Gianfranco Marelli – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 «Desideravo la bellezza e l’ho avuta: ho avuto te» https://www.carmillaonline.com/2023/08/20/desideravo-la-bellezza-e-lho-avuta-ho-avuto-te/ Sun, 20 Aug 2023 20:00:40 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78391 di Gianfranco Marelli

Ada d’Adamo, Come D’aria, Eliot, 2023, 15 euro

Il premio Strega assegnato quest’anno alla scrittrice Ada d’Adamo per l’opera Come D’aria è un pugno allo stomaco, una denuncia e una chiamata alle armi. Niente a che vedere con il romanzo introspettivo, autobiografico, sentimentale, commovente, sebbene descriva minuziosamente la vita di una madre – ballerina e insegnante di danza – che, dopo la nascita della figlia Daria, si trova a fare i conti con la sua disabilità grave e con tutti i problemi annessi e connessi.

La tua disabilità, da questo punto di vista, mi appariva come un’autentica [...]]]> di Gianfranco Marelli

Ada d’Adamo, Come D’aria, Eliot, 2023, 15 euro

Il premio Strega assegnato quest’anno alla scrittrice Ada d’Adamo per l’opera Come D’aria è un pugno allo stomaco, una denuncia e una chiamata alle armi. Niente a che vedere con il romanzo introspettivo, autobiografico, sentimentale, commovente, sebbene descriva minuziosamente la vita di una madre – ballerina e insegnante di danza – che, dopo la nascita della figlia Daria, si trova a fare i conti con la sua disabilità grave e con tutti i problemi annessi e connessi.

La tua disabilità, da questo punto di vista, mi appariva come un’autentica beffa. Proprio io, abituata a tenere sotto controllo la posizione di un mignolo, mi ritrovavo alle prese con un corpo completamente fuori controllo, con scatti epilettici, una schiena e una testa incapaci di stare dritte. Tetraparesi spastico-distonica, clonie, alternanza di ipertono e ipotono, nistagmo, scialorrea… altro che mignolo! Fin dal principio il tuo corpo insorto si è imposto con una forza che contravveniva a qualsiasi regola. Con orrore ricordo le parole profetiche della caposala della Terapia Intensiva Neonatale, che al momento delle dimissioni dall’ospedale mi suggerì di ricorrere al Valium per calmarti – scoprii poi dalla cartella clinica che nei tuoi primi dieci giorni di vita lei e le sue colleghe ne avevano fatto largo uso – e di mostrarmi severa perché tu mi avresti fatto passare i guai. Disse proprio così: “Questa le farà passare i guai”.

Guai? Come incitamento niente male. Poteva dire «Ora, sono cazzi tuoi», avrebbe suonato meglio. Sennonché, invece di rassegnarsi accettando il destino cinico e crudele, la mamma di Daria non si è data vinta, ha combattuto come solo le madri sanno fare. Non per coraggio, sopportazione, accettazione; semplicemente per amore. L’amore che nell’altro riconosce la bellezza.

Desideravo la bellezza, l’ho detto. E tu, a dispetto degli occhi molto ravvicinati e delle sopracciglia unite, nonostante lo strabismo e la microcefalia, sei sempre stata una bella bambina. Si può dire che la bellezza sia stata insieme la tua condanna e la tua salvezza. Forse se avessi avuto qualcuna delle orrende malformazioni del volto assai comuni nell’oloprosencefalia, l’ecografia morfologica l’avrebbe rilevata e tu non saresti mai nata. Insomma, si potrebbe quasi dire che sei venuta al mondo in virtù della tua bellezza: esisti perché sei bella. Una volta nata, poi, il tuo aspetto grazioso ti ha tenuto al riparo da quella sgradevolezza che molto spesso si associa alle persone disabili, suscitando in chi le guarda un senso di disagio, quando non di autentico fastidio. È dura da ammettere, ma seguendoti nella tua giovane vita, ho capito che esiste una disabilità “bella” e una disabilità “brutta” e che anche in questo “mondo a parte” le persone – dagli sconosciuti, ai terapisti, ai medici – subiscono il fascino del bello, proprio come avviene nel “mondo normale”.

Saper cogliere il molto dal poco, sicuramente un buon inizio, però non basta. Ecco la chiave di lettura di questo romanzo forte, crudo, a-sentimentale, perché non muove compassione, bensì rabbia.

La rabbia del “perché proprio io?” non fa sconti, tanto meno cede alla rassegnazione: lotta. Perché la lotta insegna a individuare l’origine che ha determinato la separazione fra i belli e i brutti, i ricchi e i poveri, i forti e i deboli

Siamo convinti di essere creature che godono del diritto insindacabile a una salute perfetta, a un corpo/mente dotato di organi e funzioni in grado di svolgere prestazioni al massimo livello. La nostra è una società che ha semplicemente rimosso il concetto di malattia, in cui i malati sono sempre “gli altri”: i pazienti oncologici, i disabili, i diversi… Per questo, come scriveva Chiara agli albori della pandemia, una delle prime strategie di sopravvivenza innescate contro il virus da parte dei sani è stata la presa di distanza di costoro dai cosiddetti soggetti a rischio: “muoiono solo i vecchi”, “è in pericolo chi ha patologie pregresse o croniche”, “bisogna prestare le cure a chi ha aspettative di vita più a lungo termine”. Insomma, un ennesimo bisogno di contrapporre l’identità dei forti contro i deboli.

Più chiaro di così… Si, perché la disabilità non è una accidentalità, una sfortuna che capita, un amore che logora; purtroppo è anche questo, con tutto il corollario connesso alla capacità dei singoli di saper reagire, impegnandosi per non sentirsi soli ad affrontare quello che per l’ambiente medico scientifico è un “caso”. Un caso, non una persona e il mondo che la circonda. Allora perché non prevederlo, dando la possibilità ai genitori di scegliere anticipatamente della loro e dell’altrui vita? Una decisione non facile e certamente sofferta ma che Ada d’Adamo, con la forza di una madre a sua volta colpita da una fragilità – un tumore al seno divenuto metastatico – che, nel rendere difficile il rapporto con la figlia, allo stesso tempo l’ha avvicinata al suo fragile mondo, fino a chiedersi: se mi avessero correttamente informata durante la gravidanza… L’avrei portata a termine?

Così, nel raccontare l’amore infinito per Daria, nel descrivere il bene che Daria trasmette incondizionatamente, traspare l’atteggiamento superficiale e complice di un servizio medico sanitario pubblico posto nelle condizioni di non funzionare, a seguito dei numerosi tagli compiuti dai governi negli ultimi decenni.

Certo, ci sono pagine in cui lo stato di completo abbandono di chi affronta un problema così complesso colpisce emotivamente, soprattutto quando l’autrice citando John Donne – «La malattia è la miseria massima, la massima miseria della malattia è la solitudine» – denuncia l’ipocrisia di questa società e della sua cultura nel prendersi cura degli altri; altri che, fin quando sono belli, forti intelligenti l’accoglienza non è negata. Ma provate voi a non rispettare questi canoni e vi accorgerete di cosa vuol dire essere diverso in un sistema economico di profitto dove la diversità, se non è fonte di lucro speculativo, è nascosta fra le pieghe di una carità pelosa.

Per concludere, Come D’aria è un libro che non fa sconti perché racconta la vita, la sua fragilità, ma soprattutto l’amara vittoria di chi combatte fino alla fine contro le ipocrisie di un sistema che relega nel dimenticatoio chi a parole vorrebbe includere. Insomma un libro di vita e di lotta come pochi.

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Tutto è permesso, tranne perdersi https://www.carmillaonline.com/2023/03/17/tutto-e-permesso-tranne-perdersi/ Fri, 17 Mar 2023 21:00:04 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76332 di Gianfranco Marelli

Marco Rovelli, Soffro dunque siamo. Il disagio psichiatrico nella società degli individui, Castelvecchi 2023, pp. 261.

Parto dalla fine. Dopo aver letto l’ultimo libro di Marco Rovelli, un viaggio-inchiesta che l’autore, musicista-filosofo, ha compiuto in questi tre anni di pandemia, trascrivendo il disagio, l’ansia, la paura delle persone e di coloro che – dagli infermieri ai medici, dagli psicologi agli psicoanalisti e finanche agli psichiatri – hanno provato a comprendere il perché di tali sofferenze, mi è tornato in mente lo spettacolo che Giorgio Gaber tenne al lirico di Milano nel 1974 e al quale, come tanti, [...]]]> di Gianfranco Marelli

Marco Rovelli, Soffro dunque siamo. Il disagio psichiatrico nella società degli individui, Castelvecchi 2023, pp. 261.

Parto dalla fine. Dopo aver letto l’ultimo libro di Marco Rovelli, un viaggio-inchiesta che l’autore, musicista-filosofo, ha compiuto in questi tre anni di pandemia, trascrivendo il disagio, l’ansia, la paura delle persone e di coloro che – dagli infermieri ai medici, dagli psicologi agli psicoanalisti e finanche agli psichiatri – hanno provato a comprendere il perché di tali sofferenze, mi è tornato in mente lo spettacolo che Giorgio Gaber tenne al lirico di Milano nel 1974 e al quale, come tanti, ebbi la fortuna di assistere.

In particolare la canzone che chiudeva lo spettacolo scritto con Sandro Luperini, “C’è solo la strada”, rispecchiava quel determinato momento, quando la speranza di poter cambiare la realtà, uscendo dall’isolamento delle proprie confortevoli case, si coniugava con il desiderio nell’essere protagonisti di un’onda collettiva capace di innaffiare la vita quotidiana con gocce di speranza creativa. Ricordate?

C’è solo la strada su cui puoi contare
La strada è l’unica salvezza
C’è solo la voglia e il bisogno di uscire
Di esporsi nella strada, nella piazza.
Perché il giudizio universale
Non passa per le case
In casa non si sentono le trombe
In casa ti allontani dalla vita
Dalla lotta, dal dolore, dalle bombe (qui)

Da allora qualcosa è cambiato. Cosa, quando, ma soprattutto perché? Immediatamente ho ripreso la lettura del libro fin dal primo capitolo, individuo vs condindividuo, in cui l’autore descrive il tempo della pandemia come una pandemia del tempo, percepito improvvisamente come un tempo sospeso fra l’eccesso di averne troppo e la penuria di non averne abbastanza, al punto che la realtà stessa, finora considerata “normale”, è stata posta in questione.

Ma quando si pone in questione qualcosa, occorre avere le risorse per dare delle risposte. E se queste risorse non si hanno, si sta male. E il malessere, il disagio, la sofferenza psichica in questo tempo sospeso sono cresciuti enormemente. Ma questa esplosione del disagio – sintomi depressivi o ansiosi generalizzati – non è un’irruzione improvvisa, una comparsa di alieni dallo spazio. Essa è da intendersi proprio alla luce della nostra mancanza di risorse per far fronte a una crisi già in atto. Il tempo della pandemia è un’accelerazione di processi di lunga durata. Che riguardano il nostro modo di abitare il mondo.[p.10]

Molti e infiniti sono gli spunti che conducono a leggere un libro, e questo si presta ai più svariati: da guida accompagnatrice nel mondo misterioso e affascinante della mente umana, a prontuario medico farmacologico più usato, e non poche volte abusato, in questi lunghi anni di pandemia; da stimolante lettura dell’intreccio fra filosofia e psicanalisi – coinvolgente i principali personaggi della cultura occidentale dai tempi di Spinoza sino ai tempi di Lacan, Deleuze, Foucault –, all’impressionante aumento della violenza su se stessi [anoressia, autolesionismo] e sull’Altro [bullismo, revenge porn] da parte dei giovani, soprattutto delle giovani, al punto da non riuscire a sostenere lo sguardo degli altri e rifugiarsi nella propria cameretta, perché lo sguardo degli altri è come il basilisco: ti incenerisce, in quanto può svergognarti in ogni momento.

Diverse, infatti, sono le piste seguite dall’autore in questo viaggio-inchiesta che è facile rimanere imbottigliati nel traffico di informazioni, tutte preziose, registrate dalle voci dei diretti protagonisti di questo tempo improvvisamente vuoto che ha posto il problema di come riempirlo per non sentirsi vuoti. Fra queste abbiamo prediletto la pista che Rovelli ha seguito per evidenziare lo iato che separa non solo il prima e il dopo della pandemia, ma il prima dell’affermazione ideologica racchiusa nella celebre frase di Margaret Thatcher – «Non esiste nulla che possa definirsi società. Esistono gli individui, i singoli uomini e le singole donne, ed esistono le famiglie» – e il prossimo futuro, segnato sempre più da emergenze indotte e pilotate da interessi economici nei vari settori produttivi [dall’industria agro-alimentare all’industria militare, dall’industria estrattiva di minerali e risorse energetiche, alle ripercussioni negative sull’assistenza sanitaria, l’istruzione, i servizi sociali di tutti i popoli del mondo] nel loro insieme votati ad avere un impatto sulla natura e su chi vi abita dagli esiti nefasti.

Eppure “vivere senza tempo morto, gioire senza ostacoli” – una fra le tante gocce di speranza creativa dello tsunami sessantottino – invocava la libertà di essere i protagonisti della propria vita combattendo i pregiudizi culturali, i sensi di colpa religiosi, i rimorsi per non aver fatto il proprio dovere imposto da una società patriarcale, maschilista, ma soprattutto finalizzata al dominio della merce attraverso il consumismo e il suo illimitato sviluppo, sbandierato come progresso della modernità. Altri tempi.

Adesso senza tempo morto si è obbligati a vivere, come obbligati si deve gioire per qualsiasi genere di merce sentiamo il desiderio di comprare, senza più ostacoli ai nostri bisogni indotti da una società permissiva. Permissiva in che cosa? Certo, se tu vuoi tutto è possibile, ma devi saperlo realizzare autonomamente poiché tu sei il responsabile, il creatore e l’imprenditore di te stesso. Dopotutto, scrive Rovelli, «Il punto è chiaro: la nostra società non si regge più sulla contrapposizione tra permesso/vietato, ma tra possibile/impossibile. Tutto è possibile: Just do it. E se ti è impossibile, se non ce la fai, la responsabilità è solo tua» [p.32]; insomma, non è più il senso di colpa legata alla legge che vieta, ma di vergogna legata al fallimento per non esser stato capace di diventare imprenditore di te stesso. Perché volere è potere, e se non possiedi il potere dentro di te per divenire ciò che gli altri si aspettano da te – e tu non vuoi deluderli, vero? – cosa ti resta se non la vergogna del tuo fallimento?

Cosicché, il “tu puoi” diventa il “tu devi” – l’imperativo categorico della società dello spettacolo – immediatamente tramutato in “tu non puoi”, perché non ti impegni abbastanza, non segui i tempi, non ti sai promuovere e tanto meno vendere. Allora corri [letteralmente] ai ripari: ti inventi l’immagine più accattivante in grado di catturare l’attenzione su di te, trascinando la tua esistenza sotto un continuo stress, un’ansia egocentrica, accompagnata dall’esaltazione per i piccoli successi ottenuti eliminando i tuoi diretti avversari più deboli, inesperti, bamboccioni. Risultato: ti ammali perché la società è ammalata di bipolarità.

Sì, la bipolarità tra mania e depressione è quella che meglio si presta a descrivere un modello sociale che si muove tra imperativo continuo della prestazione, della necessità imprescrittibile e inderogabile del conseguimento di un oggetto, di un obiettivo (che in questo contesto identifichiamo, in base all’etimologia stessa di ob-jectum, con ciò che ci sta davanti, e su cui proiettiamo il desiderio), e la conseguente tonalità depressiva quando non si raggiunge l’oggetto (e l’oggetto, propriamente, non lo si raggiunge mai), quando si è costretti a mollare la presa, quando per un evento qualsiasi affiora il vuoto – poiché l’iperattività è una forma di difesa dal vuoto che ci abita, un moto perpetuo di difesa contro la depressione.[pp. 41-42]

Ecco, viaggiando a capofitto in questo “vuoto che ci abita”, Marco Rovelli ci conduce passo dopo passo ad esplorare e a interrogarci sulle cause patologiche del disagio, non più soltanto genetiche e strettamente organicistiche, risolvibili con una pastiglia, un TSO, un ricovero di sollievo; perché il vuoto dentro di noi rispecchia il vuoto fuori di noi causato dalle illusioni generate dall’iperedonismo neoliberale per un godimento senza limiti smentito dalla realtà, soprattutto da quando l’epidemia ha dissipato e fatto implodere la retorica sociale del merito e delle infinite possibilità che ciascuno di noi ha nel mettersi in gioco al fine di primeggiare sugli altri concorrenti. Infatti, questa è «l’epoca del godimento come nuovo imperativo sociale, un godimento in cui non ha più parte il desiderio come desiderio dell’altro, ma che si pone come un’affermazione narcisistica dell’io ideale, che ha reciso ogni legame con l’altro» [p.145]; di modo che:

la pulsione securitaria che appare oggi esorbitante, ed è sotto gli occhi di tutti nell’età di sovranismi, identitarismi e razzismi, è inscritta immediatamente nel pensiero di una società che esiste solo successivamente agli individui. Questo dato di fatto balza agli occhi in maniera più evidente ora che il desiderio di sicurezza, e la tendenza a costruire l’altro come nemico, si fa più pressante e presente perché la propria condizione di godimento viene percepita come a rischio.[p. 149]

Come uscirne, se non insieme? Ma cosa vuol dire “insieme” nella società degli individui? Comprendere innanzitutto che il non sentirsi a proprio agio – una sorta di spaesamento in casa [oikos] e nel mondo [phisis] – è una condizione condivisa e generalizzata in grado di mostrare l’unica possibilità che la società dello spettacolo vieta: perdersi! Perdersi come i bambini quando giocano; come gli innamorati quando si amano; come chi immagina la realtà per trasformarla e liberarla dalla sua addomesticata follia. Quando, se non ora?

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Sei personaggi più l’autore https://www.carmillaonline.com/2021/09/06/sei-personaggi-piu-lautore/ Mon, 06 Sep 2021 21:00:25 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=67922 di Gianfranco Marelli

Francesco Staffa, Akuaba, D Editore, Roma 2020, pp. 237, euro 15,90

Anche se, pirandellianamente, in un romanzo sono i suoi personaggi a cercare l’autore, Francesco Staffa – di professione antropologo, collaboratore con diversi musei etnografici, consulente per la trasmissione Rai “Geo e Geo”, nonché per diverse riviste, tra cui Nazione Indiana e Antropologia Museale – ha ricercato nei sei personaggi del suo primo romanzo di formazione, “Akuaba”, di individuare nel turbinio di sentimenti, emozioni, passioni che caratterizzano le loro vicende narrate, la poliedricità schizofrenica della cultura occidentale ogni [...]]]> di Gianfranco Marelli

Francesco Staffa, Akuaba, D Editore, Roma 2020, pp. 237, euro 15,90

Anche se, pirandellianamente, in un romanzo sono i suoi personaggi a cercare l’autore, Francesco Staffa – di professione antropologo, collaboratore con diversi musei etnografici, consulente per la trasmissione Rai “Geo e Geo”, nonché per diverse riviste, tra cui Nazione Indiana e Antropologia Museale – ha ricercato nei sei personaggi del suo primo romanzo di formazione, “Akuaba”, di individuare nel turbinio di sentimenti, emozioni, passioni che caratterizzano le loro vicende narrate, la poliedricità schizofrenica della cultura occidentale ogni qual volta si trova a dover fare i conti con l’Altro da sé, sospesa tra un buonismo pietoso e un razzismo pauroso.

Infatti, più che di “romanzo di formazione”– etichetta utilizzata dalla critica per esortare i debuttanti a migliorare il proprio stile con una successiva prova di maturità – siamo in presenza di un “romanzo di introspezione” in cui l’autore con abilità inusuale descrive e analizza il conflitto fra desiderio e senso di colpa, fra avidità e seduzione, fra speranza e delusione che i sei personaggi [due coppie occidentali e una coppia africana] affrontano in una situazione catastrofica, causata dalla crisi petrolifera che nei primi anni ‘80 del secolo scorso aveva trasformato la Nigeria dal paese di bengodi ad un luogo in cui rimanere o fuggire è altrettanto pericoloso, ma soprattutto foriero di conseguenze nefaste.

Sì, perché la storia raccontata da Francesco Staffa ha come luogo la Nigeria, il paese più popolato del golfo di Guinea, quando nel 1983 il boom petrolifero si interrompe bruscamente, e con la perdita degli introiti altissimi ottenuti dall’estrazione del greggio – grazie ai quali aveva tratto il supporto per avviare uno sviluppo complessivo attraverso i massicci investimenti, il ricorso all’uso della tecnologia straniera e la manodopera a buon mercato proveniente da paesi limitrofi come il Ghana – si scatena la caccia al capro espiatorio, individuando i colpevoli non certo nei responsabili della corruzione economico-politica della classe al potere collusa con le multinazionali straniere (in primis l’italianissima ENI), ma negli ultimi, gli immigrati, costretti repentinamente a lasciare il paese affetto da una forte crisi occupazionale in tutti i settori.

In questo contesto si intrecciano la storia di sei personaggi che, separatamente, vivono le conseguenze di questo dramma economico-sociale che condurrà oltre due milioni di lavoratori clandestini – in gran parte provenienti dal Ghana – ad abbandonare in fretta e furia la Nigeria in un crescendo di sofferenza, umiliazione, sopraffazione. Sennonché le loro sorti collidono contro situazioni disperate le cui singole scelte personali influenzeranno drammaticamente i loro destini. Così, dal paese africano prende il via una vicenda in cui migrazioni, neocolonialismo, corruzione e manipolazione si intrecciano a un groviglio di passioni, desideri, ambizioni inseguite a qualsiasi costo, e dove il privilegio di essere bianchi e occidentali si traduce nella possibilità di disporre dell’altrui vita e di giustificarne moralmente la propria condotta nei confronti di chi è costretto a subirla, senza alcuna ragione, se non quella di avere la pelle di un altro colore.

Ma la storia che l’autore fa interpretare ai sei personaggi, va ben oltre la consueta disamina di chi osserva quanto la vita abbia un “peso diverso” a seconda di dove nasci, di chi frequenti e del ruolo che hai potuto assumere nella società. Certo, Amna e Adebisi – la giovane coppia ghanese costretta a far fronte ad un cambiamento radicale della propria vita a seguito della crisi economico politica che li ha espulsi dalla Nigeria in quanto non più utili allo sviluppo del paese – affrontano il proprio dramma esistenziale confidando nella clemenza dell’altro, non potendo che sottomettersi alle sue disposizioni, nella speranza di essere compresi e pertanto aiutati; ma l’aiuto e la comprensione che ricevono dalle due coppie italiane [Franco/Fabienne e Guido/Ada], sebbene motivate e scaturite da posizioni diverse e apparentemente contrastanti, sono la conseguenza di egoistici interessi che il privilegio di essere bianchi e occidentali non solo giustifica ma legittima storicamente.

Del resto, quali interessi in comune potranno mai condividere i sei personaggi del romanzo “Akuaba” se non la capacità del loro autore di far loro vivere passioni contrastanti di fronte a problemi contingenti, in modo da intrecciare fra loro relazioni che li condurranno a compiere scelte il cui esito influirà sul prosieguo della loro vita, nel disperato bisogno di imporsi, anche a discapito dell’altro da sé?

Così, in un susseguirsi di colpi di scena in cui il romanzo si colora di giallo, Francesco Staffa dipinge un affresco che offre allo sguardo dei lettori e delle lettrici la possibilità di misurarsi con la capacità di comprendere fino a che punto si è disposti a immedesimarsi nei sei personaggi, ma soprattutto nelle sei diverse situazioni in cui essi si trovano, costretti a accettare qualsiasi compromesso pur di sopravvivere e sperare nel domani (Amna e Adebisi), mantenere con ogni mezzo i propri privilegi e la ricchezza conquistata (Franco e Fabienne), soddisfare prioritariamente i loro più ancestrali desideri a scapito della felicità altrui (Guido e Ada).

A tenere insieme queste tre vicende così diverse e distanti, è un ciondolo, un amuleto, diffuso nell’Africa occidentale fra le popolazioni Ashanti, che le donne indossavano come protezione e per favorire la gravidanza e per assicurare salute e bellezza al nascituro. Questo oggetto rituale capace di infondere forza e sostegno si chiama Akuaba, ed è la chiave interpretativa che l’autore gira magistralmente nella toppa del racconto, in un continuo rimando di prolessi/anticipazione e analessi/retrospezione, per mettere in scena – tra Roma e Lagos, tra il litorale laziale e la misteriosa foresta di Osogbo – sei personaggi alla ricerca della propria felicità. Felicità gravida di una figlia, Sonia, che sebbene appaia soltanto alla fine del romanzo ne costituisce l’inizio, in quanto la sua nascita costituirà il legame indissolubile fra i suoi genitori africani (Amna e Adebisi), la coppia venuta dall’Italia per adottarla (Guido e Ada), e un traffico clandestino di statue antiche trafugate durante uno scavo archeologico da Franco, che gli permetterà di conservare la propria permanenza di grand commis in Nigeria, proprio quando la situazione politico-economica è traballante e il “si salvi chi può” si traduce in “morte tua vita mia”.

Sennonché la vita di Sonia scardinerà la felicità condivisa dei sei personaggi e del loro autore, al punto che il precario legame fra le tre coppie, sempre più incasinato, necessariamente obbligherà quest’ultimo ad intingere nuovamente la penna nel calamaio.

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La comodità di un’antologia “scomoda” https://www.carmillaonline.com/2021/05/26/la-comodita-di-unantologia-scomoda/ Wed, 26 May 2021 21:00:22 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=66392 di Gianfranco Marelli

Gian Piero de Bellis (a cura di), Libertaria. Una antologia scomoda. Vol. I, D editore, Roma 2021, pp. 584, euro 23,90

Per la collana “Eschaton” diretta da Raffaele Alberto Ventura, l’editrice romana D editore ha pubblicato il primo dei cinque volumi dell’antologia Libertaria, con l’obiettivo di rinverdire il pensiero libertario – da qui il nome dato all’antologia, sulla scia del Libertaire di Dèjacque e Faure, entrambi presenti nella raccolta dei documenti qui proposti – ponendo a confronto i testi classici dell’anarchismo scritti da Malatesta, Bakunin, Goldman, Kropotkin, Berneri, Nettlau e tanti altri, con autori moderni e contemporanei del [...]]]> di Gianfranco Marelli

Gian Piero de Bellis (a cura di), Libertaria. Una antologia scomoda. Vol. I, D editore, Roma 2021, pp. 584, euro 23,90

Per la collana “Eschaton” diretta da Raffaele Alberto Ventura, l’editrice romana D editore ha pubblicato il primo dei cinque volumi dell’antologia Libertaria, con l’obiettivo di rinverdire il pensiero libertario – da qui il nome dato all’antologia, sulla scia del Libertaire di Dèjacque e Faure, entrambi presenti nella raccolta dei documenti qui proposti – ponendo a confronto i testi classici dell’anarchismo scritti da Malatesta, Bakunin, Goldman, Kropotkin, Berneri, Nettlau e tanti altri, con autori moderni e contemporanei del vasto arcipelago libertario quali Paul Goodman, Amedeo Bertolo, David Graeber, Bob Black.

Il progetto, curato da Gian Piero de Bellis, si propone in tempi brevi [il secondo volume è già in stampa] di tradurre oltre trecento documenti suddivisi in più di ventidue temi, fra i più coevi e i più disparati. Infatti, come si evince dal piano dell’opera1 c’è di che far tremare le vene e i polsi, soprattutto per l’eterocliti degli argomenti individuati, sebbene il filo conduttore che li lega, «quello della libertà dell’essere umano, la libertà di sperimentare vari stili di vita e aderire dappertutto a una o più comunità autonome, sulla base di scelte libere e volontarie» abbia la pretesa – secondo De Bellis – di porre in primo piano ciò che accomuna, non ciò che separa, l’anelito di difendere e rivendicare la libertà del singolo come «presupposto, necessario e indispensabile, per la nascita di molteplici e variegate comunità volontarie, al posto degli attuali stati cosiddetti nazionali, che uniformano le persone e centralizzano le decisioni, imposti a tutti coloro che vivono in un dato territorio».

Proprio la strenua difesa della libertà del singolo, strettamente connessa alla più aperta tolleranza nei confronti di tutte le espressioni ed esperienze in grado di praticare forme di organizzazione in cui i singoli associati scelgono liberamente le regole, i vincoli e gli obiettivi che li uniscono – nella libertà, ovviamente, di scindere l’accordo se questo non rispetta i patti comuni, o se il singolo non vi si riconosce più in essi – sembra essere la bussola che guida la presente antologia, al punto da mostrarsi «scomoda», soprattutto a « taluni cosiddetti anarchici, o presunti tali, visti – secondo il curatore di Libertaria – come i sostenitori di un’ideologia inventata (anarchismo) invece di essere gli sperimentatori di una pratica di libertà (anarchia)». Per tacere dei detrattori dell’anarchia, da sempre impegnati nel considerarla un’utopia, cui guardare con tenerezza e compassione, se non temere più della peste, in quanto caos, disordine, violenza.

Sennonché, più della scomodità ci sembra invece la comodità l’aspetto caratterizzante il primo volume di un’antologia che raccoglie 57 testi – scritti fra la fine del XIX secolo e l’inizio del XXI – attraverso i quali gli autori descrivono la loro anarchia e il loro essere anarchici/anarchiche a partire dalle proprie conoscenze, esperienze e considerazioni riguardo al loro propendere per una visione individualista, mutualista, collettivista, comunista dell’anarchia. Ma c’è di più. Nel curare e tradurre i testi antologizzati, Gian Piero de Bellis riassume all’inizio di ogni capitolo lo spirito che ha animato quest’opera ciclopica, sottolineando l’intento ecumenico di presentare l’anarchia come una pratica di libertà individuale che sperimenta la possibilità di trovare piena corrispondenza nelle scelte compiute con altri individui che volontariamente decidono di riunirsi ed organizzarsi al fine di attuare la forma di società più consona alle loro aspettative e ai loro desideri. In tal modo, prediligendo un’anarchia senza “additivi” per evitare che fraintendimenti e contrapposizioni ideologiche possano ostacolare tale ideale pratico «attraverso passaggi prestabiliti e per mezzo di un partito di militanti ben inquadrati», il curatore dell’antologia indirizza le lettrici e i lettori a volgere uno sguardo meravigliato verso i poliedrici esempi libertari già presenti e agenti in ambiti sociali e organizzativi in cui il metodo anarchico supplisce e sostituisce la visione gerarchica, burocratica e autoritaria degli attuali Stati, oggi più che mai incapaci di garantire non soltanto la felicità, ma addirittura la sicurezza per i suoi “sudditi”.

Ma proprio questo intento ecumenico di presentare il metodo libertario come una pratica tutt’altro che utopista, bensì afferente al fallimento dello Stato nel gestire centralmente e territorialmente bisogni sociali che nascono da un mondo globalizzato e senza confini, contribuisce a dare dell’anarchia l’idea che sia un rimedio indolore in grado di raddrizzare le storture burocratiche degli apparati statali se lasciato libero di esprimersi nei modi e nei contesti più variegati, così da far prevalere la molteplice varietà della proposta organizzativa anarchica rispetto alla omogeneità monopolistica imposta con violenza tramite il controllo del territorio pubblico da parte dell’autorità statale. Aspetto, questo, che non tiene però in dovuta considerazione la violenza con la quale gli Stati affermano il proprio predominio sul territorio, soprattutto se dovessero perderne il controllo da parte di associazioni e comunità non più convinte e disposte a seguirne i diktat. Di ciò ne sono ben consapevoli gli autori presenti in questo primo volume di “Libertaria|”, al punto da offrire una lettura dell’anarchia affatto idilliaca e conciliante – oseremmo dire di comodo – con gli attuali regimi di governo; infatti, gli scritti qui presentati, pur nelle loro molteplici e differenti sfumature, non solo denunciano l’oppressione e la violenza degli Stati, compresi gli Stati post rivoluzione vittoriosa, ma ripetutamente sottolineano la necessità ineluttabile di doversi difendere dalla violenza statale che, da buon guardiano a tutela della proprietà e degli interessi della classe dominante, vecchia o nuova che sia, per nulla sarà disposta ad ammettere le proprie deficienze e i propri errori al punto da uscire di scena senza colpo ferire.

Così da Kropotkin a Bakunin, da Nettlau a Malatesta, da Goldman a Rocker, da Reclus a Landauer – passando per la Circolare di Sonvilier del 1871 contro l’involuzione autoritaria dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori, da allora sotto la direzione del Consiglio Generale di Londra controllato da Karl Marx [non a caso è il primo documento che dà inizio alla presente antologia] – si ha la netta impressione che la selezione operata dal curatore abbia sottaciuto questo importante snodo teorico (vale a dire l’uso della forza per non essere sopraffatti dalla violenza dell’avversario), preferendo sottolineare le esperienze e le pratiche libertarie dalla chiara impronta pragmatista al fine di affermare l’idea anarchia come attività conciliatrice, in grado di prefigurare già da ora il necessario superamento di un quadro politico statuale non più al passo coi tempi, poiché messo in crisi dal progresso tecnologico di un sistema economico, produttivo, finanziario che da tempo ha abolito ogni confine territoriale, operando su scala globale e organizzando i suoi utenti-consumatori affinché si rappresentino appartenenti e solidali a consorzi privati “social”, la cui influenza mediatica è capace di pilotare le scelte degli individui e, di conseguenza, influenzare la politica stessa degli Stati.

Del resto, proprio questa visione conciliatrice, armoniosa e radicalmente tollerante dell’idea anarchica, in grado di stemperare sino a risolvere le tensioni e i conflitti presenti in un mondo multiculturale, dove la globalizzazione del sistema capitalistico produttivo ha praticamente superato i confini nazionali degli Stati, ha fatto da guida al precedente e fortunato studio di de Bellis sulla “Panarchia”, sfociato nel 2017 con la pubblicazione di un’apposita antologia – sempre edita dalla giovane casa editrice romana – in cui sono raccolte le più svariate interpretazioni storiche date a questo concetto, a partire dall’articolo scritto nel 1860 dal biologo belga Paul-Émile de Puydt, il quale per primo teorizzò la Panarchia come un “movimento per i diritti civili” impegnato a spezzare l’intolleranza politica che assegna automaticamente una nazionalità, una religione o un’appartenenza a qualsiasi istituzione (Stato, Chiesa, Corporazione) senza la scelta e l’assenso preventivo della persona. Non per nulla nell’introduzione a Libertaria, il curatore richiama la precedente pubblicazione con il chiaro proposito di rimarcare lo stesso impianto teorico che anima le due antologie, ossia l’idea che «il modo migliore per far convivere, in maniera armoniosa, su uno stesso territorio, persone di diverso orientamento culturale e politico, è far sì che ognuna sia libera di formare o scegliere la comunità di cui vuole far parte, attenendosi alle sue regole e forme organizzative, senza intromettersi od ostacolare i modi di vita dei membri delle altre comunità autonome. Un po’ come si aderisce a una Chiesa, a una religione o come, negli ultimi decenni, si sceglie una tra le tante compagnie telefoniche, la cui sede amministrativa non è o non deve necessariamente essere situata nel paese in cui vive l’utente» [p.13].

Con questo spirito conciliante con il mondo e alla ricerca di poter conciliare fra di loro le diverse anime che popolano il pensiero libertario, Gian Piero de Bellis ha così deciso di intraprendere una variegata presentazione delle teorie anarchiche, andando a scavare nell’immenso giacimento di scritti prodotti da centinaia di pensatori e protagonisti della storia dell’anarchia, al fine di rimarcare la stretta parentela con la definizione più ampia e inclusiva del termine Panarchia, individuando «nella libera sperimentazione di comunità volontarie a base non territoriale rappresenta la soluzione migliore (più umana e più funzionale) per la vita in società. Soprattutto in società variamente articolate, estremamente complesse e tecnologicamente avanzate». In tal modo, ridotta l’anarchia a una libera sperimentazione di modi diversi di vivere più congeniali a ciascun individuo, inevitabilmente ogni contestazione radicale e violenta nei confronti del sistema capitalista è stemperata, fino al punto da sussumere la tolleranza verso chiunque – anche riguardo a chi non brama né libertà, né autonomia, in quanto ritiene più sicuro e tranquillo essere accudito, guidato, dominato – come il pilastro che, ponendo fine al monopolio territoriale degli Stati «perché negativo, diseconomico e disfunzionale in tutti i campi», condurrà l’intera umanità a combattere l’ulteriore e ultimo ostacolo che impedisce a ciascun individuo di sperimentare l’organizzazione a-territoriale che più gli si confà, scegliendo volontariamente la forma istituzionale più prossima alle sue idee e ai suoi valori nel rispetto delle idee e dei valori altrui.

Utopia o necessità insita nel processo evolutivo dell’umanità che, esausta delle continue tensioni fra stati nazionali e fra culture e religioni differenti, ha saputo trasformare la violenza aggressiva in energia difensiva da optare a favore di una tolleranza radicale di tutti verso tutti? Sì, perché l’ANARCHIA 2.0 – in altre parole, la Panarchia – non è che l’evoluzione armoniosa di un’idea esagerata di libertà che, oltre a distruggere confini statali e barriere confessionali, rompe qualsiasi steccato ideologico che finora ha impedito alla visione liberista del lassez faire lasser passer in economia di essere applicata anche in politica, attribuendo alla libertà del singolo la scelta di quale forma istituzionale preferire e partecipare, assieme ad altri, al suo funzionamento in base ai principi di merito, funzionalità, concorrenza.

La questione, in ultima analisi, concerne il valutare se questa evoluzione dell’umanità nella prospettiva pananarchica possa trasformarsi in un’opportunità per l’emancipazione sociale e il suo diverso sviluppo economico non più finalizzato al profitto proprietario attraverso lo sfruttamento dell’ambiente, o se, al contrario, debba segnalare una realtà che già si è concretizzata a seguito del progressivo predominio a-territoriale dei robber baron di Internet [Amazon, Apple, Facebook, Google, Microsoft] sugli Stati nazionali. Si tratta di una questione scomoda che “Libertaria” ha posto all’attenzione delle lettrici e dei lettori, nella speranza che siano sempre più giovani interessati a occuparsene. Dopotutto, se vuoi essere sempre giovane – ci ricorda Voltarine De Cleyre, tra le tante anarchiche presenti nell’antologia – «diventa un anarchico e vivi una esistenza fatta di fiducia e di speranza, anche quando sei carico di anni».


  1. “Anarchia/ Anarchici/ Individualismo/ Mutualismo/Collettivismo/Comunismo” (vol. I); “Stato/Potere/ Autorità/ Ordine/ Patriottismo/ Nazionalismo/Militarismo/Violenza/Nonviolenza/Spiritualismo” (vol. II); “Democrazia Rappresentativa maggioritaria/ Federalismo/ Organizzazione/ Natura-Ambiente-Spazio” (vol. III); “Istruzione-Educazione/Lavoro-Attività/ Economia/ Proprietà/ Tasse” (vol. IV); “Libertà/Essere Umano/ Futuro/Arte-Creatività/Poesia-Canzoni” (vol. V)  

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Colui che ascoltava i marxisti (ma non si fidava di loro) https://www.carmillaonline.com/2021/05/10/colui-che-ascoltava-i-marxisti-ma-non-si-fidava-di-loro/ Mon, 10 May 2021 21:00:34 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=66147 di Gianfranco Marelli

Diego Giachetti, Il sapere della libertà. Vita e opere di Charles Wright Mills, DeriveApprodi, 2021, pp. 208, 17,00 euro

Un tempo, al posto di spoilerare, si sarebbe utilizzato il termine “svelare il finale” per indicare l’intento di riassumere il significato di un’opera con l’obiettivo di rovinarne la sorpresa, rendendo fin da subito noto il “colpevole”. Orbene, nel recensire il libro di Diego Giachetti, Il sapere della libertà. Vita e opere di Charles Wright Mills, si è deciso di spoilerare il testo non per render noto il finale, bensì per [...]]]> di Gianfranco Marelli

Diego Giachetti, Il sapere della libertà. Vita e opere di Charles Wright Mills, DeriveApprodi, 2021, pp. 208, 17,00 euro

Un tempo, al posto di spoilerare, si sarebbe utilizzato il termine “svelare il finale” per indicare l’intento di riassumere il significato di un’opera con l’obiettivo di rovinarne la sorpresa, rendendo fin da subito noto il “colpevole”. Orbene, nel recensire il libro di Diego Giachetti, Il sapere della libertà. Vita e opere di Charles Wright Mills, si è deciso di spoilerare il testo non per render noto il finale, bensì per rimarcare, con l’autore, l’importanza della riflessione politico-sociologica di Mills, nella speranza di riprendere dall’inizio – questo sì – la critica radicale alla struttura organizzativa della società al fine di cogliere le radici del cambiamento in corso nella struttura del carattere dell’individuo. Cambiamento che – già sul finire degli anni ’50, sottolinea Giachetti – « segnava il passaggio dall’età moderna a quella contemporanea, da Mills definita la “Quarta epoca”, in cui le grandi organizzazioni economiche, finanziarie, amministrative e militari mettevano in discussione i valori di democrazia e libertà, mentre gli uomini comuni, i docili robot, non erano più capaci di comprendere la potenza e il potere di quelle strutture alle quali erano sempre più subordinati e modellati negli stili di vita, nel lavoro, nel divertimento.» [pp. 171-172].

Ebbene, mai come in questo periodo storico abbiamo la percezione di vivere concretamente la “Quarta epoca” descritta, analizzata, criticata dal sociologo americano a partire dai suoi libri sui nuovi leader – The new men of the power. Americas’s Labor Leaders (1948) – e sulla classe media – White Collars: The American Middle Classes (1951) – fino alla sua monumentale opera del 1959, The Sociological Imagination, in cui si impegnò a fornire agli studiosi di scienze sociali una “cassetta degli attrezzi” al fine « di trasformare le difficoltà e le preoccupazioni personali in problemi sociali, per aiutare il singolo a diventare un uomo auto-educantesi, ragionevole e libero». Proprio in questi dieci anni, il sociologo americano si attivò in una strenua lotta per riformare la spiccata concezione pragmatista degli studi sociali che, soprattutto negli Stati Uniti della Grande Crisi del ’29, aveva tralasciato la vocazione di sentinella critica dello sviluppo socio-economico per assumere il compito di oracolo del New Deal – senza specificare né la natura né il ruolo che lo Stato assumerebbe nel nuovo ordine mondiale – quasi che la politica del controllo statale dell’economia risultasse l’unica prospettiva praticabile dell’indagine sociologica, così da assegnare «all’intellettuale una funzione riformatrice, pratica e operativa, più che ideologica e riflessiva, per cui esso tendeva a porsi come critico delle disfunzioni del sistema sociale e voleva usare la sua conoscenza per contribuire alla risoluzione dei problemi individuati». Pertanto, «anche chi criticava il capitalismo, abbandonata l’idea della rivoluzione socialista, condivideva la scelta politica governativa di esercitare il controllo sulla libera concorrenza economica, causa principale della crisi del 1929, e indirizzare il sistema produttivo verso il conseguimento di un maggior benessere per tutti» [p.31].

Ovviamente, la sua polemica in piena Guerra fredda nei confronti di una visione rinunciataria degli studi sociali, sospesi fra «la scuola dei grandi teorici che pensavano e non osservavano e quella degli empirici che osservavano e non pensavano», pose Mills ai margini dell’indagine accademica, anche perché lui stesso «cercava una terza via partendo da domande circa il significato che assume l’oggetto della ricerca per la società nel suo insieme e come il tutto si inserisca in un processo storico di cui gli eventi studiati fanno parte» [p. 91]. Diego Giachetti, nel raccontare per l’appunto il suo ruolo di outsider della sociologia americana, non si limita soltanto ad evidenziare quanto Mills fosse un dissenter – o per dirla con Dahrendorf un maverick (letteralmente capo di bestiame non marchiato, senza padrone) – ma ne sottolinea il suo essere visceralmente anticonformista, al punto che vita e ricerca sociologica si fondevano nella sua personalità di hipster degli anni ’40 (con giubbotto di pelle e moto rombante), da anticipare le successive proteste e contestazioni contro la “società dell’abbondanza”, e divenire tra i gruppi della giovane sinistra degli anni ‘60 uno degli intellettuali americani più letti assieme a Paul Goodman, Noam Chomsky, Murray Bookchin e gli oriundi Herbert Marcuse, Erich Fromm, Theodor W. Adorno . Tutto ciò fece sì che Mills fin da allora fu «considerato un liberale tradito dalla retorica liberale del pensiero conservatore americano, curioso del marxismo, ma non arrendevolmente marxista, democratico e socialista ma non per questo aderente a una ortodossia di partito, a favore di una società di uomini liberi ed eguali, ma anche cosciente che non tutti erano liberi ed eguali allo stesso modo, qualcuno lo era di più, altri di meno, in proporzioni diverse. Mills – chiosa Giachetti – non rifiutava nessuna di queste influenze, se mai voleva trarre da esse spunti per costruire una teoria sociologica dell’azione sociale e del comportamento umano all’interno di una società fondata sul potere di pochi e sulla diseguaglianza per molti» [p. 55].

Di certo il suo anticonformismo, in piena caccia alle streghe scatenata dal senatore repubblicano del Winsconsin Joseph McCarthy all’inizio degli anni ’50, con l’intento di scovare i presunti comunisti infiltrati nelle istituzioni statunitensi, non solo condizionò la sua carriera universitaria, ma la “caccia alle spie sovietiche”, creò soprattutto nell’ambiente intellettuale un’atmosfera di sospetto e diffidenza che, per i più, si tradusse in una rinuncia a una critica del sistema capitalistico e delle sue forme politiche amministrative, al punto che le poche voci dissonanti – come quella di Charles Wright Mills – dovettero faticare non poco per sostenere che la «tanto decantata democrazia liberale americana perdeva di sostanza, le elezioni erano una rappresentazione formale di un balletto democratico privo di senso, mentre il monopolio esercitato dalle élite del potere sui mezzi di comunicazione, riduceva milioni di lavoratori ad “automi”, con pensieri e desideri prefabbricati e indotti dall’esterno» [p. 106]. Pertanto, se il compito della so ciologia doveva svelare i meccanismi sociali che limitano la libertà, gli intellettuali avevano l’obbligo di svolgere consapevolmente il proprio ruolo di critici dello status quo, utilizzando la ragione «contro l’operare non democratico delle élite di potere che, con le loro azioni, deviano il senso autentico della democrazia stessa» [p. 11].

La mancata assunzione di responsabilità di buona parte degli intellettuali americani nel disvelare la realtà della struttura sociale, condusse Mills ad indagare la causa di una simile rinuncia e ad individuarvi come effetto immediato il formarsi poliedrico di una “nuova élite” che compone l’apparato culturale deputato a creare opinioni attraverso istituti, organizzazioni, fondazioni, in cui si produce il lavoro artistico, intellettuale e scientifico: dalla scuola, ai teatri, ai giornali, ai musei , alle stazioni radiotelevisive, al cinema. Come infatti scriverà in Sociologia e conoscenza, l’apparato culturale assolve a funzioni di vario tipo: «crea modelli di carattere e stili di sentimento, sfumature di umori e vocabolari di motivi. Trasforma il potere in autorità. Riempie il tempo libero con distrazioni e divertimenti. Trasforma la natura della guerra; diverte, persuade e manipola; ordina e proibisce; terrifica e rassicura; fa ridere e piangere gli uomini, li spinge a vagare inebetiti, poi improvvisamente restituisce loro vivacità. Predice ciò che accadrà e spiega ciò che è accaduto. Aiuta a modellare e a percorrere un’epoca e ne fornisce la coscienza».

Sennonché l’aspra disamina nei confronti degli intellettuali che avevano abdicato al compito di essere la coscienza critica della società capitalista per paura di esser tacciati come “comunisti” condusse il sociologo americano a distanziarsi altresì da una interpretazione del pensiero di Marx incapace di leggere la trasformazione in atto nella più sviluppata e progredita democrazia occidentale, in quanto eseguita sia da quei “marxisti volgari” che estrapolano alcune varianti della filosofia politica del Moro di Treviri e poi identificano queste parti col tutto della sua opera, sia i “marxisti sofisticati” «che concentrano il loro interesse e le loro analisi su teorie sviluppate su basi marxiste per spiegare le ragioni dell’esistenza di eccezioni storiche, senza per questo porsi il problema di una revisione generale del modello teorico» [p. 61].

Al contrario, Mills si considerava un “marxista puro”, dal momento che ne accettava l’impostazione metodologica, evitando però le trappole del determinismo economico, così come l’affermazione fideistica che la classe lavoratrice fosse il motore del cambiamento economico-sociale e politico, poiché non vi è alcuna automatica corrispondenza tra collocazione di classe – compiutamente segnata dallo sfruttamento del lavoro – e sviluppo di una conforme coscienza di classe che fa del lavoratore tout-court il soggetto rivoluzionario desideroso di rovesciare il sistema capitalista.

Infatti, sebbene Mills fosse pronto a riconoscere che la combinazione tra la fonte e il tipo di accumulazione del reddito avessero un’importanza decisiva per la formazione psicologica e politica sia delle classi più “basse” che di quelle più “alte”, tuttavia – scrisse nella sua opera, The Marxists, uscita postuma nel 1962 – «se non si usano altri criteri, diversi da quello di proprietà, non si può spiegare la coscienza di classe (o la sua mancanza), ne si può capire il ruolo dell’ideologia nella coscienza politica e di classe».

Come correttamente documenta Diego Giachetti nel suo libro, in cui con voce piana ma appassionata traccia il profilo bio-bliografico di Charles Wright Mills, caratteristica centrale del sociologo americano era di saper ascoltare i marxisti, ritenendo tuttora indispensabile il contributo metodologico messo a disposizione dal filosofo tedesco anche se era necessario – come per tutte le altre teorie politico-sociologiche – non farsi ingabbiare da osservazioni e giudizi che si sono dimostrati ambigue e sbagliati; dopotutto Marx era pur sempre figlio del suo tempo e pertanto, secondo il principio della specificità storica che consiste nel riconoscere che ognuno pensa ed elabora all’interno del proprio tempo, non avrebbe saputo usare «il suo apparato di concetti con la stessa attenzione che possiamo avere noi». Non solo: «alcune parti di questo apparato – precisò proprio in The marxists – devono essere migliorate e in alcuni aspetti rifatte da capo»; del resto, rispetto al liberalismo – divenuto l’ideologia dominante dell’élite al potere – il marxismo, a parere del sociologo americano, conservava elementi analitici utili alla comprensione della realtà sociale che, integrati con le analisi sociologiche di Weber, avrebbero potuto por fine al fraintendimento circa il determinismo storico. Infatti, il motore del cambiamento e della lotta politica nel capitalismo moderno non poteva più esser ricondotto alla sola struttura economica, ma occorreva considerare il peso e l’influenza esercitata dalle istituzioni del potere politico e militare, e soprattutto il “nuovo” potere rappresentato dai mezzi di comunicazione di massa.

Certo, anche Weber era “figlio del suo tempo” e pertanto bisognava correggere la sua concezione avalutativa della sociologia, così come era necessario stemperare il suo giudizio positivo dato dealla struttura tecno-burocratica, ritenuta la forma più razionale dell’agire che gestisce e organizza lo sviluppo economico e il conseguente progresso sociale, mentre Marx considerava la formazione sociale capitalista fondamentalmente irrazionale poiché sorretta dalla volubilità del mercato. Tuttavia, la rilevanza weberiana nel denunciare la condizione dell’uomo-ingranaggio della macchina burocratica, offre un’ulteriore e più specifica analisi sulle cause del consenso al sistema, tale da rettificare – senza peraltro escluderla – la fideistica “coscienza di classe” del proletariato, dal momento che essa non è implicitamente insita nel proletariato, ma è una possibilità, una prospettiva; dopotutto lo stesso Marx aveva sottolineato che mentalità e coscienza di classe, soprattutto negli strati subalterni, non coincidono perché «le idee della classe dominante sono generalmente le idee dominanti e i soggetti che non appartengono alla classe dominante, ma che accettano le sue definizioni di realtà, hanno una falsa coscienza della propria condizione» [p. 66].

Pertanto più che esser letto come l’anti-Marx, agli occhi di Mills, Weber è la sua necessaria e indispensabile correzione, il punto di partenza – non certo d’arrivo – per integrare il metodo marxiano, inteso come visione d’insieme della realtà storico-sociale. Ciò che invece doveva essere rivisto e integrato erano gli assi portanti dell’analisi marxiana: il rapporto tra struttura e sovrastruttura, tra classe, sfruttamento del lavoro e coscienza di classe, la polarizzazione di classe e l’impoverimento assoluto, il soggetto agente della trasformazione, lo Stato e le sue funzioni, il concetto di classe dominante, il determinismo economico e la concezione della storia. Soprattutto perché, alla luce dello sviluppo delle società altamente industrializzate della meta del XX secolo e delle nuove formazioni economiche sociali emerse dalla Rivoluzione russa, il concetto di struttura sociale andava riformulato, in quanto composta da una serie di ordini istituzionali che, secondo le categorie della sociologia del potere delineate da Weber, «hanno la funzione di addestrare, educare, selezionare, reclutare o espellere le persone sulla base di regole formali e informali che definiscono la funzione del ruolo sociale dell’attore». Fra questi, «tre spiccano per la loro importanza e per la valenza che hanno nella configurazione della struttura sociale: quello politico, quello economico, quello militare». Gli altri ordini istituzionali «erano quello religioso, che organizza forme di culto collettive, quello parentale che regola i rapporti sessuali, la procreazione e l’educazione della prole, la trasmissione ereditaria, quelli inerenti alla sfera educativa che istituiscono organismi appositi per la trasmissione e comprendono, oltre all’istituzione scolastica, la formazione politica mediante i partiti, le varie chiese, le accademie militari» [p. 96].

Come giustamente osserva Diego Giachetti, il rapporto con la teoria marxista fu per Mills improntato sulla necessità di interpretare e comprendere il mondo nuovo, così come si era configurato dopo la Seconda guerra mondiale, per poterlo cambiare. Solo partendo da questa necessità era possibile comprendere che la “coscienza di classe”, la consapevolezza di interessi comuni, non sono la conseguenza logica, determinata e immediata della realtà oggettiva della struttura di classe; «occorre considerare altri fattori, per capire come e perché nasce o non nasce la coscienza di classe, quali l’avere o non avere una vita associata e solidale, la presenza di una leadership capace di sintetizzare e organizzare il malcontento, la possibilità concreta di migliorare la propria posizione, il peso esercitato dai moderni mezzi di comunicazione monopolizzati dalla classe dominante dai quali i lavoratori salariati acquisiscono formule, vocaboli, mentalità che sfociano in comportamenti politici ed elettorali contrari ai propri interessi, definiti dalla loro posizione economica di classe» [p. 100].

In modo particolare, l’attenzione rivolta ai media diede la possibilità a Mills di analizzare quanto fosse determinante la frattura fra tempo di lavoro e tempo libero, in cui la maggior importanza di quest’ultimo nella coscienza delle persone è determinata dal fatto che fra «la rappresentazione del mondo che le persone si danno e la loro vita materiale s’interpongono interpretazioni, ricevute e manipolate, che influenzano e formano la coscienza». Infatti, gran parte di quello che l’individuo crede di sapere sulla società e sul mondo – precisa Giachetti – «non è il frutto di una conoscenza diretta, di prima mano, ma subisce la mediazione interpretativa di chi ha il monopolio delle informazioni e dei commenti. L’accettazione o meno di un’informazione sottintende un già precostituito sentimento, un modo di concepire la società già consolidata sulla base di informazioni precedenti. È a partire da questi schemi che si scelgono o si rifiutano determinate opinioni, non sulla base della loro coerenza logica ma per affinità emotiva» [p. 118]. Ne consegue che la “falsa coscienza” propugnata dall’apparato culturale mediatico, più che basarsi su elaborazioni filosofiche o proclami politici, si afferma su quelle concezioni del mondo che si presentano come dati di fatto che gli uomini-robot reputano scontati e che caratterizzano la nostra epoca di individui prosumer (produttori/consumatori).

Che dire di più a proposito di questo libro sulla vita e le opere di Charles Wright Mills che ascoltava i marxisti ma non si fidava – non a torto – di loro? Di tener presente – ricorda Diego Giachetti sin dalle prime pagine del suo prezioso e convincente studio – che quando l’8 ottobre 1967 Che Guevara fu catturato e ucciso dai militari boliviani «aveva nello zaino agende le quali contenevano appunti per un progetto di studio sul capitalismo, l’imperialismo, la transizione al socialismo. Assieme a un collage di citazioni tratte dalle opere di Marx ed Engels, Lenin, Trotsky, Luxemburg e altri ancora, c’erano anche annotazioni prese dai libri del sociologo americano». Sarà forse il caso di riprendere un serio studio sul capitalismo, magari dando proprio una sbirciatina a quegli appunti annotati non certo a caso, riscoprendo l’interesse per gli autori citati. Non ultimo, l’autore che del marxismo seppe fare uno studio per nulla accademico.

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Sulla convivenza forzata degli umani https://www.carmillaonline.com/2020/06/29/sulla-convivenza-forzata-degli-umani/ Mon, 29 Jun 2020 21:01:39 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=60764 di Gianfranco Marelli

Peter Sloterdijk, Sulla stessa barca. Saggio sull’iperpolitica, traduzione e cura di Alessandro De Cesaris, Edizioni ETS, Pisa 2020, pp. 90

Se c’è un libro che, senza fronzoli e neppure illogiche congetture, può soddisfare la necessità di comprendere i comportamenti umani e il loro complicato rapporto con l’arte della possibile convivenza comune – soprattutto dopo aver subito, colpa di un virus considerato letale, l’obbligatorietà di rimanere segregati entro le quattro mura fino al termine del lock down – questo è sicuramente il libro di Peter Sloterdijk, Sulla stessa barca. Saggio sull’iperpolitica, tradotto e a cura di Alessandro De [...]]]> di Gianfranco Marelli

Peter Sloterdijk, Sulla stessa barca. Saggio sull’iperpolitica, traduzione e cura di Alessandro De Cesaris, Edizioni ETS, Pisa 2020, pp. 90

Se c’è un libro che, senza fronzoli e neppure illogiche congetture, può soddisfare la necessità di comprendere i comportamenti umani e il loro complicato rapporto con l’arte della possibile convivenza comune – soprattutto dopo aver subito, colpa di un virus considerato letale, l’obbligatorietà di rimanere segregati entro le quattro mura fino al termine del lock down – questo è sicuramente il libro di Peter Sloterdijk, Sulla stessa barca. Saggio sull’iperpolitica, tradotto e a cura di Alessandro De Cesaris per le edizioni ETS. Un’esagerazione? Lo verificherete non solo dopo averlo letto, ovviamente, ma ancor prima di leggerlo, dal momento che quello di cui tratta è per l’appunto ciò che avete appena provato durante la convivenza forzata, subita con preoccupazione, o accettata con piacere, nei mesi trascorsi.

Chiariamoci subito, non si tratta dell’ennesimo filosofo che prova a spiegarci il disagio provato a seguito dell’infezione pandemica, né ha l’obiettivo di individuare cause e conseguenze del fenomeno. Pubblicato in lingua tedesca nel l993, il libro di Peter Sloterdijk non affronta ovviamente la questione del Covid19 che ha infettato così tanto giornali, riviste, radio, tv, blog, social da non saper più come riuscire a non imbatterci il muso. Oggi il filosofo tedesco, di certo avrà elaborato una sua opinione a proposito, ma ciò che gli interessa è discutere di politica, anzi, di iperpolitica. Perché se la politica è l’arte del possibile, questa coincide con l’immagine di una umanità che nella convivialità ha proiettato la speranza di una società coesa e votata al benessere comune; sennonché – ribatte il filosofo – «il concetto di “umanità” nasconde un paradosso processuale che può essere messo in questa forma: siamo destinati a convivere, ma non siamo fatti per convivere» e «quanto più facciamo esperienza con coloro con cui conviviamo, tanto più marcatamente emerge l’evidenza che non possiamo conviverci» [p.12]. Non è forse l’esperienza appena vissuta nel corso del lock down? Dopotutto, siamo tutti sulla stessa barca.

Una barca che però è cambiata nel corso della navigazione iniziata migliaia di anni fa e che ancora prosegue con la speranza di continuare la convivenza in uno spazio sempre meno adatto e adattabile alla socialità degli umani. Sloterdijk ripercorre questa tormentata navigazione descrivendo e analizzando il comportamento degli umani attraverso l’evoluzione storico-filosofica del fondamento della possibilità della convivenza umana a partire dal suo manifestarsi nell’agire politico; un agire politico che attraversa «tre stadi» – la paleopolitica, la politica classica, l’iperpolitica – mostrando quanto la storia delle idee politiche sia sempre stata «una storia di fantasmi della convivenza, dove l’espressione “fantasma” non va letta nel senso della critica delle immagini, come mera parvenza o come immagine ingannevole, ma va concepita piuttosto nel senso di una teoria dell’immaginazione attiva, come illusione demiurgica, come idea che avvera se stessa e finzione operativa».

«L’illusione demiurgica» ha permesso di immaginare la realtà del mondo plasmata dall’arte della convivenza umana nella società e di concepire l’uomo e l’umanità come la conseguenza del formarsi della «civiltà avanzata»; sennonché – a parere del filosofo tedesco – il concetto di «civiltà avanzata» non è altro che una menzogna, anzi «l’errore più grande non solo della storia e delle humanities, ma anche delle scienze politiche e della psicologia» [p.18], poiché ha determinato una lettura statocentrica della storia, in cui la socialità degli umani dalle prime «orde» che hanno segnato la separazione delle prime comunità dalla natura primordiale e dove la paleopolitica rappresenta «la più antica grammatica della convivenza» [p.26], si è trasformata nella politica classica delle civiltà avanzate che ha fatto degli umani un mezzo per costruire “l’uomo”, colui che si interessa delle grandi cose, ta megala, abbandonando la dimensione familiare dell’orda per occuparsi delle grandi questioni dello Stato.

Se nello stadio paleopolitico l’involucro delle orde protegge gli umani dalla natura, essendo la paleopolitica «l’arte del possibile in piccolo – l’arte di mantenersi piccoli in nome del bene maggiore, della vita animata» [p.30], la politica, nella sua accezione tradizionale, è l’arte del possibile su larga scala, in quanto nasce dalla necessità di estendere il piccolo gruppo, l’orda, trasformandolo in una “civiltà avanzata” in grado di esprimere «la miglior vita» mostrando la capacità di «diventare grande o molto grande senza fallire immediatamente nel compito di trasmettere questa grandezza alle generazioni successive» [p.31]; in questo secondo «stadio», la separazione all’interno della società è fra gli umani e gli “uomini megalopati”, gli esperti delle grandi questioni, in quanto sono stati educati alla «metanoia»: la capacità di «cambiare mentalità, passare dalle piccole alle grandi proporzioni» [p.38]. Educazione, impartita dalla filosofia greca come dalle sue controparti cinese e indiana, atta a formare l’homo politicus, l’«uomo» che si prende cura della “figura uterina” dello Stato – «una grande madre metaforica che pone i cittadini sotto il vincolo sociale di una comunità di grembo immaginaria» [p.42 ] – e ne rappresenta il «tratto più astratto e anaffettivo della nuova arte politica – la politica è ciò che va contro il sentire degli inesperti» [p.44]; in tal modo si determina una «doppia produzione umana: da un lato vengono prodotti, per così dire artigianalmente, degli esseri altamente performanti e individualizzati, grazie a una “educazione” nel corso di un allenamento filosofico; dall’altro vengono prodotte masse umane manovrabili per il lavoro bruto» [p. 52]. I primi educati a prendere decisioni, i secondi a eseguirle.

Fermiamoci un attimo e consideriamo l’assunto di Sloterdijk con quanto, da inesperti, abbiamo vissuto in questi lunghi mesi di lock down decretato dagli esperti. La preoccupante pandemia causata dal coronavirus ha dapprima valorizzato la figura dell’homo politicus, riconosciuto come colui che rappresenta e tutela l’autorità centrale del potere, soprattutto a seguito delle decisioni assunte in sintonia con le analisi scientifiche compiute dall’esperto, al punto che la credibilità del primo è dipesa dalla credibilità del secondo; sennonché la ritrovata fiducia nell’agire dei politici è via via svaporata con i balbettii, le contraddizioni e le reciproche accuse di incompetenza che gli esperti non hanno risparmiato di rivolgersi, provocando confusione fra gli inesperti. Inesperti che non si sono ritenuti più tali se – ritorniamo al testo del filosofo – «Nella nostra situazione la totale ignoranza siede in prima fila. Si vede il personale politico scatenarsi sui media e ci si ricorda dello squallore organizzato dei tornei cittadini. Certo, ogni tanto ci sono ancora megalopati alla vecchia maniera che appaiono convincenti, personalità elevate di vera statura atletico-statale, ma la loro apparizione isolata può solo relativizzare la disproporzione globale tra le forze necessarie e le debolezze a disposizione, non porvi rimedio» [p. 63]. Qual è la causa di un simile «disgusto nei confronti della propria classe politica»? L’incapacità di saper prendere le opportune decisioni per manifesta incompetenza? Incompetenza, peraltro, riscontrata anche presso i non politici: gli esperti tecnocrati?

Infatti, l’incapacità di essere all’altezza delle sfide mondiali è vera a maggior ragione e nella stessa misura per i non politici, che in fatto di consenso presso le masse umane accusano la simile diffidenza, aggravata per lo più dal fatto di volersi mostrare indiscussi esperti al punto da considerarsi i soli in grado di porre rimedio alle storture della Megamacchina tecnoburocratica; dopotutto, se la politica non sembra più essere l’arte del possibile è perché la convivenza sociale – fondata sul perfetto accordo tra disposizioni e compiti – non può più contare, come ai tempi della politica classica, sui «cercatori dello Stato» e i «cercatori di Dio», i politici e i chierici, impegnati a pensare la grandezza in termini assoluti all’interno di «esegesi politiche globali e dottrine ontologiche» in grado di raffigurare un ordine al mondo. Del resto, «in un mondo senza forma e in una società senza identità» [p. 66] proprio dell’attuale stadio iper-politico, la “convivenza” si riduce alla mera “conservazione delle possibilità vitali” soprattutto nei settori più marginali della società, mentre nei settori più ricchi si afferma al contrario «un individualismo quasi post-sociale». E in questo «terzo stadio» dell’iperpolitica, la perdita di consenso nella democrazia forse non è altro che «un nome in codice per una tendenza generale della modernità, che affonda in profondità nella storia europea: l’individualismo moderno» [p.83]; una conseguenza della mancanza di potere nell’ambito politico unitario, che si manifesta come assenza di fondamento nell’ambito logico, e in crisi della genitorialità e del principio genealogico nell’ambito antropologico [p.86]. In una battuta: Dio è morto, Marx pure e noi non siamo messi troppo bene!

Fra rigurgiti nazional-populisti forieri di un futuro di “guerra contro tutti” , individualismi moderni abbarbicati ai propri “piccoli godimenti per il giorno e per la notte”, e inarrestabile espansione del processo industriale su larga scala in grado di distruggere “riserve” naturali e umane più di quante ne possa produrre o rigenerare, il disagio di non sentirci “troppo bene” ha fatto progressivamente salire la febbre anche a chi – in questi tre lunghi mesi di lock down – non è stato affetto dal Covid19. Sembra ormai giunto il momento di darsi da fare, in teoria e in pratica, per promuovere una nuova politica per l’epoca in cui è scomparso un potere unitario nelle civiltà avanzate. Di questa necessità Sloterdijk ha tratteggiato, in questo libro, la proposta di una «iperpolitica» dinnanzi alle pretese sempre maggiori nell’arte della convivenza affidate agli esperti della tecno-struttura burocratica; iperpolitica che «si trova di fronte al compito di produrre dalla massa degli ultimi una società di individui che si facciano carico dell’impegno di rendersi intermediari tra i predecessori e i successori» [p. 90]. Ormai l’arte del possibile si è ridotta ad essere una navigazione a vista, in cui la scommessa in un miglioramento globale della forzata convivenza umana dovrà puntare su di una iperpolitica in grado di «apprendere un modello di comportamento che permetta di vincere in modo che anche dopo di lei ci possano essere ancora vincitori». E quale altro modo si potrebbe escogitare per contrapporsi al culto della dismisura, del pensar in grande della politica classica che ha ingigantito e gonfiato la struttura tecno burocratica, se non riprendere i principi del radicamento territoriale, della limitazione dimensionale, del decentralismo, dell’organizzazione per piccole unità locali solidali e confederate, così da rinverdire la ritrovata «grammatica della convivenza» fra umani, mondo animale e vegetale? Siamo o non siamo Sulla stessa barca?

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Divenire ciò che non siamo stati ancora https://www.carmillaonline.com/2018/10/24/divenire-cio-che-non-siamo-stati-ancora/ Wed, 24 Oct 2018 21:00:43 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=49208 Neil Novello, Giorgio Cesarano. L’oracolo senza enigma, prefazione di G. Marelli, Castelvecchi, Roma 2017, pp. 190, € 22,00

[A cinquant’anni dal ’68 e a più di quaranta dalla scomparsa di Giorgio Cesarano, le sue riflessioni, che hanno animato una grande varietà di iniziativa all’interno della critica radicale italiana tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, si rivelano ancora stimolanti e di grande attualità. Qui di seguito si riproduce un estratto dalla Prefazione di Gianfranco Marelli al testo di Neil Novello, il quale ha anche curato, sempre per Castelvecchi, la riedizione dei Diari del Sessantotto dello stesso Cesarano [...]]]> Neil Novello, Giorgio Cesarano. L’oracolo senza enigma, prefazione di G. Marelli, Castelvecchi, Roma 2017, pp. 190, € 22,00

[A cinquant’anni dal ’68 e a più di quaranta dalla scomparsa di Giorgio Cesarano, le sue riflessioni, che hanno animato una grande varietà di iniziativa all’interno della critica radicale italiana tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, si rivelano ancora stimolanti e di grande attualità. Qui di seguito si riproduce un estratto dalla Prefazione di Gianfranco Marelli al testo di Neil Novello, il quale ha anche curato, sempre per Castelvecchi, la riedizione dei Diari del Sessantotto dello stesso Cesarano (qui). S.M.]

Un aspetto focale del lavoro di Neil Novello consiste nel dar voce all’aforisma pindariano – Γένοιο οἷος ἔσσι, Diventa ciò che sei! – al fine di trovare un minimo comune denominatore all’intera opera cesaraniana e al contempo tracciare il profilo umano dell’autore stesso, deciso da sempre a condurre la “vera guerra” contro la sopravvivenza degli uomini mercificati dal sistema capitalistico per diventare ciò che si è, così da «emanciparsi non dal sistema, ma emanciparsi nel sistema per emanciparsi dal sé o dall’io ancora ignoto, tradurre la non-vita in vissuto reale, fare della vissutezza oltre la preistoria la storia di una ritrovata compiutezza ontologica, qualcosa che sia il compimento di un riconquistato “diritto alla vita”». Progetto, però, che può realmente concretizzarsi se concepiamo la necessità di «smarrire le tracce del sentiero finora battuto, deviare in direzione di un altrove individuale rinunciando, obliando l’essere-per nel nome dell’essere-sé, la persona ritornata individuo. Non è però uno slancio metafisico questo di Cesarano – puntualizza Novello – il momento individuale è tale in quanto piattaforma di un reale movimento collettivo, il viatico «verso una comunità umana». Già, perché il concetto di “comunità umana” diverrà fondamentale negli ultimi studi di Cesarano, debitore in parte delle riflessioni condotte in quegli stessi anni da Jacques Camatte, direttore della rivista «Invariance», sull’importanza in Marx della Gemeinwesen, quale adempimento storico del comunismo non nello Stato attraverso la presa del potere, ma nella liberazione dell’individuo comunitario; così come fu stimolato dalle riflessioni di Raul Vaneigem e di Guy Debord sulla necessità di ripensare i termini di rivoluzione e lotta di classe riferendosi alla critica della vita quotidiana, al desiderio quale principio trasformatore della realtà, al rifiuto di tutte le costrizione per la liberazione totale della creatività spontanea del “proletariato”.
Non essendoci, pertanto, più in palio la conquista del potere per mezzo della lotta di classe, la rivoluzione non potrà che essere condotta attraverso una lotta biologica volta alla conquista di sé come comunità umana; rivoluzione che permetterà di passare dalla preistoria del non vissuto alla storia della vera natura umana, la totalità organica naturante [Gemeinwesen], attraverso la completa realizzazione di sé nella società degli individui. Giustamente, Neil Novello in tal circostanza non può non notare le tracce seguite da Cesarano nel ripercorrere a modo suo il pensiero di Debord e di Vaneigem. Infatti, così come ne «La società dello spettacolo» si afferma che “il soggetto della storia non può essere che il vivente producente se stesso, che si fa signore e padrone del suo mondo che è la storia”, nel pensiero di Cesarano «è abolita l’idea di oggettivazione della conquista storica, non però la più autenticamente rivoluzionaria conquista di sé a sé e alla storia, una conquista della soggettività de-capitalizzata»; allo stesso modo nella sensazione manifestata da Cesarano di trovarsi ormai «in un luogo dell’anima tra il non più del mondo-capitale e il non ancora del mondo-soggettività» riecheggia il concetto di intermondo espresso da Vaneigem nel “Trattato di saper vivere”, quando afferma che “l’intermondo è il terreno incolto della soggettività, il luogo in cui i residui del potere e la sua erosione si mescolano alla volontà di vivere”. Assonanza di analisi che inducono Cesarano a scavare in profondità per portare alla luce la radice del problema gnoseologico: il perché ci sono? Domanda che l’analisi di Novello sostiene invece sia un’affermazione, anzi la constatazione crudele «dell’esserci come prodotto: l’inorganicità senza essere della specie umana»; di sicuro una riflessione sulle condizioni esistenziali di una mancanza di senso che il “dover essere” persona sociale risveglia nel desiderio di “saper essere” altro: un individuo indiviso, non dimidiato dalla langue della cultura del potere.
Stabilito dunque che non si può essere, poiché il capitale obbliga alla sopravvivenza, ad una vita ridotta alla mera funzione di autoaffermazione di sé come persona/merce, il “programma” rivoluzionario non può che lottare per un ritorno ad essere in quanto corpo dotato di senso che si riappropria del senso del corpo non più assoggettato alla produzione/riproduzione del capitale. Un rompere lo specchio che riflette la non-vita, o come poeticamente Cesarano scriverà in «Manuale di sopravvivenza» (l’ultimo saggio pubblicato dalla Dedalo nella primavera del 1974) un vedersi introspettivamente per confortarsi in uno “sguardo che non accetterà in eterno di riflettersi” nella persona sociale in cui l’Io [l’Io che pensa] è “l’ego quale centro economico” [l’Io che si pensa]. Del resto, non certo accidentalmente l’incipit della «Critica dell’utopia capitale», pubblicata postuma nel 1978 e nella sua forma di appunti programmatici, pone subito al centro della riflessione l’Io, affermando che “Il pensiero che si pensa è il riflesso del ripiegamento dell’essere, […] il primo istante della valorizzazione dell’io come ente astratto dell’essere quale attività”. Si evince così predisposta la volontà radicale di riportare la passione, il desiderio di amarsi, al fuoco propulsore della rivoluzione biologica che brucia l’orgasmo di un’“insurrezione erotica” della vita contro l’oppressione che cristallizza la sopravvivenza in un’unica possibilità di esistere nella totalità reificata della non-vita. La volontà del desiderio diviene dunque una passione radicale che non può essere riassorbita dal bisogno compulsivo di possedere l’oggetto che la pubblicità invita a consumare come un bene indispensabile, in quanto la passione «non è desiderio di oggettivarsi in un oggetto materiale, non è neppure la cosalità del soggettivo. È ciò che resta dopo la cancellazione della totalità reificata». Solo in questo modo il desiderio non si degrada in bisogno (appagandosi degli oggetti posti da capitale), ma si trasforma in passione desiderante di essere l’uomo che non è mai stato ancora. Ne consegue che l’uomo è da farsi, dal momento che – scrive Cesarano nel «Manuale di sopravvivenza» – “l’origine dell’uomo non è alle spalle, ma dinnanzi agli uomini. L’origine della specie è il fine della rivoluzione biologica”.

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Il sentimento della rivoluzione https://www.carmillaonline.com/2018/04/12/sentimento-della-rivoluzione/ Wed, 11 Apr 2018 22:01:42 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=44747 di Sandro Moiso

Giorgio Cesarano, I GIORNI DEL DISSENSO. LA NOTTE DELLE BARRICATE. Diari del Sessantotto, a cura di Neil Novello e con uno scritto di Gianfranco Marelli, Castelvecchi, 2018, pp.218, € 17,50

Giorgio Cesarano (1928-1975) rimane una delle figure centrali, ma anche una delle più rimosse, dell’attività politico-culturale italiana del secondo dopoguerra. Poeta, autore teatrale e televisivo, traduttore e, soprattutto a partire proprio dal 1968, critico del capitalismo e militante dell’ala più radicale espressa dal movimento di contestazione dell’ordine di vita esistente venutosi a costituire in Italia proprio tra il’68 e il ’77.

Contemporaneo e amico di Giovanni Raboni [...]]]> di Sandro Moiso

Giorgio Cesarano, I GIORNI DEL DISSENSO. LA NOTTE DELLE BARRICATE. Diari del Sessantotto, a cura di Neil Novello e con uno scritto di Gianfranco Marelli, Castelvecchi, 2018, pp.218, € 17,50

Giorgio Cesarano (1928-1975) rimane una delle figure centrali, ma anche una delle più rimosse, dell’attività politico-culturale italiana del secondo dopoguerra. Poeta, autore teatrale e televisivo, traduttore e, soprattutto a partire proprio dal 1968, critico del capitalismo e militante dell’ala più radicale espressa dal movimento di contestazione dell’ordine di vita esistente venutosi a costituire in Italia proprio tra il’68 e il ’77.

Contemporaneo e amico di Giovanni Raboni e Franco Fortini, oltre che di altri importanti esponenti del rinnovamento poetico e culturale italiano dei primi anni sessanta, si sarebbe poi allontanato progressivamente da quello stesso ambiente intellettuale per vivere pienamente l’esperienza e il sentimento, come lo avrebbe definito egli stesso, della Rivoluzione.

L’opera appena ripubblicata da Castelvecchi, con la cura attenta e preziosa di Neil Novello, aveva costituito nel 1968 una delle prime testimonianze dirette di un movimento che, in quella primavera e a Milano, stava muovendo i primi passi. Pubblicata da Mondadori nel luglio di quello stesso anno aveva di fatto costituito l’ampliamento di un testo, “Vengo anch’io” direttamente ispirato all’omonima canzone di Enzo Jannacci, pubblicato da Anna Banti sulla rivista “Paragone”.
All’epoca, però, il testo apparve “censurato” dalla casa editrice e mondato della seconda parte che, già all’epoca, l’autore avrebbe voluto pubblicata insieme alla prima (e pubblicata poi nell’autunno di quell’anno su “Nuovi argomenti” con il titolo “La notte del Corriere”), finalmente ripresa in questa nuova edizione che, inoltre, ripristina anche il testo originale del primo diario.

Mentre la prima parte (I giorni del dissenso) è dedicata dall’autore “ai ragazzi dei radiomegafoni”, la seconda (La notte delle barricate) è dedicata “ai ragazzi delle bottiglie”, segnando così una sorta di cambio di passo sia nella narrazione dei fatti che, nella riflessione di Cesarano, sugli eventi che in quella primavera avrebbero contribuito turbinosamente a modificare il panorama politico, sociale e culturale italiano e internazionale.

I tempi sono diversi, ma vicinissimi: è la cronaca dei giorni compresi tra il 25 marzo e il 9 maggio quella contenuta nel “primo diario”, mentre il secondo copre un periodo molto più ristretto rinchiuso tra l’8 e l’11 giugno. Insomma dalle prime manifestazioni studentesche della primavera alla notte dell’assedio al Corriere della sera, con relativi scontri con la polizia, come risposta all’attentato, avvenuto in Germania, contro il leader degli studenti tedeschi Rudy Dutschke.

Così la prima parte riguarda principalmente le riflessioni di un uomo maturo, già quarantenne all’epoca, nei confronti di un movimento ancora imberbe, con forti elementi di novità ma anche di debolezza nell’analisi dell’esistente. Riflessione che vede l’autore pencolare, inizialmente, tra l’accettazione di quella novità rappresentata dagli studenti in piazza e la non comprensione di un discorso immediatamente radicale che sembra voler far piazza pulita delle affermazioni e convinzioni accumulate in anni di militanza nel movimento operaio. Prima nel PCI e come cronista dell’Unità (da cui fu espulso per la sua adesione adolescenziale alla X Mas) e in seguito nelle esperienze di Classe Operaia e della collaborazione con riviste come Aut Aut, Nuovi argomenti e Quaderni piacentini.

Non a caso il testo era preceduto, già nell’edizione originale, da un’affermazione di Mario Savio, leader delle proteste studentesche americane a Berkeley. Un’affermazione tratta da un discorso tenuto ancora per il movimento per la libertà di parola negli anni delle prime lotte per i diritti civili negli Stati Uniti:

“C’è un’ora in cui le operazioni della macchina divengono così odiose, provocano tanto disgusto, che non si può più stare al gioco, che non si può più stare al gioco nemmeno tacitamente. E’ allora che bisogna mettere i nostri corpi sugli ingranaggi e sulle ruote, sulle leve e su tutto l’apparato della macchina per farla fermare. E’ allora che si deve far capire a chi la fa funzionare, a chi ne è il padrone, che se pure noi non siamo liberi impediremo ad ogni costo che la macchina funzioni”

Sì, perché in seguito a quelle riflessioni Cesarano avrebbe deciso di mettersi in gioco come corpo, oltre che come intelletto. Le parole che fungono da incipit per i giorni del dissenso sono, infatti, le seguenti:

“Sono qui, con le ossa rotte (in pratica per modo di dire, anche se alla base c’è il fatto che sono stato bastonato), la schiena e le gambe che mi fanno male, non so più se per le botte o perché non sono più allenato a muovermi violentemente, a correre e a stare tanto tempo in piedi”.1

Ma mettere in gioco il corpo significherà per Cesarano ben più che partecipare alle manifestazioni e agli scontri di piazza. Vorrà dire riflettere sui corpi come veri protagonisti dell’esistenza umana e sulla necessità di una loro liberazione immediata dalle catene del modo di produzione capitalistico e dal suo naturale corollario costituito dal consumo forzato di merci come unico scopo della vita.
E’ un rifiuto totale del mondo che lo/ci circonda, delle sue leggi, della sua economia, della assurda legge della miseria contro la quale sola può levarsi la rabbia degli oppressi. Immediata e rivoluzionaria già sul momento e nelle pagine centrali del testo, solo il poeta potrà esprimere ciò con la sufficiente potenza visionaria:

“…perché il potere gettò la maschera gli oppressi dettero di muso in sciabole fucili e gas il mondo si spaccò visibilmente in due non crederò mai abbastanza in quello che si vede la fame reale o metaforica può restar fame mille anni covar fame e figliare fame ma la collera la rabbia è un virus di fuoco che può in ogni momento non si deve dimenticare che può in ogni momento rovesciare l’asse del mondo”.

Nella Notte delle Barricate la narrazione si fa più corale e l’esperienza collettiva, anche sulle pagine, mentre, allo stesso tempo, la rottura con la tradizione politica del passato diventa evidente nei fatti.
Non solo perché gli atti, non troppo dissimili da quelli di qualsiasi altra rivolta, acquistano nuovi significati, ma anche perché la rottura con i partiti, o meglio ancora con il Partito con la P maiuscola, il PCI, diventa ineludibile come dimostra, fattivamente e simbolicamente, l’episodio del militante del partito comunista che cerca di cacciare i giovani che hanno trovato rifugio in una delle sue sedi per ripararsi dalle cariche della polizia chiamandoli Provocatori!

Si disvelava così che tutti i giochi del movimento operaio istituzionalizzato altro non erano che strumenti per il mantenimento di un ordine basato sulla produzione e sul consumo di massa, ai cui occhi qualsiasi forma di indisciplina e rifiuto delle regole non poteva e non può apparire che come una provocazione, un complotto, un atto terroristico.

Inizia proprio a partire da questi diari il “salto nel vuoto” del poeta. Un salto che lo porterà ad avvicinarsi agli ambienti e alle formulazioni più radicali della critica di quegli anni.
Come specifica Gianfranco Marelli, nella sua concisa postfazione:

“Sicuramente la frequentazione sul finire degli anni ’60 degli ambienti anarchici milanesi e del milieu situazionista francese, oltre agli studi su Rosa Luxemburg, il consiliarismo e «Socialisme ou barbarie» […] segnarono l’orizzonte teorico di Cesarano e lo condussero a praticare una visione politica radicale rispetto a quanto ribolliva all’interno dei “politicissimi amici” con i quali sul piano intellettuale condivideva l’impegno a svecchiare da sinistra PCI e sindacato. In particolare la partecipazione alla Federazione Anarchica Giovanile Italiana con il gruppo milanese La Comune assieme a Eddie Ginosa, un giovane e stimato compagno con il quale si creò un solido legame intellettuale interrotto bruscamente con il suicidio del giovane nell’ottobre del ’71 – il primo di una lunga serie di suicidi che scosse profondamente Cesarano – gli consentì di tracciare una parabola che lo condusse a riconoscersi in un progetto comunitario intriso di venature marxiste, libertarie, situazioniste.
Munito di questi strumenti teorici, cercò la loro attuazione dapprima nelle nascenti organizzazioni spontanee del Movimento milanese come il CUB Pirelli, divenuto nel 1967 il luogo dell’organizzazione autonoma delle lotte operaie e studentesche, per poi essere fra i protagonisti dell’occupazione del palazzo della Triennale e dell’hotel Commercio, due delle più importanti lotte che contraddistinsero l’anima più radicale del ‘68/’69 meneghino, slegata dalle camarille del Movimento Studentesco di Mario Capanna e dei gruppi politici quali Avanguardia Operaia intenti a monopolizzare ideologicamente la contestazione, fino a partecipare alla fondazione di Ludd, un gruppo informale la cui tendenza era l’estremizzazione delle lotte del proletariato spingendolo ad attuare lotte non sindacali, “anti-economiche”, e forme organizzative consiliari e “unitarie” (né partito, né sindacato) per l’immediata realizzazione del comunismo senza passare attraverso una transizione socialista e senza costruzione di un modello o di un progetto positivo da posporre al “tutto e subito” che allora pareva il realizzarsi della rivoluzione nei soggetti protagonisti del Sessantotto”.2

Non solo, attraverso la frequentazione di Jacques Camatte, di cui diverrà collaboratore e amico, Cesarano si farà riscopritore e teorico di quella comunità umana (Gemeinwesen) già presente nell’opera del giovane Marx e poi utilitaristicamente abbandonata dai suoi successivi epigoni, interessati più a far rientrare il movimento operaio e l’azione di classe all’interno delle logiche della politica e della produzione più che alla liberazione dell’umana specie dalle catene dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, dell’uomo sull’ambiente e dell’uomo sulla donna.

A partire da quegli anni, bruciando velocemente le tappe di ogni discorso culturale che non fosse anche critica radicale dell’esistente, Cesarano produrrà alcuni dei suoi testi più significativi,3 collaborerà con le riviste Puzz e Provocazione lasciando ancora alle sue spalle, dopo la drammatica morte, una grande quantità di scritti che hanno iniziato ad essere raccolti nelle opere complete edite a cura del Centro di iniziativa Luca Rossi di Milano.4

Attraverso quegli anni e il personale travagliatissimo percorso politico, oltre che tra le pagine dei diari, ci guidano in maniera articolata e profonda sia Neil Novello5 che Gianfranco Marelli, entrambi esperti conoscitori dell’incandescente materia trattata.

Costituita, come si è già detto, da un’esistenza che ha attraversato il Novecento nella convinzione assoluta che «L’uomo non è mai stato ancora». Da una critica della modernità che, a differenza di quella radicale ma conservativa portata avanti da Pasolini, ha cercato di indicare una comunità umana del futuro da opporre alla mortifera globalità capitalistica. Da opere provocatoriamente memorabili in grado di far sognare la fine della preistoria come presente, accendere la speranza nella rivoluzione biologica, varare le ontologie del desiderio e della passione per annientare il senso morto dell’esistenza. Tutto per giungere ad un altro modello di vivere umano.

Ciò potrebbe costituire l’unica vera eredità trasmessaci dai movimenti desideranti e combattivi di un decennio di cui Cesarano fu, per gran parte, testimone e interprete e proprio per questo motivo al curatore Neil Novello e a Gianfranco Marelli, oltre che all’editore, devono andare i ringraziamenti del recensore e dei lettori per quella che è destinata a rimanere fin da ora una delle migliori celebrazioni dei cinquant’anni dal ’68.


  1. pag. 41  

  2. Gianfranco Marelli, Istantanea del Séssantotto [Per una rinascita ontologica del Movimento], op. cit. pp. 213-214  

  3. Giorgio Cesarano- Gianni Collu, Apocalissa e rivoluzione, Dedalo 1973; G. Cesarano, Manuale di sopravvivenza, prima edizione Dedalo 1974 ora Bollati Boringhieri 2000 (con una prefazione e una cronologia della vita e delle opere a cura di Gianfranco Marelli)  

  4. Delle quali è per ora disponibile soltanto il terzo volume: Critica dell’utopia capitale  

  5. Autore, tra l’altro, dell’unica ricerca dedicata interamente all’opera del poeta-militante: Neil Novello, Giorgio Cesarano. L’oracolo senza enigma, Castelvecchi 2017  

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L’Internazionale Situazionista: merce, desiderio e rivoluzione https://www.carmillaonline.com/2017/07/17/linternazionale-situazionista-merce-desiderio-rivoluzione/ Mon, 17 Jul 2017 21:00:32 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=39328 di Sandro Moiso

Gianfranco Marelli, L’AMARA VITTORIA DEL SITUAZIONISMO. Storia critica dell’Internationale Situationniste 1957- 1972, Mimesis Edizioni 2017, pp.456, € 26,00

A sessant’anni esatti dalla Conferenza di Cosio d’Arroscia (Imperia) del 28 luglio 1957 che ne stabilì di fatto la nascita, l’Internazionale Situazionista continua a costituire una sorta di oggetto volante non identificato della teoria politica e della critica radicale dell’arte, della cultura e della società capitalistica avanzata.

Anche se il suo equipaggio, nel corso dei suoi quindici anni di vita, comprese complessivamente non più di 70 persone (di cui soltanto sette donne), “Navigare sul mare della storia del situazionismo [...]]]> di Sandro Moiso

Gianfranco Marelli, L’AMARA VITTORIA DEL SITUAZIONISMO. Storia critica dell’Internationale Situationniste 1957- 1972, Mimesis Edizioni 2017, pp.456, € 26,00

A sessant’anni esatti dalla Conferenza di Cosio d’Arroscia (Imperia) del 28 luglio 1957 che ne stabilì di fatto la nascita, l’Internazionale Situazionista continua a costituire una sorta di oggetto volante non identificato della teoria politica e della critica radicale dell’arte, della cultura e della società capitalistica avanzata.

Anche se il suo equipaggio, nel corso dei suoi quindici anni di vita, comprese complessivamente non più di 70 persone (di cui soltanto sette donne), “Navigare sul mare della storia del situazionismo non è certo facile” come afferma Gianfranco Marelli al termine del suo lungo, dettagliato, appassionato e sofferto studio di quello che può essere ancora definito come uno dei movimenti più radicali della seconda metà del ‘900 e forse l’unico le cui principali formulazioni possano ancora costituire, almeno in parte, un’eredità immarcescibile per l’azione sociale antagonista nel secolo in cui siamo entrati, quasi senza accorgercene, ormai da un ventennio.

Gianfranco Marelli si occupa dell’argomento da più di venti anni e l’attuale pubblicazione di Mimesis costituisce la ristampa, ampliata e arricchita (72 note a piè di pagina e 50 pagine in più rispetto alla precedente) del testo pubblicato per la prima volta nel 1996 dalle Edizioni BFS di Pisa.
Nel corso degli anni Marelli ha pubblicato sull’argomento “L’ultima internazionale. I situazionisti oltre l’arte e la politica” (Bollati Boringhieri 2000) e “Una bibita mescolata alla sete” (BFS Edizioni 2015). Inoltre ha curato, per il secondo volume de “L’altronovecento. Comunismo eretico e pensiero critico” (Jaca Book 2011), la voce “L’Internazionale Situazionista” ed ha sviluppato la sua riflessione sulla stessa attraverso una grande varietà di saggi e contributi pubblicati in volumi collettanei e su riviste, sia cartacee che online.

A darci la cifra della passione dell’autore per l’argomento basterebbero le poche parole poste al termine del Prologo, quando ricordando lo smarrimento provato in seguito alla notizia del suicidio di Guy Debord, che del movimento era stato il profeta e il leader indiscusso, mentre si trovava a Parigi con la speranza (vana?) di incontrarlo, scrive: “Improvvisamente il tempo, a Parigi, era cambiato. Faceva freddo e da allora non smise più”.

Ma la passione di Marelli si lega pure ad una grande lucidità che, a differenza di altri tardivi o antichi estimatori dell’Internationale Situationniste, gli permette di analizzare quanto è rimasto di vivo e quanto invece è stato riassorbito dalle logiche del potere e dalla società capitalistica di quella, pur vivacissima, esperienza. Come lui stesso ha affermato; “L’amara sconfitta del situazionismo e il bisogno di evitare la noia di un REFRAIN pro-situazionista sono concetti tutt’ora validi. Si tratta di ANDARE OLTRE. Come, del resto, avrebbe voluto lo stesso Guy Debord.

L’esperienza situazionista era nata dai fermenti dell’arte d’avanguardia successiva al secondo conflitto mondiale e dalle teorie critiche che, già dalla seconda metà degli anni ’40 del Novecento, avevano aggredito violentemente sia le passate esperienze surrealiste e dadaiste che l’urbanistica razionalizzante di Le Corbusier e la banalità della vita quotidiana, ridotta a sopravvivenza e a trionfo dell’ordine economico e sociale borghese, che i riti del consumo e le stesse strutture urbanistiche finivano con l’esaltare.

Un percorso che dal Lettrismo di Isidore Isou passerà, tramite rotture, separazioni ed espulsioni che ne caratterizzeranno sempre il cammino fino alla dissoluzione formale, attraverso la successiva Internazionale Lettrista (in cui sarà già preminente la figura di Debord), il movimento COBRA e il Movimento Internazionale per una Bauhaus Immaginista. Sarebbero stati questi tre movimenti, inizialmente separati, ad incontrarsi con altri artisti nel Primo Congresso Mondiale degli Artisti Liberi, tenutosi ad Alba dal 2 all’8 settembre 1956, e a porre le basi per la Conferenza del 1957 da in cui l’Internationale Situationniste sarebbe poi nata.

E’ una storia di correnti artistiche e urbanistiche radicali e di uomini, spesso di singoli individui, quella che caratterizza le origini del Situazionismo. E questo aspetto viene sottolineato dall’autore che, al contempo però, rifiuta di ricostruire le singole vicende individuali per dare più spazio invece alle formulazioni teoriche prodotte e ai risultati raggiunti dall’insieme dei suoi componenti (spesso momentanei).

Certo non mancano le figure di rilievo nella ricostruzione di Marelli. Dallo stesso e onnipresente Debord a Pinot Gallizio, dall’olandese Constant, a Raoul Vaneigem, Asger Jorn, Gianfranco Sanguineti e molti altri che occuperebbero qui, in una recensione, troppo spazio se fossero tutti elencati. Ma come ha scritto Marelli in altro contesto: ”La tendenza a raccontare non più LE PERSONE CHE FANNO STORIA (ce ne sono, fidatevi) ma LA STORIA DELLE PERSONE, ha impresso alla memorialista un carattere confidenziale, da fotoromanzo, che esaspera l’intimità personale fino a farla USCIRE DA SÉ IN UN’ESTASI ESPLICATIVA DEL TUTTO COLLETTIVO, così da “finalmente comprendere come i fatti andarono per davvero”. La problematica va trattata GENTILMENTE, sostenendone l’importanza, evidenziandone la particolarità, cogliendone le ambiguità, ma senza mai scadere nell’OLEZZO DI LENZUOLA STROPICCIATE”.1

Il personalismo delle vicende narrate conta per quanto ha potuto influire sul percorso e le rotture in seno al movimento e non certo per stuzzicare il voyeurismo del lettore. In fin dei conti l’”ultima” Internazionale era nata in un ambiente artistico ed intellettuale ristretto in cui le mire e le aspirazioni personali, anche se travestite in alcuni casi da critica radicale, finirono spesso col determinare quelle rotture e dimissioni di cui si è precedentemente parlato ancor più che le vicende del contesto socio-politiche circostante.

Vicende storiche e politiche che, però, non furono mai estranee alle vicende del Movimento. Basti pensare che le tre fasi più significative della storia dello stesso incrociarono fatti e vicende estremamente significative per il successivo sviluppo dei movimenti rivoluzionari.

Il 1956 con la rivolta d’Ungheria e la crisi “formale” dello Stalinismo corrispose a quel Primo Congresso Mondiale degli Artisti Liberi che vide i partecipanti esprimersi, in alcuni casi, contro gli apparati burocratici e senescenti dei partiti presunti proletari e a favore di una visione consiliarista della lotta politica.

Il 1968 con l’insurrezione generalizzata degli studenti e dei giovani prima e di una parte significativa del mondo operaio poi, che vide il trionfo delle teorie situazioniste sulla necessità di fare la rivoluzione a partire dal rovesciamento delle strutture della vita quotidiana e dal rifiuto della mercificazione di ogni attività umana.

Gli anni compresi tra l’inizio dei Settanta e il 1977, periodo in cui il Situazionismo si sgretolò organizzativamente proprio nel momento in cui le sue idee sembravano diffondersi sempre più attraverso i mille rivoli e le mille formulazioni dei movimenti di rivolta che avevano, in alcuni casi, superato le divisioni causate dalle camarille politiche e sindacali falsamente di sinistra. Troppo spesso falsamente estremiste.

E’ un ben strano destino quello che vede il Situazionismo agonizzare proprio nel periodo in cui le sue critiche più audaci agli ambienti “militanti” dell’estremismo parolaio sembravano aver maggiormente attecchito a livello di massa . Ma anche quello fu solo un momento nel lungo cammino della liberazione della specie visto il rapido riformarsi delle sette e delle burocrazie (spesso clandestine) proprio all’apice di quei movimenti. Il quotidiano tornava in cantina e le “organizzazioni” in quanto partiti o gruppi armati riprendevano il sopravvento.

Ora, anche se nel testo l’attenzione per il “fallimento” degli ideali situazionisti e dei loro rappresentanti occupa un discreto spazio (si pensi soltanto all’aggettivo “amara” che accompagna la parola “vittoria” nel titolo), vale forse la pena qui di sottolineare almeno alcuni degli elementi che caratterizzano ciò che l’autore definisce come L’oro situazionista, ovvero l’eredità che Vaneigem sintetizzò così ironicamente: “tutto quello che noi abbiamo detto sull’arte, il proletariato, la vita quotidiana, l’urbanismo lo spettacolo [che] si trova ripreso ovunque, tranne l’essenziale”.2

In mezzo ai tanti credo valga la pena di riprenderne almeno quattro, i primi due già presenti nel Rapport sur la construction des situations e sur les conditions de l’organisation et de l’action de la tendance situationniste internationale, scritto da Debord nel maggio del ’57 e stampato a Bruxelles nel giugno, in vista della Conferenza di unificazione del luglio successivo.

1) La Borghesia in fase di liquidazione

All’epoca una critica delle difficoltà della borghesia e del capitalismo di mantenere in vita i propri valori attraverso una cultura, un’arte e scelte politiche ormai superate, anche e proprio quando volevano presentarsi come “moderne”. Un concetto che superava in qualche modo e allo stesso tempo arricchiva la concezione marxista della crisi del capitalismo inteso come mero fatto economico e che coinvolgeva nella sua critica sia i paesi del “capitalismo avanzato” che quelli del “socialismo reale”. Una concezione che oggi, a sessant’anni di distanza, non mostra solo la sua utilità sul piano della critica culturale ma, e soprattutto, nel momento in cui gli strumenti di rappresentanza del potere politico borghese (i parlamenti, i governi e gli stati nazionali) sembrano aver perso qualsiasi valore effettivo. Trasformandosi soltanto in mere ed appassite funzioni del capitale finanziario sovranazionale. Liquidati definitivamente non dalla rivoluzione proletaria, ma dalla globalizzazione che ha dimostrato l’inutilità dei confini e delle separazioni nazionalistiche.

2) Far retrocedere dappertutto l’infelicità

Contro l’idea di felicità borghese, fin dagli inizi il situazionismo rivendicò l’enorme potenziale di scoperta di nuovi desideri e reali motivi di felicità insita nelle lotte e nelle rivolte. Nel détournement dei significati e nella costruzione di situazioni soggettive, e molto meglio se collettive, tese a ribaltare e ad utilizzare differentemente gli spazi della vita quotidiana, architettonici, urbani e psichici. La felicità connessa agli ideali borghesi e piccolo-borghesi non può rappresentare altro che la base reale dell’infelicità collettiva, soprattutto laddove l’alienazione umana legata al lavoro e al consumo (in tutti i suoi multiformi aspetti) viene mascherata da normalità o ancor peggio da “realizzazione soggettiva”. E’ chiaro quindi che la felicità vera può realizzasi soltanto nel momento in cui la lotta contro il modo di produzione capitalistico non si limita al mero fatto o rivendicazione di carattere economico-riformistico, ma trasforma l’ambiente sociale e le mentalità che ne sono il prodotto, rifiutandone in primo luogo la mercificazione. Una rivoluzione in permanenza dello stile di vita e dell’organizzazione culturale (intendendo qui il termine cultura nel suo senso più ampio di norme, conoscenze, abitudini, etiche ed estetiche) più che una monolitica rivoluzione politica è quella che si può intravedere nella proposta situazionista fin dalle origini. Proposta messa collettivamente ed inconsciamente in atto da tutti movimenti autenticamente rivoluzionari (dalla Comune a quelli del maggio ’68 e degli anni successivi). Una rivoluzione che vive e cresce nelle lotte, ma che è soffocata dai partiti e dagli Stati, anche quando si definiscono proletari o indipendenti.

3) La proletarizzazione del mondo

Secondo la concezione situazionista “la società del benessere, nel cercare di integrare il proletariato ai valori dominanti, aveva ampliato il proprio dominio sulla vita trasferendo all’esterno dei rapporti di produzione le condizioni di alienazione/separazione che la produzione della merce aveva da tempo sussunto nel lavoro, e che ora il consumo della merce prodotta replicava fedelmente nel tempo libero. Per i situazionisti, quindi, la stessa definizione di proletariato, non era più delimitata dall’attività lavorativa compiuta nel sistema produttivo capitalistico, ma riguardava ormai l’intera vita degli individui che era espropriata e sfruttata (al fine di riprodurla come merce) all’interno dei processi di valorizzazione e scambio della merce; ogni individuo espropriato della propria vita – vale a dire, ormai privo della possibilità di controllarla e guidarla oltre gli imperativi economici dettati dalla produzione e dal consumo capitalistico – era dunque un proletario, e la cosiddetta società del benessere non solo (come invece sostenevano i sociologi di «Arguments») non aveva migliorato, superandola, la condizione proletaria dei ceti subalterni, ma addirittura aveva proletarizzato l’intera società.[…] l’Internationale Situationniste osservava che il processo di proletarizzazione della società concerneva non soltanto il diffondersi di questa divisione nel mondo produttivo, ma ben più l’affermarsi di un sistema economico che creava condizioni di alienazione/separazione del vissuto quotidiano, quali fattori di dominio totalizzante compiuto dalla merce nel mondo.3 La proletarizzazione completa dei paesi a capitalismo avanzata passa dunque attraverso il consumo (di merce, tempo libero, spettacolo) più che attraverso il bisogno e torna a trasformare il proletariato in classe deprivata (oggi anche del potere di consumare) pronta a lavorare in qualsiasi condizione e per qualsiasi salario.

4) La società dello spettacolo

Resta per molti questo l’assunto fondamentale della teoria situazionista, magistralmente esposta nel testo di Guy Debord dallo stesso titolo. Ciò che più conta in esso, e che spesso non è colto a fondo, è il fatto che tale spettacolarizzazione della realtà sociale non tocca soltanto la fascinazione esercitata dalla merce o l’azione giaculatoria ed ossessiva esercitata dai media in tutti i campi ma, e soprattutto, l’immagine e il ruolo del proletariato all’interno della società.
La nozione di spettacolo – adottata dai situazionisti per definire la società contemporanea e il suo sistema di dominio diffuso (nei regimi capitalisti), e concentrato (nei regimi totalitari) – concretizzò il concetto per cui «tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione»; di modo che l’alienazione/separazione degli individui dalla propria vita quotidiana espresse nello stesso tempo il risultato e il progetto del modo di produzione della merce nel mondo, divenuto il mondo della merce. Lo spettacolo – vale a dire «il riflesso fedele della produzione delle cose, e l’oggettivazione infedele dei produttori» – divenne quindi la chiave interpretativa della realtà contemporanea che consentì ai situazionisti di elaborare una teoria critica della vita quotidiana quale cartina di tornasole per rilevare la necessità del proletariato di assurgere a classe della coscienza; classe della coscienza delle proprie condizioni di alienazione, separazione, prodotte dalla società dello spettacolo e perpetuate grazie – soprattutto – ai suoi rappresentanti di classe, il partito e il sindacato. Il processo di estraniazione rifletteva così la condizione proletaria sia nei confronti del sistema di dominio, sia nei confronti del sistema ad esso antagonista, rappresentato dalle istanze “rivoluzionarie” dell’ideologia marx-leninista, che specularmente separavano il proletariato dalla propria coscienza per divenirne i padroni della sua coscienza; rappresentato dal partito-guida, il proletariato era così alla mercé dei “rivoluzionari di professione”, il cui compito non era l’abolizione del proletariato in quanto classe del capitale, ma l’affermazione del proprio potere di classe burocratica sul proletariato. Ecco perché, a parere dei situazionisti, la critica ai regimi comunisti non poteva essere una critica che si limitava a correggere gli errori compiuti dal partito nella gestione dello stato, ma doveva essere una critica che individuava nel partito, nello stato i medesimi processi di alienazione/separazione che il proletariato subiva nella società capitalista, perché speculari – anche se in negativo – alla stessa rappresentazione spettacolare del proletariato che doveva essere combattuta sia nei paesi capitalisti, sia nei paesi «socialisti».4

Alla fine i fili si riannodano tutti: critica del quotidiano, dell’estraniazione, del lavoro coatto, della merce e della reificazione dell’esistenza, in un quadro in cui “La necessità di «reinventare la rivoluzione» divenne per l’Internationale Situationniste il criterio prioritario per riconoscere le forze agenti che avrebbero trasformato il mondo, riconoscendosi, di conseguenza, nella pratica radicale delle loro azioni. I fenomeni che nelle società industrialmente avanzate raffiguravano il rifiuto ai valori della produzione e del consumo, così come la disaffezione nei confronti delle forme rappresentative della politica (il partito, il sindacato, lo stato) furono assunti dai situazionisti come conferma delle proprie ipotesi teoriche, anzi come realizzazioni pratiche delle idee elaborate. Il «rifiuto del lavoro», che gli strati marginali e giovanili nella metà degli anni ’60 – soprattutto negli Stati Uniti e nei paesi anglosassoni – manifestavano come forma di contestazione radicale al sistema, catturò l’interesse dei situazionisti al punto che essi vi videro una conferma parziale (in quanto non ancora organizzata) delle possibilità di superamento rivoluzionario delle condizioni economiche attuali.5.

Forse alcuni di questi assunti sembrerebbero giovare al capitalismo odierno, eppure, eppure…
Nonostante i transfughi, nonostante i fallimenti, nonostante tutto ciò che ha potuto essere riassorbito e riciclato dal modo di produzione dominante, e che Marelli segnala con lucidità a tratti spietata, un po’ di oro è rimasto e proprio questo libro può aiutarci a riscoprirlo per trarne l’essenziale.

Il recensore si scusa in anticipo per i limiti imposti dallo spazio di una recensione, ma il testo di Marelli resta indispensabile ancora oggi e sarà anche compito del lettore individuare e magari utilizzare ancora nel presente, apparentemente così lontano e contemporaneamente così simile al mondo in cui l’Internationale Situationniste ebbe modo di sparare le proprie bordate e di affermarsi come strumento fondamentale della critica radicale, oltre a quelli fin qui accennati, molti altri temi ancora utili per demolire le mitologie più perniciose e stridenti dell’esistente e della sua pretesa e fasulla modernità.


  1. Valga come esempio, per tutti, il recente testo di Donatella Alfonso, Un’imprevedibile situazione. Arte, vino, ribellione nasce il Situazionismo, il melangolo, Genova 2017. Un libro che sembra considerare la fondazione dell’I.S. un incidente casuale durante un’allegra bisboccia, il cui capo era solito fin dal mattino bersi almeno un litro di vino. Narrando così che, in uno sperduto e spopolato paesino dell’entroterra savonese, improvvisamente le cantine furono prese d’assalto da uno sparuto manipolo di situazionisti. Magari sbagliando anche la data e fissando la Conferenza nel luglio del 1958 invece che del 1957!  

  2. cit. in Marelli, pp.423-424  

  3. Marelli, pp. 404–405  

  4. Marelli, pp. 404-405  

  5. Marelli, pag. 405  

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Dalla società dello spettacolo alla società della rete https://www.carmillaonline.com/2017/04/18/dalla-societa-dello-spettacolo-alla-societa-della-rete/ Mon, 17 Apr 2017 22:01:40 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=37558 grillodrome 1 Rinaldo Mattera, GRILLODROME. Dall’Italia videocratica all’impero del clic, Mimesis 2017, pp. 200, euro 20,00

[Qui di seguito un estratto dalla postfazione di Gianfranco Marelli, “Pianificazioni, dispositivi, narrazioni a confronto”, al testo di prossima pubblicazione per i tipi editoriali di Mimesis]

Se dovessimo tratteggiare in poche righe il carattere pregnante dello studio di Rinaldo Mattera nel descrivere puntualmente lo stato catatonico in cui versa una parte cospicua dell’elettorato italiano negli ultimi vent’anni – dalla “discesa in campo” di Silvio Berlusconi al primo “V-day” di Beppe Grillo, alla “rottamazione” di Matteo Renzi – potremmo osservare quanto il sunnominato elettore, più [...]]]> grillodrome 1 Rinaldo Mattera, GRILLODROME. Dall’Italia videocratica all’impero del clic, Mimesis 2017, pp. 200, euro 20,00

[Qui di seguito un estratto dalla postfazione di Gianfranco Marelli, “Pianificazioni, dispositivi, narrazioni a confronto”, al testo di prossima pubblicazione per i tipi editoriali di Mimesis]

Se dovessimo tratteggiare in poche righe il carattere pregnante dello studio di Rinaldo Mattera nel descrivere puntualmente lo stato catatonico in cui versa una parte cospicua dell’elettorato italiano negli ultimi vent’anni – dalla “discesa in campo” di Silvio Berlusconi al primo “V-day” di Beppe Grillo, alla “rottamazione” di Matteo Renzi – potremmo osservare quanto il sunnominato elettore, più della ricerca di una probabile soluzione ai problemi che lo convinca della scelta da compiere per risolverli, è propenso alla ricerca di una “narrazione” plausibile, rispetto ai problemi da risolvere, in grado di convincerlo della loro immediata e garantita risolubilità.

Di questo bisogno di una plausibile “narrazione” capace di semplificare la complessa realtà di una società globalizzata e pertanto uniformata entro spazi delimitati da cornici informazionali economico-finanziarie, in cui l’elemento tecnologico ne appiattisce il tempo in un presente immediato senza più passato né futuro, è racchiuso il consenso e il conseguente successo elettorale – dove l’interesse privato ha sostituito il pubblico interesse – che cronologicamente ha avvinto il partito/azienda di Berlusconi, la premiata ditta del litigioso duo Bersani/Renzi, e il marketing digitale del blog di Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio, luogo cibernetico del Movimento Cinque Stelle.

[…] Come si è giunti a tanto, ma soprattutto quali conseguenze comporta il credere ad una simile narrazione? Cercare di rispondervi comporta anzitutto verificare se vi sono stati altri precedenti storici che hanno invertito, sostituito, riprogrammato il rapporto tra la realtà della vita quotidiana e la sua rappresentazione immaginifica, spettacolare, al punto che – sottolinea Mattera – «la transizione tra online e offline, la ricombinazione delle identità tra virtuale e reale non sembra più essere un’utopia, o distopia, come predetto dalle controculture di fine millennio». Di più, significa cogliere una traccia che permetta l’individuazione di un file rouge fra ciò che è stata considerata la “Società dello Spettacolo” e ciò che si presenta ai nostri sguardi come la “Società della Rete”. Dal momento che la prima definizione rimanda ad un sistema economico di stampo fordista in cui la fabbrica/città è il luogo interno della produzione, ed esterno del consumo delle merci, la seconda riguarda il contesto in cui la produzione ed il consumo delle merci coincidono con la riproduzione biopolitica degli individui, considerati essenzialmente come fonti primarie per la privatizzazione del capitale cognitivo attraverso le più svariate forme della precarietà sociale nella postfordista città/fabbrica.

[…] Il concetto di “spettacolo” per specificare la società dei consumi, sorta dalle macerie del secondo dopoguerra e sviluppatasi nel corso dei “gloriosi trent’anni” della ricostruzione dello spazio della produzione e del consumo capitalista [1945/1975], lo si deve ai situazionisti, [… convinti che] il conquistato consumismo da parte delle masse aveva determinato l’imporsi di una visione del mondo come spettacolo della merce su tutto ciò che è vissuto, sino a raggiungere il suo momento culminante nella pianificazione della felicità. Pertanto, occorreva – scrissero nel documento di fondazione dell’I.S. – «distruggere, con tutti i mezzi iperpolitici, l’idea borghese di felicità», e promuovere una nuova idea di felicità per contrastare, combattere e distruggere la pianificazione di uno sviluppo sociale, che avrebbe consentito il perpetuarsi del sistema di sfruttamento ed alienazione basato su di un modello di vita quantitativamente migliore del precedente, ma qualitativamente più massificato, anonimo, reificato, così da determinare una sopravvivenza aumentata contenente la privazione: ossia non l’al di là della privazione, bensì la privazione divenuta più ricca di cose povere contrabbandata per felicità.

[…] In Italia il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica, determinato dall’inchiesta giudiziaria “Mani pulite” che per prima accertò quanto i costi della politica non fossero più tollerabili per un sistema economico-finanziario in fase di ristrutturazione con il conseguente taglio alle spese per l’ormai vetusta e corrotta rappresentanza partitica, condusse Silvio Berlusconi a “scendere in campo” dando vita al partito/azienda Forza Italia, caratterizzando l’impronta personalista e privatistica di tutta la nuova politica italiana, imprimendone uno spirito liberal-populista che verrà preso a modello anche dai partiti d’opposizione – durante e dopo il berlusconismo imperante – al punto da tracciare il rinnovamento, lo svecchiamento, del modo di far politica attraverso il parlar franco, in maniera spiccia e “popolare”, ma soprattutto con cipiglio decisionista, contrario ça va sans dire al linguaggio paludato, burocratico e politically correct tanto caro alla “casta al potere”.

Fu questo l’inizio della Buona Novella, della nuova narrazione che affascinò l’elettorato italiano e condusse il Paese a sottostare ad una pianificazione di controllo i cui dispositivi disciplinari mediatici – obbedendo ad una logica non più welfarista, ma neo-liberista – vennero riformulati gradualmente in chiave privatistica a partire dalle reti televisive Mediaset, fino ad arrivare alla Rete 2.0 con la privatizzazione del cyberspazio attraverso l’evoluzione del World Wide Web, il proliferare dei social network e l’espandersi dell’E-Commerce in senso interattivo.

Il passaggio è stato fulmineo, repentino. Come documenta lo studio di Mattera, sebbene l’affermarsi della cultura digitale in Italia sia stata rallentata dai conflitti di interesse tra sistema mediatico e pratiche politiche, entrambi protesi al perdurare della supremazia del medium televisivo come potere videocratico, «una gran parte degli internauti italiani è entrata nel mondo del web 2.0, quello di Facebook e della connettività mobile, senza passare per gli stadi intermedi. Siamo praticamente ancora in “un paese di televisori e telefonini”». Ciò ha determinato non solo un approccio ingenuo e semplicistico dello strumento mediatico, tale da utilizzare la Rete – meglio, i social network – come vetrina nella quale specchiare la propria immagine bulimica, ma soprattutto caricarla di una valenza politica in cui la narrazione della Buona Novella [il popolo che finalmente si ribella alla “Casta”] dai talk show e dai giochi televisivi è trasmigrato nel cyberspazio, determinando «una mutazione degenerante della democrazia, una patologia virale che si annida nel flusso informazionale del villaggio globale».

Il paradosso mediatico insito nella “mutazione degenerante della democrazia”, descritta puntualmente nella presente opera, appare del tutto evidente se osserviamo quanto simile sia il dispositivo che ha sorretto per molti anni la fortunata trasmissione della televisione generalista, “Ok, il prezzo è giusto!”, condotta da una delle icone populiste del partito/azienda di Silvio Berlusconi, Iva Zanicchi, eurodeputata e conduttrice del gioco televisivo [andato interrottamente in onda sulle reti Mediaset dal 21 dicembre 1983 al 13 aprile 2001], con l’asset che caratterizza la maggior parte degli internauti italiani ogni qual volta cliccano numerosi il like a commento di opinioni, iniziative, semplici emozioni, diffuse in Rete, esprimendo una sorta di “Ok, l’idea è giusta!”.

Pertanto non più soltanto la merce, ma soprattutto l’idea, è divenuta nella Società della Rete la pianificazione della felicità per la partecipazione democratica e libera, così come lo è stata in modo meno virtuale e più terra-terra la pianificazione della felicità per la sopravvivenza aumentata nella Società dello Spettacolo. Con una differenza sostanziale: la pressoché totale mancanza di coscienza critica nei confronti dell’attuale dispositivo di controllo, se non addirittura il completo ed entusiastico assenso, al punto da minimizzare o perfino volutamente ignorare quanto sia performativo per il soggetto coinvolto nell’azione il credere di esprimersi democraticamente ed in assoluta libertà all’interno di un contesto spaziale [la Rete], costituito dai recinti privati [i social network, i blog] il cui interesse prioritario è la messa a profitto dei visitatori/produttori cognitivi. Perché la necessità di «distruggere con tutti i mezzi iperpolitici l’idea borghese di felicità» così pressante nella seconda metà del secolo scorso non sembra più d’incombente attualità?

Nel tratteggiare l’evoluzione e la trasformazione subita negli ultimi 70 anni da parte della tecnologia dei computer e del linguaggio cibernetico, Rinaldo Mattera evidenzia quanto il dibattito sulla cyber democrazia sia oscillato da un primo approccio utopistico – caratterizzato da un utilizzo della Rete attraversata da una spinta utopistica e libertaria, dovuta «al genio degli individui che per primi hanno avuto l’ardire di violare l’accesso esclusivo e istituzionale alla rete», così da aprire la comunicazione telematica in spazi aperti potenzialmente a tutti – ad una visione distopica sempre più marcata, a causa del fatto che «il rapporto egemonico che i dispositivi digitali impongono sulla cultura e il potere che attraversa i corpi e ne istituisce il pensiero e le azioni, sono elementi che lasciano trasparire come il potenziale democratico di internet non favorisca le classi sub-alterne, ma anzi rafforzi il potere delle élite, vecchie e nuove». Così da luogo aperto in cui sperimentare pratiche di comunicazione libertaria in grado di diffondere un utilizzo dei mezzi mediatici finalizzati alla condivisione, partecipazione e rinnovazione della tecnologia applicata ai saperi, il cyberspazio si è trasformato in un luogo chiuso, recintato in angusti spazi privati dove si esercita una sorveglianza panottica di pochi sui molti e il divenire rivoluzionario promesso dal web non è altro che l’ennesima narrazione in cui l’acclamata “democrazia digitale” risulta essere la nuova pianificazione della felicità della Società della Rete.

Esempio calzante di questa mutazione è l’affermarsi del Movimento 5 Stelle come narrazione mitopoietica di un agire democratico attraverso le potenzialità offerte da Internet e rese disponibili grazie alla sensibilità e al disinteresse di illuminate figure manageriali – Gianroberto e Davide Casaleggio – che hanno messo a disposizione la propria competenza professionale grazie al fortunato e propizio incontro con l’uomo di spettacolo Beppe Grillo, la cui fama e notorietà per una carriera televisiva borderline gli ha consentito di assurgere ad influencer del proprio blog – gestito dalla Casaleggio Associati – aggregando gli utenti/militanti del M5S per instradarne la partecipazione ad un progetto politico suggestionato dall’emotività di un discorso appagante perché risolutorio attraverso una visione semplice delle cose del mondo così da costruire un senso comune fra chi è favorevole al cambiamento già possibile in Rete tramite la “democrazia digitale”, e chi è ancora ancorato alla intermediazione dei partiti e dell’informazione mainstream a loro asservita.

Il fatto che i Pentastellati si siano da subito acclamati “Movimento”, se significativamente ha voluto sottolineare la distanza da qualsiasi forma “partito” come da qualsiasi ideologia ritenuta superata, inconcludente e perniciosa, fin dal suo esordio pubblico si è dimostrato essere un bluff, [… infatti] mai hanno messo in discussione il sistema economico e l’apparato amministrativo, ma nel condannare l’inefficienza dovuta alla corruzione dei partiti e al malaffare delle istituzioni pubbliche, hanno fatto dell’onestà la narrazione vincente del proprio impegno al servizio del Paese. Un’onestà che Rinaldo Mattera, senza mai nominarla, analizza scandagliando i dispositivi che hanno istituito la macchina per il consenso e la diffusione della narrazione penta stellata […] . Del resto, quando «la tecno-filia, il risoluzionismo di internet, il tecno-positivismo esasperato, il feticismo digitale convivono nelle narrazioni mitopoietiche del M5S, come di Apple, Google, Microsoft», non solo è doveroso dubitare che l’onesta possa essere “la formula che mondi possa aprirti”, ma è necessario ribadire “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”. Per una nuova idea di felicità.

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