Gilet gialli – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 29 Apr 2025 20:00:41 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Fucilate Sartre https://www.carmillaonline.com/2020/11/04/contro-lopportunistica-accettazione-del-discorso-antirazzista-di-sinistra/ Wed, 04 Nov 2020 21:50:04 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=63345 di Sandro Moiso

Tommaso Palmi (a cura di), Decolonizzare l’antirazzismo. Per una critica della cattiva coscienza bianca, DeriveApprodi, Roma 2020, pp. 128, 9,00 euro

“Militante è colui che non smette mai di crescere e quindi di formarsi. Militante è colui che non si accontenta mai di ciò che ha già a disposizione, ma che si proietta costantemente verso la sfida e la messa a verifica delle sue insufficienze” (Tommaso Palmi)

Sulla base di quanto affermato dal curatore del testo appena pubblicato da DeriveApprodi, può essere utile e necessario sottolineare come, troppo spesso, [...]]]> di Sandro Moiso

Tommaso Palmi (a cura di), Decolonizzare l’antirazzismo. Per una critica della cattiva coscienza bianca, DeriveApprodi, Roma 2020, pp. 128, 9,00 euro

“Militante è colui che non smette mai di crescere e quindi di formarsi. Militante è colui che non si accontenta mai di ciò che ha già a disposizione, ma che si proietta costantemente verso la sfida e la messa a verifica delle sue insufficienze” (Tommaso Palmi)

Sulla base di quanto affermato dal curatore del testo appena pubblicato da DeriveApprodi, può essere utile e necessario sottolineare come, troppo spesso, anche il razzismo endemico del modo di produzione vigente e dell’immaginario che ne deriva sia presentato come un’eccezione, un errore di carattere prevalentemente culturale risolvibile con la forza della ragione. Quel crescere e formarsi dei militanti di cui parla Palmi si riferisce quindi esplicitamente alla necessità di superare una visione stereotipata del mondo e delle sue insufficienze, troppo spesso ispirata da una cattiva coscienza di origine borghese e falsamente democratica. Visione del mondo in cui il razzismo sembra solo più costituire una sorta di sogno o di incubo ritornante da un passato che la società moderna avrebbe già da tempo superato e accantonato.

Non a caso, proprio per chiarire la necessità di fare i conti con un passato che è invece ferocemente parte del nostro presente, il curatore inizia la sua recensione proprio con una citazione da Karl Marx (mica da individui insignificanti come Salvini o Giorgia Meloni oppure dai soliti dei malvagi di cui sono piene le pagine di libri di Storia scolastici) in cui il fondatore del comunismo moderno si lascia andare ad una serie di considerazioni tutt’altro che politically correct sui popoli delle colonie europee in Asia e Africa.

Lo fa, Palmi, non per sottoporre a critica severa l’autore originario di Treviri, ma piuttosto per storicizzarne le formulazioni e per dimostrare come alcuni assunti sulle condizioni di presunta “arretratezza”, non solo economica ma anche politica e culturale, dei popoli oppressi degli altri continenti abbiano finito per condizionare pesantemente la riflessione e la conseguente azione politica di coloro che pur si ritengono antirazzisti e di sinistra.

Le considerazioni del curatore, contenute nella bella introduzione, e quelle degli altri testi contenuti nel libro sono il risultato di un corso di formazione politica che si è svolto a Bologna, presso la Mediateca Gateway, nell’autunno/inverno 2019, con l’intento di fornire chiavi di lettura e categorie interpretative per decolonizzare il discorso e la pratica dell’antirazzismo italiano ed europeo. Cinque interventi ed un’intervista a Houria Buteldja1, che si focalizzano sulla compassionevole e falsificatrice rimozione della “razza” dal discorso storico e politico non solo ufficiale, ma anche di un certo antagonismo.

Qual è il presupposto da cui si dipanano le riflessioni contenute nel testo collettaneo? Sostanzialmente quello che il razzismo non sia una componente secondaria della società capitalistica e del suo prodotto sociale, ma piuttosto ne costituisca un fondamento essenziale. Forse il più importante insieme a quello della divisione in classi della società stessa. Ma mentre per la seconda si potrebbe affermare che in fin dei conti questa sia esistita in forme diverse fin dalla fine della comunità primordiale e dall’apparizione della proprietà privata della terra e dei mezzi di produzione, del primo si può dire che esso nasca con l’occidente moderno. Ed è per questo che tra le sue pagine si legge più volte che per coloro che si oppongono al razzismo la data di riferimento non può essere il 1789 ma il 1492.

D’altra parte, e non soltanto per salvaguardane il buon nome, fu lo stesso Marx a sottolineare, fin dal 1846, come:

La schiavitù diretta è il cardine del nostro industrialismo attuale proprio come le macchine, il credito ecc. Senza schiavitù niente cotone. Senza cotone niente industria moderna. Solo la schiavitù ha conferito alle colonie il loro valore, solo le colonie hanno creato il commercio mondiale e il commercio mondiale è la condizione necessaria della grande industria meccanizzata. Così le colonie, prima della tratta dei negri, fornivano al vecchio mondo pochissimi prodotti e non cambiarono in modo percepibile il volto del mondo. Perciò la schiavitù è una categoria economica della massima importanza. Senza la schiavitù l’America del nord, che è il paese più progredito, si trasformerebbe in un paese patriarcale. Si cancelli l’America del nord dalla carta delle nazioni e si avrà l’anarchia, la decadenza totale del commercio e della civiltà moderni. Ma fare scomparire la schiavitù vorrebbe dire cancellare l’America dalla carta delle nazioni2.

Schiavitù che nello “sviluppo” coloniale non assunse soltanto le caratteristiche dell’oppressione dell’uomo sull’uomo ma, anche e soprattutto, di una razza sulle altre. Far finta che questo abbia costituito soltanto un errore sul percorso del progresso significa rimuovere uno dei macigni che ancora tengono ancorata una parte consistente della classe operaia e del proletariato europeo, o più genericamente “bianco” come vediamo drammaticamente oggi negli Stati Uniti, agli interessi e all’immaginario del capitale. Anche quando di pensa progressista.

Non si tratta infatti di rimuovere una colpa attraverso la compassione o il soccorso umanitario (sia in loco che in mare), ma di prendere coscienza che la lotta antirazzista, esattamente come quella di genere, è un fattore dirimente all’interno del conflitto di classe e che, sostanzialmente, lo sopravanza. Come afferma infatti Palmi nell’introduzione:

questo libro vuole porsi in netta discontinuità con una lunga tradizione di studi sul razzismo che non ha mai fatto i conti con la sua matrice coloniale e ha scelto deliberatamente di non nominare la razza, rimuovendo dal discorso la materialità delle condizioni di subordinazione e sfruttamento dei soggetti razzializzati. Rovesciando questa impostazione, la volontà è quella di fornire alcuni strumenti fondamentali per leggere la realtà della composizione sociale razzializzata, senza ricrearne una rappresentazione edulcorata, eterodiretta e costruita introno a un’idea di vulnerabilità e dipendenza.
È su questo crocevia che si colloca la nostra critica della cattiva coscienza bianca. Lì dove la rimozione della storicità della razza significa occultamento della sua funzione strutturale e strutturante dell’ordine sociale.
Un antirazzismo che si dica ancorato alla materialità dei processi di razzializzazione non può prescindere da questo punto. Sacrifichiamo il moralismo pedagogico sull’altare di accademici e preti del conflitto. Non c’è nessuno a cui dobbiamo insegnare cos’è il razzismo, come non saremo noi, dall’alto del nostro paternalismo bianco e coloniale, a fornire ai soggetti razzializzati gli strumenti necessari a risollevarsi dalla propria condizione materiale e soggettiva. La ricomposizione della frattura razziale non è un dato sovrastrutturale di cui basta prendere coscienza, ma u n obiettivo politico da perseguire secondo processualità diverse e autonome 3.

Nella narrazione tradizionale, stereotipata e tossica, poi « Il regime fascista e le leggi razziali vengono assunti come forme idealtipiche del razzismo proprio in virtù del loro carattere di eccezionalità, che relega così le gerarchie della razza al ruolo di fugace comparsa nel processo di costruzione dell’italianità. Una coscienza lava l’altra e il dibattito pubblico italiano ci parla di un passato senza macchie», facendo così che

l’antirazzismo ha, in tempi recenti, preso dapprima la piega dell’educazione universale ai diritti dell’uomo e poi del richiami umanitario, definito nella crescita ipertrofica del sistema dell’accoglienza ed esacerbato dall’esplosione della cosiddetta «crisi dei rifugiati» […]
Quella umanitaria è divenuta a tutti gli effetti un’industria, entro cui il dispositivo razziale lavora senza sosta nella sua opera di valorizzazione e gerarchizzazione delle differenze. La retorica di cui questi contenitori si ammantano è spesso e volentieri quella delle forze della sinistra antirazzista, comprese quelle della cosiddetta sinistra radicale e dei movimenti sociali. Alternando un registro tragico e vittimizzante a uno paternalista, la figura del soggetto migrante viene metabolizzata per rispondere positivamente ai criteri di gestione e governo delle migrazioni internazionali. Quella che si spaccia per integrazione non risulta altro che la precisa collocazione dei e delle migranti all’interno di una più complessa catena di sfruttamento ed estrazione del valore […] La riproduzione dei rapporti sociali razzializzati passa innanzitutto attraverso forme di assimilazione dalle tinte arcobaleno, che parlano di educazione all’intercultura e rispetto dei diritti umani. Tirocini, stage, lavori socialmente utili e infinite altre tipologie di mansioni non retribuite, formalmente indirizzate all’inserimento del migrante nella società bianca e spesso sovvenzionate direttamente dallo Stato o dall’Unione Europea, agiscono in maniera ben più profonda e capillare nell’incanalare i soggetti razzializzati verso la loro collocazione subordinata e marginale di qualunque squadraccia dalle simpatie neonaziste. Non è il mercato degli schiavi di Lisbona e nemmeno il porto di Ellis Island. È l’etica illuminata della sinistra bianca, che generosamente raccoglie naufraghi in balia del Mediterraneo, per poi condannarli a una vita d’inferno fra galera, marginalità sociale e caporalato 4.

Negli altri contributi Miguel Mellino definisce la «crisi dell’antirazzismo europeo»; Anna Curcio ripercorre il filo rosso che tiene assieme la storia nazionale dal primo processo di unificazione fino all’incontro-scontro, piuttosto recente, con i grandi flussi delle migrazioni postcoloniali e con le nuove forme di gerarchizzazione fra Nord e Sud Europa, mentre Jamila Mascat propone una riflessione che punta a identificare razza e genere come forme specifiche della modernità capitalistica e Alvise Sbraccia propone una trattazione della relazione fra razzismo, crimine e criminologia, dove si individua la stretta relazione tra le matrici disciplinari della criminologia e la gerarchizzazione razziale figlia dell’esperienza coloniale, che insiste su l’attitudine delinquenziale del colonizzato. Infine Dhanveer Singh Brar, nel penultimo contributo, affronta il tema del pensiero politico legato alla blackness a partire dall’esperienza della diaspora, attraverso il richiamo a tre differenti prospettive, quella afroamericana,quella caraibica e quella britannica. A conclusione del volume un dialogo fra Anna Curcio e Houria Bouteldja fa il punto sull’antirazzismo decoloniale proposto dalla prassi teorico-politica del Parti des Indigènes de la République di cui è la portavoce. La conversazione ripercorre il rapporto con la sinistra francese, il rimosso coloniale e la narrazione eurocentrica della modernità e propone una critica tagliente all’astratto universalismo del femminismo bianco.

Occorre poi dire che proprio la Bouteldja riesce a coronare degnamente la raccolta di testi con un intervento radicale e interessante. Riuscendo a dare in sintesi alcune indicazioni politiche di cui coloro che si definiscono oggi nemici del capitale e del suo Stato dovrebbero tenere profondamente conto.

Noi indigeni affermiamo di non riconoscere la differenza fra sinistra e destra. Lo diciamo dall’inizio della nostra storia politica. Questa frattura della politica bianca non è un nostro problema. Per noi la distinzione fra sinistra e destra non ha alcun significato pregnante. Noi situiamo il nostro discorso sulla questione razziale, per questo «non 1789, ma 1492». Ma non è perché non la riconosciamo che questa differenza sparirà. Noi abbiamo la necessità imprescindibile di essere pragmatici e quando i membri della sinistra bianca si mobilitano contro i crimini della polizia diventano nostri alleati.
Tuttavia, perché questa sinistra possa posizionarsi rispetto alla questione decoloniale, deve in primo luogo operare una sorta di rivoluzione culturale e finalmente prendere in considerazione la questione razziale per intero. Deve far sua la critica all’eurocentrismo che pervade gli ambienti di sinistra. Nel libro ho scritto «fucilate Sartre». Perché le figure come la sua sono quelle che hanno permesso di perpetuare il crimine coloniale. Sartre è stato a lungo considerato fra i migliori esponenti del pensiero anticoloniale bianco ed europeo e negli anni Sessanta, ha ricevuto vari attacchi dall’estrema destra. In un certo senso i primi a fucilare Sartre sono stati loro, per la sua posizione a favore dell’indipendenza algerina e solidale alla causa vietnamita. Tuttavia, Sartre non è mai riuscito a farsi veramente carico del suo ruolo di intellettuale anticoloniale, poiché non è stato in grado di abbandonare la causa di Israele e sostenere il popolo palestinese. Per questo è rimasto bianco a tutti gli effetti. «Fucilare Sartre» ha precisamente il significato di fucilare la sinistra bianca5.

Nel corso del dialogo, Anna Curcio, infine, afferma: « Si potrebbe dire, riassumendo, che per abolire la razza bisogna innanzitutto nominarla, mettere le gerarchie razziali al centro del discorso politico antirazzista…» dando così modo alla Boutreldja di concludere:

Esattamente. Mettere la razza al centro per abolirla. Mettere in evidenza che esiste un razzismo strutturale dentro la società per combatterlo […] C’è la necessità di arrivare a un momento in cui la classe operaia bianca capisca che ha più interessi ad allearsi con noi, piuttosto che con la borghesia bianca. Si possono prendere molti esempi di questa dinamica, soprattutto rispetto ai Gilet Gialli, in quanto specificità francese. Avevamo molta paura all’inizio che il movimento dei Gilet Gialli si indirizzasse verso l’estrema destra, ma al contrario si sono progressivamente radicalizzati verso sinistra e hanno avuto modo di provare sulla propria pelle, attraverso l’attività politica, cosa volesse dire diventare bersaglio delle sistematiche persecuzioni della polizia. In questo modo è stato possibile trovare un punto di convergenza, nella violenza dello Stato e della polizia […]
Se si va alla ricerca del popolo perfetto, sempre pronto ad alzare la voce in nome della questione sociale, come piace pensare alla sinistra, la rivoluzione difficilmente sarà mai realizzabile. Noi non abbiamo problemi con quello che è l’essere «reazionario » delle classi indigene, perché siamo perfettamente consapevoli di quello che è lo stato politico dell’indigenato […] Diciamo a chiare lettere di essere un’organizzazione anti-integrazionista. Per noi la condizione di partenza per un movimento decoloniale è quella di mettere in discussione le strutture fondanti dello Stato-nazione e dell’imperialismo. Il nostro progetto e la nostra ambizione non è quella di diventare francesi6.

Ancora una volta con tanti saluti alle anime candide e alle belle addormentate nel bosco (sugli allori delle sconfitte passate), che dovrebbero almeno sforzarsi di imparare qualcosa dalle parole della Canzone del maggio di Fabrizio De André:

anche se voi vi credete assolti
siete lo stesso coinvolti.


  1. Della quale su Carmilla è stato recensito l’unico testo tradotto in Italiano, I bianchi, gli ebrei e noi (qui)  

  2. Karl Marx, Lettera a Pavel Valisevič Annenkov del 28 dicembre 1846 

  3. T. Palmi, Introduzione a Decolonizzare l’antirazzismo, p. 11  

  4. T. Palmi, cit., pp. 8-9  

  5. H. Bouteldja, Decolonizzare l’antirazzismo, conversazione con Anna Curcio in op. cit. pp. 111-112  

  6. H. Bouteldja, cit., pp. 114-117  

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Orologi e cacciaviti. Tempo, praxis, storia. https://www.carmillaonline.com/2020/09/08/orologi-e-cacciaviti-tempo-praxis-storia/ Tue, 08 Sep 2020 20:50:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=62492 di Silvia De Bernardinis

Barbara Balzerani, Lettera a mio padre, DeriveApprodi, Roma 2020, pp. 112, 12,00 euro

Una lettera al padre. Un viaggio nelle fenditure della propria storia personale, dove arriva forte l’eco della storia collettiva degli oppressi. Trasmissione di esperienza, di lasciti del Novecento operaio, ed anche di fratture insanabili. Storie personali tra padre e figlia che sono al tempo stesso storie di classe e di appartenenza che scorrono lungo il secolo breve delle rivoluzioni. Conti da far quadrare, in cui come sempre l’umano e il politico si tengono indissolubilmente.

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di Silvia De Bernardinis

Barbara Balzerani, Lettera a mio padre, DeriveApprodi, Roma 2020, pp. 112, 12,00 euro

Una lettera al padre. Un viaggio nelle fenditure della propria storia personale, dove arriva forte l’eco della storia collettiva degli oppressi. Trasmissione di esperienza, di lasciti del Novecento operaio, ed anche di fratture insanabili. Storie personali tra padre e figlia che sono al tempo stesso storie di classe e di appartenenza che scorrono lungo il secolo breve delle rivoluzioni. Conti da far quadrare, in cui come sempre l’umano e il politico si tengono indissolubilmente.

Come nei libri precedenti di Barbara Balzerani, anche Lettera a mio padre, edito da DeriveApprodi, è una discesa e un’immersione nelle crepe della Storia, tra gli scarti della storia ufficiale senza i quali però nessuna storia può essere raccontata se non trasfigurandola, e nessuna via di fuga collettiva da un sistema sociale basato su profitto, sfruttamento e miseria, pensata. È questa la scrittura e la concezione della Storia che Barbara propone nei suoi libri, messa a punto con sempre più affinata maestria nel suo ormai ultraventennale percorso letterario.

Una prospettiva che permette di cogliere le dissonanze, i punti di frattura che smentiscono la presunta linearità del tempo e dei fatti. Un viaggio che posa lo sguardo sugli “invisibili al potere”, interni alle “dissonanze della vita collettiva”, compagni di viaggio che Barbara ha incontrato sulle strade percorse in questi anni di difficile resistenza, fuori dal terreno viscido dell’indistinto che tutto fagocita, laddove è possibile lo squarcio di luce che smaschera i meccanismi pervasivi di un sistema di sfruttamento stritolante, dove è possibile la rottura imprevista, l’incontrollabilità al potere. Ma anche lontano dai sentieri ormai infertili di quel Novecento che ha attraversato e che l’ha attraversata nelle viscere. E da questo viaggio torna restituendoci un quadro a più colori, a più voci e accenti, tessuto in trame di inconciliabilità al capitale che assumono un volto che si fa sempre più riconoscibile.

Al pari dei libri precedenti, anche Lettera a mio padre è scrittura che si fa filosofia, storia e politica, un ulteriore passo in quell’opera di ricerca e ricomposizione di un vocabolario comune, di un pensiero forte capaci di ridisegnare un orizzonte rivoluzionario contro la menzogna dell’unico mondo possibile. E che è il filo conduttore che attraversa tutta la scrittura di Barbara; un patrimonio partigiano di cui abbiamo più che mai bisogno per orientarci.

Una lettera al padre per raccontargli come corre il mondo da quando lui non c’è più, per dirgli che a differenza del suo mondo dove si lottava per l’indispensabile, ora si vive e si muore per e di consumo, nella miseria. Un operaio senza fabbrica per scelta, di quelli dell’inizio del secolo scorso, cresciuti prima dell’avvento dell’usa e getta, della serialità, che fa dell’esperienza pratica, della capacità delle mani di riparare, dell’ingegno della creatività pratica a trovare soluzioni, il suo valore, e il metro per misurare l’inutilità dei padroni.

Come è stato possibile che proprio lui cadesse nell’inganno padronale mortifero del fascismo, nella mancanza di fiducia nei propri simili, nella prospettiva fallace della salvezza individuale? Cosa l’ha trattenuto, anni più tardi, dal sostenere e condividere – insieme a quegli altri padri dell’officina – ragioni e pane con gli insorti dell’unico e ultimo tentativo rivoluzionario della nostra storia novecentesca? Riattraversamento di una frattura mai sanata sul piano personale e sul piano storico.

Come è stato possibile che cadesse negli ingranaggi delle compatibilità illudendosi di esserne sfuggito, che ripiegasse nella rassegnazione di un mondo che è raccontato come se sempre dovesse essere dominato dall’ingiustizia di chi comanda, nell’inganno di padroni abili a macinare, assorbire e trasfigurare, a disarmare le menti, confondendo nell’indistinguibilità oppressi e oppressori, con la retorica mistificatoria delle sempreverdi emergenze e degli annessi solidarismi nazionali?

Questioni che ci precipitano nelle contraddizioni irrisolte del secolo scorso, ma ancora aperte, alla radice di una sconfitta che ci ha irretiti. Eppure proprio il lascito di sapere ed esperienza di quel padre, un nostro padre, può essere ripercorso, per riattraversare la storia in un altro modo, e può esserci di soccorso per l’oggi, in un tempo che corre alla velocità irraggiungibile del 5G, che ci impedisce di capire la concretezza del reale nascosta dentro l’intelligenza artificiale. Abbiamo bisogno di un altro tempo. Nel racconto al padre, ciò che lui ha lasciato come valore continua ad essere ciò che regge il mondo, perché senza mani sapienti, senza la materialità dei corpi, l’intelligenza artificiale e l’economia immateriale che ci comandano non si sorreggono. Liberarsi dal tempo disumanizzato del capitale riappropriandosi di quel sapere pratico – del gesto e della conoscenza che assomigliano a quelli dell’artigiano, frutto di un accumulo di esperienza tramandata che ha selezionato materiali e strumenti adatti alla realizzazione non solo dell’utile e durevole ma anche del bello, diritto inalienabile degli esseri umani, in una storia lunga e irregolare, fatta di biforcazioni, di strade non praticate, sepolte e dimenticate sotto le macerie del tempo veloce del progresso – può essere oggi la via di fuga collettiva per sottrarsi al sistema di sfruttamento e devastazione cui siamo sottomessi, fino a distruggerlo, disseppellendo l’inespresso, scovando il potenzialmente realizzabile che sta nel passato.

In questo dialogo immaginato con il padre, che nell’incedere ricorda in alcuni passaggi l’epica brechtiana, Barbara riprende e approfondisce il discorso iniziato in L’ho sempre saputo, una ricerca nella storia e nel patrimonio dei vinti, delle armi della critica pratica rimaste integre nello scontro con il capitale, che hanno retto alla tempesta del progresso. E tra le macerie pratico-teoriche del Novecento rivoluzionario, ricerca quel che può essere ancora utile, fili spezzati da riannodare, ponendo però l’urgenza di staccarsi da ciò che oggi è peso morto e che è anche una delle ragioni che ha permesso al nemico di aumentare la sua ferocia, impune.

Non l’assalto al Palazzo d’Inverno – e con esso la scienza sociale che l’ha sostenuto – ma sabotaggio delle fondamenta, sottrazione alle compatibilità, porta d’ingresso negli ingranaggi del capitale. Sottrazione come via di fuga che erode quelle fondamenta e costruisce al tempo stesso altre forme di vivere collettive. “Ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni”, continua ad indicare la bussola. Dal racconto delle pratiche di lotta e di resistenza che ci giungono dal Kurdistan alla Zad, dai Gilet gialli agli zapatisti, agli operai argentini in autogestione che cancellano la divisione del lavoro, agli illegali ed irregolari, sempre più numerosi, delle periferie dell’Occidente colonialista, si ridelinea una nuova scienza sociale.

È il frutto dell’esperienza pratica di chi si organizza nel segno dell’autodeterminazione, dell’autogoverno; riattivando le relazioni sociali e la cultura del vicinato, che significa in fondo ricostruire tessuti connettivi di solidarietà senza lasciarsi neutralizzare da un potere che ha dato prova di quanto gli sia facile appropriarsene e soffocarla nei suoi tentacoli, riducendola a compassionevole spot pubblicitario a costo zero per bulimici consumatori atomizzati; trame di alleanze, di aiuto mutuo, cacciaviti per inceppare gli ingranaggi, zone da prendere e da difendere, perché vivere liberi dai padroni è possibile, ed è condizione perché si riconquisti dignità come comunità umana. “Fino a che la dignità non diventi consuetudine”, come risuona dalle piazze del Sudamerica in rivolta.

Praxis associata alla visionarietà che contraddistingue le eresie quel che scorre nelle pagine del libro, che in fondo è quello che Barbara porta con sé della sua storia politica, una pagina della storia scritta dagli oppressi che alzano la testa, non negoziabile, che sta nel sangue e nella carne, non una parentesi della vita. Che sta nella scrittura, densa, stratificata di significati, che ricerca, seleziona e cesella le parole con la cura e il sapere dell’artigiano.

Lettera a mio padre è un libro che si libera del peso di una tradizione marxista che ha mostrato le corde puntando sull’idea di sviluppo e di produttivismo. Lo sviluppo delle forze produttive – come indicano le esperienze storiche sperimentate, pur nella loro portata emancipatrice e nel loro significato storico – è stato incapace di spezzare il funzionamento del capitale. Ha usato, rovesciandoli, gli stessi meccanismi e la stessa logica del suo antagonista, ed è rimasto impigliato all’interno dell’idea occidentale di progresso propria del capitalismo. Proprio sul continuum della Storia è inciampata la concezione marxiana della Storia, non riuscendo a sottrarsene e permettendo che il capitale battesse il suo tempo.

Da questi limiti parte la riflessione di Barbara, che si inserisce e fa propria l’eterodossia benjaminiana, ripresa in tempi più recenti da Agamben. Ne riattiva l’idea di sospensione del flusso omogeneo e progressivo del tempo, sospensione in cui il kairos irrompe, l’arresto del tempo, l’attimo giusto sottratto al correre del progresso contro l’abbaglio della meta nel futuro lontano. La rivoluzione come “freno d’emergenza”, nelle parole di Benjamin, che ci ricorda come lo stato d’emergenza sia la regola. “Il tempo papà, il tempo”, scrive Barbara, perché non c’è cambiamento del mondo senza cambiamento del tempo. “Sparare agli orologi” come fecero i comunardi, ci ricorda la storia degli oppressi, e ci mostra la mano dell’operaio che inceppando la catena di montaggio fa saltare l’ordine e il tempo, perché il tempo della rottura è sempre tempo presente.

Comunismo comunitario, mutuo soccorso, economia comunitaria, autogoverno, autonomia basata sulla messa in comune, sono il patrimonio pratico-concettuale annidato nelle crepe della nostra storia – che emergono spazzolando la storia contropelo, come dice Benjamin, come ci racconta Barbara che va a recuperarle nella storia degli oppressi, dove si manifestano in pratiche contrarie alla compatibilità capitalistica, al tempo lineare in progresso – e che riecheggiano allo stesso modo nelle storie degli altri, schiacciate sotto una pretesa universalistica che è appartenuta anche alla tradizione marxista, da cui dovremmo affrancarci prendendo atto della loro irriducibilità.

Abbiamo il cacciavite per bloccare gli ingranaggi, ce lo mostrano nei quattro canti del pianeta gli “scarti”, quelli che anche noi abbiamo considerato niente più che “sopravvivenze”, come ci ha suggerito l’antropologia, scienza del colonialismo per eccellenza, nella sua pretesa di spiegare agli Altri chi essi fossero. C’è un sapere e ci sono ferramenta che hanno continuato ad essere tramandati, ai margini, quasi clandestinamente nella loro incompatibilità al capitale, come fuoco che cova sotto la cenere della centralità occidentale novecentesca. Ci indicano che si può ricreare comunità, risignificare appartenenza, compiti irrimandabili per combattere la devastazione capitalistica.

Prendere un cacciavite – riappropriazione di conoscenza e gesto – significa liberarsi dalla catena della deresponsabilizzazione che ci ha ridotti allo stato di minor età, ricacciare il principio della delega e della passività, e agire consapevolmente per costruire un tempo e un mondo autodeterminato, libero dai padroni. Risignificare, costruire un vocabolario comune che riagganci le parole all’esperienza, al terreno reale e alle relazioni interpersonali e collettive che le hanno create, grattandole dalle incrostazioni ideologiche e risignificandole della praxis che le sostanzia. Per una praxis politica che nel suo farsi possa risignificare comunismo. Il tempo è adesso.

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L’impero colpisce ancora https://www.carmillaonline.com/2020/01/12/limpero-colpisce-ancora/ Sun, 12 Jan 2020 21:00:39 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=57389 di Alessandra Daniele

C’è qualcosa di nuovo, anzi di antico nella guerra che viene: la lenta e sanguinosa agonia dell’imperialismo USA ha risvegliato gli spiriti degli imperi passati, da quello Ottomano della Turchia, a quello Persiano dell’Iran, alla Grande Madre Russia dello zar Vlad, e oltre l’orizzonte, fino al Celeste Impero cinese. Sempre più vecchia e impotente, l’Europa della democrazia liberale sembra destinata ad un penoso e umiliante declino, per essere sepolta come un esperimento fallito. Dove abbiamo sbagliato? Ci credevamo il Futuro. Abbiamo l’Erasmus, la par condicio, la [...]]]> di Alessandra Daniele

C’è qualcosa di nuovo, anzi di antico nella guerra che viene: la lenta e sanguinosa agonia dell’imperialismo USA ha risvegliato gli spiriti degli imperi passati, da quello Ottomano della Turchia, a quello Persiano dell’Iran, alla Grande Madre Russia dello zar Vlad, e oltre l’orizzonte, fino al Celeste Impero cinese.
Sempre più vecchia e impotente, l’Europa della democrazia liberale sembra destinata ad un penoso e umiliante declino, per essere sepolta come un esperimento fallito.
Dove abbiamo sbagliato?
Ci credevamo il Futuro.
Abbiamo l’Erasmus, la par condicio, la concertazione sindacale, l’alta velocità, il pareggio di bilancio, le quote rosa, la raccolta differenziata.
Siamo così civilizzati.
Che cosa della natura umana non abbiamo capito, o abbiamo sottovalutato?
Perché questi barbari ingrati e oscurantisti hanno deciso di spartirsi con le armi il nostro pianeta, a dispetto di tutti i nostri appelli alla pace e alla ragionevolezza?
Perché non sono rimasti buoni a farlo – e a farsi – dissanguare da noi, in paziente attesa d’avere in dono il modello da esportazione della nostra meravigliosa democrazia liberale?
Dove abbiamo sbagliato, come possiamo recuperare? – Si chiedono le cancellerie europee, ed è già troppo tardi.
La pacchia è finita.
Come quelli delle sere d’inverno, questo crepuscolo sarà più rapido di quanto lo vorremmo.
È già fra noi la generazione che vedrà il tramonto del nostro mondo.
Non è troppo tardi però per l’alba del prossimo. Non tutte le notizie che vengono dall’Europa questa settimana parlano di fallimento: l’imponente ondata di manifestazioni, scioperi e proteste dei lavoratori francesi ha piegato il governo Philippe, costringendolo a rimangiarsi il nocciolo della controriforma pensionistica.
Per decidere il colore dell’alba che verrà, bisognerà ricordarsi che non è la Repubblica che può battere l’Impero, ma la Ribellione.

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