Giro d’Italia – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Sport e dintorni – Storia sociale della bicicletta, tra modernità e antimodernità https://www.carmillaonline.com/2020/06/16/sport-e-dintorni-storia-sociale-della-bicicletta-tra-modernita-e-antimodernita/ Tue, 16 Jun 2020 20:38:20 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=60566 di Alberto Molinari

Stefano Pivato, Storia sociale della bicicletta, Il Mulino, Bologna, 2019, pp. 251, € 22,00.

Studioso dei comportamenti collettivi e dell’immaginario politico nel Novecento, Stefano Pivato è stato uno dei primi storici italiani che ha messo in luce i risvolti politici e sociali dello sport. Tra i temi di carattere sportivo affrontati da Pivato, la Storia sociale della bicicletta può essere considerata l’ultima tappa di un itinerario di ricerca iniziato con Sia lodato Bartali (1986), proseguito nel 1992 con La bicicletta e il sol dell’avvenire e poi con Il Touring Club Italiano nel 2007. Ricorrendo ad [...]]]> di Alberto Molinari

Stefano Pivato, Storia sociale della bicicletta, Il Mulino, Bologna, 2019, pp. 251, € 22,00.

Studioso dei comportamenti collettivi e dell’immaginario politico nel Novecento, Stefano Pivato è stato uno dei primi storici italiani che ha messo in luce i risvolti politici e sociali dello sport. Tra i temi di carattere sportivo affrontati da Pivato, la Storia sociale della bicicletta può essere considerata l’ultima tappa di un itinerario di ricerca iniziato con Sia lodato Bartali (1986), proseguito nel 1992 con La bicicletta e il sol dell’avvenire e poi con Il Touring Club Italiano nel 2007.
Ricorrendo ad una molteplicità di fonti archivistiche e a stampa, a documenti prodotti dalla cultura popolare, immagini, poesie, racconti e canzoni, l’autore assume come chiave di lettura principale della storia sociale della bicicletta la dialettica tra “modernisti” e “antimodernisti” e indaga gli svariati intrecci tra il mezzo a due ruote e il contesto sociale italiano.

La ricostruzione di Pivato consente di cogliere da un’angolatura particolare alcune importanti dinamiche e trasformazioni dell’Italia contemporanea, dell’immaginario collettivo come della cultura materiale, del costume come della questione di genere, dei soggetti politici come delle figure sociali per le quali il mezzo ciclistico diventa parte integrante della vita quotidiana.
Nel racconto della lunga e affascinante storia delle due ruote, l’autore dà voce anche suoi cantori mostrando «la convivenza e la contaminazione fra cultura alta e cultura bassa» che «costituiscono una delle caratteristiche della bicicletta e della sua declinazione in varie forme»: dagli scritti dei letterati innamorati della bicicletta ai tempi dei “pionieri” agli articoli degli scrittori che seguivano il Giro d’Italia, dai fogli volanti dei cantastorie che narravano le gesta dei campioni alle canzoni di cantautori come De Gregori, Paoli e Conte che hanno rievocato le atmosfere dei tempi di Girardengo, di Coppi e di Bartali.

Tra fine Ottocento e primo Novecento, quando l’ingombrante velocipede viene sostituito dalla più economica e maneggevole bicicletta, le due ruote si diffondono progressivamente trasformandosi da stravagante passatempo per aristocratici a strumento per le passeggiate della borghesia, da esercizio per pochi a bene di consumo popolare, utilizzato da impiegati e operai per recarsi al lavoro.
La pratica ciclistica si carica di significati connessi alla modernità: rappresenta l’ebbrezza della velocità (in bicicletta si possono percorrere 20 km all’ora, contro i 4 a piedi), consente di ampliare l’esplorazione del paesaggio e la conoscenza della penisola, apre nuovi orizzonti fisici e mentali, trasmette un senso di libertà.
Ai ciclofili entusiasti si contrappongono i ciclofobi che condannano il nuovo mezzo. «E l’antimodernità – scrive Pivato – è una categoria dentro la quale stanno gran parte delle motivazioni che si oppongono alla bicicletta. Vi è la paura delle genti di campagna quando vedono per la prima volta il mostro meccanico; così come vi è il timore della chiesa per il ridicolo e la mancanza di decoro cui si espongono i preti che montano le due ruote. Dentro l’antimodernità ci sta anche la tutela della pudicizia che è alla base delle limitazioni e dei divieti posti alle donne. E così pure l’iniziale rifiuto del movimento operaio per la bicicletta considerata “un prodotto del capitalismo borghese”».
Pivato dedica pagine ricche di informazioni, aneddoti e riflessioni agli atteggiamenti contraddittori assunti dagli ambienti ecclesiastici nei confronti della bicicletta, alle istanze emancipatrici che il nascente movimento delle donne attribuisce alle due ruote come alle riserve della scienza e ai pregiudizi dell’opinione pubblica conservatrice nei confronti delle donne in bicicletta, al dibattito interno al movimento socialista tra gli intransigenti “antisportisti” e i fautori di un uso politico del mezzo ciclistico inteso come strumento per diffondere la propaganda e come veicolo di socialità.

In prossimità della prima guerra mondiale, la bicicletta irrompe nella vita militare e nel discorso patriottico. Anche in questo caso, Pivato evidenzia i contrasti che accompagnano l’utilizzo del mezzo. Da un lato, come per i sacerdoti e per le donne, permane un pregiudizio di natura estetica che vede nell’uso della bicicletta il rischio di «mettere a repentaglio la credibilità e il decoro delle forze armate»; dall’altro, si pensa di poter sfruttare a fini militari la velocità e la mobilità delle due ruote.
Ad alimentare l’immagine di rapidità e di efficienza della bicicletta contribuiscono i futuristi che allo scoppio della guerra si arruolano nel Corpo dei ciclisti volontari. Il mezzo non si rivela però adatto ad un conflitto che si configura di posizione, mentre riesce utile in un frangente drammatico come la ritirata di Caporetto perché le due ruote «consentono una libertà di movimento maggiore rispetto a chi si affida a mezzi pesanti come i carri, spesso bloccati dagli intasamenti che la precipitosa ritirata provoca».

Nel ventennio fascista, «la bicicletta diventa uno degli indici più caratteristici della nazionalizzazione del tempo libero del regime». La “Carta dello Sport”, varata nel 1928, affida il compito di dare impulso al ciclismo amatoriale alla Federazione Italiana dell’Escursionismo che organizza convegni, concorsi, gite di massa nell’ambito del Dopolavoro. Le escursioni in bicicletta rappresentano «uno degli strumenti più efficaci della mobilitazione degli iscritti per educare l’italiano “nuovo” attraverso itinerari e mete che devono familiarizzare i partecipanti alla conoscenza della nazione e delle opere del regime. Nelle parate del Dopolavoro, della Milizia e delle Giovani italiane il veicolo a due ruote è una presenza costante».
Alla vigilia del secondo conflitto mondiale, la popolarizzazione del mezzo ciclistico è favorita dall’abolizione della tassa di circolazione che entra in vigore nel 1939 nel pieno della campagna autarchica quando la limitazione dei carburanti rilancia l’utilizzo delle due ruote. Ricorrere all’«”autarchico cavallo d’acciaio” diventa, per la possibilità di economizzare il carburante, una delle più significative manifestazioni di adesione agli interessi e ai sentimenti nazionali con l’entrata in guerra dell’Italia».

Come osserva Pivato, «se la bicicletta diviene uno dei simboli dell’”andata verso il popolo” del regime fascista, si trasforma però in uno dei mezzi che più attivamente contribuisce alla sua caduta».
Poiché garantisce rapidità di esecuzione e aumenta le possibilità di fuga, durante la Resistenza la bicicletta è uno strumento determinante per le operazioni militari dei Gruppi di Azione Patriottica che agiscono nelle città. Anche per le staffette partigiane, come si evince dalle storie e dalle testimonianze delle donne impegnate in varie missioni (portare ordini ai compagni, distribuire giornali clandestini, trasportare viveri, indumenti o armi), è fondamentale l’uso della bicicletta. Ricordava una di loro: «Quando optai per combattere in città […] non sapevo sparare […] ma sapevo perfettamente andare in bicicletta». E dal punto di vista simbolico il protagonismo delle staffette rappresenta «una sorta di rivincita postuma delle donne nei confronti della bicicletta il cui uso, qualche anno addietro, era loro precluso o fortemente condizionato».

Lungo il Novecento la fortuna della bicicletta dipende anche dalle grandi corse, a partire dal Giro d’Italia e dal Tour de France.
Agli albori del ciclismo, l’epopea delle due ruote è legata alla fatica e al coraggio, alla volontà di portare a compimento un impegno attingendo fino all’estremo della forze, al mito delle origini oscure e povere, allo sport come forma di riscatto e come strumento di mobilità sociale.
Nella loro evoluzione, le competizioni fanno poi emergere la figura del campione. «Nell’immaginario del Ventesimo secolo – scrive Pivato – il campione sportivo viene a sostituire una delle figure più caratteristiche della cultura classica: quella dell’eroe che non sta più nelle pagine di un romanzo ma sulle strade del Tour e del Giro».
Nel secondo dopoguerra sono anzitutto Gino Bartali e Fausto Coppi i campioni che suscitano le passioni degli italiani. La rivalità che si instaura tra i due ne accresce la popolarità e definisce i meccanismi di identificazione degli italiani in personaggi dalle caratteristiche opposte, tanto tecnicamente e caratterialmente quanto, almeno nella rappresentazione popolare alimentata dai mezzi di comunicazione, ideologicamente (il “pio” Bartali e il laico Coppi). Nel clima della guerra fredda il mondo ciclistico si divide in due fazioni contrapposte e il dualismo sportivo assume una connotazione politica: come si sta o con De Gasperi o con Togliatti, così si fa il tifo o per Bartali o per Coppi: «In un periodo in cui il partito democristiano si avvia a divenire egemonico e a emarginare le sinistre dalla vita politica e sociale del paese, le sconfitte che Coppi infligge al “De Gasperi del ciclismo” acquistano, per quanti hanno creato la leggenda di un Coppi comunista, il valore di una sconfitta dell’Italia democristiana».
Anni dopo, sarà Marco Pantani a riproporre l’immagine del ciclista antico come eroe della fatica, refrattario alle tattiche, imprevedibile, capace di illuminare improvvisamente una gara con i suoi scatti improvvisi sulle montagne del Giro o del Tour.

L’ultimo capitolo del libro – intitolato “Dalla modernità all’antimodernità” – si chiude con uno sguardo sul rovesciamento di paradigma che ha caratterizzato la bicicletta nell’epoca della motorizzazione di massa e delle crisi ambientali.
«A partire dagli anni Sessanta – nota Pivato – in coincidenza con il boom economico e l’avvio della motorizzazione di massa, la bicicletta viene progressivamente dismessa e dal decennio successivo, nel periodo della prima crisi energetica globale, quella che all’origine era nata come il simbolo della modernità per eccellenza si trasforma nell’emblema dell’antimodernità. Anzi, diventa la rappresentazione di quello che uno dei massimi antropologi contemporanei, Marc Augé, ha definito “un nuovo umanesimo” diretto alla salvaguardia ambientale di fronte al disastro ecologico globale».
Ancora una volta, il ruolo della bicicletta e i significati che le vengono attribuiti rimandano a rilevanti passaggi storici, confermando ciò che sosteneva quarant’anni fa Gianni Brera: «Traverso le viti di una bicicletta si può anche scrivere la storia d’Italia».


Sport e dintorni

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Sport e dintorni – Sia lodato Bartali https://www.carmillaonline.com/2018/10/14/sport-e-dintorni-sia-lodato-bartali/ Sat, 13 Oct 2018 22:01:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=49118 di Alberto Molinari

Stefano Pivato, Sia lodato Bartali, Castelvecchi, Roma, 2018, pp. 158, € 17,50.

Attento studioso dei rapporti tra politica e immaginario, Stefano Pivato è stato uno dei primi (e pochi) storici che ha aperto il mondo accademico universitario alle ricerche sullo sport. Tra i suoi numerosi e importanti contributi, nel 1985 usciva un saggio su Gino Bartali. Come ricorda Pivato, all’epoca «la storia dello sport muoveva i suoi primi passi»: «la storiografia rimaneva una disciplina tutto sommato estranea a un fenomeno che pure era stato, fin dalle origini, fra la fine [...]]]> di Alberto Molinari

Stefano Pivato, Sia lodato Bartali, Castelvecchi, Roma, 2018, pp. 158, € 17,50.

Attento studioso dei rapporti tra politica e immaginario, Stefano Pivato è stato uno dei primi (e pochi) storici che ha aperto il mondo accademico universitario alle ricerche sullo sport. Tra i suoi numerosi e importanti contributi, nel 1985 usciva un saggio su Gino Bartali.
Come ricorda Pivato, all’epoca «la storia dello sport muoveva i suoi primi passi»: «la storiografia rimaneva una disciplina tutto sommato estranea a un fenomeno che pure era stato, fin dalle origini, fra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, un collettore di passioni, emozioni e sentimenti». Rispetto alla diffidenza degli storici nei confronti degli studi sullo sport, con il suo lavoro Pivato metteva in luce la complessità del fenomeno sportivo che, oltre all’aspetto emozionale e ludico, rimanda ad «un intreccio che coinvolge la dimensione politica, la storia del costume e della mentalità» (pp. 9-10).
La ricerca è stata da poco ripubblicata per i tipi di Castelvecchi con il medesimo titolo – Sia lodato Bartali – ma in una versione ampiamente modificata. Il volume, agile e di piacevole lettura e nello stesso tempo rigoroso e ben documentato, ripercorre in tre capitoli la vicenda che porta alla creazione del “mito” Bartali, comprende un originale excursus su “Bartali secondo Paolo Conte” ed offre al lettore la possibilità di accedere direttamente ad alcune fonti attraverso un’appendice antologica nella quale sono raccolti articoli particolarmente significativi sul campione toscano pubblicati tra gli anni Trenta e Quaranta.

Per spiegare le origini della mitizzazione del “pio” Bartali – cattolicissimo, nel 1937 prende l’abito del Terz’ordine carmelitano – Pivato risale agli albori del Novecento quando, superata l’iniziale ostilità nei confronti della pratica sportiva, i settori del movimento cattolico più attenti alle trasformazioni indotte dalla modernità individuano nello sport «uno strumento in grado di forgiare una nuova antropologia del militante cattolico» impegnato nella conquista cristiana della società: «Lo sport può insegnare al giovane militante valori quali la disciplina, la perseveranza, la tenacia ma soprattutto quel “coraggio” che gli educatori considerano un imprescindibile postulato per quella sfida alla modernità che, alle soglie del Ventesimo secolo, il mondo cattolico si appresta a lanciare» (p. 18).
È in particolare padre Semeria, uno dei protagonisti del cattolicesimo d’inizio secolo, ad elaborare «un’ideologia sportiva che avrebbe dovuto avvicinare i giovani agli ideali di un “cristianesimo di concorrenza”» (p. 18). Sfidando gli ambienti cattolici più conservatori, il sacerdote barnabita elabora una teoria pedagogico-sportiva che concepisce lo sport come «esercizio di un rinnovato abito mentale per i giovani militanti cattolici che dovevano acquisire, proprio attraverso la pratica sportiva, quel “coraggio cristiano” che li avrebbe preparati a una concezione competitivistica nella vita quotidiana» (p. 21).
Su questo sfondo si forma l’ideale del “magnifico atleta cristiano” che troverà in Bartali la sua più compiuta incarnazione.

A metà degli anni Trenta Carlo Bergoglio, firma di punta del “Guerin Sportivo”, e Carlo Trabucco su “Gioventù Nova”, il periodico della Gioventù Cattolica, veicolano per primi l’immagine del “pio” Bartali aprendo la strada ad «una e vera e propria opera di canonizzazione» (p. 24) del campione che si sta affermando nel ciclismo professionistico.
A mobilitare in questa direzione la stampa cattolica è Luigi Gedda, il dirigente dell’Azione Cattolica attento all’evoluzione del fenomeno sportivo che catalizza ormai l’interesse di milioni di persone. Mentre il regime strumentalizza lo sport in funzione propagandistica e in vista della creazione dell’“uomo nuovo” fascista, «Gedda propugna lo sport come un moderno strumento per l’apostolato» e «Gino Bartali diviene il testimone di una moderna apologetica». Nella seconda metà degli anni Trenta, di fronte alle iniziative del regime che mirano a soffocare i residui spazi di autonomia del movimento cattolico, «anche il mito bartaliano con i suoi connotati contribuisce ad affermare l’orgoglio e la presenza di una tradizione autonoma di cui, nonostante certi compromessi con il fascismo, alcune frange del mondo cattolico si mostrano gelose» (p. 27).
Contro l’immagine virilista a sfondo sessuale dell’uomo fascista, Bartali viene descritto come «casto per convinzione morale e igienica»; all’agonismo “guerriero” dello sport di regime si contrappone l’atteggiamento del campione che rispetta l’avversario traducendo in chiave sportiva i principi dell’etica cattolica; «non di rado, il comportamento in gara del “magnifico atleta cristiano” viene proposto come modello di stoicità, di rara sopportazione della fatica e del dolore, attraverso una prosa retorica che riecheggia i richiami dell’agiografia cattolica» (pp. 29-30).
Non solo il “pio” Bartali, dunque, ma anche il Bartali «bellicoso, combattivo, affatto remissivo e simbolo della riscossa del mondo cattolico» (p. 31).

Nel corso degli anni Trenta anche la stampa non cattolica e la pubblicistica fascista sottolineano a più riprese il versante religioso della vita di Bartali.
Pivato analizza l’oscillazione della stampa fascista che in alcuni casi esalta le qualità umane e le convinzioni religiose del ciclista toscano e contribuisce a rendere pubblica la sua adesione all’Azione Cattolica, in altri manifesta fastidio per l’ostentata professione di fede del campione e lo irride attraverso pungenti vignette anticlericali e appellativi come “il fraticello”.
Le penne del regime si compattano poi in senso antibartaliano alla vigilia del Tour de France del 1937. Di fronte all’indecisione di Bartali, reduce dalla vittoria al Giro d’Italia, circa la sua iscrizione alla competizione francese, la stampa fascista si scaglia contro il ciclista considerato reo di «un comportamento antisportivo» e di scarso spirito nazionale», spingendosi sino ad accusarlo «di voler barattare la sua partecipazione alla corsa a tappe francese in cambio di una consistente somma di denaro» (p. 36).
Emblematici sono anche i commenti di alcuni fogli di regime all’indomani della vittoria di Bartali al Tour dell’anno successivo. L’impresa del ciclista capace di vincere nella Francia del Fronte popolare è esaltata come prova della superiorità della gioventù sportiva fascista, ma nulla si dice del suo credo religioso.
Il fascismo non può peraltro evitare che attraverso questa vittoria si imponga definitivamente, anche oltralpe, l’immagine del “campione della fede”.

Il 31 luglio 1938 Bartali chiude da trionfatore il Tour de France.
Due settimane prima sul “Giornale d’Italia” è comparso il “Manifesto degli scienziati razzisti”, presupposto pseudoscientifico e ideologico delle leggi razziali varate in novembre che segnano l’inizio della tragedia degli ebrei italiani. L’antisemitismo fascista si riflette anche nello sport. Diversi atleti ebrei vengono espulsi dalle loro società sportive e sono costretti ad abbandonare l’attività agonistica. Le leggi razziali si ripercuotono in particolare nel mondo del calcio, costringendo alla fuga «personaggi come Ernő Egri Erbstein, allenatore del Torino, successivamente catturato e rinchiuso in un campo di lavoro. Più sfortunata la vicenda di Arpad Weisz, ebreo di origini ungheresi, alla guida della più prestigiosa squadra italiana degli anni Trenta, il Bologna “che tremare il mondo fa”. Weisz nell’ottobre del 1938 deve riparare a Parigi con tutta la famiglia e successivamente è rinchiuso ad Auschwitz dove muore» (pp. 42-43).
Dopo l’8 settembre 1943 l’antisemitismo razzista viene assunto come punto programmatico dalla Repubblica Sociale Italiana e i fascisti di Salò collaborano attivamente con i nazisti nella deportazione degli ebrei italiani verso i campi di concentramento e di sterminio.
È in questa cornice che si inquadra un’intensa pagina di impegno civile della vita di Bartali, segno dell’umanità e della generosità di uno degli atleti più amati nella storia dello sport italiano. Tra il 1943 e il 1944 – d’accordo con il cardinale di Firenze Elia Dalla Costa che ha allestito una rete per il salvataggio degli ebrei – con un gesto di grande coraggio Bartali approfitta della mobilità consentita dagli allenamenti per trasportare nel tubo del telaio documenti contraffatti che consentiranno a molti ebrei di sfuggire alla persecuzione razziale. Venuta alla luce solo dopo la morte del campione nel 2000, questa vicenda porterà al suo riconoscimento come “Giusto tra le nazioni” da parte dello Yad Shalem, il memoriale delle vittime della Shoah.

Al termine della guerra le gare ciclistiche possono riprendere con regolarità. Nel 1946 il “vecchio” Bartali – il campione ha quasi trentadue anni – si aggiudica il Giro d’Italia. L’anno successivo vince la Milano-San Remo e giunge secondo al Giro dopo Coppi, l’ex gregario di cinque anni più giovane. Nel 1948 trionfa al Tour de France. Su queste vittorie prende forma un nuovo mito, quello dell’“eterna giovinezza” del “campione della fede” che deve i suoi successi in età atleticamente avanzata anche ad una vita condotta secondo i dettami del cristianesimo.
Se però «nella seconda metà degli anni Trenta Bartali aveva recitato sulla scena sportiva un modello alternativo a quello fascista, nel mutato contesto politico del dopoguerra egli diviene il simbolo del conformismo politico di un’epoca, quella democristiana» (p. 47). Pio XII – definito “il Papa degli sportivi” per l’interesse dimostrato in più occasioni nei confronti dello sport – lo indica come modello esemplare agli uomini dell’Azione Cattolica e lo stesso Bartali si presta alla propaganda per il partito di De Gasperi.

Parallelamente, prende forma la leggenda di Coppi “comunista”. In contrapposizione all’esibizione della fede di Bartali, Coppi viene elevato «a campione di laicità»: «la fantasia popolare interpreta nelle sconfitte che Coppi infligge a Bartali l’ideale umiliazione di uno dei simboli dell’Italia cattolica e democristiana», «crea la leggenda del Coppi comunista per opporsi non solo al campione della bicicletta ma, almeno idealmente, per sconfiggere il simbolo dell’Italia democristiana: Gino Bartali, il “De Gasperi del ciclismo”» (pp. 56-57).
Anche se, come documenta Pivato, gli atteggiamenti di Coppi non lasciano trasparire simpatie politiche per la sinistra, nell’Italia lacerata dai conflitti politici e sociali del dopoguerra il mondo ciclistico si divide in due fazioni contrapposte e il dualismo sportivo assume una connotazione politica: come si sta o con De Gasperi o con Togliatti, così si fa il tifo o per Bartali o per Coppi. Pivato cita alcuni episodi tratti dalle cronache dell’epoca che attestano il sapore politico assunto dalla rivalità tra i due atleti. Nel 1947 ad esempio Vasco Pratolini nella sua veste di inviato al Giro d’Italia riporta la notizia dei cartelli della Gioventù Cattolica che in Campania inneggiano a Bartali, mentre in Puglia Coppi viene accolto al traguardo dai rappresentanti del Pci con un mazzo di garofani rossi.

L’uscita della nuova edizione di Sia lodato Bartali cade a settant’anni dal 1948, l’anno delle elezioni del 18 aprile che vedono la vittoria della coalizione a guida democristiana contro il Fronte popolare socialcomunista. Poco dopo, l’attentato a Palmiro Togliatti viene vissuto dalla sinistra come il segnale di un attacco generalizzato al Pci; il 14 luglio, quando la Cgil proclama lo sciopero generale, è già scattata la mobilitazione dei militanti comunisti che in alcune località assume un carattere radicale, alimentando nel Paese la sensazione di essere sull’orlo di una guerra civile.
Secondo una vulgata largamente diffusa, in quel frangente drammatico la vittoria di Bartali al Tour de France avrebbe “provvidenzialmente” salvato l’Italia dalle tensioni rivoluzionarie, pacificando il Paese.
Ricostruendo questo episodio, Pivato sottolinea il sussulto patriottico generato dal successo del campione toscano in terra francese e, soprattutto, l’enfasi delle cronache dei quotidiani sportivi e della stampa cattolica sul suo ruolo di “salvatore della patria”. Bartali sdrammatizza la rivoluzione “a colpi di pedale”: «il titolo più significativo è quello del “Giornale dell’Emilia” che con Sia lodato Bartali attribuisce alla vittoria una funzione miracolistica per avere calmato “il furore politico”» (p. 62).

Pivato esamina la vicenda sottolineando come la vittoria di Bartali avviene in realtà quando nelle piazza italiane le manifestazioni e i disordini seguiti all’attentato sono ormai scemati (in uno scenario che, peraltro, secondo diverse ricostruzioni storiche non si configurava in senso pre-rivoluzionario: «è fuor di dubbio che si sia trattato di una rivolta spontanea, una forma di jacquerie che coglie di sorpresa il Partito Comunista ma anche la CGIL che si adoperano per far rientrare quelle proteste» p. 64).
Il ruolo taumaturgico della vittoria al Tour de France appare quindi come frutto di una ricostruzione a posteriori. Il campione toscano, conclude Pivato, «è entrato nel mito senza passare per la storia. In realtà, al di là delle interpretazioni di carattere politico da una parte e dall’altra degli schieramenti, rimane il fatto che nella leggenda di Bartali che salva l’Italia dalla rivoluzione spunti di storie reali, miracolistica e visioni millenaristiche si sono intrecciati fino a creare quella che, verosimilmente, va considerata una leggenda metropolitana» (p. 70).
Una “leggenda” paradigmatica dell’intreccio tra la dimensione politica e l’immaginario sportivo e rimasta impressa nella memoria collettiva come uno dei simboli di un passaggio cruciale della storia repubblicana.


Altro materiale di Sport e dintorni

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Eroi dello sport https://www.carmillaonline.com/2016/06/13/30867/ Mon, 13 Jun 2016 21:30:52 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=30867 di Alberto Molinari

Marchesini_sport_coverDaniele Marchesini, Eroi dello sport. Storie di atleti, vittorie, sconfitte, Il Mulino, Bologna, 2016, 248 pagine, € 16,00

Guardati con diffidenza dagli ambienti accademici, in Italia gli studi storici sullo sport sono iniziati timidamente negli anni Settanta, in ritardo rispetto ad altri paesi, e si sono diffusi nei decenni successivi grazie ai contributi di «Lancillotto e Nausica» – rivista di storia e critica dello sport che analizza il fenomeno intrecciando diverse metodologie: storico-sociali, psicologiche, filosofiche, pedagogiche, mediche ecc. – e alle ricerche di studiosi come Felice Fabrizio, Stefano Pivato, Gaetano [...]]]> di Alberto Molinari

Marchesini_sport_coverDaniele Marchesini, Eroi dello sport. Storie di atleti, vittorie, sconfitte, Il Mulino, Bologna, 2016, 248 pagine, € 16,00

Guardati con diffidenza dagli ambienti accademici, in Italia gli studi storici sullo sport sono iniziati timidamente negli anni Settanta, in ritardo rispetto ad altri paesi, e si sono diffusi nei decenni successivi grazie ai contributi di «Lancillotto e Nausica» – rivista di storia e critica dello sport che analizza il fenomeno intrecciando diverse metodologie: storico-sociali, psicologiche, filosofiche, pedagogiche, mediche ecc. – e alle ricerche di studiosi come Felice Fabrizio, Stefano Pivato, Gaetano Bonetta, Sergio Giuntini, Daniele Marchesini.

Marchesini ha insegnato Storia contemporanea all’Università di Parma e da molti anni si dedica all’analisi dello sport come fenomeno sociale e culturale, indagando svariati temi (Coppi e Bartali, le Mille Miglia, il Giro d’Italia, il ruolo dello sport nella formazione di un’identità nazionale, la relazione tra sport e totalitarismi). Il saggio più recente di Marchesini è uscito in una collana del Mulino, diretta da Carlo Galli, dedicata al tema dell’eroe in diversi ambiti e discipline.

Nelle prime pagine del volume Eroi dello sport Marchesini definisce l’oggetto della sua ricerca distinguendo tra il campione e l’eroe. Entrambi si caratterizzano per l’assoluta eccellenza delle loro prestazioni che suscitano ammirazione, ma questo non basta per fare di un campione un eroe. Oltre alle numerose promesse mancate, anche grandi protagonisti dello sport – come Indurain nel ciclismo o Phelps nel nuoto – pur accumulando vittorie e medaglie si sono fermati prima della soglia che si apre sullo spazio dell’eroismo sportivo. A differenza dei campioni, gli eroi sportivi assumono una rilevanza che esula dall’originario ambito di appartenenza, entrano nella memoria collettiva, ispirano ideali, rispecchiano valori e attese, costituiscono riferimenti culturali.
D’altronde, si può diventare eroi senza essere vincitori, come nel caso di Dorando Pietri. Il maratoneta carpigiano nel 1908 taglia per primo il traguardo nella gara dei giochi olimpici di Londra ma “perde la vittoria” (sono parole dello stesso Pietri, squalificato a causa dell’aiuto di medici, giudici e assistenti che lo sostengono in prossimità dell’arrivo). Tuttavia mentre Hayes, il vincitore della maratona, cade nell’anonimato, lo sconfitto Pietri “vince” sul piano dell’immaginario collettivo grazie alla trasfigurazione mitica dell’evento. La dimensione dell’eroe è infatti quella del mito, cioè di un sistema di comunicazione «definito non tanto dal suo oggetto, quanto dal modo in cui lo si costruisce e lo si trasmette» (p. 230).

pietriDeterminante nella costruzione dell’eroe sportivo è anzitutto la presenza di un pubblico che segue con grande passione le prodezze del campione e instaura una relazione stabile e fiduciaria con lui, identificandosi con le vicende che, nel bene e nel male, in campo sportivo e extrasportivo, punteggiano la sua carriera e la sua vita. L’eroicizzazione implica inoltre la presenza di un “cantore” capace di narrare le imprese del campione. Nel caso di Pietri è Arthur Conan Doyle – appassionato di sport e presente all’evento come cronista del “Daily Mail” – a celebrare la vicenda in un articolo che rappresenta il corrispettivo scritto della celebre immagine del maratoneta barcollante e distrutto dalla fatica: «Avvenne allora una cosa meravigliosa. Col viso d’un morto, Dorando si rialza, barcolla, le gambe riprendono lo strano incedere automatico: ricadrà? No. Oscilla, tentenna un istante, ed eccolo tagliare il traguardo, raccolto da venti braccia amiche! E’ arrivato all’estremo limite delle forze umane! Mai alcun romano dei primi giorni gloriosi si comportò meglio di Dorando alle Olimpiadi del 1908» (p. 233). Con il suo articolo, il creatore di Scherlock Holmes perfeziona e universalizza l’eroicizzazione di Pietri, trasformandolo in una celebrità mondiale ingaggiata, e profumatamente pagata, per le sue esibizioni in Europa e in America. I maggiori giornali scrivono di lui, il personaggio è acclamato ovunque e il pubblico accorre per vederlo in azione.

Passando in rassegna numerose esperienze sportive, Marchesini analizza gli aspetti culturali, i registri espressivi e i codici comunicativi che alimentano le retoriche della mitografia sportiva, in relazione ai contesti politici e sociali, alle dinamiche specifiche degli sport, al loro carattere individuale o collettivo, alle modalità della loro narrazione.
Un capitolo del saggio è dedicato al mondo classico, nel quale lo sport assume già una dimensione strutturata e caratteri tipici dei fenomeni sportivi moderni (professionismo, tifo, ideologia atletica, celebrazione dei vincitori ecc.). L’attenzione è rivolta però prevalentemente alla contemporaneità in quanto è la società di massa a favorire il radicamento, la diffusione e la spettacolarizzazione del fenomeno sportivo, in un processo di «familiarizzazione» (p. 8) che lo rende sempre più pervasivo e che si intreccia con la vita quotidiana, con la dimensione politica, le dinamiche sociali, la sfera economica.

Nel primo scorcio del Novecento, i temi che fondano la rappresentazione eroica di figure come Pietri, impegnate in corse di fondo che comportano grande sofferenza, e dell’epopea degli albori del ciclismo, lo sport allora più popolare, sono legati alla fatica e al coraggio, alla volontà di portare a compimento un impegno attingendo fino all’estremo della forze, al mito delle origini oscure, difficili, povere, allo sport come forma di riscatto e come strumento di mobilità sociale. Al pubblico che segue il Giro d’Italia o la Grande Boucle, su strade sterrate in tappe impervie e interminabili, il ciclismo «appare come una variante della lotta per la vita che coinvolge la maggioranza dei lavoratori che, in quegli anni, faticano “da sole a sole” nelle campagne (cioè dall’alba al tramonto), 12-14 ore nelle fabbriche, sette giorni su sette la settimana, in attesa di un avvio di legislazione sociale che interviene solo al principio del Novecento a disciplinare i casi più clamorosi di sfruttamento selvaggio» (pp. 78-79).

coppi-bartaliNel secondo dopoguerra, sono Gino Bartali e Fausto Coppi ad incarnare nuovamente lo sport della fatica come metafora della ricostruzione dopo le tragedie del conflitto mondiale. La rivalità che si instaura tra i due ne accresce la popolarità e definisce i meccanismi di identificazione degli italiani in personaggi dalle caratteristiche opposte, tanto tecnicamente e caratterialmente quanto, almeno nella rappresentazione popolare alimentata dai mezzi di comunicazione, ideologicamente (il “pio” Bartali e il laico e “razionalista” Coppi).
In un contesto profondamente mutato – quello di un’Europa che sembra «appagata dai risultati di un benessere in continua espansione, che rende la bicicletta un oggetto antiquato» (p. 126) – occorrono altri ingredienti per costruire il mito. Se la grandezza di Coppi veniva esaltata con toni epici e favolistici dai radiocronisti e giornalisti dell’epoca (nel linguaggio sportivo prevaleva il campo metaforico del “volo” o della “regalità”, con espressioni come “dominare”, “librarsi”, “aquila”), le immagini utilizzate per descrivere Eddy Merckx – il ciclista in assoluto più vincente nella storia del suo sport: 445 vittorie tra il 1966 e il 1978 – esaltano invece la potenza atletica pura, con iperboli quali “mostro”, “robot”, “marziano”, «tendenti a suscitare ammirazione e sorpresa nell’ordine dei valori “tecnico-avveniristici”» (p. 126).
Anni dopo, sarà Marco Pantani a riproporre l’immagine del ciclista come eroe della fatica, refrattario alle tattiche, imprevedibile, capace di illuminare improvvisamente una gara con i suoi scatti improvvisi sulle montagne del Giro o del Tour.

Oltre al ciclismo, lo sport più popolare nella prima metà del Novecento è il pugilato. Progressivamente addomesticata nella sua originaria carica di violenza e caratterizzata da contenuti di grande raffinatezza tecnica, nell’immaginario collettivo la boxe rimane comunque prevalentemente legata alla «messinscena del corpo forte» (p. 95). Se nel ciclismo il corpo si espone senza nascondimenti sul “cavallo di ferro”, nella boxe il corpo dell’atleta viene portato in prima scena, in uno scontro da solo a solo. Definito da Albert Camus come «lo sport assolutamente manicheo», un rito che semplifica tutto, il bene e il male, il vincente e il perdente, il pugilato mantiene un seguito popolare sino agli anni Sessanta-Settanta, segnati in Italia dalle figure di Sandro Mazzinghi e Nino Benvenuti. Come ricorda Marchesini, il 17 aprile 1967 la sfida mondiale tra Benvenuti e Griffith al Madison Square Garden, titolo dei pesi medi in palio, fu trasmessa dalla RAI in diretta solo radiofonica «per non compromettere, a causa dei fusi orari, il sonno degli italiani e le loro capacità lavorative dell’indomani. Il miracolo economico da un po’ di tempo scricchiola e bisogna evitare di incentivare l’assenteismo in fabbrica e negli uffici. Nonostante le preoccupazioni educative e moralizzatrici della RAI monopolista, in più di 15 milioni quella notte puntano la sveglia e si alzano per ascoltare la radiocronaca del trionfo dell’italiano condotta da Paolo Valenti» (p. 98).
L’autore dedica ampio spazio anche alla figura di Cassius Clay, dai primi successi, all’adesione alla fede islamica, al rifiuto di arruolarsi nell’esercito e di partire per la guerra in Vietnam, sino all’incontro con Foreman per il titolo mondiale dei massimi: il 30 ottobre 1974 il pubblico che segue il match (60 mila persone) è tutto con lui «così come i neri di tutto il mondo, in una diretta televisiva che per l’epoca riuniva una platea infinita: 700 milioni di persone». All’ottavo round Muhammad Ali atterra Foreman e si conferma l’eroe non solo di uno sport che quel giorno «tocca vertici mai prima e mai più in seguito raggiunti di partecipazione emotiva, ma anche di ideali di libertà e giustizia» (pp. 219-220).

Quarant’anni prima, era stato il fascismo a utilizzare politicamente le potenzialità del pugilato, sfruttando l’immagine eroica di un altro peso massimo, il friulano Primo Carnera, «capace di sedurre affascinare eccitare il pubblico come una star del sistema divistico» (p. 159). Un capitolo del saggio di Marchesini è dedicato al rapporto tra lo sport e i regimi totalitari, i primi a cogliere le opportunità di controllo delle masse offerte dalla loro passione per lo sport. Il fascismo dà forma all’ideologia dell’“atletismo politico”: il coraggio, la lotta, la forza, l’agonismo sono valori che vengono piegati alla logica del regime e riassunti in una rappresentazione del corpo che mira alla definizione dell’“uomo nuovo” fascista. Oltre a Carnera, che esemplifica in modo evidente l’uso dello sport a fini propagandistici e di ricerca del consenso, altre figure che corrispondono alle aspettative del regime acquisiscono profili eroici: ciclisti come Bottecchia e Binda; Beccali, che trionfa nei 1.500 metri alle Olimpiadi di Los Angeles nel 1932; piloti come Nuvolari e Varzi; i calciatori guidati da Pozzo che conquistano il titolo mondiale nel 1934 e nel 1938.

jesse_owens_berlino_1936Anche la Germania nazista imbocca la strada della mistica sportiva. Ma all’esaltazione dello sport come arena nella quale dimostrare la potenza del regime e la superiorità della razza ariana, culminata nelle Olimpiadi di Berlino del 1936, tocca una micidiale eterogenesi dei fini: come è noto, a Berlino Jesse Owens – con le sue quattro medaglie d’oro – si afferma come “contro mito”, il “lampo d’ebano” che contraddice col suo stesso corpo, il colore della pelle e una straordinaria forza atletica i principi dell’ideologia hitleriana. Qualche anno dopo, al tempo dell’occupazione della Francia, il nazismo andrà incontro ad un altro inatteso fallimento nel tentativo di umiliare i francesi, oltre che sul piano militare, su quello della simbologia sportiva. Marchesini dedica pagine dense e appassionate alla vicenda del pugile Marcel Cerdan, un francese figlio di pieds-noir. Il 20 settembre 1942 i nazisti organizzano un incontro tra Cerdan e lo spagnolo Josè Ferrer, campione in carica dei welter: «Ferrer sale sul ring avvolto in una bandiera nazista e i suoi secondi indossano l’uniforme della gioventù franchista», «mentre i 16 mila spettatori, quasi in un mormorio, intonano la marsigliese nonostante la presenza di molti alti ufficiali nazisti a bordo ring»; Cerdan domina l’incontro e viene «acclamato come un liberatore dalla folla in delirio» (p. 102).

Nel campo opposto, l’Unione Sovietica non esprime in quegli anni una significativa mitologia sportiva, anche per la diffidenza diffusa nel movimento socialista, sin dalle origini, verso lo sport, considerato un fenomeno borghese, destinato a “distrarre” le masse e a ostacolare la loro presa di coscienza politica. Negli anni dello stalinismo è il lavoro che assurge a mito nella esemplificazione estrema di Stachanov e Marchesini coglie giustamente il nesso tra lo stachanovismo e l’interesse per lo sport manifestato nel dopoguerra dall’Urss e dai paesi satelliti. Attraverso Stachanov «si fa strada nell’immaginario collettivo sovietico l’idea che il primato in quanto tale è possibile e accettabile, se inserito nel progetto di educazione e formazione dello spirito pubblico nazionale, e se obbedisce al ruolo di dimostrazione dei risultati che il socialismo reale rende concreti a vantaggio della comunità». Dopo Stachanov e attraverso la guerra, «nel pantheon d’oltrecortina» il testimone passa dal campione del lavoro al campione dello sport: «tramonta lo stachanovismo ma si afferma il culto dell’individualità straordinaria» (p. 164). Un culto tanto più importante nel momento in cui l’Urss viene ammessa alle Olimpiadi (per la prima volta a Helsinki nel 1952) e deve quindi dimostrare, anche sul piano sportivo, di saper competere con il capitalismo. Gli eroi sportivi sovietici o di altri paesi dell’Est (come Zatopek, Brumel, Bubka, Borzov e molti altri delle discipline olimpiche, nominati da Marchesini, ai quali si dovrebbero aggiungere alcuni calciatori come Jascin) vincendo e stabilendo primati difendono la causa del proprio paese, secondo quanto teorizzato dai dirigenti del movimento sovietico.

Tommie Smith John CarlosMolti altri esempi di “eroismo sportivo”, descritti in modo puntuale da Marchesini, mostrano le diverse sfaccettature del fenomeno e dei personaggi che lo hanno incarnato.
Le olimpiadi sono il palcoscenico di imprese che danno vita a nuovi eroi. A Roma nel 1960 Livio Berruti è un ragazzo “normale” che nulla ha dell’eroe, ma si trova vincere in una contingenza particolare (l’Italia del miracolo economico) che consente la trasfigurazione mitica; Abebe Bikila, primo africano a vincere un oro olimpico, diventa simbolo del «riscatto da condizioni di povertà e di emarginazione» di un continente «più di ogni altro brutalmente saccheggiato» dal colonialismo (p. 91). Nel 1968 a Città del Messico, in un contesto infiammato dai movimenti di contestazione, sul podio dei 200 metri Tommie Smith e John Carlos levano il braccio col pugno guantato del Black Power, un gesto che denuncia le intollerabili condizioni in cui vivono gli afroamericani. Tuttavia, secondo Marchesini, sono “eroi perdenti”: sanzionati pesantemente dai vertici olimpici, subiscono l’oblio istituzionale e l’emarginazione in una «società disposta a garantire rispetto solo in cambio di successi sportivi e sottomissione all’ideologia dominante» (p. 217).

In alcuni casi, la dimensione eroica non è connessa alla forza ma all’estro e alla fragilità. In Brasile, il paese che ha fatto del calcio una religione laica, al mito di Pelè (il calciatore «”apollineo”, cioè perfetto, esemplare, da manuale») si contrappone quello di Garrincha, soprannominato «torto» o «zoppo» a causa del «bacino visibilmente deviato» e della «deformità delle ginocchia»: il suo calcio è «”dionisiaco”, sovrabbondante, tutto genio e sregolatezza», basato sul dribbling con il quale irride l’avversario grazie a una finta che sembra quasi favorita dal suo difetto fisico. Dopo una lunga decadenza «fatta di depressione, alcol, ostinazione a giocare ancora in squadre sempre meno titolate», la sua morte «è annunciata come la scomparsa della “gioia del popolo” (a alegria do povo), secondo il titolo del film girato nel 1962 su di lui […] da Jaquin Pedro de Andrade, uno dei capofila del cinema novo» (pp. 187-188).

Oltre alle individualità, nel saggio di Marchesini spicca la dimensione eroica collettiva legata in particolare ad alcuni sport, come il rugby (è il caso ad esempio degli All Blacks neozelandesi, capaci di suscitare una forma di riconoscimento collettivo che supera le barriere razziali) e il calcio, dal “Grande Torino” che, all’apice delle vittorie, va incontro alla tragedia a Superga nella notte del 4 maggio 1949 (per la tifoseria granata Superga rimane il tempio di una sorta di culto civile) alla squadra del Manchester United che precipita in aereo il 6 febbraio 1958 (non a caso Bobby Charlton, miracolosamente sopravvissuto all’incidente, diventerà l’eroe non solo dell’Old Trafford, lo stadio della squadra, ma dell’intero paese, guidando la nazionale inglese alla vittoria nei mondiali del 1966).

oldtrafford113In diverse pagine del saggio l’autore ritorna sul tema della morte precoce che contribuisce ad eternizzare la grandezza dell’eroe, evidente negli sport motoristici, in cui il rischio è più presente (si pensi a Ayrton Senna, idolo nazionale in Brasile e pilota più amato dagli appassionati di automobilismo), o nelle vicende di campioni del ciclismo come Coppi e Pantani e del calcio come George Best (l’anno dopo la sua morte, avvenuta nel 2005 in seguito a una cirrosi epatica per alcolismo, gli è intitolato l’aeroporto di Belfast e la sua immagine viene stampata su una serie limitata di banconote emessa dalla Ulster Bank). A non dimenticare i campioni morti servono stele, colonne votive, lapidi, busti che punteggiano le strade percorse o campeggiano nei luoghi che hanno conosciuto le loro vittorie. A questa “statuolatria”, come la definisce Marchesini, si accompagna la “stadiolatria” ovvero la rilevanza assunta nei contesti urbani del “monumentale sportivo”: stadi, piscine, palasport, villaggi degli atleti «sono i templi indispensabili all’eroicizzazione dell’atleta vincente, i luoghi sacri in cui celebrare i rituali del culto che ogni quattro anni trova nelle olimpiadi la sua massima espressione» (p. 8).

Attraverso queste ed altre storie si snoda il racconto di Marchesini che si apprezza per la qualità della scrittura, per i puntali ritratti di personaggi noti e di figure inconsuete (almeno per il lettore italiano, si veda tra l’altro il capitolo dedicato al cricket), per la ricchezza di riferimenti storici. Il taglio della ricerca, attenta agli intrecci tra la dimensione sportiva e quella sociale, tende a privilegiare figure assunte come modelli di identificazione collettiva con una funzione unificante di carattere nazionale. Si tratta di fenomeni di indubbia rilevanza, che lasciano però in ombra altri processi di “eroicizzazione” sportiva, costruiti e vissuti come modelli alternativi rispetto alle narrazioni condivise, o figure di “antieroi” riconducibili ad una dialettica con la dimensione epica dello sport, meritevoli di ulteriori approfondimenti. Anche sul ruolo delle donne, che secondo Marchesini in ambito sportivo raramente innescano dinamiche di identificazione e mitografie (tema discusso nel capitolo dedicato all’“eroismo al femminile”) rimangono aperti percorsi di ricerca in una prospettiva di genere.

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