tra Benevento e Campobasso – Giuseppe Ciarallo
La folla era entusiasta e le parole di Cafiero conquistarono persino il parroco il quale, nella foga del momento, pare che inneggiò alla rivoluzione sociale, paragonò il Vangelo al socialismo e definì gli internazionalisti, apostoli della parola di Cristo. Nel paese di Gallo, gli anarchici ripeterono l’azione e anche qui vennero accolti come liberatori.

No Tav / Le «libere repubbliche» no tav della Val di susa – Wu Ming 1
Un movimento è rivoluzionario se converte i riferimenti agli spazi in un linguaggio e una prassi che liberano i tempi. Nella frase «resteremo qui finché vorremo», l’elemento più importante non è il «qui» – una piazza, una scuola occupata, un prato, una casa sull’albero – ma il «finché vorremo». È la rottura del tempo a dare senso allo spazio.

Fantascienza / Essere rivoluzione per abbandonare l’utopia. Una questione di fantascienza? – Alberto Sebastiani
Il capitalismo e le società su esso fondate non possono avere (ma soprattutto non vogliono) alternative, e il gruppo di Attentato all’utopia decide di debellare il “virus”: distruggere ogni traccia di questa società. Il quinto principio (2009) si fonda sul medesimo concetto di omologazione totale violenta. Il capitalismo realizzato (la sua utopia) presenta nell’ultimo romanzo di Catani una casta di ricchi abitanti della tecnologicamente avanzatissima città Diaspar (anagramma incompleto di “Paradiso”), isolata e nascosta al resto del mondo, il Mondo B, in cui le persone comuni sono rese sostanzialmente schiave del tricolon “produci, consuma, crepa”.

Lunga vita / Vivere a lungo, vivere male: utopia della longevità e liberismo – Wolf Bukowski
Ognuno desidera una lunga vita, ma quando questo desiderio è fatto proprio da un potere oppressivo assume una dimensione politica costitutivamente reazionaria. La vita lunga viene giocata contro la vita dignitosa, esattamente come la vita eterna promessa dalle religioni è posta come alternativa a una vita piena qui e ora, ed è ostacolo alla lotta per una vita emancipata su questa terra. E non è un caso che oggi, quando il socialismo sembra uscire dalla storia (anche se in verità, vecchia talpa!, sta scavando sottoterra), riprendano fiato l’illusione escatologica e i crudeli progetti divini.

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Brazil / Il realismo dell’impossibile – Silvia Albertazzi
Sono moltissimi i film e i romanzi che raccontano di comunità immaginarie create da personaggi in fuga da realtà di oppressione, distruzione o morte: nella maggior parte dei casi, gli sforzi di questi pionieri dell’impossibile sono destinati a infrangersi contro le perversioni del reale; quasi sempre, le comunità utopiche nate dalla migrazione ai confini della realtà (e oltre) si danno leggi, norme, governanti che presto trasformano il sogno in incubo. Non è un caso, infatti, che in narrativa il numero delle distopie superi di gran lunga quello delle utopie, a suggerire come l’umanità sia incapace, persino nel mondo fantastico, di realizzare dal basso una comunità perfetta.

Architettura / Arte, architettura e geografia utopica. Nel bene e nel male – Cristina Muccioli
Il trionfo della disciplina si celebra sulle ceneri di una precedente, grandiosa utopia di origine proto rinascimentale, quando a Filippo Brunelleschi venne richiesto di progettare in Firenze un palazzo in grado di ospitare e soccorrere, crescere ed educare gli individui più fragili, più deboli, indifesi e improduttivi della società: i bambini abbandonati. Così nacque a partire dal 1419 lo Spedale degli Innocenti, nome comune diventato poi cognome per molti che testimoniano di questa discendenza da salvati. Fu il primo brefotrofio d’Europa, progettato per accogliere, tutelare e proteggere, non per controllare e inibire, o per meglio dirla con Foucault, per sorvegliare e punire.

Medicina / Restare umani – l’ultima utopia della medicina moderna – Franco Foschi
La storia della medicina è stracolma di utopisti e visionari. Tra quelli che preferisco, perché proveniente dai miei ambienti di lavoro della sala parto e delle neonatologie, il dottor Semmelweiss, così ben raccontato da quella detestabile e ambigua persona, medico dei poveri e gran scrittore, di Céline: Semmelweiss coltivò il sogno realistico di vivere in un ambiente privo di infezioni – e come molti utopisti realisti venne sbeffeggiato, allontanato, perseguitato, e morì solo e pazzo.

Febbre / Le radici del cielo – l’utopia visionaria di Gary – Massimo Vaggi
Non è dunque un caso che adori tra gli altri anche Romain Gary, e che consideri Le radici del cielo non solo e non tanto – come è stato affermato – il primo vero romanzo ecologista, ma un grandissimo romanzo visionario, un paradigma dell’utopia estrema.

letteraria_3Orto dei tu’rat / Un progetto ambientale che pratica l’utopia dell’oasi spremendo acqua dal vento – Milena Magnani
L’immagine di un’utopia che si persegue nel piccolo, tra gli interstizi di sassi che resistono, quella di cui si fa esperienza incontrando il progetto ambientale Orto dei Tu’rat, un paesaggio di pietra e vento che sfida l’inarrestabile avanzata del deserto. Un progetto nato in Salento, che è una delle aree europee indicate dalle ultime ricerche sull’ambiente come quella a maggior rischio di desertificazione, zona in cui i fenomeni di erosione e salinizzazione dei suoli stanno mostrando da tempo il loro aggressivo aspetto di non ritorno.

Libri per ragazzi / Senza famiglia: liberi adolescenti in libero stato – Sergio Rotino
C’è un desiderio che tutti gli adolescenti – anche noi, quando stavamo attraversando tale “tappa evolutiva” – hanno in qualche modo vagheggiato. Almeno, tutti gli adolescenti prima dell’avvento dei Social, prima dell’arrivo di quello che appare un meraviglioso (ma anche pericoloso perché ancora da testare) subsistema di democrazia diffusa, basata sull’elettronica di consumo. Il desiderio è, in pratica, quello di vivere in un mondo dove gli adulti non esistano. Spariti, come per incanto, per qualche misterioso motivo. Spariti e basta.

I matti / La città dei matti e l’utopia della realtà – Alberto Prunetti
Liberare i pazzi è stata un’utopia che si è realizzata. Che tanti psichiatri radicali hanno reso possibile. Un’utopia della realtà, per citare Franco Basaglia, un’utopia che poi deve fare i conti con una realtà che non ha più nulla di utopico, con un senso comune che è sempre più recintato dai paletti del conformismo. Insomma, aperti i manicomi, bisogna adesso ricominciare da capo: liberare le città, i quartieri, i condomini, perché il disagio psichico è diffuso quanto la tristezza e la paura.

Kurdistan / Società senza stato – Marco Rovelli
Mexmur è stata la prima città dove si è sperimentato il confederalismo democratico, che è la proposta politica lanciata da Ocalan dopo il suo arresto, e che adesso viene realizzata su più larga scala nel Rojava, il Kurdistan siriano. Una svolta teorica considerevole, quella del Pkk: da essere un partito, come tanti nati negli anni Settanta, di stampo marxista-leninista, che aveva al suo centro la richiesta di uno Stato-nazione curdo, a una teoria e a una pratica libertarie, mutuate in gran parte dai libri di Murray Bookchin, uno dei massimi pensatori anarchici del Novecento, e dalla sua teoria del “municipalismo libertario”.

letteraria_3cIsis / Dove non c’è futuro: distopia e stato islamico – Lorenzo Declich
Può essere utile, per capire questo punto, osservare che lo Stato Islamico ha riviste in lingue diverse – inglese, francese, turco, arabo – ognuna con contenuti specifici, diretti insomma a una certa comunità linguistica o nazionale (lo vedremo meglio più avanti). Pescando invece fra le varie pubblicazioni digitali troviamo testi “strategici” dedicati ai diversi contesti. Lo Stato Islamico, in “Occidente”, vede un futuro – e qui torniamo a “La Haine” – in cui dai “lupi solitari” si passa a “gang musulmane” che, fra le altre cose, “si infiltrano in altre gang”. Ecco qua. Con questa valigetta degli attrezzi parliamo di una “visione” dello Stato Islamico che – viste le premesse – non potrebbe essere altro che distopica, perché invita all’azione e alla partecipazione chi un’utopia non ce l’ha e un futuro non lo vede, chi si pone il problema di vivere “da protagonista” e/o in maniera più o meno eroica un presente senza vie d’uscita.

Sette religiose / Linguaggio utopistico e manipolazione – Giuliano Santoro
Dal 18 Brumaio di Luigi Bonaparte in poi sappiamo che l’efficacia di ogni controrivoluzione è data dalla sua capacità di sussumere, inglobare, pervertire le istanze prodotte dalla rivoluzione. Il linguaggio del fascismo prova costantemente a impadronirsi di parole provenienti da sinistra. La grammatica neoliberista, da Reagan a Zuckerberg, è intrisa di utopie libertarie e retoriche partecipative. La sconfitta di un ciclo di lotte, il suo momentaneo esaurimento, producono sempre lo sfondamento della reazione nel campo delle narrazioni rivoluzionarie.

Mondeggi Bene Comune / Immagina, rievoca, viaggia nel tempo, veloce come il pensiero – Adriano Masci
Mondeggi, per Alessio e Duccio, non è solo un laboratorio, è invece, a tutti gli effetti, una realtà, un modello di risoluzione o comunque di risposta alla marginalità, al disagio periferico, alla disoccupazione, quando le istituzioni non cambiano nulla o aggravano le cose. In questo senso c’è uno scavalcamento del “rifiuto del lavoro” che imperversa negli anni dell’orda d’oro, ’68-’77, quando il lavoro non manca ma è sfruttamento disumano e rifiutarsi, disobbedire, sabotare, è giusto. Ora invece il lavoro è qualcosa da rifondare, perché è succube dell’algoritmo finanziario, sfrutta attraverso la flessibilità contrattuale, inibisce tramite la precarietà pervasiva, e la lotta passa attraverso l’immaginario pratico di un modello altro, che è possibile. Non senza rischiare, certo, non senza oltrepassare la legalità quando questa non coincide affatto con la giustizia sociale.

Guatemala / L’utopia nella voce – Simone Scaffidi
Ti vedi tu, ragazzo? In questo momento, fra me e te, chi ha il monopolio della parola? Forse tu non mi denuncerai ma di sicuro tradirai la mia voce con le tue mille traduzioni. Io già mi sto sforzando di parlarti in castigliano, in una lingua che non è la mia, tu dal castigliano trascriverai le mie parole nella tua lingua… e della mia di lingua che cosa rimarrà?
Il tuo monopolio. E qualche briciola del mio mais.
Per quanto tu ti possa sforzare di raccogliere le nostre testimonianze rimani un pelle di latte con il pene, e un pelle di latte con il pene può solo abbozzarlo il cammino di noi donne indigene.

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Estetiche del potere. Virtualizzazione, estetizzazione, neutralizzazione ed altre patologie virali del Tele-Capitalismo https://www.carmillaonline.com/2016/05/04/estetiche-del-potere-virtualizzazione-estetizzazione-neutralizzazione-ed-patologie-virali-del-tele-capitalismo/ Wed, 04 May 2016 21:30:50 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=29579 di Gioacchino Toni

videodrome_tv«L’Intrattenimento è la falsa felicità di una vita che resta noiosa e denegata. L’Informazione è la falsa conoscenza di una realtà che resta oscura e oscenizzata» Carmine Castoro

«Non ci viene chiesto di credere, ma di comportarci come se credessimo… Ciò significa che l’informazione è proprio il sistema del controllo» Gilles Deleuze

L’interminabile rappresentazione della politica italiana spettacolarizzata dalla televisione ha, per certi versi, in Tangentopoli il suo intervallo tra la prima e la seconda stagione di una messa in scena seriale televisiva che riprende estetiche della ficiton, [...]]]> di Gioacchino Toni

videodrome_tv«L’Intrattenimento è la falsa felicità di una vita che resta noiosa e denegata. L’Informazione è la falsa conoscenza di una realtà che resta oscura e oscenizzata» Carmine Castoro

«Non ci viene chiesto di credere, ma di comportarci come se credessimo… Ciò significa che l’informazione è proprio il sistema del controllo» Gilles Deleuze

L’interminabile rappresentazione della politica italiana spettacolarizzata dalla televisione ha, per certi versi, in Tangentopoli il suo intervallo tra la prima e la seconda stagione di una messa in scena seriale televisiva che riprende estetiche della ficiton, del docudrama e del mockumentary. Tangentopoli chiude la prima stagione ed inaugura la seconda. Quest’ultima ha portato come novità principale la virtualizzazione del dissenso della piazza nei confronti del palazzo. I talk show televisivi, l’infotainment in tutte le sue nauseabonde forme, hanno messo in scena un conflitto tra piazza e palazzo che si risolve, alla fine di ogni puntata, nel rassicurante riassorbimento del dissenso all’interno del sistema e ciò avviene, principalmente, grazie ad un nuovo saltimbanco di turno che, di volta in vota, veste il ruolo di “novità antisistemica”. Tale attore cambia nel giro di alcune puntate perché, inevitabilmente, è destinato a dover essere sostituito palesandosi, nel frattempo, e sempre più velocemente, come anch’egli sia espressione del palazzo.

In alcune puntate, tale personaggio, capace di fagocitare l’ostilità nei confronti dell’establishment, può assumere l’immagine dell’uomo che si è fatto da solo mettendo a profitto le potenzialità del tubo catodico, oppure può indossare le vesti di un patetico sempliciotto logorroico ed iperattivo rottamatore capace di alternare il serioso completo d’ordinanza a citazioni giovanilistiche con pantaloni che svelano quattro dita di calze e smartphone sempre col clic in canna. Le nuove puntate della serie dovrebbero offrire nuovi protagonisti. Potrà trattarsi di un personaggio un po’ paonazzo in felpa localistica variabile, con un tablet sottobraccio, di cui probabilmente non ha ancora capito la funzione, ma fa tanto “popolarfuturista”, o di qualche videopredicatore qualunquista che gioca con la tv sulla falsariga del morettiano: «Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?» (Ecce Bombo, 1978). Tali nuovi personaggi sembrano, in entrambi i casi, più concentrati sul cosa dire per assorbire consenso immediato a buon mercato che non a badare se quel che dicono di pomeriggio è coerente con ciò che hanno affermato di mattino. La sensazione è che la serie sia davvero ormai con l’acqua alla gola e gli sceneggiatori inizino a non sapere più cosa inventarsi per prolungare lo spettacolo se non alternando e miscelando armi di distrazione/seduzione/distruzione di massa, dentro e fuori lo schermo televisivo.

La televisione ha contribuito a trasformare la politica italiana svuotandola, allontanando la gente dalla politica attiva ed, al tempo stesso, ha assunto un ruolo cruciale nel regolamentare la spartizione degli irriducibili e fedeli spettatori tra i nuovi politici cacciatori di “mi piace” utili ormai solo al mantenimento di una narrazione falsamente antisistemica in grado di riassorbire l’ostilità anti-palazzo. Sembra davvero di avere a che fare con un sistema agonizzante, perennemente in attesa di qualche trovata messianica, di un coup de théâtre, a cui non sembrano credere nemmeno i più creativi del palazzo e tutto ciò mentre le scelte politiche ed economiche vengono pianificate da organismi privati totalmente svincolati da una benché minima forma rappresentanza [su Carmilla].

castoro-clinica-tvA proposito del ruolo assunto della televisione in epoca contemporanea è da poco uscito l’interessante saggio di Carmine Castoro, Clinica della TV. I virus del Tele-Capitalismo. Filosofia della Grande Mutazione, Mimesis, Milano – Udine, 2015, 266 pagine, € 20,00. L’intento del libro è quello di rintracciare ed evidenziare quelle logiche e quelle estetiche che allontano dalla comprensione della realtà in cui si vive. L’autore sostiene la necessità di una nuova ontologia critica dell’immagine in grado di dare autonomia e capacità critica a coscienze ormai abbandonate alle lusinghe del progresso e del benessere neoliberista e Clinica della TV, individuando una decina di “virus” propri del Tele-capitalismo, offre davvero numerosi spunti a proposito del ruolo che tale medium, con inevitabili riferimenti al web, viene ad avere nell’età contemporanea.

A proposito dell’attuale Presidente del Consiglio, protagonista momentaneo della pessima serie tele-politica italiana trasmessa a reti unificate, a cui ci si riferiva in apertura, anche Carmine Castoro, nel suo libro, non manca di segnalare come lo spettacolo sia davvero osceno e si presenti oggi come «un’orgia di slide, selfie, tweet, spending interattive, lavagne informatizzate, open government, e tutta una faraonica azione web-aggressive e, direi io, complexity-resistent, ovvero galoppante sul fronte mediocratico ma resistente all’interezza e alla poliedricità delle questioni sul tappeto, puntata più sulle mirabilie del 2.0 che sulla ruvidezza di una cittadinanza in piena debacle» (p. 61). Ed, ancora, continua l’autore, in Renzi «ogni esternazione è un fritto misto di inflessione toscana, battutine da animatore, metafore calcistiche, magnifiche sorti e progressive, dribbling sofistici, canzonature di disagi e coperture di Grandi Consorterie e volponi da off shore: un tritame disdicevole intriso di pavoneggiamenti sognanti e salmodianti che, ovviamente, dimentica di dissodare le strutture socio-economiche e che passa – suprema beffa – per realpolitik senza macchia e senza paura, mentre è solo il vecchio Ancien Regime smaltato di tele-giovanilismo e tele-ginnastica, parolai e posturali, in una selva di short message e frasi a effetto che sanno solo di dirigismo e auto-incensamento» (p. 62).

Nell’era contemporanea il Potere, sempre più reticolare, non ha interesse a vietare totalmente le notizie ma agisce affinché i media trasmettano un flusso casuale di comunicati decontestualizzati. Il Potere contemporaneo, argomenta Castoro, affianca all’intervento repressivo pratiche di seduzione consumistica, di instupidimento, deprivanti l’essere umano di capacità critica, costruendo uno stato di noia diffusa volto ad allontanare gli individui dall’agire politico. Si tratta, secondo l’autore, di un «tele-potere che meccanizza le nostre risposte, ci abitua al sensazionalismo e a contenuti inutili, neutralizza la forza stridente delle vere notizie che restano quasi sempre nel sottoscala dei tg, ci nega piani d’insieme e spettri allargati per cercare di capire dietro l’episodio occasionale di cronaca, lo scoop stupefacente o gli incontri fra i Grandi della terra, cosa cova, cosa si cela, l’unità di cose lontane, le matrici culturali realmente nuove che potremmo abbracciare a livello mondiale per crescere ed emanciparci tutti» (p. 96). L’effetto auto-determinante dei media, si sostiene nel saggio, consiste «nel dare una patente di ovvietà, necessità e irreversibilità a quella che è solo una, e una soltanto, delle milioni di possibilità di profilare la nostra quotidianità, di tracciare i nostri bisogni, di alzare la temperatura della nostra felicità» (p. 97)

L’informazione veicolata dai media sembra davvero sequestrare gli accadimenti pubblici rendendoci incapaci anche solo di capire se sono davvero successi. Il linguaggio televisivo, nel suo essere linguaggio di potere, assume la forma di sapere, ma si tratta di un sapere parodistico e vuoto che trova giustificazione in se stesso. Castoro sostiene che il fatto che il reale venga istituito attraverso la sua rappresentazione, o che la costruzione del fatto venga operata attraverso il suo racconto mediatico, presuppone la costrizione alla fonte stessa come la condizione a priori di ogni trasmissione di esperienza. Il condizionamento da infrastruttura, secondo l’autore, non è da ricercarsi nella parzialità dei messaggi, ma nella loro modalità. A tal proposito il saggio, riprendendo alcune riflessioni di Carlo Freccero (Televisione, 2013), evidenzia come la verità non risulti più nella rispondenza tra enunciato e realtà ma, piuttosto, nella “correttezza dell’enunciazione”. L’attuale televisione non si preoccupa di dire il vero circa un evento esterno, ma produce una sua verità che il pubblico ha modo di seguire mentre si costruisce in diretta.

In Clinica della TV si sostiene che oggi «il falso non è solo copertura o nascondimento del vero, ma, peggio, auto-determinazione e auto-rafforzamento di una luccicanza tecnologica, di una retorica del visibile così pervasive, credibili, osannate e al di sopra di ogni sospetto, da alimentare i nostri convincimenti più stabili con estrema facilità, fino a far indossare al Reale stesso l’indumento ottico che più serve a difendere taluni profitti privati, e/o orientare le masse verso alcune precise stazioni dell’indottrinamento e dell’illiberalità tout court» (p. 11).

Ciò che viene propinato dai media attrae intorno a qualcosa che risulta del tutto slegato da una corrispondenza oggettiva con la realtà; ciò che viene mostrato è un allestimento, una messa in scena. «Nel Tele-Capitalismo, insomma, la razionalità occidentale gioca il suo punto di svolta fra un rapporto potere-sapere imbastito su verità che hanno origine metafisica o svolgimenti storicistici presupposti certi e indubitabili, e, una volta crollate queste, l’utilizzo di tecniche addomesticanti che si presentano come valori inclusivi e livelli accettati di percezione e comportamento, e con i quali la televisione si incarica di irrigare il mentale e il sociale proprio per esercitare coercizione sulla libera espressione, da sempre ispida e riottosa allo status quo. Quello che Deleuze in una conferenza del 1987 così riassume splendidamente: “Avere un’idea non è dell’ordine della comunicazione… un’informazione è un insieme di parole d’ordine. Quando venite informati, vi dicono ciò che si presume che crederete. In altri termini informare è far circolare una parola d’ordine. Le dichiarazioni della polizia sono chiamate giustamente dei comunicati. Ci comunicano informazione, ci dicono ciò che si presume che possiamo, dobbiamo o siamo tenuti a credere. O anche a non credere, ma facendo come se ci credessimo. Non ci viene chiesto di credere, ma di comportarci come se credessimo… Ciò significa che l’informazione è proprio il sistema del controllo”» (pp. 19-20)

Videodrome99In tv, sostiene Castoro, tutti gli argomenti vengono miniaturizzati e banalizzati, tutta la complessità del reale tende ad essere ridotta a «statistiche di morte, citazioni di somme di danaro investito o meno dallo Stato, resoconti spicci di inviati-attacchini col microfono in mano e inquadrature di file di bare in bella mostra col solito piagnisteo di politici e opinionisti di sottofondo. Qui c’è tutta la potenza di fuoco, la retrattilità elastica di poderose liberalizzazioni nelle parole e nelle immagini, ma coagulate e assoggettate in chiacchiere, flash passeggeri, scalette di notiziari, prosopopee accademiche e telecompassioni da “pomeriggio in famiglia”. Il Tele-Capitalismo è davvero tutto qua, in questa santabarbara di ipocrisie e preconcetti che hanno però il sentore della libertà, l’eco lontana del pluralismo e della polifonia di voci “libere”» (p. 49).

Il saggio, nel passare in rassegna quelle che l’autore individua come dieci patologie virali del Tele-capitalismo, si apre affrontando la logica telecapitalistica della “Mutazione” intesa come «artificializzazione della realtà percepita che acquisisce i connotati dell’innaturale e dell’inappropriato, considerando invece per “natura” e per “proprium” un paesaggio biopolitico realmente condiviso, secondo l’ampiezza e la chiarezza di cause, processi, obiettivi» (p.17).

Un capitolo del libro è dedicato all’importante fenomeno della “Estetizzazione” ed, a tal proposito, si afferma che la logica telecapitalistica prevede un processo di riduzionismo del soggetto attraverso due passaggi: «un’anatomizzazione del “soma” secondo il modello imperativo dell’attrazione, della salute e della prestanza (seni turgidi, addomi piatti, muscoli gonfi, visi lisci, capelli folti, gagliardia motoria etc.) e una esteriorizzazione del “carattere” che deve smussare i suoi deficit, arrotondare il suo porsi, far vedere che il traguardo di massimo successo, l’alleluia di chi osserva, sono sempre prossimi, e che ci si presta senza rammarico al contegno di chi è bendisposto e vuole accedere al dogma mercantile del much expensive e/o del much more» (p. 231).

Nell’affrontare il processo di “Neutralizzazione” Castoro riprende alcune riflessioni di Doris Lessing (Le prigioni che abbiamo dentro, 2010) ed afferma che: «La logica telecapitalistica della neutralizzazione consiste nella positivizzazione di tutto quanto […] Despoti sudamericani o tele-democrazia che si abbiano di fronte, dice a chiare lettere la Lessing: “Il lavaggio del cervello si basa su tre fondamenti o modalità oramai ben noti. La prima è la tensione seguita dal rilassamento. Questa per esempio è la formula usata dagli interrogatori del prigioniero, quando l’inquisitore è alternativamente duro e tenero – prima un sadico, poi un amico gentile. La seconda è la ripetizione: dire o cantare la stessa cosa in continuazione. La terza è l’uso degli slogan, la riduzione di idee complesse a una semplice serie di parole”. Semplicità che nei laboratori delle mnemotecniche e del self-management psicologico viene perseguita come un principio di contabilità vero e proprio per togliere di mezzo tutto quanto è solo esornativo nelle nostre vite» (pp. 219-222).

Un’altra patologia virale indotta dalla televisione è quella che può essere definita come “messa in finzione della realtà” – processo individuato da Marc Augé (La guerra dei sogni) sin dai primi anni Novanta [su Carmilla] – ed a tale questione Castoro dedica il capitolo intitolato “Virtualizzazione”. «La logica telecapitalistica della virtualizzazione è il rischio della sparizione della realtà, della sua fantasmizzazione, e del suo tele-trasporto, quasi sotto banco, verso una sorta di ammortizzazione del reale stesso, che si astrae, si disperde, si interrompe e involve in un universo parallelo» (p. 187).

Trattando il processo di virtualizzazione, è inevitabile che l’autore finisca per estendere il ragionamento al web. Secondo l’autore il virtuale «è come se oscillasse da un lato, in maniera ascensionale, verso un arricchimento della nostra soggettività, delle nostre chance di ri-creare il mondo e i rapporti politici e affettivi che investiamo in esso, attingendo a quella “pratica di vuoto fertile” fatta di “riconoscimenti lievi” e “libera impotenza”, al vuoto come condizione paradossale e tormentosa della creatività, abitare la soglia, “sottrarre dentro” che significa “asciugarsi, divenire sempre più essenziali, vuoti, inesperti”. Dall’altro, verso una sorta di brillamento del reale, come quando si sprigiona sotto controllo l’energia di un ordigno: accensione e abbattimento. E quest’ultimo è l’esatto opposto di un virtuale inteso come anti-conformismo, ironia, rinascenza, sapienza impegnata, astensionismo delle risposte, incursione costante nel possibile, indefinitezza» (p. 187).

Facendo riferimento alla rete, l’autore, riprendendo alcune interessanti riflessioni di Giuliano Santoro (Cervelli sconnessi, 2014), afferma che «“l’intelligenza collettiva” è spesso bypassata dalla “emozione connettiva”, e che questo Sinusoide perverso-partecipativo dei sistemi digitali non può che chiamarsi, per dirla alla Santoro, con l’etichetta di “net-liberismo”. Intendendo con questa targa ideologica la grande trasformazione della Rete all’interno di un sistema socio-economico che avrebbe grazie ad essa incrudelito le sue leggi del profitto, del monopolio, del lavoro schiavistico o sottopagato, dei modelli di rabbonimento/ravvedimento delle masse» (p. 189). Afferma Castoro che sebbene le cause del processo di semplificazione e di ricerca di un facile sensazionalismo non siano da attribuirsi per intero alla smaterializzazione del capitale ed alle possibilità di simultaneità e di condivisione offerte dalla rete, è evidente che «l’utilizzo prevalentemente ludico-gossiparo-distrattivo di un certo linguaggio legato al virtuale non fa che approfondire la barbarie mentale e l’analfabetismo di ritorno, e rendere più caotica e oppressiva quella cortina invisibile di controllo e tele-sorveglianza che ci ha trasformati in cittadini-consumatori da invogliare e spolpare nelle maglie di un mercato sempre più smart» (p. 189).
Se da un lato la rete collega gli individui, dall’altro li mantiene in una situazione di isolamento; individui che cercano riscontri al loro ego attraverso asciutti riconoscimenti rilasciati da amicizie virtuali, di certo non migliorano la loro condizione di solitudine. «Nella società delle iperconnessioni ognuno di noi è agente di polizia mortuaria per l’altro, giudice che “nomina” ed elimina, sicofante e sabotatore perché sia sempre il vicino a fare da parafulmine e da anello debole della catena alimentare del Potere» (p. 191).

Circa le contraddizioni insite nel web, ci sembra valga la pena riprendere un ragionamento di Wu Ming 1, in parte riportato dallo stesso Castoro: «La questione non è se la rete produca liberazione o assoggettamento: produce sempre, e sin dall’inizio, entrambe le cose. E’ la sua dialettica, un aspetto è sempre insieme all’altro. Perché la rete è la forma che prende oggi il capitalismo, e il capitalismo è in ogni momento contraddizione in processo. Il capitalismo si affermò liberando soggettività (dai vincoli feudali, da antiche servitù) e al tempo stesso imponendo nuovi assoggettamenti (al tempo disciplinato della fabbrica, alla produzione di plusvalore). Nel capitalismo tutto funziona così: il consumo emancipa e schiavizza, genera liberazione che è anche nuovo assoggettamento, e il ciclo riparte a un livello più alto. La lotta allora dovrebbe essere questa: far leva sulla liberazione per combattere l’assoggettamento. Moltiplicare le pratiche liberanti e usarle contro le pratiche assoggettanti. Ma questo si può fare solo smettendo di pensare alla tecnologia come forza autonoma e riconoscendo che è plasmata da rapporti di proprietà e produzione, e indirizzata da relazioni di potere e di classe» (Wu Ming 1, Feticismo della merce digitale e sfruttamento nascosto: i casi Amazon e Apple).

Verrebbe da dire che grande è la con-fusione tra dentro e fuori gli schermi ma la situazione è tutt’altro che eccellente: «Da un lato, un virtuale sfilacciato, “democratico” perché di accesso garantito a tutti, splatter di testi e immagini, troppo spesso fasulli e pensati a tavolino; dall’altro un televisivo che ha ancora una funzione accentratrice e che richiede col suo futile organigramma maggioranze silenziose e prone» (p. 194)

clinica-tvCastoro auspica che l’immagine oggi smetta di «ingannare, ingigantire, ingiungere. Ovvero, falsificare accecando l’orizzonte fenomenologico delle cose e delle passioni; ingrandire smisuratamente e senza precipuo valore ciò che meriterebbe di essere odiato, respinto o accantonato; intimare comportamenti, appropriarsi dei nostri strati più profondi, diluire le capacità critiche, implementare il senso della disfatta se non si acconsente a certi status e a certi dispositivi disciplinari sempre vigenti» (p. 10). Da parte nostra, affinché tutto ciò possa accadere, pensiamo occorra che il reale, che, se pure è scomparso dagli schermi, non lo è al di fuori di essi – pur essendosi avviato a quel processo di “messa in finzione” su cui si è speso Marc Augé [su Carmilla] – riprenda il sopravvento ma lo riprenda incanalandosi in una prospettiva volta ad abolire lo stato di cose presente. Solo così l’immagine può smettere di ingannare, ingigantire ed ingiungere. Solo così la politica può tornare ad essere partecipata e non simulata sugli schermi. Solo così l’essere umano può immaginare, prospettare e costruire un futuro alternativo all’esistente.

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