Gianluca Gabrielli – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 La guerra in classe https://www.carmillaonline.com/2017/04/22/37761/ Fri, 21 Apr 2017 22:01:14 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=37761 di Armando Lancellotti

Gianluca Gabrielli, Educati alla guerra. Nazionalizzazione e militarizzazione dell’infanzia nella prima metà del Novecento, Ombre Corte, Verona, 2016, pag. 127, € 13,00

A pagina 183 del Libro della V classe elementare, volume di Religione, Storia, Geografia, stampato a Roma dalla Libreria dello Stato nell’anno XVIII dell’era fascista (1940), nel paragrafo Guerre coloniali, si legge che «L’Italia aveva assoluto bisogno di terre al di là del Mediterraneo, che le assicurassero il più ampio respiro sui mari, possibilità di lavoro ai suoi contadini, aiuti allo sviluppo delle sue industrie e dei suoi commerci». E qualche riga sotto, dove il testo [...]]]> di Armando Lancellotti

Gianluca Gabrielli, Educati alla guerra. Nazionalizzazione e militarizzazione dell’infanzia nella prima metà del Novecento, Ombre Corte, Verona, 2016, pag. 127, € 13,00

A pagina 183 del Libro della V classe elementare, volume di Religione, Storia, Geografia, stampato a Roma dalla Libreria dello Stato nell’anno XVIII dell’era fascista (1940), nel paragrafo Guerre coloniali, si legge che «L’Italia aveva assoluto bisogno di terre al di là del Mediterraneo, che le assicurassero il più ampio respiro sui mari, possibilità di lavoro ai suoi contadini, aiuti allo sviluppo delle sue industrie e dei suoi commerci». E qualche riga sotto, dove il testo comincia ad entrare più dettagliatamente nel merito delle diverse imprese coloniali italiane, al concetto della necessità e giusta ineluttabilità delle conquiste d’oltremare e alla celebrazione dell’eroismo dei soldati italiani, sempre dimostrato tanto nelle vittorie quanto nelle sconfitte (Dogali, Makallè, Adua), si aggiungono, con acrobatico capovolgimento dei ruoli di vittime e di aggressori, inequivocabili apprezzamenti ed aggettivazioni dei popoli del Corno d’Africa, descritti come «orde nemiche», «orde abissine» o come la «marea dei selvaggi guerrieri di Menelik», che solo per la loro bestiale ferocia e per il numero soverchiante hanno potuto avere la meglio dei soldati del Regio Esercito.

In un paragrafo successivo, dal titolo La guerra di Libia, sotto l’immagine di marinai italiani che sbarcano a Bengasi, si dice che la «Libia è posta proprio di fronte alla Sicilia, e l’Italia si trovò nella necessità di occuparla per non essere soffocata nel Mediterraneo, se di essa, come appariva molto probabile, si fosse impadronita qualche altra grande potenza europea». Ritorna qui il motivo della conquista doverosa ed inevitabile, motivata dalla necessità di anticipare l’ingordigia imperialistica altrui e di assicurare un “posto al sole” al Paese. Missione portata a termine grazie all’«eroismo dei nostri marinai e dei nostri soldati» che non arretrarono nonostante «l’infuriare del fuoco nemico».

Quando si tratta poi di affrontare il tema della Grande Guerra (La guerra mondiale: 1914-1918; La partecipazione dell’Italia alla guerra mondiale 1915-1918) l’autore della sezione di Storia – il professore Alfonso Gallo – non si lascia sfuggire l’occasione di collocare in linea di continuità Risorgimento, Grande Guerra e Fascismo, interpretando l’intervento del 24 maggio 1915 come l’unico modo per «decidere una volta per sempre il secolare duello con l’Impero d’Austria, liberando le Venezie Giulia e Tridentina, che ancora soffrivano del giogo straniero […]. Tra i più ardenti sostenitori della necessità che l’Italia prendesse parte alla guerra furono il poeta Gabriele d’Annunzio e il futuro Duce del Fascismo, Benito Mussolini». In tal modo Mussolini è presentato come colui che eredita il testimone della storia patria e delle sue guerre, di quella mondiale innanzi tutto, e che coerentemente, quindi, farà di interventismo, combattentismo, bellicismo, cameratismo gli ideali e i valori di riferimento, da usare come miti fondatori del fascismo nell’immediato dopoguerra e come principi con cui forgiare attraverso l’istruzione scolastica le generazioni dei fascisti di domani ancora nel 1940, quando ormai il fascismo è partito unico, governo e regime totalitari già da molti anni, e proprio quando decide di affrontare una nuova e ancor più tragica impresa bellica.

E che la guerra come principio ideale e come valore etico sia il cemento che deve tener assieme i mattoni della nazione lo si evince pure dal paragrafo (La pace) sulla Conferenza di Parigi, nel quale, dopo “l’iperbole storico-militare” secondo cui l’Italia dopo Vittorio Veneto sarebbe stata pronta e nelle condizioni per «assalire a rovescio la Germania», si dice che il trattato di pace di Saint-Germain con l’Austria – molto autarchicamente chiamato di San Germano – a causa dell’inettitudine dell’allora governo liberale non compensò a dovere i sacrifici sostenuti in trincea dai soldati italiani, che si videro negata la città di Fiume, che – ancora una volta – soltanto Mussolini fu capace di congiungere alla patria nel 1924. Così come fu capace di salvare il Paese dal pericolo rappresentato da coloro che il testo invariabilmente definisce «i sovversivi»: socialisti, anarchici, poi comunisti, operai e contadini delle leghe rosse, quanti erano stati un tempo neutralisti e che continuavano a condurre «una dissennata propaganda di odio contro la Religione, la Patria, la Monarchia. […] I sovversivi dissero che nulla di buono aveva ed avrebbe portato la guerra e che questa era stata un’inutile, colpevole strage». Insomma, tutto l’opposto di quanto i bambini italiani di dieci anni nel 1940 imparano a scuola e dal loro “libro di testo di Stato”, che della guerra fa la pietra angolare della nazione, salvata dal fascismo e da Mussolini, del quale – e non certo per caso – nel paragrafo IL FASCISMO, l’unico il cui titolo è stampato con lettere maiuscole, vengono subito messi in luce i meriti militari e l’impegno nel conflitto mondiale. «L’Italia fu salvata da Benito Mussolini. Egli era stato tra i più fervidi sostenitori della guerra contro l’Austria […]; aveva valorosamente combattuto come bersagliere; aveva sofferto gravi ferite. Animato dalla stessa fede e dallo stesso coraggio, si dedicò, dovesse costargli la vita, alla santa missione di ridestare nel popolo italiano quelle virtù, che già ne avevano reso possibile il risorgimento, prima, la vittoria nella guerra mondiale, poi». Insomma, l’esaltazione della guerra è il Leitmotiv che attraversa molte delle pagine della sezione di Storia del libro per la V classe elementare dell’anno 1940; cosa che non costituiva di certo una novità, dal momento che militarismo e bellicismo erano già da tempo gli strumenti principali a cui in Italia si era fatto ricorso nel processo di nazionalizzazione dell’infanzia, avviato già a partire dalla fine del secolo precedente.

educati guerra coverDi questi ed altri simili temi si occupa l’ultimo libro – Educati alla guerra – di Gianluca Gabrielli, che, di certo con rigore e sistematicità maggiori di chi si limita a sfogliare un vecchio libro su cui hanno studiato i propri genitori, considera le dinamiche del processo di nazionalizzazione e di militarizzazione dell’infanzia italiana, in particolare nei trentaquattro anni che vanno dalla guerra italo-turca per la Libia del 1911 al 1945, senza tralasciare un’opportuna incursione, che fa da premessa al corpo principale del libro, nell’Italia post-unitaria tardo ottocentesca.

Gianluca Gabrielli, dottore di ricerca in Storia dell’educazione all’Università di Macerata, da più di vent’anni ormai si occupa di colonialismo e razzismo italiani e di fascismo, con un’attenzione particolare per le problematiche educative e scolastiche e a questi temi ha dedicato numerosi lavori, articoli e libri, tra i quali si ricordano in particolare Il razzismo (Ediesse, 2012), scritto con Alberto Burgio, La scuola fascista (Ombre Corte, 2009), curato con Davide Montino e Il curricolo “razziale”. La costruzione dell’alterità di “razza” e coloniale nella scuola italiana (1860-1950) (Eum, 2015). [Su Carmilla: Gianluca Gabrielli, Scuola di razza 1/2 e 2/2
Davide Montino, RomanitàArmando Lancellotti, Lasciti coloniali: perché Calimero è tutto nero]
Importante anche il contributo dato all’allestimento di alcune mostre, tra le quali segnaliamo l’importantissima La menzogna della razza (1994), che ha rappresentato un momento decisivo per lo sviluppo avvenuto nell’ultimo ventennio degli studi sul colonialismo e sul razzismo italiani. Ed Educati alla guerra è anche il titolo di una mostra, dallo stesso Gabrielli curata, indirizzata a scuole ed enti culturali.*

I processi di nazionalizzazione della società di massa a inizio Novecento, anche, e talvolta soprattutto, attraverso la mobilitazione e la militarizzazione delle più giovani generazioni, non sono da considerarsi certo un caso esclusivamente italiano, ma in «Italia tale percorso di nazionalizzazione dell’infanzia attraverso la militarizzazione fu sicuramente tra i più continui e intensi di tutta Europa» (p. 7). E questo perché in quello scelto da Gabrielli come periodo paradigmatico dello sviluppo del fenomeno oggetto di studio – il lasso temporale 1911-1945 – l’Italia combatté la guerra italo-turca per la Libia, la Grande Guerra, intraprese la cosiddetta riconquista della Libia, poi l’impresa d’Etiopia, a cui fecero seguito la “crociata” spagnola, l’aggressione all’Albania ed infine il secondo conflitto mondiale e per ventitre di quei trentaquattro anni fu guidata da un governo, prima e un regime, poi che fecero della guerra un criterio identitario, un principio ideologico ed un valore etico.

Come è noto, una volta fatta l’Italia nel 1861, la classe politica e dirigente si pose il problema di “fare gli italiani”, di creare una nazione ed un’identità nazionale e l’esercito e la scuola furono individuati come gli strumenti più efficaci per intraprendere tale non facile compito. «Così molto fu l’impegno per introdurre nei percorsi scolastici gli elementi di patriottismo ereditati dalle lotte risorgimentali e rivivificati dalle prime imprese coloniali e dalla celebrazione dei relativi martiri» (p. 12). Ma le analisi di Gabrielli non si limitano al solo mondo scolastico e si allargano anche ad altri momenti del vivere quotidiano dei bambini e dei ragazzi italiani, che con gli inizi del Novecento vennero sempre più coinvolti dai fenomeni sociali di massificazione, che si manifestavano, per esempio, nella nascita di una specifica editoria per l’infanzia, in particolare con la pubblicazione di due riviste come il Giornalino della domenica (1906) e il Corriere dei piccoli (1908), che iniziarono a veicolare il tema della guerra, anche se essa veniva ancora presentata come qualcosa che non apparteneva propriamente al mondo dei bambini – per i quali manteneva ancora la forma del gioco – ma a quello degli adulti; oppure con lo sviluppo di un nuovo settore di mercato, in genere accessibile solo alle famiglie della ricca borghesia, cioè quello dei giocattoli, tra i quali prevalevano quelli per i maschi che erano per lo più di tema bellico e militare.

Un primo decisivo momento di accelerazione nel processo di nazionalizzazione e militarizzazione dei ragazzi italiani si verificò, sostiene l’autore, in coincidenza con la guerra per la Libia del 1911-’12; impresa coloniale che fece da punto di svolta per molti aspetti della vita politica e sociale dell’Italia giolittiana: fu in quegli anni che il nazionalismo abbandonò le originarie forme risorgimentali per assumere quelle imperialistiche della A.N.I e che l’opinione pubblica all’atteggiamento prevalentemente freddo tenuto nei confronti delle iniziative africane di Depretis e di Crispi sostituì il coinvolgimento per le sorti della Grande Proletaria civilizzatrice. Il patriottismo e il nazionalismo fecero il loro ingresso nella scuola italiana, così come i temi del fardello dell’uomo bianco e della missione civilizzatrice.

«Insomma, l’entusiasmo per la guerra imperialista in nome dell’appartenenza alla nazione sgretolava l’idea – recente e fragile – di una didattica che auspicasse la pace; la guerra coloniale spingeva i maestri a torcere l’insegnamento in senso nazionalista e li trasformava, in anticipo rispetto alla Grande guerra, in attivisti per la patria» (22). Il livello di coinvolgimento nazionalistico dei bambini e dei ragazzi italiani conobbe un incremento qualitativo decisivo e «fecero la comparsa
attività di sostegno morale o materiale ai militari nelle quali furono coinvolti gli alunni» (p.24), iniziative che sarebbero state poi replicate ed estese durante la Grande Guerra e in occasione delle guerre fasciste.

Con la prima guerra mondiale, che fu il più grande fenomeno sociale di massa che la storia avesse mai conosciuto fino ad allora e segnatamente per società ancora in larga parte arretrate come quella italiana, quanto già accaduto pochi anni prima con la guerra di Libia si estese e si sistematizzò. La formazione di una propaganda moderna e la comparsa del fronte interno non esclusero certo dai loro effetti i bambini e i ragazzi e non solo quelli nelle zone del fronte e per tutti i giovani italiani cambiarono tante cose.

Tra gli effetti combinati di queste due potenti spinte ci fu l’affermarsi dell’“ideologia della parsimonia e dei sacrifici”, già fortemente radicata e promossa in passato come etica del risparmio nell’educazione scolastica dei ceti popolari, ma in questa contingenza divenuta un “imperativo economico e morale [legato] alla potenza e persino alla sopravvivenza nazionale” (pp. 30-31).

Così nei giornalini per l’infanzia la «dimensione della guerra entrò in molti modi tra i materiali trasmessi ad esempio dal “Corriere dei piccoli”. L’interventismo del Corrierino infatti si fece più marcato e deciso rispetto agli anni della Guerra di Libia, promuovendo e poi accompagnando la partecipazione italiana al conflitto» (p. 31). Personaggi popolari delle storie per bambini come Schizzo o Italino divennero sempre più di frequente protagonisti di vicende belliche e pure «nel cinema» – osserva Gabrielli anche sulla scorta delle analisi fondamentali di uno dei più importanti studiosi di questi argomenti, Antonio Gibelli – «nello stesso periodo, furono prodotti e circolarono numerosi film rivolti al pubblico infantile o che avevano i bambini come protagonisti; si trattava di pellicole costruite su trame in cui l’eroismo dei piccoli rendeva possibili imprese eroiche» (p. 31-32).

Ma ancora più interessante è il caso delle forme di coinvolgimento attivo del mondo dell’infanzia in attività di supporto ai combattenti, come la scrittura di lettere che potessero essere di conforto per i soldati, o la preparazione di oggetti ed indumenti utili, come calze pesanti o «le compresse combustibili di carta e paraffina da inviare al fronte per permettere ai soldati di consumare pasti caldi anche in prima linea» (p. 33), il cosiddetto “scaldarancio”. Nel complesso, continua Gabrielli, si trattava di «iniziative che avevano lo scopo di familiarizzare i bambini con l’evento guerra, di renderlo accettabile e persino attraente, in definitiva di inculcare l’idea che combattere e morire, ma anche fare sacrifici per la nazione in armi era una cosa non solo necessaria ma per così dire naturale» (p. 33).

Nelle scuole interventismo, patriottismo, nazionalismo divennero pervasivi come conseguenza di un combinato disposto di circolari e direttive provenienti dal Ministero e di iniziative spontanee intraprese negli istituti dai docenti interventisti, che ridussero ben presto a minoranza costretta al silenzio i colleghi socialisti e neutralisti. Dopo il disastro di Caporetto, spiega Gabrielli, fu il Ministero ad inviare alle scuole superiori le direttive per introdurre lezioni settimanali sulla guerra in corso e dopo la sostituzione di Cadorna con Diaz «anche la mobilitazione verso l’infanzia conobbe mutamenti significativi. […] L’azione congiunta del Ministero e delle associazioni patriottiche venne intensificata e anche nelle città lontane dal fronte mutò le sue caratteristiche, divenendo più capillare e dando luogo a manifestazioni pubbliche a carattere patriottico che coinvolsero l’infanzia in modo inedito e massiccio» (p. 45).

La fine dello stato liberale sotto i colpi dello squadrismo fascista e l’avvento al potere di Mussolini comportarono l’elevazione a potenza dei processi di nazionalizzazione-militarizzazione dell’infanzia italiana. Come già detto sopra, l’intervento, la trincea, il combattimento, il corpo d’assalto ecc. fecero da miti fondatori, e come ideologia e come etica, del fascismo, che una volta divenuto regime a partito unico e potendo dispiegare tutte le proprie forze e velleità totalitarie, diede il via ad una capillare opera di modellamento dell’italiano nuovo, dell’italiano fascista, che non poteva non partire proprio dalla scuola e dal mondo dell’infanzia in generale.

E così le «spedizioni squadriste armate di manganello e di olio di ricino, quando non di pistole, coltelli e bombe a mano, divennero presto un mito celebrato dal regime ed esaltato anche nei testi scolastici» (p.50). «L’etica della violenza e la celebrazione della guerra» – fa notare Gabrielli – «divennero, con la trasformazione in regime, due degli elementi fondanti la pedagogia politica e sociale del nuovo Stato. […] L’investimento che il regime fece sulla scuola fu infatti significativo; essa veniva ritenuta l’avanguardia di un fronte, quello della costruzione dell’italiano nuovo, considerato cruciale» (52). In tal senso, un passaggio importante fu l’adozione del testo unico di Stato per le scuole elementari, decisa nel 1930.

Ma nonostante l’impegno profuso dal regime nella trasformazione della scuola in un utile ed efficace strumento di mobilitazione ed irregimentazione sociali, dal 1926 – come è noto – il fascismo istituì la O.N.B. (Opera Nazionale Balilla), poi confluita nella G.I.L. (Gioventù italiana del littorio) insieme alle organizzazioni femminili nel 1937. «All’Onb fu attribuito il compito della preparazione spirituale e fisica dei giovani in senso pre-militare e la gestione del tempo libero, ovviamente caratterizzato da pratiche che esaltavano le peculiarità del regime. […] Essa divenne presto una specie di “caserma” giovanile che prendeva forma per ospitare ed educare nello spirito littorio i ragazzi durante la loro crescita» (p. 59-60). Le attività pre e para militari e l’educazione fisico-sportiva erano le pratiche specifiche dei Balilla, in stretta relazione tra loro, dal momento che la «tradizione nazionale italiana di educazione fisica privilegiava la scuola prussiana, di derivazione militare, mentre rimase trascurabile l’influenza del filone anglosassone che valorizzava il gioco e lo sport. Fu con il fascismo che si compì una integrazione tra le due scuole, con l’egemonia di quella militare: l’affermazione dello sport e del divismo sportivo nella società spinse i teorici e pedagogisti più legati al regime a selezionare alcuni sport legati alla tradizione e al profilo virile e ad includerli tra quelli promossi come educativi» (p. 66).

Gli anni Trenta non furono solo quelli del consolidamento monolitico del regime, ma anche quelli in cui si concluse la cosiddetta riconquista di Cirenaica e Tripolitania, in cui si concepì, si predispose e si combatté la guerra per la conquista dell’impero abissino a cui fece seguito, quasi senza soluzione di continuità, la partecipazione alla guerra in Spagna; insomma fu il periodo in cui il fascismo sostenne le proprie guerre, prima di precipitarsi nel gorgo del secondo conflitto mondiale.
In questo clima, ricorda Gabrielli, nel 1934 venne introdotta nelle scuole secondarie una nuova materia riservata solo ai maschi: “Cultura militare”. A questo si aggiunga che non a caso proprio in coincidenza con la ripresa della politica coloniale africana venne dato il via alla politica razzista sia sul piano ideologico sia su quello legislativo, prima nelle colonie e poi in Italia. Tutto ciò non poteva non avere conseguenze nell’ambito dell’educazione, della scuola e del mondo dell’infanzia in generale. E come guerra e sport, anche razza e guerra si fusero per formare un grumo ideologico-politico elevato dal regime al rango di contenuto ed obiettivo pedagogici.

Il varo del razzismo di Stato tra il 1936 e il 1938 aggiungeva un ulteriore elemento alla polarizzazione amico-nemico. La stigmatizzazione dell’altro “razziale” – africano o ebreo – rientrava in questo schema, ormai irrigidito in categorie che non sfuggivano alla biologizzazione e alla demonizzazione radicale. Gli africani, da sempre considerati “negri” e cioè appartenenti alla “razza” inferiore per eccellenza nella codificazione delle diversità umane, dopo aver incarnato dal 1935 il ruolo di nemici selvaggi da sconfiggere nella guerra per conquistare l’Etiopia, erano successivamente divenuti i “sudditi inferiori”. […] Emblematica in questo senso è la circolare inviata dal ministro Bottai alle scuole il 26 aprile 1937 in riferimento alla corrispondenza scolastica degli alunni italiani con indigeni dell’Africa orientale, che raccomandava un certo distacco anche nelle espressioni utilizzate: mi risulta che alcuni alunni ed alunne delle scuole del Regno, scrivano lettere o cartoline ai giovinetti indigeni dell’A.O.I. [Africa Orientale Italiana], usando l’appellativo di “sorella” o di “fratello”. Quantunque non possa dubitarsi della buona fede dei nostri alunni, ritengo che nella corrispondenza con gli indigeni non debbano essere usate le suddette espressioni, perché i fratelli degli italiani sono solamente gli italiani (p. 101-102).

La guerra d’Etiopia fu combattuta tra l’ottobre del 1935 e il maggio del 1936, quasi in perfetta coincidenza con l’anno scolastico 1935-’36 – fa notare Gabrielli – e la scuola italiana fu investita da una ondata di militarismo e razzismo fatti di disprezzo del nemico, senso di superiorità razziale, rivendicazione del diritto alla conquista e ricorso all’argomento della missione civilizzatrice, come già, ma in scala minore, era accaduto per la giolittiana conquista libica. E i ragazzi furono chiamati al coinvolgimento totale, tanto nelle attività scolastiche di aula quanto in iniziative aggiuntive o in quelle predisposte dalle organizzazioni giovanili maschili e femminili.

L’esempio forse più emblematico delle modalità con cui il regime ritenne di poter militarizzare la mentalità dei giovani italiani è quello che riguarda la distribuzione alle scuole, già a partire dal 1934, di maschere antigas e la predisposizione di pratiche di addestramento e di simulazione per l’utilizzo delle medesime. Al di là del fatto, nota Gabrielli, che il numero di maschere distribuite per istituto sarebbe stato, in caso di bisogno, insufficiente, ciò che risulta evidente è il tentativo di militarizzare la quotidianità della vita scolastica e di introdurre nel pensiero e nelle abitudini degli studenti gesti e comportamenti bellici e il tutto attraverso l’allenamento all’uso della maschera contro il gas che gli italiani non rischiavano minimamente di ricevere sulle proprie teste, mentre proprio i nostri soldati già li avevano utilizzati in Cirenaica e in modo molto più massiccio e sistematico, nonché illegale, li avrebbero impiegati in Etiopia.

Con lo scoppio della seconda guerra mondiale nel 1939 e con la successiva decisione del regime di entravi nel 1940, tutte le pratiche, le forme e i metodi – propagandistici, pedagogico-scolastici, ricreativi, ginnico-sportivi – con cui il fascismo – proseguendo e potenziando quanto già compiuto dai governi dell’epoca liberale – aveva, nel corso di un ventennio scarso, militarizzato mentalità e comportamenti dei giovani italiani furono dispiegati con il massimo impegno nel tentativo di supportare lo sforzo bellico, almeno fino al 1943, quando poi i destini all’interno del Paese si divisero – e quindi anche quelli dei giovani – a nord o a sud della Linea Gustav prima e Gotica poi, ovvero – per i ragazzi più grandi d’età – a sostegno della Repubblica sociale o dentro alla Resistenza.

La reale dimensione della guerra moderna colpiva anche i giovani, in alcuni casi sbriciolando le mitologie del fascismo e conducendoli all’impegno nella Resistenza, in altri casi irrigidendo le mitologie dell’onore e della fedeltà al duce e impegnandoli in una lotta crudele al fianco dei nazisti. Come scrive Antonio Gibelli, “per quanto riguarda la mobilitazione e la nazionalizzazione di minori, l’8 settembre del 1943 segna un punto di svolta: è la perdita dell’innocenza, il brutale richiamo alla realtà […] il tempo dei sogni di grandezza si converte definitivamente in quello della disperazione e della ferocia” […] Spesso il discrimine di atteggiamento attraversava la soglia dei 18/20 anni. Chi superava questa soglia nel 1943 aveva già avuto modo di conoscere questa guerra e di capire che non valeva la pena di continuarla, spesso erano i soggetti che andavano ad alimentare la renitenza o che facevano la scelta di rottura e si impegnavano nella Resistenza. Invece i più giovani arrivavano ancora freschi di parate e parole d’ordine della propaganda a questo arruolamento precoce e cadevano ancora frastornati nella trappola della rabbia e della fedeltà feroce al mondo incantato e fittizio che gli aveva costruito intorno la propaganda fascista (p. 117).

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*La mostra Educati alla guerra, curata da Gianluca Gabrielli è distribuita da Pro Forma Memoria, agenzia da molti anni meritoriamente attiva nell’ambito della promozione culturale e didattica, della divulgazione e della ricerca storiche in particolare.

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Lasciti coloniali: perché Calimero è tutto nero https://www.carmillaonline.com/2016/10/10/lasciti-coloniali-perche-calimero-nero/ Mon, 10 Oct 2016 21:30:00 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=33911 di Armando Lancellotti

passato-prossimo-grechi-presente-imperfetto-coverGiulia Grechi, Viviana Gravano, (a cura di), Presente imperfetto. Eredità coloniali e immaginari razziali contemporanei, Mimesis, Milano-Udine, 2016, pp. 194, € 18,00

Ormai due anni or sono, nel novembre del 2014, si è tenuta a Roma, presso la Casa della Memoria e della Storia, un’iniziativa di due giornate di incontri e di studio sul tema dell’immaginario postcoloniale italiano e delle eredità prodotte dal colonialismo del nostro paese che aveva lo stesso titolo del libro recentemente uscito a cura di Giulia Grechi e Viviana Gravano, che di quella “due giorni” raccoglie [...]]]> di Armando Lancellotti

passato-prossimo-grechi-presente-imperfetto-coverGiulia Grechi, Viviana Gravano, (a cura di), Presente imperfetto. Eredità coloniali e immaginari razziali contemporanei, Mimesis, Milano-Udine, 2016, pp. 194, € 18,00

Ormai due anni or sono, nel novembre del 2014, si è tenuta a Roma, presso la Casa della Memoria e della Storia, un’iniziativa di due giornate di incontri e di studio sul tema dell’immaginario postcoloniale italiano e delle eredità prodotte dal colonialismo del nostro paese che aveva lo stesso titolo del libro recentemente uscito a cura di Giulia Grechi e Viviana Gravano, che di quella “due giorni” raccoglie le relazioni, i lavori ed i materiali prodotti. Un volume con il quale la casa editrice Mimesis incrementa un catalogo già ricco di studi e saggi che da punti di vista differenti e con approcci molteplici affrontano il tema del colonialismo italiano; basti citare al riguardo alcuni titoli della stessa collana – Passato prossimo – a cui appartiene anche il libro che qui presentiamo: Alessandro Boaglio, Plotone chimico. Cronache abissine di una generazione scomoda, 2010; Paolo Bertella Farnetti, Adolfo Mignemi, Alessandro Triulzi (a cura di), L’impero nel cassetto. L’Italia coloniale tra album privati e archivi pubblici, 2013; Valeria Deplano, Alessandro Pes (a cura di), Quel che resta dell’impero. La cultura coloniale degli italiani, 2014.

Le riflessioni compiute e proposte in quella occasione intendevano dare un contributo al progresso degli studi post-coloniali, che nel nostro paese non hanno ancora conosciuto uno sviluppo analogo a quello prodottosi altrove e non solo e non tanto per il presunto minor peso del colonialismo italiano rispetto ad altri imperialismi o per l’inferiore durata della sua storia, ma anche e soprattutto per il fatto che dal 1945 in poi, quel paese – l’Italia, appunto – che nei precedenti decenni fascisti aveva fatto di tutto per conquistare l’Impero e per fare degli italiani un popolo razzista di dominatori-civilizzatori di razze inferiori [su Carmilla], ha rapidamente sgravato la propria memoria di un passato divenuto ingombrante, nascondendo dietro una fitta nebbia di oblio i roventi deserti della Libia o gli assolati altopiani etiopi.

Ricordare, ripercorrere e ripensare quel passato e i suoi lasciti è divenuta, pertanto, un’urgenza sempre più impellente proprio oggi, sia per colmare una lacuna o correggere un ben poco involontario errore della memoria collettiva italiana, sia – come scrivono le curatrici, tanto delle due giornate di incontri quanto del libro, G. Grechi e V. Gravano – per «mettere in relazione quel passato coloniale con l’oggi: rispetto alla relazione degli italiani con i migranti che vivono nelle nostre città, che lavorano nelle nostre campagne e nelle nostre aziende; rispetto a quelle seconde, terze o quarte generazioni, che si fa ancora inspiegabilmente fatica a definire semplicemente italiane/i; rispetto alle relazioni con gli altri paesi del Mediterraneo, nostre ex colonie, o ex colonie di altri paesi europei; rispetto alla nostra cultura di consumo e agli immaginari che circolano nei linguaggi visivi contemporanei (dalla pubblicità alle serie televisive, al cinema, ai quotidiani, ai festival culturali)» (p. 23).

Una lettura postcoloniale del colonialismo italiano può fornire un contributo alla comprensione del processo di formazione della nazione e del “carattere nazionale” italiani, dal momento che – come opportunamente ricordano le due studiose – esso è stato intrapreso ben prima del fascismo, a partire dagli anni Ottanta dell’Ottocento, e quindi ha accompagnato buona parte della storia d’Italia dall’unità al secondo conflitto mondiale, in stretta relazione con altri «eventi di portata altrettanto globale, come le migrazioni di milioni di italiani», proprio mentre i governi propagandavano la conquista di un “posto al sole” per dare lavoro alle braccia disoccupate e come «le relazioni tra nord e sud, spesso caratterizzate anch’esse da un atteggiamento profondamente coloniale, tutto interno ai confini della nazione» (p. 25).

L’originale progetto – Immaginari (post)coloniali. Memorie pubbliche e private del colonialismo italiano – presentato in occasione del Convegno si proponeva inoltre di approntare un innovativo ed inedito archivio del colonialismo italiano, al fine di andare oltre l’approccio meramente storiografico e secondo una prospettiva di tipo postcoloniale che sia in grado di scardinare e oltrepassare la logica dell’archivio istituzionale, che «è di per sé uno strumento coloniale, usato per definire “l’altro”, attraverso una vera e propria ossessione tassonomica, non a caso nata nella modernità in parallelo alla formazione delle nazioni, e dei conseguenti nazionalismi» (p. 28). Se – come sostengono le autrici – l’istituzione archivio, tradizionalmente intesa, oltre ad essere luogo di conservazione della memoria è anche uno strumento culturale di potere, «fondamentalmente di origine europea, che deve catalogare l’intero mondo per condurlo a una sola spiegazione, a una sola lettura universalista, e quindi al possibile controllo» (p. 28), allora un valido contributo al superamento di questa logica di dominio propria della forma mentis imperialistica occidentale può venire dalla realizzazione di un archivio “affettivo” (p. 25), che nasca dalla raccolta di oggetti di piccoli archivi privati, di collezioni di persone e famiglie che hanno vissuto il periodo coloniale, da catalogare poi secondo un criterio insolito, non “misurativo”, tassonomico e quantitativo, ma qualitativo, “affettivo” e “narrativo”.

Pertanto – propongono Grechi e Gravano – «immaginiamo la scheda», che accompagna gli oggetti, prima digitalizzati e poi restituiti, «non tanto come un dispositivo quantitativo di controllo, ma come un piccolo componimento, una narrazione, attraverso la quale i donatori potranno raccontare liberamente le storie che li hanno legati e li legano al loro oggetto. In questo modo l’archivio conserverà la memoria intima, e quindi affettiva, degli oggetti, innescando sentimenti empatici in chi poi andrà a leggere le storie, e facendo in modo che la “storia” del colonialismo italiano non sia più solo patrimonio delle narrazioni istituzionali ma divenga materia viva e condivisa. Ogni oggetto è portatore di una propria biografia, e allo stesso tempo rifrange la storiografia, e la biografia delle persone che hanno avuto a che fare con esso. Non si tratta perciò di costruire un museo di oggetti, ma un archivio di storie» (p. 26); storie che intrecceranno punti di vista molteplici e apriranno prospettive nuove e plurali.

Di questo fervido laboratorio di idee e progetti dà conto il libro Presente imperfetto, che nelle quattro parti che lo compongono (I. Immaginari (post)coloniali; II Verso un postcoloniale italiano; III Archivi aperti; IV Le pratiche) raccoglie gli interventi e i contributi di tanti studiosi di aree disciplinari differenti (storici, archivisti, sociologi, studiosi di cultural studies, di cinema e media, fotografi, storici dell’arte, scrittori e critici letterari), alcuni dei quali, a mo’ d’esempio, di seguito consideriamo.

brusca-e-strigliaCristina Lombardi Diop (Teoria e grammatica della razza. Il passato prossimo del razzismo coloniale), docente di italianistica e studi di genere presso la Loyola University di Chicago, prende le mosse dall’interessante considerazione secondo cui, per quanto sia corretto e doveroso denunciare i processi di generale amnesia o di complessiva rimozione del passato coloniale e razzista italiano che hanno caratterizzato la memoria collettiva del nostro paese in seguito alla perdita delle colonie, l’insistenza sull’oblio della storia «lascia inesplorata (o rischia di offuscare) la persistente presenza del razzismo nel senso comune e nella quotidianità» (p. 45). Secondo la studiosa, esiste un immaginario coloniale e razzista ben più presente e duraturo di quanto non si sia per lo più consapevoli; anzi, proprio la generale inconsapevolezza riguardo ad esso certifica l’avvenuta traduzione senza soluzione di continuità, dal recente passato coloniale al presente, di immagini, stereotipi, pregiudizi razzisti che sono a tutti gli effetti forma mentis diffusa.

Per spiegare l’origine e lo sviluppo di un immaginario razzista persistente, Lombardi Diop fa ricorso alla metafora, presa a prestito da David Theo Goldberg, della “evaporazione” della razza, che esprime il senso di una diffusione pervasiva, di un «movimento non lineare, ma piuttosto a spirale, delle tracce sedimentate del razzismo coloniale, movimento che produce la simultanea visibilità e invisibilità dei suoi elementi» (p. 46). Si tratta di un processo di sedimentazione che avviene per riattualizzazione continua di rappresentazioni razziste che provengono dal passato e che finisce per rendere consuete e familiari quelle medesime rappresentazioni; è uno scambio comunicativo continuo tra passato e presente, «un “campo discorsivo mobile” che contiene il passato e contemporaneamente produce nuove immagini adatte alla contemporaneità» (p. 46). E come vi è continuità tra l’immaginario razzista del passato e quello del presente, così non vi è separazione tra il razzismo di Stato, delle istituzioni politiche e statali e quello diffuso nella «società civile, attraverso (pre)giudizi e pratiche del vissuto individuale» (p.46).

calimeroSe, come vuole Lombardi Diop, il «razzismo scaturisce in modo esplicito dalle passioni incontrollate della gente comune e prende forma nelle pratiche quotidiane» (p. 47) e se il “razzismo quotidiano” è «quel processo attraverso il quale le idee razziste assumono significato perché tradotte in pratiche quotidiane ripetute e quindi familiari e gestibili» (p.47), allora determinante diviene l’humus sociale in cui tutto questo si produce, la cornice complessiva all’interno della quale prende forma quella che la studiosa definisce la “grammatica della razza”, «ossia quella logica sociale attraverso la quale le sfere primarie del razzismo (la sfera istituzionale, quella ideologica, e quella delle pratiche sociali) si congiungono a formare una sintassi del sentire comune» (p.47).

Per rendere conto di quanto sostenuto sul piano teorico, Lombardi Diop, applicando concetti presi a prestito da Roland Barthes, considera di seguito alcune immagini della cultura popolare e della propaganda razzista di epoca fascista per coglierne gli aspetti di continuità con una celebre immagine pubblicitaria comparsa per la prima volta agli inizi degli anni Sessanta, quella di Calimero per il detersivo per lavatrice Ava. Ciò che per Barthes vale per l’immagine pubblicitaria – l’estrema chiarezza di un significato intenzionalmente stabilito a priori e la polisemia dell’immagine, che può essere letta sia a livello denotativo sia a livello connotativo – può essere esteso anche al messaggio propagandistico. La decodifica del messaggio dipende poi tanto dalla cultura del singolo destinatario del messaggio stesso quanto dall’ideologia sociale del contesto complessivo e «la lettura di una pubblicità o di un fumetto dipende dai diversi tipi di conoscenza investiti nell’immagine attraverso la combinazione di testo/immagine/stile del disegno/azione narrativa» (p.48).

la-doccia-salutareTra le immagini più ricorrenti della propaganda coloniale che coinvolgeva anche quei bambini del Ventennio divenuti poi «genitori degli adulti di oggi nati all’inizio del boom economico» (p. 49) – cioè quando venne inventato il personaggio di Calimero – vi era quella del soldato/colonizzatore, portatore di civiltà, nel solco della civilizzatrice Roma antica e del “destino/fardello dell’uomo bianco”; immagine già presente nella retorica coloniale del periodo liberale, ma corroborata dall’insistenza del fascismo circa la specificità razziale “bianca” degli italiani e la sua essenziale distanza dalla razza “nera” africana, etiope in particolare. È del 1937 l’introduzione in Africa Orientale della legislazione razziale e segregazionista e degli anni di poco precedenti e successivi sono fumetti quali La Piccola Italiana, Piroletto e famiglia in A.O., Peperino nell’Etiopia italiana, o le serie di cartoline postali coloniali a colori, in cui l’atto civilizzatore italiano consiste di frequente nel «lavaggio “salutare”, tema presente in molte delle immagini che ci giungono dagli imperi europei, che associavano la nerezza alla sporcizia, misurando il grado di civilizzazione alla quantità di sapone a disposizione degli europei per sbiancare e curare l’igiene del corpo e della casa. Il lavaggio “salutare” connota il corpo nero come un pericolo dal quale la razza italiana deve proteggersi a causa della sua contaminazione e della degenerazione dell’ordine sociale che esso provoca. Queste immagini entrarono in circolazione pervadendo la coscienza dei “bravi italiani”» (p. 52).

Il meccanismo connotativo innescato da queste immagini è il medesimo della pubblicità del detersivo per lavatrice Ava e del suo personaggio, Calimero, il pulcino nero, apparso per la prima volta in televisione con Carosello nel 1963. Calimero viene sottoposto al lavaggio “salutare” con il detersivo Ava dalla bianca e bionda “olandesina” che gli rivela che lui non è nero, ma solo sporco e così, nuovamente riportato alla sua natura bianca può ricongiungersi alla madre che lo aveva rifiutato, «apostrofandolo con la frase rimasta famosa: “Vattene via, piccolo sgorbio nero”. […] Nella sequenza narrativa di Calimero, il contrasto sporco/pulito denota l’azione del bianco (il detersivo) che trionfa sul nero (lo sporco), mentre connota simultaneamente e ripropone gli elementi dominanti dell’immaginario igienico-razziale del fascismo. […] In conclusione, il passaggio generazionale tra i protagonisti del colonialismo e coloro che furono esposti alla sua propaganda da una parte, e i figli del miracolo economico dall’altra, fa sì che il bagaglio razziale del colonialismo possa essere rimesso in circolazione rendendo invisibili gli elementi razzializzanti del suo messaggio» (p. 53).

Nel suo intervento, dal titolo Appunti su scuola italiana, colonialismo e razzismo, Gianluca Gabrielli, dottore di ricerca in History of education all’Università di Macerata e autore di numerosi lavori sul razzismo italiano e sulla storia della scuola italiana, va alla ricerca di “costanti” nell’atteggiamento della scuola, dagli anni precedenti l’unità politica del paese fino ad oggi, nei confronti delle popolazioni non europee e dei popoli colonizzati da europei ed italiani in particolare.

ilpontedoro_1966Una prima costante la individua nello stereotipo, già precedentemente considerato, della missione civilizzatrice e lo fa partendo da un testo della scuola elementare, un sussidiario, non di epoca coloniale, che porta la firma del “maestro Manzi” e che uscì in prima edizione nel 1966 con il titolo Il ponte d’oro. L’immagine di copertina – osserva Gabrielli – meritoriamente «rompeva gli stereotipi della subordinazione africana, e anche quelli della semplice fratellanza di matrice cristiana, ciononostante il suo senso rimaneva interno a un’interpretazione del mondo in cui la “civiltà” matura nella società bianca e occidentale, e che solo un gesto di generosità del bianco può permettere che si trasmetta alla società nera (originariamente considerata priva di civiltà)» (p. 66): è infatti il ragazzo bianco che, in una sorta di corsa a staffetta, generosamente passa la pergamena, simbolo metonimico di cultura e conoscenza, al ragazzo nero, che altrimenti ne rimarrebbe privo.

Una seconda costante è quella della categorizzazione tassonomica e gerarchica delle razze, in base ai tratti somatici, al colore della pelle e secondo la tipica logica deterministica del razzismo biologico positivistico che connette tratti morali, comportamentali, cognitivi, culturali, spirituali ed altri ancora all’identità razziale. Gabrielli ritrova questa pedagogia razzista già nel Giannetto, «il libro di letture e cultura generale per la scuola primaria di Luigi Alessandro Parravicini che rappresentò un best seller tra gli insegnanti con un centinaio di ristampe tra il 1834 e il 1900» (p. 67). Il determinismo estetico-razzista, che fa corrispondere la presunta bellezza bianca alla sua superiorità in termini di intelligenza, laboriosità, moralità e civiltà, si fa via via sempre più frequente nei testi scolastici sia a fine Ottocento, in un clima culturale egemonicamente positivistico-evoluzionistico e nel momento delle prime conquiste coloniali italiane nel Corno d’Africa, sia durante il fascismo, soprattutto a partire dagli anni della conquista dell’Etiopia e della conseguente introduzione in A.O. della legislazione razziale.

In questo periodo fu introdotto un libro destinato ai ragazzi dai 10 ai 14 anni, Il secondo libro del fascista, che «insegnava la superiorità “razziale” degli italiani e l’inferiorità delle popolazioni africane e degli ebrei; la “teoria della razza” era espressa in termini biologici senza alcuna ambiguità» (p. 69). Il crollo del fascismo – osserva Gabrielli – non scalfì però più di tanto il paradigma razziale, ormai presente nella società italiana e nella fattispecie nella scuola da quasi un secolo e pertanto tenacemente radicato e molto diffuso, se è vero che manuali scolastici e testi di geografia in particolare riproponevano lo stereotipo eurocentrico e razzista del primato dei popoli di razza bianca ed europei. Alla permanenza e alla resistenza, esplicite o sotto traccia, del paradigma razziale si aggiunse poi il silenzio, via via crescente fino a diventare oblio, riguardo al passato coloniale italiano, con la fine della guerra e la perdita anche della amministrazione fiduciaria della Somalia (1960); oblio che riguardò l’intera società italiana e pertanto anche la scuola. Quanto mai significativo l’esempio proposto da Gabrielli di «un volume per le verifiche pubblicato nel 1965; qui la mappa delle colonie italiane su cui i ragazzi dovevano tracciare i nomi dei possedimenti nazionali semplicemente non comprende l’Etiopia (la maniera più efficace di non fare i conti con il fascismo era fare finta che non fosse mai esistito)» (p. 71).

È a partire dagli anni Settanta e in seguito alla riforma e al rinnovamento della scuola che di colonialismo e razzismo si comincia a parlare nelle aule italiane, ma le omertà e i silenzi del passato continuarono a fare sentire il loro peso al punto che – dice Gabrielli – si può parlare di una “decolonizzazione per interposto colonialismo”, in quanto gli italiani cominciarono a fare i conti con il colonialismo ed il razzismo altrui, appoggiando e condividendo le lotte degli afroamericani negli Usa o dei sudafricani contro il regime segregazionista, ma continuando sostanzialmente ad ignorare il colonialismo, il razzismo, le stragi e i crimini compiuti dagli italiani, nonostante i grandi passi avanti compiuti nel frattempo dagli storici, in particolare da Angelo Del Boca e Giorgio Rochat, che poi produssero effetti anche nell’editoria scolastica. Da ricordare a tal proposito il primo volume della collana di Loescher Editore, diretta da Massimo L.Salvadori, Documenti della storia: G.Rochat, Il colonialismo italiano, 1972.

Con gli anni Novanta e l’inizio dei fenomeni migratori di massa, che hanno condotto in Italia uomini e donne provenienti per lo più da ex colonie (italiane o di altri paesi europei poco importa), si apre un nuovo capitolo della storia dei rapporti tra gli italiani, il passato coloniale e il razzismo; un capitolo che potrebbe portare «a rivedere il punto di vista eurocentrico con cui guardare alla storia e a valorizzare lo sguardo dei conquistati» e che potrebbe inaugurare una nuova prospettiva veramente post-coloniale. Ma le cose per ora paiono andare esattamente in direzione opposta, cioè quella di un riemergente razzismo italiano e della costruzione di una «immagine del migrante, in parte tributaria delle diverse immagini dell’indigeno prodotte e modificate a partire dall’Ottocento e in parte catalizzatrice delle nuove paure che fermentano nella società» (p. 73).

difendilaDella elaborazione di un’immagine negativa del migrante che eredita e ripropone stereotipi razzisti del passato coloniale parla anche Francesca Locatelli – studiosa di storia dell’Africa e del colonialismo italiano e collaboratrice del AMM-Archivio Memorie Migranti – nel suo intervento (Da “sudditi coloniali” a “extracomunitari”: il razzismo italiano ieri e oggi), con l’esame del quale concludiamo le riflessioni su questo interessante libro.
Secondo Locatelli l’atteggiamento europeo nei confronti dei migranti risente in maniera determinate del passato coloniale del vecchio continente e gli esempi sono facilmente reperibili, come «l’ossessione della Francia per l’abolizione del velo come segno di integrazione nella società nazionale non fa altro che rievocare l’ideologia coloniale dell’assimilation, che misurava il grado di civiltà dei popoli colonizzati in base all’accettazione, all’adeguamento e alla conformità con la cultura francese, intesa come cultura superiore» (p. 127).

Anche l’Italia non è di certo esente da questo fenomeno di ritorno del passato coloniale, della sua ideologia e delle sue pratiche che confluiscono sia nelle politiche istituzionali sia negli atteggiamenti diffusi nei confronti di migranti. Al fine di meglio comprendere queste dinamiche, la studiosa suggerisce di indagare, con maggiore attenzione di quella riservatagli fino ad oggi, il fenomeno del colonialismo demografico fascista, cioè del trasferimento in colonia di centinaia di migliaia di italiani, soprattutto negli anni Trenta, a seguito della riproposizione da parte del regime del progetto (anacronistico in quel momento storico) della colonizzazione di popolamento. «Gli italiani presenti in colonia, come quelli che rimangono in Italia, sono cresciuti con la cultura della superiorità della razza che emerge nei loro comportamenti quotidiani […]. Lo dimostrano le numerosissime storie raccontate dalle sentenze penali riguardanti i coloni presenti in Eritrea, conservate nell’archivio della Corte Suprema di Asmara. […] Storie di stupri di donne e bambine, di arroganza e violenza razzista e di maltrattamenti quotidiani» (p. 128).

Quali esperienze fecero e quali convinzioni e pratiche o atteggiamenti razzisti riportarono indietro, mettendoli in circolo nel paese, quei circa 500.000 italiani che a metà degli anni Trenta si trasferirono nei territori d’oltremare? E di tutto questo quanto è rintracciabile nelle decisioni politiche e nei comportamenti quotidiani odierni verso stranieri e migranti presenti in Italia?
«Come studiosi» – conclude Locatelli – «dovremmo quindi interrogarci di più sulle dinamiche che il colonialismo demografico aveva innescato nelle colonie. E in particolare, sui rapporti inter-personali e sociali nei territori d’oltremare e sul ruolo che gli ex coloni hanno avuto nella circolazione di idee, miti, esperienze in Italia nel periodo postcoloniale attraverso le loro associazioni» (p. 131).

Infine, alcuni riferimenti a fatti e vicende recenti – anche molto noti – non possono che confermare le analisi e le preoccupazioni riguardo alla crescita incontrollata di un immaginario razzista che, strisciante fino a qualche anno fa, cammina ormai attraverso il paese ben ritto sulle proprie gambe, non preoccupandosi neppure più di fingersi altro da ciò che è. C’è solo l’imbarazzo della scelta di episodi – all’interno di una cornice sociale fatta di considerazioni e pensieri diffusi, di parole violente e volgari, di atteggiamenti discriminanti – che esplicitano in maniera smaccatamente disarmante quanto l’immaginario collettivo italiano sia pieno zeppo di stereotipi e pregiudizi razzisti di cui non sono esenti neppure le istituzioni pubbliche.

fertility-day-598Si commentano da soli sia il becero vaniloquio di Carlo Tavecchio, presidente della Federazione Italiana Gioco Calcio, che è riuscito più volte nella non facile impresa di offendere tutti (donne, omosessuali, stranieri, neri…), inanellando volgarità figlie dei tempi di “Faccetta nera”, sia il manifesto propagandistico per il Fertility Day del ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, in cui visi fin troppo bianchi, biondi e sorridenti (insomma, molto ariano-caucasici, ma – paradossalmente – quasi più da attori di Baywatch che da italiani) sono associati alla “fertilità” e alla “salute” della “stirpe”, mentre visi di neri e di rasta accanto a bianchi, ma amalgamati in una immagine “seppiata” quanto mai demodé, sono associati al concetto del comportamento insano, asociale, sterile, cioè eugeneticamente pericoloso, non diversamente dai manifesti della propaganda della RSI che mettevano in guardia le “indifese vergini italiane” dal contatto con i “bruti e naturalmente libidinosi” soldati neri statunitensi sbarcati in Italia.

carlo-tavecchio-887E non servono come alibi o attenuanti né l’inconsapevolezza culturale di un Tavecchio, da un lato, né l’involontaria e frettolosa imperizia di un’inesperta responsabile della comunicazione del Ministero della Salute (anche a voler credere alla abborracciata versione ufficiale del Ministero stesso), perché altro non fanno che confermare quanto siano incontrollatamente diffusi stereotipi e pregiudizi razzisti che molto facilmente riaffiorano dal carsico terreno dell’immaginario collettivo italiano.

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