Giorgio Gaber – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 19 Aug 2025 20:00:44 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il Pelé, le osterie e la vecchia Milano https://www.carmillaonline.com/2024/12/16/il-pele-le-osterie-e-la-vecchia-milano/ Mon, 16 Dec 2024 21:00:22 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86042 di Paolo Lago

Roberto Farina con Giancarlo Peroncini, La ballata del Pelé, Milieu, Milano, 2022, pp. 167, euro 15,90.

Vale la pena parlare adesso del bel libro La ballata del Pelé, nonostante sia stato pubblicato un paio di anni fa da Milieu, anche perché recentemente è uscito l’altrettanto bel documentario dal titolo “Mavadarviailcul Marvinhagler, a giro con il Pelé”, realizzato da Luca Falorni (alias Falco Ranuli), videomaker e scrittore livornese che ha vissuto diversi anni a Milano. Protagonista indiscusso del documentario (come del libro) è il Pelé, Giancarlo Peroncini, artista e cantastorie popolare milanese, importante testimone di una Milano che non [...]]]> di Paolo Lago

Roberto Farina con Giancarlo Peroncini, La ballata del Pelé, Milieu, Milano, 2022, pp. 167, euro 15,90.

Vale la pena parlare adesso del bel libro La ballata del Pelé, nonostante sia stato pubblicato un paio di anni fa da Milieu, anche perché recentemente è uscito l’altrettanto bel documentario dal titolo “Mavadarviailcul Marvinhagler, a giro con il Pelé”, realizzato da Luca Falorni (alias Falco Ranuli), videomaker e scrittore livornese che ha vissuto diversi anni a Milano. Protagonista indiscusso del documentario (come del libro) è il Pelé, Giancarlo Peroncini, artista e cantastorie popolare milanese, importante testimone di una Milano che non esiste più. La ballata del Pelé appare come un racconto ininterrotto, un po’ in italiano un po’ in dialetto, che il Pelé, grazie all’intermediazione di Roberto Farina, srotola ai lettori come il mago di un avanspettacolo inesorabilmente perduto. È lo stesso Pelé a spiegarci con un aneddoto il motivo del suo soprannome in una intervista a Roberto Marelli posta in appendice al suo racconto: “Il mio nome è Giancarlo Peroncini detto Pelé perché correvo forte, la storia è questa… un piccolo furtarello, il padrone mi ha visto, ha chiamato le guardie, io sono scappato! Esco dalla fabbrica, vedo tanta gente che corre e ho cominciato a correre anch’io… era la Stramilano… primo sono arrivato io, secondo il brigadiere che mi inseguiva”.

Nel racconto del Pelé rivive davanti ai nostri occhi un mondo che non esiste più: le osterie, la “ligera”, la malavita milanese (immortalata letterariamente da Danilo Montaldi nel suo Autobiografie della leggera), col suo codice d’onore, i Navigli di una volta, gli angoli di una Milano sottoproletaria e proletaria, il tutto solcato da grandi e irripetibili personaggi, veri geniacci dell’arte popolare dalle cui battute e dalle cui canzoni hanno tratto ispirazione cantori più noti della milanesità come Giorgio Gaber, Enzo Jannacci o Cochi e Renato. Secondo Primo Moroni (del quale troviamo anche un testo in appendice al libro), frequentatore di questo mondo e amico del Pelé, la ligera del dopoguerra era formata da frange di popolazione che aveva partecipato alla Liberazione e che, quando la classe borghese riprese in mano la città, rimase delusa nelle sue aspettative di una società più giusta. Si trattava di una malavita che incarnava la ribellione del popolo, poco incline a un disciplinamento borghese, non immune anche da certe connotazioni ‘romantiche’. Fatto sta che la caratteristica del malavitoso della “ligera” era quella di essere prima di tutto uno svantaggiato, un deviante, uno che rubava per fame e non per profitto, guidato da un rigoroso codice morale, disposto ad aiutare qualsiasi amico in difficoltà economiche (“Con gli anni Settanta scompariva un’epoca. La ligera era sempre andata contro al soldo, non alle persone. Tutto è cambiato il giorno in cui la gente ha cominciato a rubare per il profitto e non per il bisogno”, dice il Pelé). La violenza e l’uso delle armi arriveranno dopo, con gli anni Settanta, con l’avvento dell’eroina che cominciava ad uccidere tanti giovani.

Dopo aver letto il libro di Roberto Farina che ci trasmette il racconto del Pelé, sbiadirà sicuramente nel nostro immaginario lo stereotipo che vuole Milano esclusivamente una “capitale morale” del paese, borghese, produttiva e austera perché anche qui c’era (un po’ come nella Roma pasoliniana, e non a caso Pasolini rimase affascinato anche da questa Milano) un fitto sottobosco sottoproletario, “tutta quell’umanità cioè di persone refrattarie all’integrazione nella disciplina di fabbrica, al lavoro stabile e più in generale al perbenismo dei ceti egemoni. Un’umanità estranea ai valori dell’accumulo e del risparmio, liberale, generosa, incosciente, dissipatrice: si fa un colpo e si offre da mangiare e da bere a tutta la comitiva” (Giovanni Manzari, Tra milanesità e cultura popolare, in appendice al libro). Un universo – è bene ribadirlo – ormai completamente livellato e annientato dalla macina della produttività capitalistica: come scrive Gianni Mura in un articolo di cui leggiamo uno stralcio sempre in appendice, oggi “i milanesi affollano i Navigli di notte, fino a tardi, fra una finta osteria e un ristorante che ha esposto il menù solo in inglese, tra decine di locali che hanno trasformato i Navigli in un divertimentificio quasi obbligatorio”.

Il racconto del Pelé assume spesso tonalità poetiche e malinconiche e riesce a materializzare una Milano che assomiglia alla Parigi del realismo poetico del cinema francese: una Milano che sembra uscita da un film di Marcel Carné o da una poesia di Jacques Prévert o, ancora, dall’intreccio narrativo del film Casco d’oro (1952) di Jacques Becker, in cui una malavita ancora ottocentesca è legata ai codici d’onore; e i Navigli di cui ci parla il Pelé assomigliano al “quartiere dei lillà” dell’omonimo film di René Clair del 1957, in cui campeggia il personaggio dell’Artista, interpretato da George Brassens, un cantante, musicista e chitarrista sempre al verde, frequentatore di locali e brasserie. In questo scenario quasi teatrale sul quale si avvicendano tantissimi personaggi dall’anima plautina (che nei litigi si scambiano perennemente l’imprecazione “mavadarvialcul” che dà anche il titolo al documentario di Falorni), uno degli sfondi privilegiati è l’osteria, ma quella vera, quella di una volta. Un luogo di aggregazione e di fratellanza, una vera e propria casa in cui si staglia un’umanità marginale che, tutta insieme, costituisce un’autentica famiglia allargata. Protagonista è allora la Briosca, l’osteria del “Pinza”, alias Luciano Sada, da lui gestita dal 1968 al 1972 sul Naviglio Pavese: qui si avvicendano, nel racconto del Pelé, figure immortali (e immortalate nei bei disegni di Elfo che arricchiscono il libro) come il Wanda, un geniale cabarettista che era stato un ballerino di Wanda Osiris, il Zola, il Conte (così chiamato perché assomigliava al conte Dracula e, in un aneddoto, rincorse Mogol e Battisti fuori dall’osteria spaventandoli a morte), il Gilberto e la sua donna, la Tiziana, Didi Martinaz, grande cantante di culto della mala milanese e poi, naturalmente, lo stesso Pelé (gestore anche lui di un’altra osteria, Le Tre Fontane), che suonava uno strumento particolare da lui stesso creato, il tolón, cioè il “tollofono”, “fatto con una grossa tolla (latta), dal bordo alto un centimetro” attaccato a un manico di scopa ai cui lati era legata una corda “di quelle per stendere i panni”.

Oggi, molte delle osterie sono state demolite, buttate giù con la ruspa, oppure trasformate in locali eleganti in un processo di trasformazione e ‘normalizzazione’ della marginalità urbana iniziato probabilmente un po’ in tutta Italia negli anni Ottanta; un povero Paese devastato in nome del profitto e di ciò che viene chiamato ‘riqualificazione’ delle città, un processo imposto dal potere che non ha fatto altro che annientare la bellezza. Di questo mondo, di quest’Italia popolare sopravvissuta forse fino agli anni Settanta, il Pelé è un prezioso testimone. Leggendo questo libro che racconta la sua “ballata” come le gesta di un antico cavaliere riusciamo a scorgere la magia e la bellezza (a fianco, naturalmente, della estrema durezza che le accompagna perché non siamo certo di fronte a vite facili e comode) che emergono per pochi attimi da un mondo che molti di noi (me compreso) non hanno mai conosciuto e non potranno conoscere nella realtà. Un mondo in cui i robotici meccanismi del capitale non avevano ancora rovinato i rapporti fra le persone, in cui l’amicizia era amicizia perché, come dice il Pelé, “in inverno la brina rosicava tutti i colori e pizzicava la pelle. Milano sembrava un fantasma, ma a quel punto bastava entrare in osteria. Lì c’era da bere. Ma bere non serve, se non ci sono gli amici. Questa è una regola: per esser davvero buono il vino deve essere bevuto fra amici. Il vino bevuto con gli amici scalda più di un ciocco di legno e frega la nebbia”.

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La legge a faccia nuda https://www.carmillaonline.com/2023/09/24/79085/ Sat, 23 Sep 2023 22:05:10 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79085 di Luca Baiada

Alessandra Ballerini, La vita ti sia lieve. Storie di migranti e altri esclusi, prefazione di Erri De Luca, postfazione di Fabio Geda, Zolfo Editore (2013) 2023, pp. 248, euro 17.

«Cosa pensi di fare, avvocato del cazzo, puttana, difendi quelle merde del Social forum? Allora ti ammazziamo insieme agli altri». Alessandra Ballerini è trattata così il 21 luglio 2001, a Genova, davanti alla scuola Diaz. Ne è uscita poco prima, alla fine di una giornata d’impegno politico e giuridico. Aveva bisogno di una pausa, di una doccia. Quelli rimasti dentro [...]]]> di Luca Baiada

Alessandra Ballerini, La vita ti sia lieve. Storie di migranti e altri esclusi, prefazione di Erri De Luca, postfazione di Fabio Geda, Zolfo Editore (2013) 2023, pp. 248, euro 17.

«Cosa pensi di fare, avvocato del cazzo, puttana, difendi quelle merde del Social forum? Allora ti ammazziamo insieme agli altri». Alessandra Ballerini è trattata così il 21 luglio 2001, a Genova, davanti alla scuola Diaz. Ne è uscita poco prima, alla fine di una giornata d’impegno politico e giuridico. Aveva bisogno di una pausa, di una doccia. Quelli rimasti dentro l’hanno avvertita subito, per telefono, della violenza che si è scatenata su di loro, inermi. È tornata ma non la fanno entrare. C’è un pestaggio atroce che per gli atti ufficiali vorrebbe essere una perquisizione, lei sente le grida, è avvocata, ha diritto e dovere di assistere gli indagati, le hanno dato un mandato fiduciario. Già: avvocato, diritto, dovere. Parole che di colpo hanno perduto ogni senso. La giovane legale sbatte subito il muso contro la realtà: i rapporti di forza la spingono giù nel vuoto, con un calcio e senza rete.

Anni dopo, presentando il suo libro, rifletterà su un cortocircuito della memoria: la Diaz era una scuola, divenne luogo di tortura, adesso c’è chi la chiama come una sede militare: caserma Diaz. La violenza ha conseguenze anche sulle cose, sui luoghi, è una macchia difficile da cancellare. È possibile anche il percorso inverso. Il Piccolo Teatro di Milano fu realizzato, dopo la guerra, dove i nazifascisti torturavano i partigiani. Certo, per recuperi così, per celebrare i misteri vittoriosi, ci vogliono le persone giuste: Giorgio Strehler, Paolo Grassi, il sindaco Antonio Greppi. Questo conferma che il tradimento degli intellettuali – giuristi compresi – è un danno amaro, un veleno a lungo termine. Al tossico si aggiunge il furto delle medicine. Anzi, il furto con contrabbando al nemico.

Bene, allora, che La vita ti sia lieve apra su Genova, per affacciarsi su violenze e indagini, soprusi e tentativi di rimedio, disperazioni e nuovi cammini. Storie accomunate dall’impegno in uno studio legale che all’occorrenza diventa rifugio, tetto provvisorio per les épaves che le onde vogliono trascinare via, far scomparire.

Disarmante, la domanda di un bambino, in una scuola, perché non l’ha mai vista in televisione: sei sicura di essere un avvocato? Lei si aggrappa alle carte – è un costume tipico dei giuristi, in quelli di tradizione continentale scatta con speciale pignoleria – e si fruga le tasche come se fosse davanti alle guardie, per mostrare il tesserino. L’interrogativo del piccolo sfuma ma il tema no, evidentemente: eccola, rimasta sola nella pagina, che si ritrova a guardarselo, il suo tesserino. Non si sa mai.

Quella perplessità sul ruolo è un pungolo di coscienza. Chi attraversa davvero questi dubbi non corre il rischio di difendere gli alti papaveri, insomma di far la cresta sui crimini dei colletti bianchi. Qualcuno nell’avvocatura l’ha scelto per mestiere, sapendo bene che i colletti bianchi programmano una parte del bottino per le spese di difesa, in un circuito maligno. Un po’ come i compensi stellari degli alti dirigenti d’azienda hanno il sottinteso, all’occorrenza, del carochimica per gli stimoli sintetici, legali e no. Che l’autrice abbia scelto i colletti sporchi? Forse ha scelto anche le persone senza colletto, quelle come il mediano Abdul nella canzone di Paolo Rossi, che quando giocava nel Gabul portava la maglia nera con le righe nere («niente, giocavo a torso nudo, e allora?»).

Nella scuola, il bambino dubita che lei sia un avvocato; a Genova, chi bastona in divisa ne è certo ma insulta e minaccia. Due negazioni diverse, ovvio, solo una colpevole. Entrambe, però, ci dicono quanti ostacoli ci sono fra da un lato uomini e donne della giustizia, dall’altro la prepotenza, lo spettacolo e i loro servi. Un sunto di questo è nella storia di Kamel, ex poliziotto algerino. In Italia, dopo mille mestieri e disavventure, si ritrova a fare l’informatore per la polizia, con un ma: gli chiedono di infiltrarsi nei centri sociali e si rifiuta. Il motto è che quando non si riesce ad avere giustizia, intanto è bene cercarla in proprio.

I soccorsi non sono solo materiali. Ai giovanissimi che assiste, Alessandra Ballerini regala libri. Primeggia un testo di formazione col sottinteso del combattimento: Il Piccolo Principe di Antoine de Saint-Exupéry. Scrittore e artista, esteta raffinato, caduto pilotando un caccia nella guerra contro la Germania nazista. Sono parentele misteriose, quelle fra l’arte e un eroe, e La vita ti sia lieve non è sordo a legami nascosti, come quelli creati dalla tecnica degli orti sinergici, insegnata ai detenuti. Sembra che la rosa e il carciofo crescano bene insieme; eppure hanno modi così diversi, di farsi perdonare le spine. La storia del fiore e dell’ortaggio corazzato ha il buon sapore – possiamo dire antico, classico come il più caloroso Novecento – di ciò che è stato chiamato «il pane e le rose».

Col pane e con le rose si affaccia qualcosa, un timbro personale che smaglia la toga. La mossa furtiva di una donna, fra un controllo e l’altro, in un luogo di sbarre, di grigiore metallico, di suoni ostili. Labbra avide e grate ricevono un tocco di rossetto, e in un attimo l’attrazione e il piacere si prendono la loro parte di vita, il loro spazio.

È l’eroismo del bello, una seduzione inconsapevole che fa pensare a certe scene di Kapo di Gillo Pontecorvo, ma in trasparenza – scendendo ancor più la scala del dolore e dell’impossibile – anche alle parole estreme del Settimo pozzo con cui Fred Wander, per una suprema rivincita sugli aguzzini, tratteggia la bellezza insopprimibile dei corpi sfigurati dal Lager. La donna senza nome, la furtiva che si trucca in La vita ti sia lieve, sembra essere una compagna di militanza e di lavoro, ma il chiaroscuro della pagina ne fa una sagoma, un altro volto delle migranti, delle prigioniere e sotto sotto – lo diciamo a bassa voce – dell’autrice.

Serba forse lei stessa, qualcosa da parte? Chissà. A ogni cancello, a ogni confine, la realtà l’ha costretta a imparare come non volgere più indietro la testa. Deve superare i «gironi», e l’eco è dantesca. Ci sono dentro i divieti di guardare, di voltarsi, lo sguardo di Medusa: «Nulla sarebbe di tornar mai suso».

Di più non si deve pretendere, almeno per ora. L’autrice resta sempre una giurista, malgrado la toga diradata. I giuristi, a parte quelli irrimediabilmente pietrificati, sono persone che hanno qualcosa da dire, che sanno la lingua, sì, ma hanno come ancora davanti a sé la conquista di un linguaggio:

Trovarsi o sentirsi «diversi»: i peggio vestiti, i più spettinati, i più timidi, i più soli, in luoghi dove tutti sembrano disinvolti, interessanti e sicuri, in feste o riunioni alle quali non abbiamo saputo sottrarci e da dove, poi, si vorrebbe fuggire, o almeno scomparire. […] Patire in quasi ogni luogo, insofferenti, insoddisfatti delle nostre scelte, della spendita del tempo, delle occasioni perse per raggiungerne altre che mai riescono a ridurre l’ansia di andare. […] Sentirsi scomodi, seppure, a volte, inconfessabilmente fieri del posto conquistato in questa nicchia per pochi ultimi, sul banco degli imputati o tra vite di scarto, in luoghi, anche mentali, di gratuito disprezzo e immeritate accuse.

Durante un incontro professionale mostra ai profughi una sua cicatrice, per farsi raccontare le loro e tradurle in argomenti di difesa. Dopo che ci ha confessato questa mossa compromettente, consegnandola alla pagina stampata, commetteremo l’indelicatezza di esigere i dettagli che la riguardano, di sbirciare le piaghe? I cercatori di piaghe a tutti i costi hanno pronta la monetina dell’elemosina. «L’empatia a volte è una condanna», scrive, e non è il caso di essere né i suoi complici né i suoi giudici. Magari l’aspettiamo al prossimo libro.

Un seguito, allora? «Mi è negato il senno di poi, perché non so il seguito di queste vite». Il prima, appunto, spinge altre vite più avanti, come le strette di un parto, ma questo non toglie valore al dono. Giorgio Gaber, nell’album Anche per oggi non si vola: «E non ho visto mai nessuno buttare lì qualcosa e andare via».

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Un divertissement (anti)complottista https://www.carmillaonline.com/2021/05/05/un-divertissement-anticomplottistico/ Wed, 05 May 2021 20:42:54 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=65964 di Sandro Moiso

Per chiunque non abbia voglia di affrontare la lettura di un volume di quasi 600 pagine su QAnon e gli altri vari complottismi made in Usa recentemente edito in Italia, val la pena di ricordare che nel 1995 uscì un “romanzetto” sospeso tra il licenzioso, l’irriverente, il goliardico, il politico e il fantastico che, con un numero decisamente inferiore di pagine, riusciva a far piazza pulita di qualsiasi ipotesi complottistica relegandola ai territori dello sghignazzo e della burla, i soli che possano essere “seriamente” dediti a tali interpretazioni della realtà.

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di Sandro Moiso

Per chiunque non abbia voglia di affrontare la lettura di un volume di quasi 600 pagine su QAnon e gli altri vari complottismi made in Usa recentemente edito in Italia, val la pena di ricordare che nel 1995 uscì un “romanzetto” sospeso tra il licenzioso, l’irriverente, il goliardico, il politico e il fantastico che, con un numero decisamente inferiore di pagine, riusciva a far piazza pulita di qualsiasi ipotesi complottistica relegandola ai territori dello sghignazzo e della burla, i soli che possano essere “seriamente” dediti a tali interpretazioni della realtà.

Il testo in questione è Pandemonium di Diego Gabutti, edito da Longanesi nella collana La Gaja scienza, da tempo dimenticato ma ancora facilmente reperibile nel mercato dei libri usati, e oggi, a detta dello stesso, neppure troppo amato dall’autore.
Eppure, come al solito, eppure…
Un testo che riesce a mettere insieme Aleister Crowley, la P2, i servizi segreti italiani “deviati”, Satana in persona (ma soltanto nei sogni dei personaggi principali), brigatisti pentiti, baroni siciliani cornuti, magia sexualis e ricerca dell’homunculus è ancora degno di un’occhiata, magari anche attenta.

Si era agli albori dell’uso delle reti, o rete qual dir si voglia, attraverso l’utilizzo di BBS (Bulletin Boatd System)1, in cui già l’autore individuava la sciagurata possibilità di produrre informazioni incontrollate e bufale a go-go (perché poi oggi si preferisca l’anglicizzante fake news all’italianissimo, e soprattutto evidentissimo nel significato, bufale, è una questione ancora tutta da chiarire).

Un autentico oceano in cui nuotano enormi cazzate mescolate a notizie vere, fasulle, presunte, controllate ed incontrollate (che, in fin dei conti possono reciprocamente rovesciarsi nelle une o nelle altre). Uno stagno per la pesca degli scemi (soggetti ideali sia come pescatori che come pesci), un mare in cui scatenare la fantasia degli agenti dei servizi per comunicare tra di loro oppure per creare eventi improbabili, ma parzialmente credibili oppure assolutamente incredibili, ma luccicanti come oro per i tordi di turno. Che spesso si accodano convinti di svolger un qualche ruolo significativo ai confini di un mondo sospeso in permanenza tra realtà, magia e politica: quello dell’eterno complotto.

Insomma il regno dell’impostura globalizzata in cui ogni impostore, cosciente o meno di esserlo, sogna e immagina di giocare un ruolo significativo nel gran ballo delle balle.
Una enorme commedia degli equivoci in cui, se non ci andassero di mezzo gli innocenti veri (nel caso di Pandemonium delle giovani prostitute uccise o, meglio, sacrificate, per fini oscuri e irrealizzabili, nella realtà le vittime di attentati e violenze indiscriminate giustificate spesso da visioni del mondo reazionarie e folli) ci sarebbe soltanto da sbellicarsi dalle risate (così come capita per gran parte delle lettura del libro).

Il big complotto in questo caso si vorrebbe cosmico, universale, capace di rifondare il mondo e sostituire il suo signore e creatore con un altro, magari dotato, quest’ultimo, di corna, zoccoli, attributi di ambigue dimensioni e demonietti irrispettosi e burloni di contorno. Esoterismo e magia si snodano tra la Sicilia, Milano e Torino. Città, quest’ultima, dove fino ad un decennio or sono era possibile trovare numerose librerie dedite esclusivamente all’argomento; tutte dai nomi improbabili e memori del mito della città magica per eccellenza al centro dei triangoli bianchi e neri (come la maglia della squadra foraggiata dalla ex-FIAT) che attraverserebbero ancora l’Europa tra Lione e Praga, l’est e l’ovest come un Treno ad Alta Velocità del potere e della Grande Bestia.

C’è da ridere, ma anche da piangere, come quasi sempre capita, nel pensare alla serietà con cui i media ufficiali, autentici produttori di fake news ad oltranza si dedicano oggi al disvelamento delle fake news non autorizzate dalle veline di Stato. Un’autentica caccia alle streghe messa in opera da stregoni che in questo modo rendono tutte le bufale degne di attenzione.

Così, dopo aver letto il romanzetto e riflettuto sull’oggi e le sue scie chimiche circondate da manovre per ridurre la popolazione bianca schiava di quelle di altri colori oppure sul negazionismo vero sprofondato in un uso fin troppo spregiudicato del termine per demonizzare qualsiasi avversario delle verità “di Stato”, sorge spontaneo un altro dubbio: il complottismo è davvero soltanto di destra? Oppure anche questa è soltanto un’altra fake news, sorta in un territorio in cui Giorgio Gaber (cos’è di destra, cos’è di sinistra) avrebbe sguazzato ridendo con Enzo Jannacci?

In un territorio dell’immaginario dove la cabala della finanza finge di saper quali sono le soluzioni migliori per il destino del mondo e la scienza si trasforma in esoterismo in nome del profitto; Il mattino dei maghi di Pauwels e Bergier (destra) si incrocia con i segreti cosmici di Peter Kolosimo (sinistra) e dove l’inossidabile Gianni Flamini (sinistra “democratica”), con i suoi eterni studi sull’abilità dei servizi “infedeli” di controllare quasi ogni evento della storia italiana recente, in particolare la lotta armata, e soprattutto senza mai prendere in considerazione il fatto che i servizi possano essere, in realtà, “fedelissimi” e proprio per questo motivo agiscano così come hanno fatto e continuano a fare, incrocia la penna in un duello infinito con i convinti assertori delle presenza dei Visitors (destra fantascientificamente “fessa”) nelle sfere del potere mondiale, non ci sarebbe forse soltanto da sbellicarsi dalle risate?

E invece no, poiché ancora troppo spesso coloro che si pensano investiti di un occulto dovere di informazione oltre che dotati di un’innata verbosità, ritengono necessario rendere tutto ciò noiosamente serio, quasi a voler rilanciare, più ancora che a soffocare, il discorso complottistico e la sua diffusione in rete e oltre, contribuendo così ulteriormente allo spostamento dell’attenzione dalla necessaria e radicale negazione della dominante narrazione tossica dell’esistente finalizzata alla difesa ad ogni costo (anche quello di cadere ripetutamente nel ridicolo, come accade in questi giorni di fallimenti presentati come trionfi della scienza e della politica) del modo di produzione attuale.

Allora meglio seguire le vicende di un romanzo che si snoda tra gli anni Venti e gli anni Novanta, tra orge nei cimiteri siciliani, esperimenti per la cattura dell’energia orgonica di reichiana memoria all’interno di bordelli più o meno di lusso, riti massonici celebrati da personaggi incappucciati ma privi di mutande, agenti segreti in combutta con brigatisti esoterici sulle cui tracce sono altri ex-prigionieri politici in cerca di vendetta, in una girandola narrativa in cui tutti coloro che risultano infoiati dal desiderio di potere politico, economico, magico e religioso vengono definitivamente messi alla berlina.
Poiché non potrà essere nient’altro che una risata a seppellirli tutti insieme e definitivamente.


  1. Si tratta di un sistema telematico che consentiva a computer remoti di accedere ad un elaboratore centrale per condividere o prelevare risorse. Il sistema era stato sviluppato negli anni settanta e ha costituito il fulcro delle prime comunicazioni telematiche amatoriali. Tra le novità consentite dai sistemi BBS, le principali furono la messaggistica e file sharing centralizzato  

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Camerino 47. Attore morto che parla (3-fine) https://www.carmillaonline.com/2021/03/26/camerino-47-attore-morto-che-parla-3-fine/ Thu, 25 Mar 2021 23:01:17 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=65409 di Alfredo Angelici

Per la prima e la seconda puntata vai qui e qui.

Gli pneumatici della Fiat Bravo d’ordinanza dei carabinieri urlando inchiodano davanti al Teatro Bellini. L’automobile viene parcheggiata come da coreografia tradizionale, in diagonale, rispetto al marciapiede, bloccando così l’intera carreggiata.

Tutti gli astanti vivono in quel momento un fenomeno di psicosi collettiva e pensano all’unisono: – “ma se tutti i parcheggi sono liberi, perché non parcheggiano per dritto senza bloccare la strada?”

I lampeggianti restano accesi. I gendarmi scendono. Uno è [...]]]> di Alfredo Angelici

Per la prima e la seconda puntata vai qui e qui.

Gli pneumatici della Fiat Bravo d’ordinanza dei carabinieri urlando inchiodano davanti al Teatro Bellini. L’automobile viene parcheggiata come da coreografia tradizionale, in diagonale, rispetto al marciapiede, bloccando così l’intera carreggiata.

Tutti gli astanti vivono in quel momento un fenomeno di psicosi collettiva e pensano all’unisono: – “ma se tutti i parcheggi sono liberi, perché non parcheggiano per dritto senza bloccare la strada?”

I lampeggianti restano accesi. I gendarmi scendono. Uno è basso e magro l’altro è alto e gigantesco. Comanda il piccoletto. Noi siamo sulla porta a parlare con amici che non vedevamo da tanto tempo. Spaventati ci rifugiamo nel foyer.  È una serata speciale, scostumata ed impertinente: il teatro è aperto nonostante il divieto e c’è il pubblico. Abbiamo commesso un reato!

Vvvvvvvrrrrrrrrrttt

Crono figlio di Urano finisce di sgranocchiare un figlio, ormai sazio risparmia Zeus che un giorno lo spodesterà, poi, per digerire, capovolge la clessidra del nostro tempo.

Flashback.

La pellicola del film che stiamo vivendo gira all’indietro, e ci riporta a qualche ora prima. Siamo ora nella sala del bar del teatro. Matilde dice che la nostra entropia risulta “invertita”, e che pertanto se ci muoviamo all’indietro viaggiamo nel futuro per mezzo dell’inversione del flusso temporale.

-“non ho capito che hai detto”- esclamiamo noi tutti in coro

Arriva a sorpresa Christopher Nolan, avido di concetti casual-fisico-filosofici e sceneggiature criptiche, ruba l’idea di Matilde, scrive il film Tenet, nessuno capirà mai di che parla, allora lui vince l’Oscar.

Dicevamo, siamo noi quattro, i superstiti…Matilde Federica Lorenzo ed Io. Pier Giuseppe ci ha abbandonato al 30° giorno, Licia ha resistito fino al 66°. Ha firmato la regia dello spettacolo e, sull’orlo di una crisi di nervi, ha deciso di lasciarci e tornare a far l’amore tra gli ulivi pugliesi col suo fidanzato.

Ho un’erezione isterica al pensiero

Sono le 13e30 e a noi, invece, ci potete guardare come sempre in streaming, siamo in pausa prove, mangiamo lenticchie e ci interroghiamo sul daffarsi.

Il morale è basso, un po’ perché abbiamo perso il conto dei giorni che non vediamo la luce del sole ed il calore degli affetti si è già raffreddato, un po’ perché al tg per l’ennesima volta non viene nominano lo spettacolo dal vivo come parte integrante del tessuto sociale italiano, ma soprattutto per via del fatto che lo sponsor che ci riforniva di vino ha chiuso i rubinetti dopo il primo mese. In questo momento ci ritroviamo a pasteggiare con un aglianico dolce e mosso, comprato alla mescita a uno e novantanove dai nostri angeli custodi: gli uomini e le donne del Difuori. Quelli che possono uscire e che pensano ai nostri viveri e ad i beni di prima necessità. Adorabili, preziosi, essenziali, ma evidentemente primordiali e basici conoscitori di vino.

Lorenzo travestito da Vinicius De Morales mette su Spotify un Fado portoghese dallo sconsolato fascino rilassante, uno di quei pezzi struggenti che fanno star bene, poi dice:

-“como sàimos daqui. Não aguento mais, estou morrendo, quero sair, quero que alguém nos observe”.

Poi gira la testa tre volte e si arrampica sui muri come un ragno. Padre Lankaster Merrin, detto l’esorcista, si affaccia e ci chiede se è tutto a posto.

-”si padre, ce lo scusi, è l’effetto della Sindrome da Prisonizzazione”

-”è tutto sotto controllo padre, è un semplice processo di erosione dell’individualità funziona che sviluppi nuovi modi di mangiare, vestire, lavorare, dormire, parlare, assumi ideologie di tipo malavitoso e criminale. Per il resto a casa tutti bene grazie!”

Padre Lankaster Merrin ci guarda con rispetto, poi per sicurezza spara due:

– “Exorcizámos te, ómnis immúnde spíritus, ómnis satánica potéstas”

poi torna nel film. Lorenzo scende dal muro e torna Lorenzoforme.

-“come facciamo ad uscire da qui?”

-“facciamo come avevamo detto, quando il dpcm riaprirà il teatri invitiamo il pubblico e ce ne andiamo”

-“non è previsto….la data del 27 marzo suona farlocca è una data slogan”

-“ma ti pare che un Ministro fa un annuncio tipo uno spot su Twitter, non si rende conto che in un momento di gigantesca fragilità del nostro settore ogni frase, ogni parola o sillaba che lui dice è fondamentale? Ha un peso enorme”.

-”Perché ci tratta come dei ragazzini? Un Ministro che si rispetti studia, riflette, ascolta, fa i conti, poi ragiona poi tace di nuovo”.

-“Tace”
“-Tace”
“-Tace”
-“Lavora”
-“Lavora”
-“Lavora”

-”…e alla fine parla ma solo quando ciò che dice è un fatto concreto, un valore che effettivamente può essere un programma”.

Silenzio

Matilde, colpita dal ragionamento si inquieta. Prende la scopa e comincia a spazzare nervosamente.

Pausa, poi dice:

-“Un Ministro che si definisca tale non sottintende, non sintetizza, non grida ai quattro venti la riapertura dei teatri. Lo fa solo quando diventa consapevole che la filiera della teatralità italiana è messa nelle condizioni vere e concrete di poter tornare a lavorare e creare e produrre. E ad incontrare il pubblico, il suo pubblico. Il governo o l’amministrazione non può non conoscerne la complessità. Perché bisogna conoscere la complessità teatrale perché si abbia davvero una ripartenza e non è un’accensione simbolica delle luci di sala”

Ascolto queste sagge parole e mi incendio m’infiammo e m’infuoco, mi infilo la zuppiera a mo’ di elmo, sfilo la cucchiarella come spada, rubo la scopa a Mati, ci salto su a cavalcioni.

Declamo eroico:

“vedo nei vostri occhi la stessa paura che potrebbe afferrare il mio cuore, ci sarà un giorno in cui il coraggio degli uomini cederà, in cui abbandoneremo gli amici e spezzeremo ogni legame di fratellanza, ci sarà l’ora dei lupi e degli scudi frantumati, quando l’era degli uomini arriverà al crollo, ma non è questo il giorno. Quest’oggi combattiamo! Per tutto ciò che ritenete caro su questa bella terra, v’invito a resistere. Uomini dell’Ovest!”

Gli altri mi guardano tra l’attonito, il meravigliato e il compassionevole.

Intanto Daniele, l’autore, che è passato a salutarci travestito da Frodo Baggings, per farmi rinsavire mi molla un calcio in culo e mi fa cadere l’elmo dalla testa e con lui tutti i miei sogni di gloria.

-“scusate” – dico – ”è il provino che ho portato al Teatro di Roma, credevo fosse adatto all’occasione”
– “ti hanno scelto?”
– “no”
– ”devi lavorare sui costumi”

-“allora, stavamo dicendo: apriamo senza il permesso, un atto di protesta e di rottura”
-“ha detto l’avvocato che è un reato penale, non solo per noi ma anche per il pubblico che verrebbe”
-“allora non possiamo”….

Pausa
Silenzio

Federica fa per versarsi un bicchiere di vino.
Smorfia di disgusto degli altri.
Cambia idea.

-“usciamo e buonanotte ai sognatori”
-“dichiariamo il nostro fallimento e tutti a casa”
Federica assume un colore in volto tendente al blu, posseduta dallo spirito di Edward Norton e mossa da Spike lee

Urla

-“vaffanculo, fanculo tutti, fanculo anche noi, fanculo questa merda di paese, fanculo al pubblico che non sa chi c’è dietro al mondo dello spettacolo, in culo agli attori che vogliono aprire i teatri, fanculo ai registi che credono di essere indispensabili, fanculo agli autori che non hanno più un cazzo da scrivere, fanculo ai disegnatori luci che nessuno ha capito mai come si fa a disegnare con la luce, e vaffanculo agli ingegneri del suono che tanto oramai ascoltiamo tutto con la qualità dell’audio di una radiolina a transistors, che se ne andassero a fanculo macchinisti, elettricisti, fonici, falegnami, microfonisti, camionisti, costruttori di scena, pittori di scena, scenografi, coreografi, arredatori, autisti di produzione, musicisti, compositori, librettisti, aiuto registi, aiuto sceneggiatori, attrezzisti, aiutoattrezzisti, costumisti, sarte di scena, aiutosarte di scena, sottotitolisti, grafici, bozzettisti, assistenti alla regia, uffici stampa, direttori artistici, truccatrici, parrucchieri, comparse, figuranti, accompagnatori di minori, siparisti, suggeritori, mimi, trovarobe, addetti al catering (un tempo cestinari), trasportatori, stunt man, addestratori di animali (un tempo animalari), maestri d’arme, maschere, addetti alla biglietteria, guardarobieri, custodi, addetti alla sicurezza, addetti alla pulizia e al facchinaggio, montatori, aiutomontatori, montatori della scena, mixer, acrobati, addetti agli effetti speciali, rumoristi, disc jockey, marionettisti, burattinai, direttori di produzione, ispettori di produzione, segretari di produzione, location manager, casting, fotografi di scena, autori del backstage, imballatori, amministratori di compagnia, orchestrali, coristi, bandisti, maestri di canto, vocalisti, ballerini, danzatori, direttori di scena, impiegati amministrativi, curatori di produzione, trainer, produttori e distributori .….”

-“…e le loro famiglie”

Che ora è?

La 25esima.

-“certo che siamo proprio tanti”

Riflettiamo in silenzio che nessuno valuta seriamente l’indotto di cinema e teatro. Non solo la spesa al botteghino, ma lo shopping, i trasporti e i pasti fuori: 5,3 miliardi di spese, un valore aggiunto annuale del settore di 4,7 miliardi di euro, una produzione aggiuntiva da 10,8 miliardi, oltre a 99 mila unità di lavoro.

-“io a cosa servo”
-“io a cosa servo”
-“Io a cosa servo”
-“Io a cosa servo”

In questo momento esce Edipo dalle pagine della tragedia di Sofocle, ci guarda sorridente e ci intima che

-“proteggere e liberare le città dai danni provocati da un’epidemia, significa innanzitutto conoscere se stessi, prima che un’intera comunità si ammali di tristezza non riuscendo più a immaginare un futuro”.

Lo cacciamo via, che noi adulti qui si sta parlando di soldi non di sogni. Qualcuno dice che poi Edipo, non avendo retto al dispiacere di quello che ha visto in noi, è tornato nel libro ed ha ucciso il padre, copulato con la madre e si è ciecato. Non poteva sopportare la vista di come abbiamo bruttato ’sto mestiere.

Per farla breve, alla fine decidiamo di aderire a “Facciamo luce sui teatri”, la protesta ideata da Unita – Unione nazionale interpreti teatro e audiovisivo – un’associazione di categoria che suona seria ed aderente al settore. Siamo uno dei 600 teatri italiani che per questa notte accenderà le luci, le insegne, aprirà i portoni, inviterà il pubblico a recarsi a teatro … mamma mia come suona antico sembra una cosa del tipo “vi ricordate quando ancora si poteva….”. Come quando una specie si estingue e la si commemora.

In quattro e quattr’otto organizziamo la serata. Posizioniamo un podio nel foyer modello “Hyde Park corner”. Un microfono e basta. Chiunque vorrà, potrà salire sul podio e leggere un brano selezionato da noi, un testo scelto da lei, un pensiero condiviso da tutti. Stiamo attenti alle misure di sicurezza: amuchina come se non ci fosse un domani, litri di amuchina, ettolitri di amuchina. Eppoi rossetti, sì, proprio il lipstick del trucco. Serve alle persone che verranno, per scrivere sui mille specchi del Teatro Bellini. Per rispondere con dei pensieri alle domande: “cos’è il teatro per te” – “cosa ti manca del teatro” – “come vorresti che il teatro cambiasse” – “cosa può fare il teatro per te” …e così via.

Andiamo nei camerini e ci facciamo carucci. Ci laviamo, ci vestiamo coi vestiti della festa, ci trucchiamo, uomini e donne indistintamente. Mi metto per sbaglio troppo gel in testa, si crea l’effetto “ciuffo in su”. Lo prendo come un omaggio a Tutti pazzi per Mary, quando Cameron Diaz inconsapevole si sistema i capelli con lo sperma di Ben Stiller.

Ci sorridiamo con pudore come quando i fanciulli si accostano per la prima volta al sacramento dell’Eucarestia.

Emozione
Emozione
Emozione
Emozione

È una serata importante. Simultaneamente Veronica, Lello e Margherita dell’ufficio comunicazione lanciano l’evento sui social, spediscono email invitano amici e nemici.

Siamo pronti sono le ore 19. Orario della convocazione. L’eccitazione dell’attesa è palpabile. Carlo il custode si avvicina e mi dice una cosa in napoletano stretto. Capisco solamente che anche lui è emozionato. Gli sorrido ma con le mascherine sembriamo tutti Actarus il pilota di Goldrake. Allora gli canto il simpatico motivetto:

“Si trasforma in un razzo missile con circuiti di mille valvole
fra le stelle sprinta e va…
Lui respira nell’aria cosmica
è un miracolo di elettronica ma un cuore umano ha…
Ma chi è? Ma chi è?”

Felicità, isteria, trepidazione. Arriva la gente, il pubblico ed è

-L’INCONTRO

che aspettiamo da 76 giorni.

Dopo un anno circa il teatro, il nostro teatro torna ad essere un rito collettivo, catartico e purificatorio, basato su

-L’INCONTRO.

Si riprende violentemente la sua funzione sociale che risponde da sempre all’innato bisogno degli uomini di desiderio mimetico, di gioco, della narrazione delle storie, anche feroci, senza il timore di riceverne una punizione. Ed infine al piacere che c’è nel vivere la trasformazione dell’attore.

Il foyer si riempie ma la folla non diventa follia di massa, è tutto moderato e possibile. Il podio si illumina. Daniele fa da padrone di casa e legge un testo di Petrolini sulla funzione del Teatro. Poi io leggo Gaber. Poi qualcuno legge Flaiano. Poi Shakespeare, immancabile poi…poi….poi….

Qualcuno si disinfetta le mani e sale e legge

Garcia Lorca

“Finché attori e autori resteranno in mano d’imprese assolutamente commerciali, senza valore letterario o controllo statale di nessuna specie, imprese digiune di ogni criterio e senza alcuna garanzia, attori, autori e il teatro intero sprofonderanno ogni giorno di più….”

Poi un altro rimpiazza l’oratore di prima e legge Galeano

“Lei sta all’orizzonte. Mi avvicino di due passi, lei si allontana di due passi. Faccio dieci passi. L’ orizzonte si allontana di dieci passi. Per quanto cammini, non la raggiungerò mai. A cosa serve L’utopia? A questo, serve: a camminare”.

Le persone sul podio si trasformano, arriva Kierkegaard in persona

“Accadde in un teatro che le quinte presero fuoco. Il Buffone uscì per avvisare il pubblico. Credettero che fosse uno scherzo e applaudirono; egli ripeté l’avviso: la gente esultò ancora di più. Così mi figuro che il mondo perirà fra l’esultanza generale degli spiritosi, che crederanno si tratti di uno scherzo”.

Ci raggiunge Goethe

“Vorrei che il palcoscenico fosse stretto quanto il filo di un funambolo, cosicché nessun incompetente oserebbe metterci piede”.

Non può mancare Carmelo Bene

“Qui non si tratta della crisi di un teatro, ma del fatto che tutto il teatro è in crisi. Finché si penserà al teatro come a un raduno mondano, per assistere alla recita di gente imparruccata”.

Vvvrrrrrrrmmmmmm

Crono assonnato e gonfio di cibo riporta la clessidra del tempo ad ora. La pellicola si riavvolge nel futuro ed il passato raggiunge il presente. Avevamo lasciato la Fiat Bravo dei carabinieri parcheggiata male coi lampeggianti accesi. I gendarmi scendono. Uno è basso e magro l’altro è alto e gigantesco. Comanda il piccoletto. Noi siamo sulla porta a parlare con amici che non vedevamo da tanto tempo. Spaventati ci rifugiamo nel foyer. I due militari ci seguono all’interno ed io mi ricordo che furono due gendarmi ad arrestare Pinocchio. Lui diceva bugie. Sosteneva che l’uomo può trasformare la propria condizione passando dalla vita istintiva, simile a quella animale, alla vera vita, cospargendosi così del profumo di umanità.

L’app “Fata Turchina” che ho appena scaricato lampeggia e mi ricorda che “Se del perdono non sarai degno tutta la vita sarai un legno”.

Entra il carabiniere piccoletto. Guarda gli affreschi dell’800 del teatro e ci dice in dialetto sardo “Carrino questo llocale, ha apperto da ppoco?”

Buio

Sipario

Saluti

…e visto che ci siamo

Baci

Appare una scritta creata espressamente a chiusura della storia

-il vento può spegnere una candela ed accendere un incendio-

 

La prima foto è di Michele Amoruso.

(Il 5 marzo, a un anno esatto dalla chiusura dei teatri, si è sciolto il progetto Zona Rossa, un’iniziativa che ha unito protesta e performance artistica per denunciare la situazione di abbandono in cui versano i teatri nel nostro Paese. Il gruppetto di attrici, attori e drammaturghi/registi che ha trascorso settantasei giorni di reclusione all’interno del teatro Bellini di Napoli senza mai uscire ha messo fine al suo confinamento volontario. Durante questo tempo i reclusi hanno fatto teatro, si sono interrogati sul senso di questo lavoro, sulla sua necessità, sulle ragioni della crisi dello spettacolo dal vivo, esasperata dalla pandemia, e hanno mostrato in streaming non uno spettacolo compiuto, ma le fasi creative che portano alla sua realizzazione. Tutto questo in attesa dell’annuncio della riapertura dei teatri, per debuttare davanti a un pubblico. Ma la data del 27 marzo, indicata dal Governo per la ripresa delle attività, è sembrata da subito uno specchietto per le allodole e certamente non ha mai rappresentato per i protagonisti del progetto Zona Rossa una risposta alle criticità e alla complessità del settore. Missione fallita dunque? Anche se così fosse, per gente di teatro non sarebbe un buon motivo per perdersi d’animo, stando almeno a quanto sosteneva Samuel Beckett: “Ho provato, ho fallito. Non importa, riproverò. Fallirò meglio”. F.C.)

 

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I movimenti aberranti di Deleuze https://www.carmillaonline.com/2020/11/20/i-movimenti-aberranti-di-deleuze/ Fri, 20 Nov 2020 21:30:12 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=63511 di Paolo Lago

David Lapoujade, Deleuze. I movimenti aberranti, a cura di C. D’Aurizio, Mimesis, Milano-Udine, 2020, pp. 335, € 24,00.

È uscita recentemente per Mimesis, nella collana “Le Dehors”, la traduzione italiana, realizzata da Claudio D’Aurizio, del volume di David Lapoujade (docente alla Sorbona e allievo di Giles Deleuze), Deleuze. I movimenti aberranti (pubblicato nel 2014 per i tipi di Minuit). Merita sicuramente soffermarsi sul nome della collana: “Le Dehors”, cioè “il Fuori”. Questo nome non è stato scelto a caso ma fa riferimento a un preciso contesto filosofico-culturale della Francia del [...]]]> di Paolo Lago

David Lapoujade, Deleuze. I movimenti aberranti, a cura di C. D’Aurizio, Mimesis, Milano-Udine, 2020, pp. 335, € 24,00.

È uscita recentemente per Mimesis, nella collana “Le Dehors”, la traduzione italiana, realizzata da Claudio D’Aurizio, del volume di David Lapoujade (docente alla Sorbona e allievo di Giles Deleuze), Deleuze. I movimenti aberranti (pubblicato nel 2014 per i tipi di Minuit). Merita sicuramente soffermarsi sul nome della collana: “Le Dehors”, cioè “il Fuori”. Questo nome non è stato scelto a caso ma fa riferimento a un preciso contesto filosofico-culturale della Francia del secondo Novecento: secondo quanto scrive Jean-Paul Sartre, “non è in un ipotetico rifugio che scopriamo noi stessi, ma per la strada, per la città, in mezzo alla folla, cosa tra le cose, uomo tra gli uomini” (e si possono ricordare anche gli elogi della strada attuati da Céline già nel 1932, nel suo Viaggio al termine della notte, quel “c’è solo la strada” ripreso da Gaber e Luporini in una nota canzone). Come nota Fabrizio Palombi nella prefazione, dehors diventa “la parola d’ordine di una comune missione teorica e vitale. La ritroviamo nelle pagine di Gaston Bachelard, negli scritti di Maurice Blanchot, nelle pieghe di Gilles Deleuze, nei testi di Jacques Derrida, nelle analisi di Maurice Merleau-Ponty e, soprattutto, nelle pagine di Michel Foucault”, autore, quest’ultimo, di un’opera intitolata Il pensiero del fuori. Ed è proprio attraverso gli strumenti offerti da quest’ultimo studioso che si presta ad essere analizzato il periodo che stiamo adesso vivendo, in cui il “Fuori” viene continuamente negato e interdetto. La pratica del lockdown, il mantra dello “state a casa”, le dinamiche di controllo armato rivolte a chi esce di casa ‘senza motivo’ sono semplicemente l’ipostatizzazione di un controllo diffuso già a partire dalla modernità, ampiamente analizzato da Foucault. Mettere in discussione tali pratiche, perciò, in questo periodo, non significa assolutamente negare la pericolosità del virus; si tratta, bensì, di una messa in discussione che investe alcuni meccanismi di controllo preesistenti alla diffusione del virus e che, grazie ad esso, emergono allo scoperto. Comunque, tornando a Deleuze, si può notare, con Palombi, che “il libro di Lapoujade c’invita ad affacciarci continuamente sul Fuori per respirare ancora una volta, proprio come Deleuze sosteneva a proposito di Sartre e di Foucault, una boccata d’aria fresca proveniente dal dehors”.

È bene mettere subito in chiaro che non si tratta di una lettura semplice. Come osserva D’Aurizio nella postfazione, “la difficile ascesa teorica alla sua cima ripaga il lettore con la possibilità di dominare, tramite uno sguardo teoretico d’ampio respiro, molti dei problemi centrali della filosofia di Deleuze. La lettura di questo libro, infatti, implica l’attraversamento delle spesse nebbie evenemenziali e delle fitte selve logiche che popolano il suo pensiero”. L’importanza maggiore del libro di Lapoujade sta nel fatto che esso non rappresenta una semplice “introduzione” a Deleuze; non si limita a ripeterne formule e concetti “ma ne dispiega diversamente il tessuto per comporre delle immagini nuove, contemporanee”. Come nota Lapoujade nell’introduzione, “la filosofia di Deleuze si presenta come una filosofia dei movimenti aberranti o dei movimenti forzati. Costituisce il tentativo più rigoroso, più smisurato, ma anche più sistematico, di catalogare i movimenti aberranti che attraversano la materia, la vita, il pensiero, la natura, la storia delle società”. Ricordiamo che “aberrante” (da “ab”, moto da luogo e “erro”) in senso etimologico, può significare sia “vagare senza una meta precisa” sia “sbagliare”. Perciò, la funzione dei movimenti aberranti, come scrive l’autore della postfazione, “è quella di condurci sino ai limiti del pensiero, dell’immaginazione, della memoria, della sensibilità, del linguaggio e di spingerci oltre, di farceli oltrepassare, conducendoci così all’impensabile, all’inimmaginabile, all’immemorabile, all’insensibile, all’indicibile che lavorano costantemente queste facoltà. I movimenti aberranti comunicano con l’aldilà del limite, con il rovescio della frontiera. In una parola: con il Fuori”.

Per Deleuze, “un movimento è tanto più logico quanto più sfugge a ogni razionalità. Più è irrazionale, più è aberrante, più è logico”. Uno fra i più significativi movimenti aberranti analizzati da Deleuze è ciò che egli chiama “deterritorializzazione” in Mille Piani (scritto insieme a Félix Guattari) e “sfondamento” in Differenza e ripetizione. Come scrive Lapoujade, “la deterritorializzazione è il movimento aberrante della terra. La deterritorializzazione della terra è il più grande, il più potente di tutti i movimenti aberranti, quello che, in un modo o nell’altro, alimenta tutti quanti gli altri. La deterritorializzazione sta alla terra come il senza-fondo sta al fondamento”. I nomadi sono coloro che seguono la terra nella sua deterritorializzazione, sono “i più liberi rispetto alla nozione di territorialità”. Sono anche coloro che deterritorializzano la terra. Se per l’Anti-Edipo, le formazioni sociali sono tre (Selvaggi, Barbari, Civilizzati), per Mille Piani sono almeno cinque: le società primitive di lignaggio, gli apparati di Stato, le società urbane, le società nomadi, le organizzazioni internazionali. I nomadi si servono della “macchina da guerra” nomade per distruggere gli Stati e per seguire la loro linea di deterritorializzazione mentre lo Stato, a sua volta, si appropria della stessa “macchina” per consolidare la propria potenza politica. Ma una “macchina da guerra” è anche quella attraverso la quale il capitalismo “instaura una guerra potenziale – lo status quo nucleare – come fondamento di una pace terrificante, di una politica securitaria postfascista e di una distruzione della terra abitabile senza precedenti”. C’è un combattimento costante che attraversa Mille Piani: nomadismo contro imperialismo. Se l’asservimento dispotico integrava le popolazioni umane in una “mega-macchina imperiale”, “le nuove tecnologie integrano le popolazioni umane in nuove macchine sotto forma di banche dati, di algoritmi, di flussi d’informazioni”. E allora, Lapoujade giunge alla conclusione che viviamo in un mondo-schermo, un mondo composto esclusivamente di immagini mentre non esiste più un mondo esteriore in cui agire. C’è solo uno schermo o “una tavola d’informazione con cui interagire”. Si tratta di un mondo esterno che manca di esteriorità, un “mondo senza fuori”. La distinzione interno/esterno non ha più senso perché tutto accade in uno “spazio di informazione” stracolmo di cliché.

Il concetto di “terra”, in Deleuze, è strettamente collegato a quello di “deserto”. Quest’ultimo è assai presente nelle opere del filosofo francese: in Differenza e ripetizione, ne L’anti-Edipo, in Mille Piani, in Cinema 2. L’immagine-tempo. La stessa filosofia – scrive Lapoujade – ha bisogno di un deserto. Il deserto non è “l’utopia di un altro mondo, ma una a-topia all’interno di questo mondo. È un luogo di giustizia; è in nome della giustizia del deserto che noi possiamo denunciare le ingiustizie di questo mondo”. È il deserto dei “cristalli di tempo” che ritroviamo nel cinema di Fellini, Antonioni, Pasolini. In quest’ultimo autore, il deserto è l’a-topia dove riecheggiano le grida di giustizia degli ultimi della terra contro l’ingiustizia sociale che in essa regna sovrana. È uno spazio-tempo separato da dove può forse partire l’attacco di una nuova macchina da guerra nomade per sovvertire le griglie degli apparati di stato. Perché Lapoujade fa suo e rinnova un importante grido filosofico di Deleuze: che si combatta, sempre e ovunque, la lotta a favore delle minoranze, di ciò che è intrinsecamente minore, “la guerra molecolare”. Vi sono tante “minoranze di fatto”, nel mondo, che intraprendono una “lotta molecolare assoluta”, come le lotte operaie, le battaglie femministe, la guerra dei Palestinesi, le Black Panthers, le lotte nel Terzo Mondo. Legata a queste lotte, nell’opera di Lapoujade, è la “necessità di pensare e di creare continuamente una nuova terra o molteplici nuove terre”.

Attraverso la questione della creazione di una nuova terra, I movimenti aberranti dialoga inoltre con uno dei filoni di ricerca contemporanei più rilevanti. La catastrofe ecologica (tema attualissimo, legato anche alla diffusione dei virus), la “fine” del nostro mondo e la costruzione di un mondo a venire sono problemi che Lapoujade discute in una prospettiva multidisciplinare che coinvolge la teoria politica, l’antropologia, la sociologia e la filosofia stessa. L’opera di Lapoujade analizza la logica della territorialità in Deleuze evidenziandone le potenzialità strategico-politiche. A tal proposito, particolarmente significativa – e più che mai attuale, si potrebbe aggiungere – appare una riflessione che Lapoujade squaderna concludendo il suo saggio: “La macchina da guerra ci distruggerà o distruggerà i limiti che ci assoggettano e ci asserviscono? Non si può saperlo in anticipo, è tutta una questione di sperimentazione”. E lo sperimentiamo sulla nostra pelle in un difficile presente: in questo caso, rovesciando il noto verso di Manzoni, non “ai posteri”, ma a noi “l’ardua sentenza”.

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E sulle biciclette verso casa, la vita ci sfiorò https://www.carmillaonline.com/2018/05/31/e-sulle-biciclette-verso-casa-la-vita-ci-sfioro/ Thu, 31 May 2018 20:29:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=45558 di Filippo Casaccia

Fabio Zuffanti, Battiato: la voce del padrone. 1945-1982. Nascita, ascesa e consacrazione del Fenomeno, Arcana, 2018, pp. 317, € 19,50.

Franco Battiato: il Maestro, l’artista pop, il provocatore sperimentale, il compositore classico contemporaneo. Il Fenomeno, come conferma il sottotitolo della biografia musicale che gli ha dedicato Fabio Zuffanti, musicista a suo volta e scrittore prolifico, autore di diversi libri (tra cui una recente e gustosa raccolta “notturna” di racconti brevi) e di una decina di album che spaziano dal prog migliore al pop più [...]]]> di Filippo Casaccia

Fabio Zuffanti, Battiato: la voce del padrone. 1945-1982. Nascita, ascesa e consacrazione del Fenomeno, Arcana, 2018, pp. 317, € 19,50.

Franco Battiato: il Maestro, l’artista pop, il provocatore sperimentale, il compositore classico contemporaneo. Il Fenomeno, come conferma il sottotitolo della biografia musicale che gli ha dedicato Fabio Zuffanti, musicista a suo volta e scrittore prolifico, autore di diversi libri (tra cui una recente e gustosa raccolta “notturna” di racconti brevi) e di una decina di album che spaziano dal prog migliore al pop più intelligente nella sua ricerca di contaminazioni.
Ecco, forse la chiave per comprendere la qualità altissima di questo saggio sull’artista catanese (in realtà di Jonia, effimera unione amministrativa di Giarre e Riposto, dove effettivamente nacque) è la capacità dell’autore di narrare una vicenda umana e artistica con una competenza musicale mai distante dal lettore: a fianco al testo appaiono, volta per volta, analisi musicologiche degli album di Battiato che rivelano anche al più digiuno di cultura musicale la loro complessa architettura e la ricchezza di rimandi nell’opera dell’artista.
Il libro – che termina con un allusivo continua… – documenta la parabola di Battiato dalla nascita fino alla clamorosa affermazione commerciale de La voce del padrone, primo album italiano a raggiungere il milione di copie vendute e autentico capolavoro della discografia nazionale. Per la mia generazione quel disco era stato un fulmine a ciel sereno, una sequenza di capolavori diventata la colonna sonora dell’estate dell’inaspettato mundial spagnolo e ancora oggi non riesco a separare quella euforia (che a Battiato sicuramente non sarebbe piaciuta) da quel suono, da quei versi. Musica e parole che a me come a molti altri risultavano fascinosamente incomprensibili, un cut up magistrale di citazioni, ricordi, rimandi, allusioni la cui comprensione si sarebbe rivelata negli anni a venire e che oggi, con un testo esplicativo come questo, risultano assolutamente cristallini. Dunque: c’è un Battiato delle canzonette anni Sessanta (pressoché sconosciuto), poi c’è il Battiato di Fetus e Pollution, rock sui generis, provocatorio ma già geniale come dimostrano l’attenzione dall’estero e la stima, per dire, di un Frank Zappa. Dopo la sbornia e il successo di queste prime uscite il musicista intraprende un percorso sperimentale che arriva a spogliare la sua musica fino al minimalismo austero de L’Egitto prima delle sabbie, premio Stockhausen del 1978. Per gli spettatori dei suoi spettacoli – sempre più radi, durante gli anni Settanta, sia spettacoli che spettatori – e per la critica disorientata è un sentiero autodistruttivo ma Zuffanti riesce a far comprendere come il processo di sottrazione sia in realtà un arricchimento continuo: Battiato precorre la musica cosmica tedesca, si abbevera al minimalismo di Philip Glass, studia La Monte Young e Terry Riley e si dedica a composizione e armonia dopo una strigliata dell’amico Karlheinz Stockhausen che gli impartisce la prima lezione di notazione musicale. E intanto viaggia, conosce, instaura rapporti affettivi e artistici con altri outcast del panorama italiano. Gli esordi rock sono a fianco di Gianni Sassi ma ci sono anche Giorgio Gaber o Claudio Rocchi a seguire i passi di Franco nella sua carriera musicale. Sono anni di tensioni ideali interiori, di un ascetismo reale (anche per le scarsissime disponibilità economiche) che la figura allampanata del musicista restituisce benissimo e che conosciamo grazie alle foto magistrali di Roberto Masotti, autore dello scatto celeberrimo che appare sulla copertina del libro (e che, lavorato da Francesco Messina – altro artista grafico clamoroso -, identificherà proprio La voce del padrone).
Poi l’incontro con un partner in crime assolutamente impensabile: il maestro Giusto Pio, che diventa – come poi accadrà altre volte, per esempio con il filosofo Manlio Sgalambro – il socio ideale per provare a tradurre compiutamente la ricchezza di esperienze di Battiato.
Quando nel 1979 esce L’era del cinghiale bianco è come se tutte le influenze e gli influssi culturali assorbiti nei dieci anni precedenti avessero finalmente trovato forma ed espressione in una sorta di pop sperimentale, prezioso, originale e irresistibilmente melodico e ritmico. La chiamata alle armi di Patriots raffinerà la formula che arriverà al suo apice con La voce del padrone: Georges Gurdjieff arriva così in alta classifica, tra citazioni che vanno da Bob Dylan a Giacomo Leopardi, un collage unico, talvolta ironico ma che, più spesso, produce senso e funziona da provocazione, da testimonianza e da memoria, uno degli aspetti ricorrenti nell’opera del musicista.
Il 1981 e il 1982 sono gli anni in cui qualunque cosa tocchi Battiato e il suo magic team (tra cui Angelo Carrara e Alberto Radius) diventa oro: ne beneficia Milva ma anche Giuni Russo col tormentone di Un’estate al mare e Alice che, con Per Elisa, vince il festival di Sanremo con soluzioni armoniche e testuali impensabili per la rassegna canora, un’affermazione che non si potrà mai più ripetere.
Fabio Zuffanti ha il merito di ricostruire la crescita e l’affermazione di una personalità unica, dando voce a tutti i protagonisti con precisione e competenza. Ed è unica anche l’opera che ne deriva: Franco Battiato è uno dei pochissimi artisti di successo che non faccia riferimento alla musica pop o rock americana, semmai alla tradizione classica (quanto contrappunto bachiano in queste sue “canzonette” sublimi!) o alla musica araba, un rifarsi a una mediterraneità solare che comunque guarda a Est piuttosto che al West. Perché – e come dargli torto? – “il giorno della fine non ti servirà l’inglese”.

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