Giordano Bruno – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Elogio dell’eccesso/5: Giorgio de Santillana, “the cat who walks alone” https://www.carmillaonline.com/2024/04/04/elogio-delleccesso-5-giorgio-de-santillana-the-cat-who-walks-alone/ Thu, 04 Apr 2024 20:00:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81750 di Sandro Moiso

Giorgio de Santillana, Le origini del pensiero scientifico. Da Anassimandro a Proclo 600 A.C. – 500 D.C., Adelphi Edizioni, Milano 2023, pp. 438, 15 euro

In tutto il tempo moderno, rivoluzione ha significato l’irreversibile. Ha portato con sé la vera Storia. Che è poi la fuga in avanti. Pure c’è un vecchio senso che ci è ancora nascosto, noto ai rivoluzionari autentici: il ritorno alle origini. ( Giorgio de Santillana – Riflessioni sul Fato)

Le violente scintille che scoccarono tra i reofori della nostra dialettica ci hanno appreso che è compagno militante comunista e rivoluzionario chi ha [...]]]> di Sandro Moiso

Giorgio de Santillana, Le origini del pensiero scientifico. Da Anassimandro a Proclo 600 A.C. – 500 D.C., Adelphi Edizioni, Milano 2023, pp. 438, 15 euro

In tutto il tempo moderno, rivoluzione ha significato l’irreversibile. Ha portato con sé la vera Storia. Che è poi la fuga in avanti. Pure c’è un vecchio senso che ci è ancora nascosto, noto ai rivoluzionari autentici: il ritorno alle origini. ( Giorgio de Santillana – Riflessioni sul Fato)

Le violente scintille che scoccarono tra i reofori della nostra dialettica ci hanno appreso che è compagno militante comunista e rivoluzionario chi ha saputo dimenticare, rinnegare, strapparsi dalla mente e dal cuore la classificazione in cui lo iscrisse l’anagrafe di questa società in putrefazione, e vede e confonde se stesso in tutto l’arco millenario che lega l’ancestrale uomo tribale lottatore con le belve al membro della comunità futura, fraterna nella armonia gioiosa dell’uomo sociale. (Amadeo Bordiga, “Considerazioni sull’organica attività del partito quando la situazione generale è storicamente sfavorevole”, 1965)

La ripubblicazione da parte delle edizioni Adelphi di Le origini del pensiero scientifico di Giorgio de Santillana, apparso per la prima volta nel 1961 e tradotto in italiano nel 1966 nella versione di Giulio De Angelis riproposta anche per l’attuale edizione, permette non soltanto di affrontare un tema importante per la riflessione filosofica e scientifica, ma anche di riscoprire uno scienziato e filosofo cui, ad esempio, sia Wikipedia che l’Enciclopedia Italiana Treccani concedono uno spazio fin troppo esiguo, al limite dell’insignificanza. Oltre a ciò, tale riscoperta, potrebbe condurre ad una riflessione su quanto il pensiero e le conoscenze antiche siano state rimosse, se non in alcuni casi negate, per fare spazio alla “Ragione” illuministica e alla scienza applicata e strumentale successiva alla “Rivoluzione” industriale.

In fin dei conti i due spunti di riflessione si ricollegano poiché la negazione delle conoscenze scientifiche anteriori alla rivoluzione scientifica avvenuta a cavallo tra XVI e XVII secolo è proprio ciò che il filosofo della scienza di origini italiane ha contribuito a smontare con tutta la sua opera. Non tanto per quanto riguarda le “scoperte” effettuate quanto, piuttosto, per la concezione che per troppo tempo ha fatto sì che, tra gli antichi, soltanto ai greci fosse riconosciuto la stessa capacità di osservazione e astrazione che poi avrebbe caratterizzato la “scienza” moderna.

Non sappiamo quasi niente del pensiero, vuoi religioso vuoi scientifico, degli uomini dell’Età della Pietra. Ma dobbiamo indubbiamente a quegli ingegnosi tecnologi i principi fondamentali del trattamento della materia e dell’energia: suscitar il fuoco nel focolare, scoprire il principio della leva per lo scaglialancia, sfruttare la tensione e la torsione per far sfrecciare il dardo nell’aria, chiudere la trappola con uno scatto, fissare la scure al manico. Poiché le prime cose son sempre le più difficili, guardiamoci bene dal ritenere queste conquiste qualcosa di naturale. Ancora meno ovvie sono le conquiste della rivoluzione neolitica e dell’Età del Bronzo: la semina del grano, la fonditura, la tessitura, l’arte del vasaio, e tutti i mestieri. E neppure è facile capire come venne agli uomini l’idea di elevare piramidi a gradini quadrangolari che fungevano da abitazione ai loro dei. Solo culture altamente sviluppate possono esser state capaci di compiere imprese del genere. Gli umanisti e i filologi che si occupano di storia possono ben considerarle conquiste rudimentali, gli ovvi inizi di una società ancora legata alla terra. A costoro potremmo opporre ciò che aveva da dire Galileo, che di queste cose se ne intendeva: «E parmi che molto ragionevolmente l’antichità annumerasse tra gli Dei i primi inventori dell’arti nobili, già che noi veggiamo il comune de l’ingegni umani esser di tanta poca curiosità … L’applicarsi a grandi invenzioni, mosso da piccolissimi principii, e giudicar sotto una prima e puerile apparenza potersi contenere arti maravigliose, non è da ingegni dozinali, ma son concetti e pensieri di spiriti sopraumani».
Dunque, niente di molto «primitivo» in tutto ciò. Un tempo gli studiosi davano per scontata l’identità del nostro passato con i «selvaggi» contemporanei che si astengono ostinatamente dalla produzione del cibo e quindi sono stati schedati sotto la voce «Età Paleolitica». Il «primitivo» degli studiosi ottocenteschi era semplicemente «pre-logico», un fanciullo che raccontava a se stesso storie ingenue, che noi ascoltiamo con divertita condiscendenza. La scala del Progresso partiva di lì1.

Giorgio de Santillana (1900-1974) prende spunto da colui che è considerato il fondatore del moderno metodo sperimentale scientifico per tornare a quei secoli, troppo spesso considerati oscuri, durante i quali la specie, nel muovere coscientemente i primi passi sulla superficie terrestre, elaborò le sue capacità logiche e razionali, ben prima che il pensiero borghese, di origine rinascimentale e illuminista, dividessero le età del mondo tra quelle considerate razionali e quelle irrazionali o primitive, insieme alle culture che ne avevano costituito la manifestazione epifenomenica.

Se, infatti, la critica illuministica della religione aveva un reale fondamento politico, l’estensione della critica alla superstizione che ne reggeva ancora la funzione sociale a tutte le conoscenze che avevano accompagnato la crescita delle società umane precedenti e “altre” finiva infatti col condannare all’oblio, senza possibilità di appello, non soltanto le forme prevalentemente folkloriche di tante conoscenze tradizionali, ma anche, e forse prevalentemente, quelle che avevano formato il substrato conoscitivo della resistenza comunitaria all’emersione del capitalismo mercantile e della sua “scienza” (in cui iniziava ad esser considerata come tale anche quella “economica”) come forma dominante di indirizzo della produzione e riproduzione sociale. Dando così inizio a una prima e definitiva cancel culture, ben più radicale e totalizzante di quella ritenuta attualmente tale.

Una trasformazione che era iniziata proprio nello stesso periodo della nascita e dello sviluppo delle moderne pratiche scientifiche che, in età rinascimentale dopo aver puntato menti e cannocchiali verso l’universo che circondava un pianeta che sempre meno avrebbe costituito il centro del cosmo creato da Dio per l’Uomo, avrebbero iniziato a stabilire, sulla Terra, precisi e più saldi confini nazionali, proprietari, sociali e conoscitivi. Confini che iniziavano a segnalare l’appropriazione privata o di classe non soltanto delle ricchezze materiali socialmente prodotte, ma anche di quelle immateriali ricollegabili alle conoscenze necessarie per la gestione dell’ambiente e delle società2.

Una modificazione del “potere conoscitivo” che oltre a ridurre enormemente, all’interno delle società “occidentali”, il potere che le donne si erano conquistate all’interno delle comunità di villaggio3, si era riappropriato del potere giudicante dell’Inquisizione e dei tribunali ecclesiastici, “razionalizzandolo” e trasformandolo in un sistema di leggi che, una volta liberato dall’ingombro di carattere religioso, poteva presentarsi come “libero”, “indipendente” e più equo, ponendo il cittadino non più davanti al giudizio di Dio, ma a quello dello Stato (che sostituiva il primo nella funzione della distribuzione del premio e/o del castigo)4.

Sarà proprio de Santillana, in un’opera realizzata con Hertha von Dechend, a ricollegare le rivoluzioni scientifiche del XVI secolo, senza mai nominarle, con quelle operate millenni prima dai nostri antenati, quando le conoscenze del cielo, delle costellazioni, dei loro movimenti stagionali e degli equinozi, per dirla in breve “astronomiche”, costituivano un elemento importante per l’orientamento durante i viaggi e l’organizzazione della produzione sociale5. Ma la vera novità nell’opera di de Santillana e von Dechend era costituita dal fatto che il “mito” e i miti perdevano la loro connotazione primitiva e “irrazionale” per rientrare, invece, in una forma razionalizzata di conoscenza scientifica che, in età spesso precedenti l’invenzione della scrittura, poteva essere memorizzata e trasmessa oralmente da una generazione all’altra. Una forma di conoscenza, priva di copyright e brevetti “scientifici”, che apparteneva alle comunità che l’avevano prodotta. Come avrebbe affermato la von Dechend nella nuova introduzione all’edizione tedesca del 1993:

De Santillana era approdato alla storia delle scienze esatte e alla storia delle idee partendo dalla fisica, e dopo essersi occupato a fondo della filosofia della natura nell’antichità. Io ero partita dall’etnologia storico-culturale, e più precisamente da Leo Frobenius. Avevamo in comune un profondo disagio nei confronti del modo dominante di interpretare e di giudicare tradizioni che non si erano espresse nella «lingua» a non famigliare, e cioè nell’idioma scientifico coniato dai Greci, in ragione del quale le nostre scienze portano nomi greci e i nostri concetti fondamentali – da «assioma» a «ipotesi», da «prassi» a «simmetria» e a «sistema» – sono vocaboli greci […] proiettando così all’indietro fino alla Grecia la concezione del mondo divenuta usuale a partire da Newton.

Per continuare poi ancora ricordando che:

Delle numerose cause del nostro disagio ne citeremo qui una soltanto: l’incompatibilità dei risultati matematico-tecnici che si possono dimostrare, in quanto si possono misurare, per le culture antiche, con il livello delle corrispondenti tradizioni «mitiche». Per fare un esempio specifico, l’incompatibilità delle piramidi e della loro disposizione esatta con l’apparente chiacchiericcio dei testi delle piramidi e del libro dei morti. Due sono le spiegazioni possibili: o gli Egizi non hanno costruito le piramidi […] oppure le moderne traduzioni dei testi sono fondamentalmente sbagliate. Il fatto che parecchi dei nostri contemporanei preferiscano impelagarsi in ipotesi di architetti extra-galattici piuttosto che ammettere l’esistenza di Egizi dotati di competenze eccezionali dimostra chiaramente come una semplicistica fede nel progresso e una storiografia improntata a un evoluzionismo volgare ci rendano più difficoltoso l’accesso alle civiltà antiche6.

Giorgio de Santillana era nato a Roma il 30 maggio del 1900 e avrebbe lasciato l’Italia nel 1936 a seguito delle crescenti restrizioni imposte dal regime agli accademici di origine ebraiche. Negli Stati Uniti svolse tutta la carriera successiva al MIT di Boston, dove sarebbe diventato noto come «the cat who walks alone» per l’abitudine di fare passeggiate notturne nel campus, probabilmente per scrutare quella volta celeste che così tanto avrebbe indirizzato i suoi studi. Nel 1955 pubblicò The crime of Galileo, un’indagine approfondita della crisi del Rinascimento e della condanna dello scienziato, ma nel frattempo si era imbattuto nelle riflessioni di Giordano Bruno per il quale il contenuto della filosofia egizia, in sostanza, non era altro che “astronomia”.

Dopo l’incontro con Hertha von Dechend a Francoforte nel 1958, le sue ricerche subirono una brusca virata verso un campo di studi che lo attraeva da tempo.

Per uno storico che ha esplorato l’inesorabile affermarsi del razionalismo scientifico, si tratta forse della massima sfida speculativa: risalire alle origini remote della scienza, verso un periodo anteriore all’invenzione della scrittura, di cui rimane un materiale documentario insolito, fatto di una prodigiosa abbondanza di miti e leggende accumulate nel corso dei secoli, le cui tracce sopravvivono in forme eterogenee […] Miti e leggende di provenienza diversa, in molteplici varianti, spesso incongrue, e per loro natura ostili al concetto e refrattarie alla formalizzazione.
[…] La sua «fuga verso le antiche età» (come descriveva le sue ultime ricerche nella conferenza di Palazzo Torlonia nel 1966) non è una semplice fuga saeculi, ma la ricerca di una visione sinottica in cui occorre complettere tutti i livelli dell’essere7.

Le idee espresse da de Santillana e von Dechend nel Mulino di Amleto sono molto ardite e soltanto oggi possono, forse, essere comprese appieno, in un momento in cui il declino dell’Occidente e delle sue cosmogonie politiche, economiche e scientifiche si fa sempre più evidente. Motivo per cui la convinzione dei due autori dell’esistenza di conoscenze astronomiche avanzate già in epoca neolitica, può fare il paio con l’attuale scoperta del peso del pensiero e dell’agire coloniale sull’emarginazione delle culture e delle società “altre”, sottomesse e definite primitive per pure esigenze di carattere imperialistico e di dominio e sfruttamento economico.

Fatto sta che, secondo de Santillana, queste conoscenze astronomiche avanzate erano divenute già di difficile interpretazione nella civiltà egizia e babilonese, e l’astrologia ne era solo una tardiva degenerazione […] Le grandi idee cosmologiche sembrano fiorire soprattutto tra nomadi e navigatori e, tra popoli che non possedevano ancora una scrittura, e venivano trasmesse per via unicamente verbale e mnemonica, in un linguaggio intessuto di storie e altamente tecnico, che pur essendo di natura non matematica, era tuttavia dominato, se non ossessionato, dalla precisione (perché ciò che non è esatto è ingiusto). Secondo de Santillana la perdita di questo tesoro di conoscenze arcaiche […] sarebbe essenzialmente dovuta a «due grandi sciagure nella storia». La prima avvenuta quando l’uomo abbandona il nomadismo e si mette a coltivare la terra. La seconda, quando l’uomo ha inventato la scrittura. Con il suo avvento, intorno al 4000 a. C., si forma «una classe in grado di fissare i dati e conservarli per farne uno strumento di potere. La scrittura nasce fondamentalmente come contabilità… con la sua invenzione cessa il pensiero e inizia l’amministrazione»8.

Sicuramente l’invenzione della scrittura segna l’atto di nascita delle società divise in classi, mentre l’ipotesi di una scienza “diversa” da quella affermatasi in Occidente dal XVI secolo ad oggi non è estranea nemmeno al pensiero scientifico contemporaneo.
Infatti, come ricorda Eugene P. Wigner, vincitore del Premio Nobel per la fisica nel 1963, ricostruendo il percorso della sua formazione scientifica a Princeton, fu forte la confusione quando qualcuno gli manifestò le sue perplessità riguardo al fatto che, nello scegliere i dati su cui verifichiamo le nostre teorie, operiamo una selezione alquanto ristretta.

«Se costruissimo una teoria su fenomeni che trascuriamo e trascurassimo invece alcuni dei fenomeni che attirano la nostra attenzione, non arriveremo forse ad un’altra teoria che, pur avendo poco a che fare con la precedente, spieghi altrettanti fenomeni di questa?». Bisogna ammettere che non abbiamo alcuna certezza che non possa esistere una teoria cosiffatta9.

Da cui consegue, sempre secondo il Premio Nobel, che “le leggi di natura sono tutte proposizioni condizionali, e che si riferiscono soltanto a una parte minima della nostra conoscenza”10.

E’ un pensiero radicale quello di de Santillana, radicalismo che forse è alla base della scarsa considerazione che, come si è affermato all’inizio, ne ha ridotto le note biografiche su Wikipedia o sull’Enciclopedia italiana, ma che può essere ancora foriero di interessanti e utili riflessioni, anche per chi non si interessi direttamente di storia della scienza e del pensiero scientifico. Ed è forse questo il motivo per cui può rendersi necessaria la lettura a quasi sessant’anni dalla sua prima pubblicazione italiana del saggio qui “recensito”: Le origini del pensiero scientifico. Da Anassimandro a Proclo 600 A.C. – 500 D.C. Saggio in cui si rivela centrale, proprio per l’attinenza con quanto fin qui riportato, il sesto capitolo, L’universo del rigore (pp. 122-147), dedicato a Parmenide di Elea, una colonia greca dove il filosofo nacque intorno al 525 a. C. Oltre ad essere il promulgatore di un codice di leggi per cui, per generazioni, gli Eleati furono soliti raccogliersi una volta l’anno per riconfermare la loro fedeltà alla costituzione di cui era stato il promotore,

per caso sappiamo anche, attraverso testimonianze frammentarie, che dette contributi importanti alla geometria e all’astronomia; classificò le figure geometriche; insegnò a riconoscere nella Stella del Mattino e nella Stella della Sera (Lucifero e Vespero) un unico pianeta; delimitò sul globo terracqueo le cinque zone in cui è suddiviso dai tropici e dai circoli artici; se poi si deve credere a Teofrasto, che è il nostro più autorevole informatore, fu lui, primo tra i pitagorici, a proclamare la sfericità della Terra e la teoria che la Luna brilla di luce riflessa. Nonostante questi grandi contributi scientifici la sua gloria deriva da un campo diverso: è famoso come inventore della implicazione logica11.

Scrisse una sola opera i versi, intitolata Della Natura, suddivisa in due parti, una «Via della Verità» che tratta delle necessità del pensiero in se stesso, e una «Via dell’Opinione» che sembra dovesse costituire un’ambiziosa cosmogonia unita a una teoria fisica, anche se di questa seconda parte sono sopravvissuti solamente frammenti così miseri da renderne impossibile la ricostruzione del piano generale. Così, come afferma ancora de Santillana: «Il poema è stato descritto come “ispirato dal rapimento della logica pura” e come il primo testo filosofico in senso moderno, ma la sua diretta attinenza al pensiero scientifico ci sembra sia stata trascurata»12.

In realtà, anche se la «Via della Verità» venne consacrata come «fondamento della metafisica», a causa del fatto che molti suoi contemporanei dovevano aver pensato che a quell’uomo fosse stato concessa, nel trattare dell’Essere e del Non-Essere, la visione di cose inesprimibili,

vi sono tuttavia prove innegabili del fatto che Parmenide, affrontato sul suo terreno, appartiene a buon diritto anche alla scienza. Se interpretiamo il termine “Essere” non come una misteriosa potenza verbale, ma come una parola tecnica che designa qualcosa che il pensatore aveva in mente ma non poteva ancora definire, e sostituiamo ad esso una x nel contesto dell’argomentazione di Parmenide, ci sarà facile vedere che vi è un altro concetto, e solo uno, che può essere messo al posto di x senza dar luogo a contraddizioni in qualsiasi punto del testo; quel concetto è il puro spazio geometrico (per designare il quale mancava ai Greci una parola, conoscendo essi solo termini relativi come “luogo”, “aria”, “respiro”, “vuoto”). Inoltre, esso è costruito gradualmente, usando il principio di indifferenza o ragion sufficiente, che già era noto ai predecessori naturalisti di Parmenide; ma esso è ora applicato per la prima volta coscientemente come strumento fondamentale della logica scientifica, mentre Platone e Aristotele discutono l’Essere con strumenti logici diversi e tutt’altro che scientifici13.

Fermiamoci qui, soltanto per notare che de Santillana riesce a cogliere e sottolineare un momento fondamentale della perdita delle conoscenze scientifiche precedenti la civiltà classica e come questo sia forse la causa principale della riduzione a “filosofia” di ogni precedente conoscenza tecnica.
Dando inizio a quel “trionfo” della cultura classica umanistica che ancora ci perseguita e limita ogni nostra reale prospettiva di conoscenza del passato e del futuro (e delle loro possibili culture e conoscenze).

Conoscenze tutt’altro che mesmeriche o metafisiche, ma che soltanto l’ignoranza dei posteri, già all’epoca, ha potuto relegare a “misteri” e culti misterici.
Così come, tutto sommato, la scienza del capitale, ha cercato di fare con tutte le conoscenze un tempo utili alla conduzione della società umana e, troppo spesso, relegate a credenze, miti e aspetti folklorici inadatti alla conoscenza necessaria allo sviluppo degli interessi materiali dello stesso.

Ma questa considerazione finale su un grande storico della scienza e della conoscenza e la sua opera “eccessiva”, che lo ha relegato a camminare da solo, o quasi, nella notte della ricerca storica, non sarebbe completa se non si cogliesse in tutto ciò anche la condanna di coloro che, nel pensarsi “critici” del capitale e del suo modo di produzione e della sua scienza, finiscono col trattare i popoli e le conoscenze altre con la stessa logica da “sbaracco”, accettando di fatto l’irrazionalismo senza essere capaci,invece di cogliere le logiche e la profonda razionalità connesse a quelle stesse conoscenze. Scambiando la scienza con la magia e riducendo le competenze cosmologiche ad astrologia da quattro soldi.


  1. G. de Santillana, Le origini del pensiero scientifico. Da Anassimandro a Proclo 600 A.C. – 500 D.C., Adelphi Edizioni, Milano 2023, pp. 16-17.  

  2. Su tali argomenti, si vedano: C. Maier, Dentro i confini. Territorio e potere dal 1500 ad oggi, Giulio Einaudi Editore, Torino 2019 e R. Kurz, Ragione sanguinaria, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2014.  

  3. Si vedano ancora: M. Zucca, Donne delinquenti. Storie di streghe, eretiche, ribelli, bandite, tarantolate, Edizioni Tabor 2021 e S. Federici, Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2015.  

  4. Si vedano in proposito: R. Mandrou, Magistrati e streghe nella Francia del Seicento, Laterza Editore, Bari 1971 e I. Mereu, Storia dell’intolleranza in Europa, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1979.  

  5. G. de Santillana, H. von Dechend, Il mulino di Amleto. Saggio sul mito e sulla struttura del tempo, Adelphi Edizioni, Milano 1983 (prima edizione americana 1969).  

  6. H. von Dechen, Prefazione all’edizione tedesca in G. de Santillana, H. von Dechen, op. cit., edizione riveduta e ampliata, Adelpi 2000, pp. 12-13. Sull’influenza rimossa delle culture egizie e africane sul quella cultura si veda ancora M. Bernal, Atena nera. Le radici afroasiatiche della civiltà classica, il Saggiatore, Milano, 2011. Per la provenienza “extra- galattica” delle conoscenze degli antichi si vedano le numerose opere di Peter Kolosimo, pseudonimo di Pier Domenico Colosimo (1922-1984), all’epoca giornalista di area marxista-leninista e corrispondente del quotidiano «l’Unità». L’eccesso di scrupolo “progressista” lo portò a diventare uno dei maggiori esponenti dell’archeologia misteriosa e della teoria degli antichi astronauti. Per le sue opere di maggior successo la casa editrice Sugar creò un’apposita collana “Universo sconosciuto”. Dal 1960 si era avvicinato al maoismo e si occupò anche di astronautica, sessuologia, parapsicologia ed esobiologia.  

  7. M. Sellitto, La scienza, prima del mito (e dopo) in G. de Santillana, H. von Dechend, Sirio. Tre seminari sulla cosmologia arcaica, a cura di S. D’Onofrio e M. Sellitto, Edizioni Adelphi, Milano 2020, pp. 158-159.  

  8. M. Sellitto, op. cit., pp. 161-162.  

  9. E.P. Wigner, The Unreasonable Effectiveness of Mathematics in the Natural Sci­ences, conferenza tenuta alla New York University nel 1959 ora in E.P. Wigner, L’irragionevole efficacia della matematica nelle scienze naturali, Edizioni Adelphi, Milano 2017, p. 12.  

  10. E.P. Wigner, op. cit., p. 21.  

  11. G. de Santillana, Le origini del pensiero scientifico, op. cit., p. 123.  

  12. Ivi, p. 124.  

  13. ibidem, pp. 130-131.  

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Roberto Bellarmino, il (santo) martello degli eretici https://www.carmillaonline.com/2022/05/31/roberto-bellarmino-il-santo-martello-degli-eretici/ Tue, 31 May 2022 21:55:00 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72209 di Francisco Soriano

Per molti studiosi, critici e soprattutto timorati di dio, Roberto Bellarmino (1542-1621, gesuita, cardinale, direttore della biblioteca Vaticana, capo dell’inquisizione e, infine, santo, è passato alla storia per i suoi interventi nel processo contro Giordano Bruno e Galileo Galilei) fu “un intellettuale aperto ed equilibrato, capace di esercitare il proprio compito con spirito critico e autorevolezza, con rigore e fermezza, ma anche attento alle esigenze della tradizione della Chiesa e della cultura contemporanea”.

Il periodo che va dalla fine del Cinquecento alla prima metà del Seicento rappresentò, per la [...]]]> di Francisco Soriano

Per molti studiosi, critici e soprattutto timorati di dio, Roberto Bellarmino (1542-1621, gesuita, cardinale, direttore della biblioteca Vaticana, capo dell’inquisizione e, infine, santo, è passato alla storia per i suoi interventi nel processo contro Giordano Bruno e Galileo Galilei) fu “un intellettuale aperto ed equilibrato, capace di esercitare il proprio compito con spirito critico e autorevolezza, con rigore e fermezza, ma anche attento alle esigenze della tradizione della Chiesa e della cultura contemporanea”.

Il periodo che va dalla fine del Cinquecento alla prima metà del Seicento rappresentò, per la dialettica fra la Chiesa cattolica e la scienza (quest’ultima intesa soprattutto come progresso umano e affrancamento dai lacciuoli della magia e delle false credenze religiose), un momento drammatico caratterizzatosi per una lotta strenua e dolorosa compiuta da molti protagonisti della storia umana. La maggior parte delle vittime dell’Inquisizione furono sacrificati sull’altare dell’ipocrisia e del potere e pagarono la coerenza delle idee con la propria vita. Bellarmino fu giudice, inquisitore e carnefice.

Tra il Cinque e il Seicento, Roberto Bellarmino fu uno dei teologi più celebri della Compagnia di Gesù e della Chiesa. Clemente VIII durante il concistoro per i nuovi cardinali, gli fece un elogio senza precedenti: “Scegliamo colui che non ha eguali nella Chiesa di Dio quanto a dottrina; inoltre è nipote dell’eccellente e santissimo pontefice Marcello II”. Bellarmino entrò nella Compagnia di Gesù nel 1560 e presto mostrò doti spiccatissime di predicatore, prima a Lovania, proponendosi come interprete e diffusore della fede cattolica nell’intento di “convertire l’eretico dalla sua malafede”, senza disdegnare di confutare le verità divine ai protestanti e, in un secondo momento, scrisse le “Controversie”, “un capolavoro di ricerca storica e insieme un modello di argomentazione, che da un lato si ispirava alla carità e al rispetto, dall’altro era totalmente privo di rancore e di espressioni ingiuriose, usuali nelle relazioni tra le diverse confessioni”. Fu talvolta amato, ma anche molto detestato nell’intera Europa per la sua nota inflessibilità nei giudizi contro coloro i quali riteneva eterodossi alla “regola”: non a caso venne definito come il “martello degli eretici”. Fu un acuto studioso che cercò contraddizioni e, soprattutto, argomentazioni per contestare le più lucide e lineari speculazioni teologiche e scientifiche. I valori fondamentali che andava propugnando riguardavano soprattutto la Riforma, la Scrittura, la tradizione, il primato del Papa e, infine, il dogma dell’infallibilità del Vaticano. Tuttavia (quasi sorprendentemente), Bellarmino sosterrà la teoria del potere indiretto del papa sul potere politico che, alla stregua di quanto lo stesso autore affermava, era già stata elaborata da Tommaso d’Aquino nel Medioevo. La novità era l’accento del Bellarmino nel sostenere la completa autonomia del potere politico, tanto da costargli per mano di Sisto V (che riteneva il potere papale assolutamente sovrano sul mondo), la messa al bando delle sue Confessioni, relegandole fra i libri interdetti e proibiti.

Le spigolosità caratteriali si evincevano anche nei confronti dei papi, come nel caso che riguardò una disputa con Clemente VIII che lo nominò cardinale, ma non esitò a spedirlo lontano da Roma, emarginandolo a Capua con la funzione di arcivescovo dal 1602 al 1605. Proprio Bellarmino era stato accusato di aver affermato che il papa era semplicemente un servitore della Chiesa e non un padrone. Neppure in quel frangente egli tradì la sua propensione e abnegazione all’attività pastorale, intensissima, nemmeno quando dopo essere stato “confinato” fu richiamato a Roma per il conclave. Il teologo fu protagonista, soprattutto, nel processo contro Giordano Bruno, che spedì al rogo il 17 febbraio del 1600 in Campo de’ Fiori. Molti critici delimitano le responsabilità di Bellarmino, ma risulta davvero difficile ridurre la sua azione incisiva e determinante nel processo contro Bruno. Molto documentato anche il suo attivismo nei confronti di Galileo. Bellarmino studiò la teoria copernicana e incontrò Galileo nel 1606. Inviò una lettera allo scienziato consigliandogli di non pubblicizzare la teoria del Copernico anche perché, a suo dire, non era stata dimostrata: il timore consisteva nella possibilità che le nuove idee astronomiche potessero con la loro scientificità contraddire il “dettato” delle Sacre scritture. Infatti, proprio il Vaticano sostiene oggi che Galileo fosse stato salvato da Bellarmino, suo principale accusatore, che scrisse personalmente un documento in cui definiva Galileo come non eretico, anche se le sue idee tendevano pericolosamente in quella direzione. Il processo fu celebrato nel Sant’uffizio dal 1616 al 1633. Non bisogna tuttavia dimenticare che Galileo non salvò la vita per le citazioni morbide del Bellarmino o per la “flessibilità” dei giudici che comunque lo condannarono, bensì per la famosa abiura, imperdonabile atto di costrizione che il clero aveva preteso sotto la minaccia delle torture e dell’esecuzione capitale. Capitolo triste e vergognoso per la Chiesa che ricorda, con una certa ipocrisia, che Galileo venne condannato “soltanto” al carcere domiciliare e i suoi scritti inseriti nell’Indice dei libri proibiti. Nel tempo molti papi tentarono di analizzare gli archivi che contenevano la documentazione del processo a Galileo, ma fu con Giovanni Paolo II e con l’aiuto dell’allora cardinale Joseph Ratzinger, prefetto dell’ex Sant’Uffizio, il merito di aver riabilitato la figura dello scienziato con un mea culpa nell’anno 2000.

La figura di Roberto Bellarmino, santo, è legata alle questioni inquisitoriali ma è frutto anche di una vicenda politica specifica oltre che religiosa. Perché? Ricordiamo che la canonizzazione-santificazione del prelato fu dichiarata da Pio XI nel 1931, anche per stabilire e tentare politicamente e religiosamente, in quel particolare contesto storico, quella sintesi di un sistema in difficoltà che invece aveva bisogno di rigenerarsi dal punto di vista dell’identità nazionale come valore portante di un popolo. Infatti, come si sostiene in un articolo di Martìn Maria Morales, in quei tempi (“San Roberto Bellarmino e la cancel culture”, dall’Archivio storico della Pontificia Università Gregoriana, 17 settembre 2020) “un vento di persecuzione e di lotta soffiava da popoli e nazioni diverse contro la Chiesa e il suo Capo visibile, il Papa, contro di Dio e il suo Cristo: soffiava, in questi giorni stessi, più impetuoso dalla terra finora celebrata per la più cattolica, anzi la nazione cattolica per eccellenza; e imperversava già con tanta feroce violenza e inattesa brutalità che ne vanno stupiti e sgomenti molti di quelli stessi, che ne avevano favorito il primo scoppio e promossone, senza antivederlo, l’impeto sovvertitore della società”. Quella nazione “più cattolica” era la Spagna, dove furono bruciati conventi e statue sacre e la casa professa dei gesuiti a Madrid, nel 1931. Sempre nel suddetto studio si citano le parole di Gramsci a cui non era passato inosservato il gesto della santificazione del Bellarmino, così apostrofandolo nei suoi “Quaderni dal carcere” (1934 – 1935): Santificazione di Roberto Bellarmino, segno dei tempi e del creduto impulso di nuova potenza della Chiesa cattolica; rafforzamento dei gesuiti, ecc. Il Bellarmino condusse il processo contro Galileo e redasse gli otto motivi che portarono Giordano Bruno al rogo [Q.6, § 151]. E ancora più avanti ancora nel suo scritto così ritornava sull’argomento: Cattolici integrali, gesuiti, modernisti. Roberto Bellarmino. Pio XI il 13 maggio 1923 dette al Bellarmino il titolo di beato, più tardi (nel 50° anniversario del suo sacerdozio, quindi in una data specialmente segnalata) lo inscrisse nell’albo dei Santi, insieme coi gesuiti missionari morti nell’America settentrionale; nel settembre 1931 infine lo dichiarò Dottore della Chiesa Universale. Queste particolari attenzioni alla massima autorità gesuitica dopo Ignazio di Loyola, permettono di dire che Pio XI, il quale è stato chiamato il papa delle Missioni e il papa dell’Azione Cattolica, deve specialmente essere chiamato il papa dei gesuiti (le Missioni e l’Azione Cattolica, del resto, sono le due pupille degli occhi della Compagnia di Gesù) [Q.7, § 88].

La storia ci racconta anche un altro aneddoto riguardante, a distanza di secoli, la contrapposizione fra Bellarmino e il grande Giordano Bruno. In occasione dei Patti Lateranensi nel 1929, i cattolici si fecero portatori di una richiesta fatta recapitare a Benito Mussolini, quella di: “rimuovere la statua di Giordano Bruno e di rigirare quella di Garibaldi che puntava, sempre minaccioso, col suo cavallo verso San Pietro”. In quella occasione, Mussolini si districò diplomaticamente, non dando peso alle richieste con una risposta piuttosto ambigua: “Bisogna che io dichiari che la statua di Giordano Bruno, malinconica come il destino di questo frate, resterà dov’è … . Naturalmente non è nemmeno a pensare che il monumento di Garibaldi sul Gianicolo possa avere un’ubicazione diversa, nemmeno dal punto di vista del collo del cavallo”. Lo stesso papa Leone XIII nel concistoro del 1889 ebbe a dire che la statua di Bruno era un monumento che “glorificava presso i posteri lo spirito di rivolta verso la Chiesa (…) e che si profondono onoranze a un uomo doppiamente apostata, convinto eretico (…)”. Dunque i cattolici più intransigenti e ortodossi non fecero altro che sostenere, a più riprese, che quella piazza dove si ergeva la figura ombrosa dell’eretico poteva meglio definirsi come “Campo maledetto”, nel tentativo di rimuoverla in un processo di “cancel culture” ante litteram. A Roberto Bellarminio fu, invece, dedicata la chiesa di San Roberto in piazza Ungheria, quartiere Parioli, proprio perché il papa volle reagire al gran rifiuto attuato da Mussolini:  proclamò pertanto “il grande inquisitore”, cardinale Roberto Bellarmino, prima santo (1930) e, successivamente, dottore della Chiesa universale nonchè patrono dei catechisti (1931).

Nel non lontano 1885, dunque, qualche anno prima della proclamazione a santo di Bellarmino, si era formato un comitato per la costruzione di un monumento a Giordano Bruno, in piazza Campo dei Fiori, “lì dove il rogo arse”. Aderirono all’iniziativa straordinari intellettuali e politici del tempo come Victor Hugo, Michail Bakunin, George Ibsen, Giovanni Bovio, Herbert Spencer e tanti altri. Non fecero mancare la loro voce gli studenti universitari romani che, coraggiosamente, si palesarono con numerose manifestazioni, in scontri con la polizia, arresti e feriti. Nel 1889 la statua fu eretta.

A noi non resta che distinguere, oggi, di questi protagonisti della nostra storia, carnefici e vittime. A nostro modo di vedere Bellarmino era uomo troppo dotto e consapevole per non aver inteso le ragioni di Galileo, alle quali fornì una opposizione sicuramente più blanda a quelle del magnifico nolano. Bruno era un uomo esuberante, profondissimo e irraggiungibile, un vero demone-filosofo del pensiero, vorticoso e inebriante, che si era permesso la critica e la demolizione dialettica del potere clericale fondato sull’ipocrisia, la corruzione e la violenza anche militare. Il “santo” ne intuì il pericolo e la grandezza.

Oggi il “soave e dolce” Bellarmino deve essere ricordato come il carnefice di uomini e, soprattutto, come lo strenuo nemico delle idee di progresso.  Egli si distinse, in questa sua azione di salvaguardia di una Chiesa assurda e da sempre antistorica, antiscientifica e regressiva sul tema dei diritti umani, come colui il quale attuò con tutti i suoi mezzi a disposizione la persecuzione degli oppositori della Chiesa.

Vale la pena ricordare, sempre e costantemente, che a Giordano Bruno l’otto febbraio del 1600 venne letta la sentenza che lo condannò come eretico impenitente, pertinace e ostinato. Nove giorni dopo fu condotto a Campo de’ Fiori, a Roma, dove venne spogliato, legato a un palo e arso vivo, mentre tutti i suoi scritti furono inseriti nell’Indice dei libri proibiti, un elenco emanato dalla Chiesa cattolica contenente libri vietati da leggere e possedere.

Giordano Bruno. La sentenza dell’inquisizione.

Roma 8 febbraio 1600. Palazzo del Sant’Uffizio.

NOI chiamati dalla misericordia di Dio e invocato il nome di nostro Signore Gesù Cristo e della sua gloriosissima Madre sempre vergine Maria:

DICHIARIAMO

Te, frate Giordano Bruno eretico impenitente, pertinace ed ostinato e perciò incorso in tutte le censure ecclesiastiche per aver sostenuto l’esistenza di mondi innumerevoli ed eterni.

NOI condanniamo i tuoi libri come eretici ed erronei. Siano essi bruciati avanti le scale di san Pietro.

Tu, frate Giordano Bruno eretico ostinatissimo sarai spogliato nudo e con lingua inchiodata, legato ad un palo e arso vivo.

In ginocchio ascoltò Giordano Bruno il verdetto e a lettura finita si alzò in piedi e rivolto ai giudici inquisitori esclamò:

“Forse con maggiore timore pronunciate contro di me la sentenza di quanto ne provi io nel riceverla.”

All’alba del 17 febbraio del 1600 un mesto corteo composto dai seguaci di san Giovanni decollato conduce Giordano Bruno a Campo de’ Fiori, luogo dell’esecuzione, intonando canti liturgici.

Il condannato ha bocca e lingua immobili nel ferro della mordacchia perché non potesse esprimere neppure l’ultima parola, ordine del soave, dolce cardinale Roberto Bellarmino, gesuita e santo.

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Il nuovo disordine mondiale / 13: Guerra e ipocrisia. Un’invettiva. https://www.carmillaonline.com/2022/05/02/il-nuovo-disordine-mondiale-13-guerra-e-ipocrisia-uninvettiva/ Mon, 02 May 2022 20:00:34 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=71645 di Sandro Moiso

“Mai pensare che la guerra, anche se giustificata, non sia un crimine” (Ernest Hemingway) “Cosa preferiamo: la pace oppure star tranquilli con l’aria condizionata accesa tutta l’estate?” (Mario Draghi)

In tutte le guerre la prima a morire è la verità, così come hanno indirettamente dichiarato alcuni corrispondenti di guerra (qui) sulla falsariga di una ben più celebre e interessata frase di Winston Churchill (“in tempo di guerra la verità è così preziosa che dovrebbe essere circondata da un muro di bugie“), ma certamente il suo funerale è accompagnato dal [...]]]> di Sandro Moiso

“Mai pensare che la guerra, anche se giustificata, non sia un crimine” (Ernest Hemingway)
“Cosa preferiamo: la pace oppure star tranquilli con l’aria condizionata accesa tutta l’estate?” (Mario Draghi)

In tutte le guerre la prima a morire è la verità, così come hanno indirettamente dichiarato alcuni corrispondenti di guerra (qui) sulla falsariga di una ben più celebre e interessata frase di Winston Churchill (“in tempo di guerra la verità è così preziosa che dovrebbe essere circondata da un muro di bugie“), ma certamente il suo funerale è accompagnato dal trionfo dell’ipocrisia che la sostituisce con la propaganda intesa come unica fonte di informazione.

Il primo esempio di tale ipocrisia, forse il più importante e fuorviante, è proprio quello di voler definire, all’interno del ben più vasto crimine costituito dalla guerra, quelli che dovrebbero essere i crimini di guerra da addossare a qualcuno dei partecipanti a un conflitto. Una questione di lana caprina che trasforma le violenze odiose e i soprusi ignobili che accompagnano, inevitabilmente, i conflitti tra Stati e imperialismi in colpe specifiche di cui occorre accusare una delle parti in guerra. Possibilmente quella che la parte avversa spera destinata alla sconfitta.

Dalla prima guerra mondiale e dal congresso di Versailles e, in particolare, dal secondo dopoguerra in poi gli sconfitti del macello imperialista devono risultare colpevoli di “aggressione” e crimini indescrivibili, proprio per giustificare la parte svolta dei “buoni”, ovvero i vincitori, nel corso del conflitto. Motivo per cui la Germania, stato aggressore secondo i parametri individuati a Versailles nel corso del processo di risistemazione dei confini europei dopo il primo conflitto mondiale, fu condannata a pagare le riparazioni di guerra agli stati vincitori. Non importava se i generali di questi ultimi avevano mandato al macello, fatto fucilare o condannato alla follia milioni di giovani in divisa.

Dopo la seconda guerra mondiale furono i “criminali” di un’unica parte, quella sconfitta e nazista e possibilmente anche i più insignificanti sul piano politico ed economico, a sedere sui banchi del processo di Norimberga. Lo fecero rassegnati, spesso indossando occhiali scuri per nascondere gli occhi chiusi dei dormienti e degli annoiati, consapevoli che su quegli stessi banchi non avrebbero mai preso posto gli ideatori dei bombardamenti a tappeto sulle città tedesche, delle bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki oppure i generali sovietici che avevano mandato all’assalto le proprie fanterie senza alcun riguardo nel trattarle come autentica carne da cannone. La colpa doveva essere soltanto degli sconfitti. I buoni trionfavano, nelle ridefinizione del mondo e nell’immaginario.

Anche se a proprio in “casa” dei buoni alcuni dei principali esponenti dei cattivi avrebbero trovato riparo come scienziati (Wernher von Braun, ideatore delle V1 e V2 tedesche utilizzate per bombardare Londra e poi responsabile del primo programma spaziale americano), spie (tutti coloro che furono messi a capo di settori dei servizi occidentali nella Germania Ovest e in America Latina, dove avevano trovato rifugio, dopo aver accumulato “esperienze” negli apparati polizieschi e militari nazisti) e così via. Grazie anche all’aiutino fornito in molti casi dal Vaticano.

Già, crimini di guerra, ma solo quelli di una parte, e guai a sostenere, come fece Hemingway, che la guerra è un crimine in sé. Guai a sostenere che chi si oppone alla guerra, non si schiera, si dichiara antimilitarista, pacifista e antimperialista lo fa perché sa già in anticipo che la guerra porta con sé soltanto dolore, violenza, morte e distruzioni che ricadranno quasi sempre e principalmente sugli strati meno agiati della società, sulle donne, sui bambini, sui giovani, sugli anziani e sui lavoratori.

Domenico Quirico, in un testo già citato nella puntata precedente di questa serie di interventi sulla guerra, ha giustamente affermato:

Con leggerezza si parla della guerra, della sua necessità senza averne mai saggiato la pornografia della morte e la crudezza delle sue perversioni. Senza accorgersi che si lustra così la sua forza di attrazione, le si offre uno scopo, un senso, una dignità, una causa, un quarto di nobiltà. E’ un errore fatale1.

Spesso chi parla con troppa facilità e superficialità di “crimini di guerra” sembra voler far credere, oppure credere egli stesso, che esistano guerre pulite, senza ricadute sui civili. Ammaestrati da un immaginario cinematografico di stampo hollywoodiano in cui al massimo sono gli “eroi” a morire. Ignorano, i sostenitori della guerra pulita e intelligente, possibilmente democratica, che dal secondo conflitto mondiale e per tutta la seconda metà del secolo appena trascorso sono stati i civili a subire il maggior numero di perdite, violenze di ogni genere e patimenti. In un crescendo in cui dalla Palestina a tutto il Medio Oriente, dal Vietnam a tutte le tragedie asiatiche fino alle guerre balcaniche (di cui i media si dimenticano sempre, fingendo che prima della guerra in Ucraina non vi siano più state guerre sul territorio europeo fin dal 1945) e passando per le tragedie infinite del continente africano e del sub-continente latino-americano sono stati milioni i civili uccisi, mutilati, stuprati, torturati. Di ogni genere e età, ma non sempre appartenenza sociale, poiché in fondo alla scala stanno sempre i poveri, i lavoratori, i senza riserve. Vittime della violenza del capitale sia in guerra che in pace.

Se poi qualcuno osasse ricordare le bufale che accompagnarono la caduta di Ceausescu, senza per altro voler affatto difendere la sua dittatura personale, con i cadaveri tirati fuori dalle fosse per dimostrare una strage mai avvenuta a Timisoara nel 1989, oppure ricordare che sulle pagine del «Guardian», quotidiano britannico tutt’altro che filo-putiniano, sarebbe apparsa un’inchiesta in cui si rileverebbe che diverse vittime di Bucha sarebbero state abbattute da proiettili ucraini2 o, ancora, ricordare come tre ben noti salotti televisivi (Piazza Pulita, Controcorrente e Porta a porta) abbiano utilizzato immagini tratte da un videogioco per illustrare la “struttura inespugnabile” dei bunker sottostanti alle acciaierie Azovstal di Mariupol, allora apriti cielo e caccia all’untore filo-putiniano e creatore di fake news anti-occidentali.

Guai a dire che il diritto che riconosce la guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali e imperiali è un diritto che non è tale, che è nato morto per disseminare la Morte in nome degli interessi nazionali, geopolitici e proprietari. Guai a dire soltanto che, anche nel contesto di un diritto internazionale segnato dal marchio di produzione capitalistico e borghese, chi invia armi ad un paese in guerra è cobelligerante di fatto. Tanto poi ci penserà la propaganda a spiegare che era inevitabile finire in guerra a causa dell’aggressività del nemico. E che le armi servono a disseminare la Pace. Anche quando, nelle parole di leader come Boris Johnson e dei media occidentali, non servono più a difendere la nazione “offesa”, ma ad aggredire e colpire l’ avversario. In casa, sul “suo” territorio.

Un “nemico odioso” che ci obbliga a scegliere tra il nostro meritato benessere e la rinuncia a qualche grado di fresco in estate e di caldo in inverno, mentre i nostri democratici governanti si arrovellano tra l’accontentare le richieste del socio di maggioranza a stelle strisce e le necessità, non della popolazione civile e reale, dei soci di minoranza (impresari, investitori, compagnie petrolifere e del gas, banchieri e finanzieri) che potrebbero subire gravi perdite nei loro interessi economici e manifatturieri.

Già, ma non chiamateli oligarchi. Loro no, loro sono altra cosa. Si nutrono di carne umana e di lavoro vivo, di prebende statali e interessi politico-mafiosi ma, non scherziamo, son mica russi!
Hanno giornali e televisioni, si son comprati giornalisti, intellettuali e politici di ogni risma, colore, sesso, età e origine sociale. Controllano il mercato azionario e delle materie prime, magari rivendendo le scorte accumulate ad altri paesi per approfittare degli alti prezzi causati dalla speculazione ancor prima che dalla guerra, ma no chiamateli oligarchi. No, magari squali e profittatori, come furono definiti dopo il primo conflitto interimperialista da coloro che seppero ribellarsi alla prima carneficina su scala mondiale.

Un “nemico odioso” che, nella vulgata propagandistica a favore della guerra, si annida in ogni Stato che non abbia accolto a braccia aperte la predicazione liberal-democratica troppo spesso associata al biancore della pelle e alla religione cristiana. Stati canaglia che perseguono interessi contrastanti con quelli del ricco Occidente. Nemici sicuramente nazionalisti, autoritari, fascisti e imperialisti e per questi motivi, appunto, non troppo diversi dai governi che ci vogliono armare in difesa dei propri interessi che qui, come nei paesi “nemici”, non coincidono mai con quelli della maggioranza della popolazione e della specie.

E non importa che i governi dei paesi democratici, come l’Italia, possano agire in piena libertà extra-costituzionale per fornire armi di ogni genere al novello alleato. Senza sentire la necessità di informare, almeno formalmente, quel parlamento che nella narrazione democratico-liberale dovrebbe costituire il cuore della democrazia rappresentativa. Ma non preoccupiamocene, poiché ogni guerra è stata dichiarata sempre sopra e oltre il dibattito parlamentare. La centralizzazione del potere riguarda anche, e forse soprattutto, questo: lo stato d’eccezione. E cosa può esserci di più eccezionale di una guerra, magari mondiale?

Motivo per cui anche il piagnisteo del pacifismo generico o di chi vorrebbe salvare almeno la facciata di sinistra di partiti scaduti da tempo, appartiene, in fin dei conti alla stessa ipocrisia. Quella che non denuncia mai le reali radici della guerra, delle mafie, della distruzione ambientale e sociale, dell’impoverimento e dello sfruttamento esercitato da una classe sociale ristretta sul resto dell’umanità.

Umanità che, soprattutto nel continente africano e in Medio Oriente, sarebbe condannata soltanto ora, secondo la vulgata ipocrita della propaganda di guerra, alla fame, a causa del conflitto scatenato dall’”odioso nemico” in Ucraina3. Minaccia cui la gestione capitalistica e imperiale dell’esistente intende rispondere con quelle scelte e tecnologie che proprio hanno contribuito a creare quella fame e quella povertà diffusa soprattutto in Africa. Magari suggerendo, proprio per l’Africa sub-sahariana, strategie innovative basate sulla digitalizzazione e il “miglioramento genetico” delle colture tradizionali4.

Umanità che non è più costituita da proletari o poveri, ma da “persone fragili”, in modo da disconoscerle qualsiasi caratteristica sociale riconducibile alle classi e ai loro conflitti nei confronti di una sempre più diseguale ripartizione delle ricchezze e delle risorse. Umanità che là dove alza la testa e si ribella al giogo infame dell’imperialismo, del sionismo e dei corrotti governi locali, non ha mai potuto usufruire dell’appoggio militare dei paesi che oggi foraggiano abbondantemente la “resistenza” ucraina. Umanità per la quale il presidente Mattarella non ha mai speso parole di elogio, non soltanto quando era sottosegretario alla Difesa ai tempi dei bombardamenti sulla Serbia e i Balcani. Umanità che quando si arma e resiste è definita dai nostri governanti come dagli altri governi occidentali non “resistente”, ma “terrorista”. Motivo per cui, a differenza degli “eroici” volontari che accorrono in difesa dell’Ucraina, non importa se nazisti o membri effettivi delle forze speciali americane e inglesi, quelli che vanno a combatter sul fronte del Rojava, pur in qualche modo riconosciuto dagli Occidentali in funzione anti-turca, al ritorno in patria devono sottostare a pesanti misure di sicurezza preventive. Come nel caso di Eddi Marcucci e tanti altri militanti italiani.

Affermazioni che nel loro insieme rendono evidente la necessità dello spaccio dell’ipocrisia trionfante, parafrasando l’eretico Giordano Bruno e la sua opera intitolata Spaccio de la Bestia trionfante (1584), opera filosofica di cui uno degli intenti principali resta fondamentalmente quello della polemica di Bruno contro la Riforma protestante, che agli occhi del Nolano rappresentava il punto più basso di un ciclo di degenerazione iniziato col cristianesimo. E in cui il termine “spaccio” sta per “cacciata”. Unica e definitiva degli antichi vizi che da secoli accompagnano la vulgata occidentale, razziale e cristiana del mondo.

(13 – continua)


  1. Domenico Quirico, L’ebbrezza militarista che spinge al conflitto, «La Stampa» 28 aprile 2022  

  2. Si veda: Francesco Borgonovo, Intervista a Toni Capuozzo – «La propaganda non è da una parte sola: il dubbio è un dovere», «La Verità», 28 aprile 2022, p.9  

  3. Si veda, a solo titolo di esempio: La guerra mondiale del cibo. Gli effetti alimentari del conflitto in Ucraina minacciano miliardi di persone fragili, «Scenari» n°5, a29 aprile 2022  

  4. Ancora su «Scenari» n°5: Roberto Pretolani, La tecnologia alimentare può salvarci dalle crisi; Mario Enrico Pè e Leonardo Caproni, Il matrimonio fra genetica e tradizione contadina.  

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Un inno alla Natura (e all’azione diretta) https://www.carmillaonline.com/2015/11/04/un-inno-alla-natura-e-al-sabotaggio/ Wed, 04 Nov 2015 21:01:50 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=26390 di Sandro Moiso

Desertsolitaire Edward Abbey, Desert solitaire. Una stagione nella natura selvaggia, Baldini & Castoldi 2015, pp. 363, € 19,50

Questa non è una guida turistica, è un’elegia. Un memoriale. State stringendo una lapida tra le mani. Una roccia insanguinata. Non lasciatela cadere ai vostri piedi, scagliatela contro un grosso vetro. Che cosa avete da perdere?” Siamo soltanto alle pagine introduttive del testo di Edward Abbey, ma già l’autore ha reso esplicito il programma; non soltanto del suo diario del periodo trascorso come ranger dell’Arches National Monument nello Utah, ma dell’intera sua opera letteraria.

Edward Abbey, nato in Pennsylvania nel [...]]]> di Sandro Moiso

Desertsolitaire Edward Abbey, Desert solitaire. Una stagione nella natura selvaggia, Baldini & Castoldi 2015, pp. 363, € 19,50

Questa non è una guida turistica, è un’elegia. Un memoriale. State stringendo una lapida tra le mani. Una roccia insanguinata. Non lasciatela cadere ai vostri piedi, scagliatela contro un grosso vetro. Che cosa avete da perdere?” Siamo soltanto alle pagine introduttive del testo di Edward Abbey, ma già l’autore ha reso esplicito il programma; non soltanto del suo diario del periodo trascorso come ranger dell’Arches National Monument nello Utah, ma dell’intera sua opera letteraria.

Edward Abbey, nato in Pennsylvania nel 1927 e morto in Arizona nel 1989, appartiene sicuramente alla schiera di scrittori statunitensi che hanno posto al centro della loro letteratura la natura e il rapporto che l’uomo mantiene con essa. Insieme al tema della morte è infatti questo ad aver caratterizzato buona parte della migliore letteratura americana e a differenziarla decisamente dalla cultura europea che ha visto nella natura, dai classici a Baudelaire e a Nietzsche, soltanto qualcosa da superare.

Invece, da Henry David Thoreau a Herman Melville e da Walt Whitman a A.B.Guthrie solo per citarne alcuni, il tema del rapporto, spesso distruttivo, instauratosi tra la nostra specie e l’ambiente circostante costituisce il vero centro narrativo dell’opera letteraria. Valga per tutti il capolavoro che fonda la letteratura nord americana: Moby Dick, in cui distruzione e morte della natura vanno di pari passo con quella dell’uomo.

Abbey, però, scrive il suo Desert Solitaire. A Season in the Wilderness nel 1968 e molte cose sono cambiate rispetto al mondo in cui scrivevano gli autori dell’Ottocento e del primo novecento. Non in meglio, poiché la devastazione dell’ambiente legata allo sfruttamento delle risorse oppure alla crescita delle città e delle metropoli o anche soltanto al turismo si è fatta ormai evidentissima. Ogni promessa del millantato progresso si è dimostrata vana e l’American Way of Life soltanto una menzogne o una trappola per allocchi. Ecco perché la sua scrittura si rivela fin dalle prime opere così radicale.

Autore di romanzi come Fire on the Mountain (1962)1 e The Monkey Wrench Gang (1975),2 ha finito col diventare l’inconsapevole (?) ispiratore di movimenti radicali di difesa dell’ambiente e del territorio come Earth First ed altri, sia in America che in Europa. A differenza, però, di un altro grande cantore della wilderness o natura selvaggia, Jack London, l’ambiente, con la sua geologia, la sua flora, la sua fauna, le su acque e i suoi pericoli, per Abbey non è soltanto qualcosa in cui e con cui l’uomo deve imparare a convivere e sopravvivere.

Per lo scrittore statunitense l’uomo deve riconoscersi parte del tutto e difendere, anche con il sabotaggio più radicale, la natura incontaminata, là dove ancora esiste, dallo sfruttamento capitalistico dei suoli e delle sue ricchezze. Preferendo, piuttosto, alla devastazione incontrollata della wilderness, la distruzione della società dell’ingordigia, dell’abbrutimento e dello sfruttamento di qualsiasi specie, non soltanto della nostra. Non essendo, in fin dei conti, quest’ultima né migliore né più importante delle altre all’interno del grande quadro del cosmo che ci circonda e permea.

Non a caso il punto di partenza, l’osservatorio privilegiato sulla realtà è costituito dalle grandi regioni desertiche che si estendono tra l’Ovest e il Sud Ovest degli Stati Uniti. E non solo perché in quei territori di canyon profondissimi, labirinti geologici e caldo insopportabile il nostro si trovò a svolgere l’attività di ranger per il National Park Service per periodi piuttosto lunghi e in quasi totale solitudine.

Il deserto non dice nulla. Completamente passivo, agìto ma non agente, se ne sta lì come lo scheletro nudo dell’Essere, spoglio, sparso, austero e completamente inutile, invitando non all’amore ma alla contemplazione. Così semplice e ordinato da suggerire classicità; senonché il deserto è un regno oltre l’umano e nella visione classicista solo l’umano è significativo, se non addirittura reale” (pag. 326) Inutile, impensabile per il modo di produzione capitalistico qualcosa che non sia immediatamente utile, e oltre l’umano, totalmente distante da quella cultura umanistica e di stampo prettamente europeo in cui tutto deve essere ridotto all’uomo e alla sua esperienza.

Ho scoperto che non mi opponevo all’umanità in generale, ma alla centralità dell’uomo, all’antropocentrismo, all’idea che il mondo esiste solamente per l’uomo; che non mi opponevo alla scienza – che significa semplicemente conoscenza – ma alla scienza male applicata, alla venerazione della tecnica e della tecnologia, a quella perversione della scienza giustamente chiamata scientismo; che non mi opponevo alla civiltà ma alla cultura” (pag. 331) Sono qui già accennati argomenti che saranno poi sviluppati da filosofi anarchici come John Zerzan.

Ma è proprio la distinzione tra civiltà e cultura che diventa chiarissima in Abbey: “ Civiltà è la forza vitale nella storia dell’uomo; cultura è la massa inerte delle istituzioni e organizzazioni che vi si accumula intorno e tende a rallentare l’avanzata della vita; Civiltà è Giordano Bruno che affronta la morte sul rogo; cultura è il cardinale Bellarmino, che condanna Giordano Bruno a essere bruciato in Campo de’ Fiori; […] Civiltà è rivolta, insurrezione, rivoluzione; cultura è la guerra di uno Stato contro l’altro o delle macchine contro il popolo, come in Ungheria o in Vietnam; Civiltà è tolleranza, distacco e humor, oppure passione, rabbia e vendetta; cultura è l’esame di ingresso, la camera a gas, la tesi di laurea e la sedia elettrica;

Civiltà è Nestor Machno, il contadino ucraino che combatté i tedeschi, poi i Rossi, quindi i Bianchi, poi ancora i Rossi; cultura è Stalin e la Patria; Civiltà è Gesù che trasforma l’acqua in vino; cultura è Cristo che cammina sulle acque; Civiltà è un ragazzo con una molotov in mano; cultura è il carro armato sovietico o il poliziotto di Los Angeles che gli spara; Civiltà è il fiume che scorre libero; cultura, 592.000 tonnellate di cemento;3 la Civiltà scorre; la cultura si ispessisce e si coagula, come sangue esausto e malato” ( pp. 333 – 334)

Tutto il pensiero radicale dal 1968 in avanti è qui concentrato in poche righe. La lotta per difendere la Natura e l’ambiente è l’unica lotta che può salvare la specie nella sua breve transumanza nell’universo. L’uomo è tale se inserito nella Natura, ma diventa disumano quando se ne separa. Come in Marx, mai citato da Abbey, storia dell’uomo e storia naturale dovranno tornare a coincidere. Pena la fine dell’umanità stessa.

Fine che potrebbe rivelarsi, oltre che tragica, ridicola. Con milioni di individui di ogni sesso ed età inscatolati in sedie a rotelle meccaniche, inquinanti e mortali, che li separano, attraverso pochi millimetri di metallo, dalle bellezze del mondo circostante, rendendoli anche solo incapaci di comprenderle. La poesia della natura non è più per tutti in un mondo dominato dal profitto, dai media e dalle automobili.

Sono entrato nelle caverne ai piedi delle Mooney Falls, cascate alte settanta metri. Che cosa ho fatto? Non c’era nulla da fare. Ho ascoltato le voci, le molte voci vaghe e distanti ma sorprendentemente umane dell’Havasu Creek. […] Mi sono immerso nel luogo e ho fantasticato per giorni sulla riva della pozza sotto la cascata, ho vagato nudo sotto i pioppi come Adamo, ispezionando i miei giardini di cactus. I giorni si sono fatti strani e ambigui, il fluire del tempo era pervaso da un elemento sinistro. Ho vissuto ore narcotiche durante le quali, come il taoista Zhuangzi, mi preoccupavo delle farfalle e di chi sognava cosa […] e ho smarrito la capacità di distinguere tra me e il mondo circostante” (pag. 275)

L’istituzione dei parchi nazionali sembra poi costituire null’altro che il tentativo di vendere un prodotto a milioni di turisti/acquirenti con l’istituzione di giganteschi Expo che racchiudono la natura in autentiche riserve indiane. Destino che negli Usa sembra accomunare i nativi americani e la wilderness negli stessi ambiti locali. “Quest’area bizzarra che sono sicuro un giorno o l’altro verrà trasformata nell’ennesimo parco nazionale provvisto di polizia, amministratori, strade asfaltate, percorsi naturalistici per automobili, punti panoramici ufficiali, aree per il campeggio prefissate, lavanderie a gettone, punti ristoro, distributori di Coca Cola, toilette e biglietti d’ingresso” (pag. 235)

I Supai sono una tribù eccellente: sono generosi, festosi e intelligenti. Non solo intelligenti, scaltri. Non solo scaltri, saggi. Esempio: l’Ente degli Affari Indiani e il Bureau of Public Rooads, come la maggior parte degli enti governativi, si intromettono sempre, si agitano sempre, sono sempre in cerca di qualcosa da fare, e l’anno scorso hanno fatto un’offerta congiunta per costruire una strada da un milione di dollari nell’Havasu Canyon senza alcun costo per la tribù, spalancando così la loro terra alle ricchezza de turismo motorizzato. La maggioranza dei Supai ha votato contro la proposta” (pag. 274)

I popoli nativi sembrano ancora riconoscere la differenza tra capitale e vera ricchezza, tra grandi opere e ambiente vitale. Tra interesse della specie e, ancora una volta, cultura. “E’ questo il locus dei? Qui ci sono abbastanza cattedrali, templi e altari per un pantheon di divinità indù […] Se l’uomo non avesse un’immaginazione così debole e facile a stancarsi, se la sua capacità di meravigliarsi non fosse così limitata, abbandonerebbe per sempre le fantasticherie celesti. Imparerebbe a percepire l’assoluto e il meraviglioso nell’acqua, nelle foglie e nel silenzio, e sarebbe una consolazione più che sufficiente per la perdita degli antichi sogni” (pp. 244 – 245)

L’amore per la natura selvaggia è ben più di un semplice appetito per ciò che è inaccessibile., è anche un’espressione di fedeltà alla terra, la terra che ci ha creato e che ci sostiene, l’unica casa che mai conosceremo, l’unico paradiso di cui abbiamo davvero bisogno. Se solo avessimo gli occhi per vedere. Il peccato originale , il vero peccato originale, è la distruzione cieca per semplice cupidigia del paradiso naturale che ci circonda. Se solo ne fossimo degni” (pag.231)

Sospeso tra memoria romanzata, poesia, saggio, libello politico e panteismo radicale il libro di Abbey si rivela ancora, a distanza di cinquant’anni dalla sua prima stesura e a distanza di venti dalla sua prima edizione italiana,4 un testo fondamentale, non solo per la letteratura americana moderna ma anche per saper distinguere tra civiltà e cultura (elevata o di massa che sia), tra passione e falsa coscienza, tra azione e sottomissione.

Nel deserto non c’è carenza d’acqua, ce n’è la giusta quantità, un rapporto perfetto tra acqua e roccia e tra acqua e sabbia che assicura la presenza di quello spazio ampio, libero, aperto e generoso tra le piante egli animali, le case, i paesi che rende l’arido West così diverso da ogni altra parte della nazione. Qui non manca l’acqua, a meno che non si voglia costruire una città dove una città non dovrebbe esserci.

Gli Sviluppatori – politici, imprenditori, banchieri, amministratori ed ingegneri – ovviamente la pensano altrimenti e si lamentano in continuazione con amarezza della terribile siccità, soprattutto del Sud Ovest. Propongono progetti faraonici per deviare l’acqua […] Non riescono a capire che la crescita per la crescita è una follia cancerosa […] Non capiranno mai che un sistema economico che può solo espandersi o morire è disonesto nei confronti di tutto ciò che è umano” (pag. 179)


  1. Fuoco sulla montagna, Meridiano Zero, 2004  

  2. I sabotatori, Meridiano Zero, 2001  

  3. Riferimento, quest’ultimo, alla costruzione di dighe per la produzione di energia idroelettrica destinate a sconvolgere alcuni degli ambienti più belli e selvaggi del Sud Ovest degli Stati Uniti  

  4. Muzzio, 1993  

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