ghost story – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 James & James – Fantasmi (Victoriana 38/II) https://www.carmillaonline.com/2022/10/28/james-james-fantasmi-victoriana-38-ii/ Fri, 28 Oct 2022 20:00:16 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=74509 di Franco Pezzini

(Qui la prima parte)

2.1. Un erudito in triciclo

Il profilo di Montague Rhodes James (1862-1936, “Montie” o “Monty” per gli amici, mentre la firma era sempre “M.R.J.”) è sicuramente molto diverso da quello di Henry. Anzitutto è inglese, un medievista di rango accademico, prevosto del King’s College di Cambridge (1905-1918), poi dell’Eton College (1918-1936), e vicecancelliere dell’Università di Cambridge (1913-1915). Del suo lavoro di medievista e studioso diremo qualcosa, ma oggi è ricordato principalmente per il suo fondamentale contributo alla ghost story, che ha rimodulato in termini di [...]]]> di Franco Pezzini

(Qui la prima parte)

2.1. Un erudito in triciclo

Il profilo di Montague Rhodes James (1862-1936, “Montie” o “Monty” per gli amici, mentre la firma era sempre “M.R.J.”) è sicuramente molto diverso da quello di Henry. Anzitutto è inglese, un medievista di rango accademico, prevosto del King’s College di Cambridge (1905-1918), poi dell’Eton College (1918-1936), e vicecancelliere dell’Università di Cambridge (1913-1915). Del suo lavoro di medievista e studioso diremo qualcosa, ma oggi è ricordato principalmente per il suo fondamentale contributo alla ghost story, che ha rimodulato in termini di realismo sornione – le storie si svolgono nella contemporaneità, spesso il protagonista potrebbe essere lui – ma sempre con l’occhio ai suoi interessi eruditi, per cui viene considerato il padre della “storia di fantasmi antiquaria”. Non che in precedenza mancassero spunti di questo tipo – per esempio in certe citazioni colte di Le Fanu, un autore che M.R.J. ama moltissimo, contribuendo in modo importante alla fama di lui presso i posteri – ma nel successore questo elemento acquista un rilievo-chiave, e il racconto si regge proprio su quello.

Figlio di Herbert James, un pastore evangelico anglicano, e di Mary Emily (nata Horton), figlia di un ufficiale di marina, M.R.J. nasce presso Dover in una clergy house – una casa del clero, qualcosa come un vicariato – e cresce in un ambiente fortemente religioso: uno dei fratelli, Sydney, diverrà arcidiacono di Dudley, e per molti anni, fino al 1909, vive presso la canonica di Great Livermere, nel Suffolk (una regione dove poi ambienterà varie delle sue storie di fantasmi), già casa d’infanzia di un altro erudito antiquario locale, Thomas Martin di Palgrave (1696-1771). Qui (riferisce lo specialista di gotico Malcolm Skey, curatore dell’edizione Montague Rhodes James, Racconti di fantasmi, Theoria, Roma-Napoli 1984, cui ci appoggeremo per le citazioni) “James trascorse gran parte del suo tempo libero a visitare le magnifiche chiese gotiche della zona, disegnandone delle piante accuratissime”.

Dopo studi nell’ottima Temple Grove School di East Sheen, nella zona ovest di Londra, grazie a una borsa di studi frequenta l’Eton College dove brilla, incassando premi per la religione, il latino, il greco, il francese. Certo è poco sportivo, caratteristica non troppo apprezzata in Inghilterra, ma passa il tempo nella biblioteca, piena di manoscritti medioevali, e impara da solo l’italiano, il tedesco, l’ebraico, il siriaco, il copto e persino l’etiopico, che gli permette di tradurre in inglese l’apocrifo veterotestamentario noto come Resto delle parole di Baruch. A queste lingue aggiungerà in seguito svedese e danese (traducendo ottimamente Andersen). Un’altra borsa di studi lo porta a Cambridge, dove si occupa di letteratura greca e latina e archeologia classica, di nuovo vince premi a raffica, incassa incarichi e titoli (assistente del direttore e più avanti direttore a sua volta del Fitzwilliam Museum, Fellow e poi Dean e Provost del King’s College, docente di teologia, ma non ama insegnare, infine Vice-Chancellor o rettore dell’intera università), partecipa agli scavi del tempio cipriota di Afrodite a Pafo. Se Cambridge offre ambientazione a parecchi suoi racconti, altri beneficeranno dei suoi viaggi ogni anno in Europa con amici, fino allo scoppio della Grande guerra, in particolare in Francia (la prima volta con un veicolo un po’ curioso, un triciclo doppio, ma non ripeterà l’esperimento) e i Paesi scandinavi. Per inciso, ama recitare, come in una celebre versione di Gli uccelli di Aristofane – ma come ben sanno i suoi amici a cui legge con abilità attoriale le sue storie di fantasmi di Natale.

 

2.2. “L’album del canonico Alberico” (1894, raccolta in Ghost Stories of an Antiquary, 1904)

Parlare di fantasmi, nel caso di M.R.J., può sembrare una forzatura, un’imprecisione, visto che non sempre si tratta di fantasmi nel senso tradizionale, ma è piuttosto il ricorso estensivo a una categoria letteraria nota per storie sovrannaturali. Così è nel caso di “Canon Alberic’s Scrap-book”, che inizia con l’alter ego dello scrittore a zonzo per l’Occitania.

 

St Bertrand de Comminges è una cittadina decaduta sui contrafforti dei Pirenei, non molto distante da Tolosa, e ancora più vicina a Bagnères-de-Luchon. Era stata la sede del vescovado fino alla Rivoluzione, e ha una cattedrale che è visitata da numerosi turisti. Nella primavera del 1883 un inglese giunse in questo luogo d’altri tempi (non posso neanche dargli il titolo di città, perché non conta nemmeno un migliaio di abitanti). Era uno di Cambridge, venuto da Tolosa appositamente per vedere la chiesa di St Bertrand, e aveva lasciato due amici, meno appassionati di lui all’archeologia, al loro albergo di Tolosa, con la promessa che lo avrebbero raggiunto il mattino seguente. Una mezz’ora nella chiesa sarebbe stata più che sufficiente per loro, e poi tutti e tre avrebbero proseguito il loro viaggio in direzione di Auch.

 

Fermiamoci anzitutto sul luogo, che esiste, nel sito della romana Lugdunum Convenarum dove erano stati esiliati – e vi sarebbero morti – Erode Antipa, Erodiade e Salomé. La cattedrale – cathédrale Notre-Dame de Saint-Bertrand-de-Comminges, o cathédrale Sainte-Marie – esiste ed è ricchissima di tesori accumulati nei secoli. Il tipo di Cambridge è naturalmente costruito sul profilo dello stesso scrittore, in viaggio in Francia.

Arrivato di buon’ora, il Nostro si ripropone di prendere un sacco di appunti e di lastre fotografiche, ma per realizzare al meglio il tutto è necessario avere la collaborazione del sacrestano: che si rivela “un oggetto di studio inaspettatamente interessante”. Non tanto per l’aspetto fisico secco e rugoso, quanto per “l’aria curiosamente furtiva, o piuttosto da perseguitato e oppresso che aveva”. Si guarda indietro di continuo, e schiena e spalle appaiono come contratte per il timore di un nemico incombente.

 

L’inglese non sapeva se giudicarlo un uomo ossessionato da un’idea fissa, od oppresso da una cattiva coscienza, o un marito dominato da una moglie insopportabile. Le probabilità, tutto considerato, suggerivano senz’altro quest’ultima tesi; tuttavia l’impressione che dava era quella di un persecutore più implacabile della più bisbetica delle mogli.

 

Durante la visita che segue l’inglese, che chiameremo Dennistoun, è molto occupato, ma ogni volta che guarda verso il sacrestano lo trova “schiacciato con le spalle contro il muro, o rannicchiato su uno dei magnifici scanni”: e comincia a domandarsi se l’altro sospetti qualche intenzione losca da parte sua nei confronti dei tesori della chiesa, o che desideri solo andare a mangiare – così gli propone di lasciarlo lì, può chiuderlo dentro, ne avrà ancora per un paio d’ore. Ma l’ometto esclude una proposta simile, e rassicura di potersi fermare senza problemi.

L’edificio sacro è pieno di oggetti preziosi e anche di curiosità, compreso “il polveroso coccodrillo impagliato appeso sopra il fonte battesimale” che san Bertrando avrebbe domato con il suo bastone nella valle di Labat-d’Enbès e con cui a volte viene rappresentato (in realtà sembra che l’abbia portato un cavaliere del luogo, tale Enguerrand de Carminge, come trofeo dalle crociate, assieme alla storia eroica e dubbia del suo attacco da parte del mostro). Bertrando (L’Isle, 1050 circa – Comminges, 16 ottobre 1123), della famiglia dei conti di Tolosa è vescovo della città per mezzo secolo; alla sua canonizzazione nel 1222 l’antica Lugdunum Convenarum/Comminges – rifiorita sotto il suo episcopato la città e divenuta una tappa sulla via di Santiago – gli viene intitolata (ricorrenza liturgica della depositio, 16 ottobre). In effetti Bertrando ha da subito fama di santità e gli vengono attribuiti miracoli, oltre a efficaci esorcismi.

L’operazione di censire le bellezze artistiche della cattedrale procede, e il sacrestano sta incollato a Dennistoun, solo sobbalzando e occhieggiando indietro a ognuno “di quegli strani rumori che popolano un grande edificio vuoto. Rumori curiosi, a volte”. Come racconterà Dennistoun al narrante, a un certo punto gli pare di udire “una sottile voce metallica ridere in alto sul campanile”, e il sacrestano commenta terrorizzato “È lui… cioè… non è nessuno; la porta è chiusa” prima di scambiare con l’inglese una lunga occhiata. Un cachinno grottesco e sinistro legato a un campanile fa naturalmente pensare a “Il diavolo nel campanile” di Poe, ma vedremo che qui la storia si sviluppa in una direzione completamente diversa.

Quando Dennistoun esamina “un grande quadro scuro appeso dietro l’altare, appartenente a una serie sui miracoli di St Bertrand”, tanto scuro da essere quasi indecifrabile, occhieggia la legenda “Qualiter S. Bertrandus liberavit hominem quem diabolus diu volebat strangulare [Come St Bertrand liberò un uomo che il diavolo aveva a lungo cercato di strangolare]” e si volta divertito, nota che il vecchio è in ginocchio a mani giunte con gli occhi lacrimosi – tanto da fargli pensare a una monomania dell’uomo. Questa scena è comunque particolarmente emblematica, rivelativa fin d’ora degli ingredienti (diciamo così) della narrazioni di James: un quadro oscuro, una scritta pittoresca in latino che accenna a storie soltanto alluse e percorsi equivoci – strangolatori sono per esempio gli incubi o i vampiri folklorici –, le reazioni contrastanti di uno straniero e di un altro che sa qualcosa… un mix formidabile di erudizione, affabulazione e fantasia dove il lettore, specie dopo averne letti alcuni, capisce alla grossa dove si voglia andare a parare ma si gode troppo la qualità narrativa e il tipo di voce.

Sono ormai quasi le cinque, la giornata è corta, la chiesa si riempie di ombre e di rumori: il sacrestano inizia col mostrare segni d’impazienza e sospira di sollievo quando Dennistoun ripone macchina fotografica e taccuino. Lo invita dunque a seguirlo verso l’entrata ovest, per suonare frettolosamente l’Angelus alla fune della torre campanaria, poi lasciano la chiesa e il sacrestano osserva che il visitatore sembrava interessato ai vecchi libri del coro nella sacrestia: lui conferma, chiede se ci sia una biblioteca in città, ma purtroppo quella del Capitolo appartiene ormai al passato. Ci sarebbe però – il sacrestano ci pensa su un attimo, come a decidersi se parlare o meno – un vecchio libro a casa sua, lì vicino. Per un attimo, Dennistoun pregusta la possibilità di chissà quale scoperta per poi escludere, sarà un comune messale cinquecentesco… comunque tanto vale farci un salto. Si chiede persino se il vecchio, “ritenendolo uno dei soliti ricchi viaggiatori inglesi”, non voglia attirarlo in qualche trappola, per cui butta lì che il giorno dopo lo raggiungeranno due amici – ma la notizia sembra anzi tranquillizzare il sacrestano.

La casa descritta può far pensare a qualcuna autentica della cittadina, per chi oggi voglia visitarla:

 

Ben presto giunsero davanti alla casa, che era un po’ più grande di quelle vicine, costruita in pietra, con uno stemma scolpito sopra la porta, lo stemma di Alberico de Mauleon, un discendente collaterale, mi dice Dennistoun, del vescovo Jean de Mauleon. Questo Alberico era stato canonico di Comminges dal 1680 al 1701. Le finestre dei piani superiori erano chiuse con delle assi, e tutta la casa aveva, come il resto di Comminges, un’aria di decadenza. Giunto sulla soglia, il sacrestano si fermò un momento.

 

E chiede, quasi sperando il contrario, se l’inglese abbia tempo, ma lui ribatte che non ci sono problemi, fino all’indomani non ha più niente da fare. Potranno vedere con calma cosa lui abbia in casa.

La porta viene aperta dalla giovane figlia del sacrestano, carina, con l’aria preoccupata – una preoccupazione non per sé ma per qualcun altro. Breve scambio di frasi tra il padre e lei, Dennistoun coglie solo un riferimento a qualcuno che rideva in chiesa. Poco dopo si trovano nel soggiorno, che pare una cappella, dominato com’è da un enorme crocifisso: e da una cassapanca il sacrestano, emozionato e nervoso, estrae il vecchio libro, “avvolto in un panno bianco su cui era stata rozzamente ricamata una croce di filo rosso”. Troppo grande per un messale e privo della forma di un antifonario: per cui forse, ragiona Dennistoun, un qualche interesse c’è. E quel che trova lo lascia stupefatto.

 

Davanti a lui c’era un ampio in-folio che risaliva, forse, alla fine del diciassettesimo secolo, con il blasone del canonico Alberico de Mauléon impresso in oro sui margini. Ci saranno stati forse centocinquanta fogli, e su ognuno di essi era incollata una pagina di un manoscritto miniato. Neanche nei suoi momenti più deliranti Dennistoun aveva mai sognato una simile collezione. C’erano dieci fogli di una copia della Genesi, illustrata con disegni, che non potevano essere posteriori al settimo secolo dopo Cristo. Più oltre, una serie completa di immagini di un libro dei Salmi, di fattura inglese, del tipo più bello che avesse potuto produrre il tredicesimo secolo; e, forse più preziosi di tutti, c’erano venti fogli di scrittura onciale in latino, che, come poche parole scorte qua e là gli rivelarono immediatamente, dovevano appartenere a un trattato di patristica molto antico e sconosciuto. Possibile che fosse un frammento della copia della Esposizione dei detti del Signore di Papias, che si sapeva essere esistita a Nîmes fino al dodicesimo secolo?

 

Una nota dell’autore conferma sorniona “Noi ora sappiamo che questi fogli contenevano un considerevole frammento di quell’opera, se non di quello stesso esemplare”. Per inciso, Papias è san Papia di Ierapoli, e dell’opera citata Esposizione dei detti del Signore (110 o 130) restano solo tredici frammenti, di ambiente – a quanto pare – giudeocristiano. Eusebio di Cesarea stronca Papia come sostenitore del pensiero millenarista, e il profilo del santo è in effetti curioso, oltre che piuttosto misterioso.

Dunque Dennistoun si prepara a estinguere il proprio conto in banca per acquisire il volume, che il sacrestano invita a sfogliare fino alla fine: e a ogni nuovo foglio appare un tesoro. Alla fine dell’album spiccano un paio di fogli più recenti:

 

Dovevano essere contemporanei, stabilì [Dennistoun], del disonesto canonico Alberico, che aveva senza dubbio saccheggiato la biblioteca del Capitolo per mettere insieme quell’album di inestimabile valore. Sul primo foglio c’era una pianta, accuratamente disegnata e immediatamente riconoscibile da chiunque conoscesse il luogo, della navata sud e del chiostro di St Bertrand. C’erano degli strani segni che sembravano simboli di pianeti, e alcune parole ebraiche agli angoli; e sull’angolo nord-occidentale del chiostro era stata dipinta una croce d’oro. Sotto la pianta c’erano alcune righe scritte in latino, che dicevano così:

 

Responsa 12mi Dec. 1694. Interrogatum est: Inveniamne? Responsum est: Invenies. Fiamne dives? Fies. Vivamne invidendus? Vives. Moriarne in lecto meo? Ita [Risposte del 12 dicembre 1694. Fu chiesto: Lo troverò? Risposta: Lo troverai. Diventerò ricco? Lo diventerai. Vivrò invidiato? Vivrai così. Morirò nel mio letto? Sì].

 

– Un bel colpo per un cacciatore di tesori. Me ne ricorda uno del canonico minore Quatremain ne La vecchia cattedrale di S. Paolo – fu il commento di Dennistoun; e voltò pagina.

 

La battuta finale è un richiamo a un altro personaggio letterario, il reverendo Quatremain, canonico minore della cattedrale di San Paolo a Londra, nel romanzo Old Saint Paul’s (1841) di William Harrison Ainsworth (1805-82), che ritiene di aver localizzato un tesoro sepolto nell’edificio sacro. In compenso gli “strani segni che sembravano simboli di pianeti” fanno pensare a quelli autenticamente presenti su un capitello nella cattedrale autentica di St Bertrand de Comminges.

Cerchiamo però di capire cosa sia scritto in quei fogli, che James presenta sornione senza commentare. Anzitutto, come in Ainsworth, c’entra la localizzazione di un tesoro, legata ad alcuni dati esoterici. Ma Alberico non è “disonesto” solo perché ha sforbiciato “la biblioteca del Capitolo per mettere insieme quell’album di inestimabile valore”: in quello stralcio emerge qualcosa di ben più incompatibile con il suo stato di canonico. Le domande e risposte – in latino, da parte dell’erudito autore – richiamano volutamente quelle delle coeve sedute spiritiche, anche se Alberico vive assai prima di quel revival di antiche credenze. E dunque non è all’entità infrattata in un tavolino a tre gambe che si sta rivolgendo.

Infatti quando Dennistoun volta pagina trova qualcosa che lo colpisce ben di più: “più di quanto egli avrebbe mai creduto possibile che un disegno o un quadro potesse colpirlo. E anche se il disegno che vide non esiste più, c’è una sua fotografia (che io posseggo) la quale avvalora pienamente questa affermazione”. Un disegno a nero di seppia di fine XVII secolo, che raffigura Salomone, assiso sulla destra, che impartisce comandi: “Ma la metà sinistra del disegno era la più inquietante”. Un gruppo di quattro soldati circonda il corpo di un quinto, “morto, con il collo spezzato e gli occhi fuori dalle orbite” (ricordiamo il cartiglio sotto l’affresco del dipinto in chiesa, “Qualiter S. Bertrandus liberavit hominem quem diabolus diu volebat strangulare”?). E accovacciato in mezzo a loro – preoccupati, non fuggono solo per fiducia nel re – sta una creatura la cui immagine, sporta in foto a uno studioso di morfologia, un uomo equilibrato al punto da essere quasi privo di immaginazione, lo indurrà a restare in compagnia per tutta la sera e, le seguenti, a non spegnere troppo presto la luce.

 

Comunque, posso almeno indicare i tratti principali della figura. A tutta prima si vedeva solo una massa ispida e ingarbugliata di peli neri; poi ci si accorgeva che questa ricopriva un corpo di spaventosa magrezza, quasi uno scheletro, ma con i muscoli tesi come fili metallici. Le mani erano di un tetro pallore e ricoperte, come il corpo, di peli lunghi e ispidi, e munite di orribili artigli. Gli occhi, colorati di giallo fiammante, avevano pupille intensamente nere, ed erano puntati con un’espressione di odio bestiale sul re che sedeva sul trono. Immaginate uno di quegli orribili ragni uccellatori del Sudamerica tradotto in forma umana, e dotato di un’intelligenza poco meno che umana, e avrete una pallida idea del terrore che ispirava questa spaventosa immagine. Un’osservazione è stata fatta da tutti coloro ai quali ho mostrato il disegno: «È stato preso dal vero».

 

A noi un’immagine del genere può sembrare più assurda e grottesca che spaventosa, ma due elementi vanno considerati. Da un lato la nostra sempre maggiore tolleranza all’orrore: impensabili oggi certe reazioni terrorizzate documentate davanti ai primi horror, dove ciò che scatenava il panico non era tanto ciò che si vedeva quanto l’attesa di un tremendum in un linguaggio legato a certi non-detti, ombre e allusioni. Ma c’è un secondo elemento, che riconduce proprio alle mitologie tra otto e novecento. Questa specie di demone ragnesco richiama a tutta una mitologia su ragni più o meno antropomorfi documentata al tempo, con effetti a dir poco perturbanti.

Alla domanda se i suoi racconti derivino da libri, James nell’introduzione ammette che “A quest’ultima domanda è […] difficile rispondere in modo conciso. Altri autori si sono occupati di ragni orripilanti – per esempio Erckmann-Chatrian, in un pregevole racconto intitolato ‘L’Araignée Crabe’”. Ma del dinamico duo francese così siglato (una firma unitaria per Émile Erckmann, 1822-1899 e Alexandre Chatrian, 1826-1890) merita ricordare anche un altro testo, “L’Œil invisible ou L’auberge des trois pendus” che si dice – ma è controverso – abbia ispirato il racconto lungo di Ewers Die Spinne: appunto Il ragno, 1908, testo recettore di tutta una mitologia su ragni & strangolamenti attraverso una degradata erede della Grande Dea-ragno del filo e del cappio, Arianna/Aracne (cfr. la tavola Arachne di Otto Henry Bacher, 1884, coi fili della ragnatela da cui promanano capelli e – scarse – coperture all’avvenente corpo nudo). D’altronde, James può ben ricordare la suggestione di un ragno demoniaco offerta da un testo classicissimo, Il ragno nero (Die schwarze Spinne) di Jeremias Gotthelf, 1842, apologo dal gusto folklorico sulla presenza del Male nella realtà.

D’altra parte, se il racconto non fosse precedente al Dracula, sarebbe difficile che, nell’abbinamento ragno/chiesa/torre campanaria, James non ricordasse l’episodio evocato per voce di Van Helsing (nel cui bestiario potrebbero ben stare gli “orribili ragni uccellatori del Sudamerica”) su “quello altro grande ragno […] vissuto per secoli nella torre di grande chiesa spagnola ed è cresciuto e cresciuto finché, venendo giù, ha bevuto tutto olio di lampade in chiesa”. Dove Stoker (come forse anche James) ha in mente casi come quello repertoriato in un numero del 1821 dell’Edinburgh Magazine and Literary Miscellany, sezione “Literary and Scientific Intelligence”:

 

Ragni. — Il sacrestano della chiesa di St Eustace, a Parigi, meravigliato di riscontrare la frequenza con cui una certa lampada si spegneva un po’ troppo presto, e il fatto che si consumasse solo l’olio, si è appostato varie notti per capirne la causa. Alla fine ha scoperto che un ragno di dimensioni sorprendenti scendeva lungo il cordone per bersi l’olio. Un esempio ancora più straordinario dello stesso genere si verificò nell’anno 1751, nel Duomo di Milano. Vi fu osservato un grosso ragno, che si cibava dell’olio delle lampade. M. Morland, dell’Accademia delle Scienze, ha descritto questo ragno e ne ha fornito un disegno. Pesava quattro libbre inglesi [pounds], e fu mandato all’Imperatore d’Austria, ed è ora al Museo Imperiale di Vienna.

 

Ancora, si può ricordare la disturbante immagine dell’ipnotizzatore Svengali del quasi coevo romanzo Trilby di George du Maurier, 1894/95, raffigurato come un ragno predatore al centro della sua rete (l’autore ne offre anche una celebre illustrazione, 1895) e l’anno prima Conan Doyle paragonava l’Arcicattivo professor Moriarty – vera e propria espressione di Satana in chiave laica – al ragno al centro di una tela (1893): a suggerire l’impatto disturbante dell’immagine del ragno nelle fantasie vittoriane. D’altra parte, la perturbante somiglianza tra il ragno e la mano artigliante (già implicitamente evocata qui, sarà un topos dell’immaginario espressionista tedesco) rimane sullo sfondo di tutto un immaginario del primo Novecento. Skey commenta che “Di ragni si parla soprattutto nei racconti “Il frassino” e “Il trattato Middoth”: essi costituivano comunque una sorta di fissazione per James, il quale non di rado vi fa ricorso come paragone morfologico”, e cita appunto “L’album del canonico Alberico”: ma il paragone morfologico, la metafora, è spesso – lo sappiamo – la suggestione attraverso cui un narratore evoca un proprio incubo e da cui parte per una storia. Tanto più attraverso l’impressione che l’immagine del demone sia stata effettuata “dal vero”. Per inciso, sugli stalli del coro della chiesa in questione è possibile vedere una immagine lignea della tentazione di Cristo con un Satana irsuto come il demone qui descritto.

Comunque Dennistoun, “placata la prima violenta impressione di irresistibile terrore” (il suo, anche se in parallelo il sacrestano si copre gli occhi con le mani e la figlia recita il rosario) domanda se il volume sia in vendita: il vecchietto chiede il prezzo ridicolo di duecentocinquanta franchi e l’inglese spiega che il libro varrebbe molto di più, ma l’interlocutore non vuole una cifra maggiore. Concluso l’affare, sembra diventare anzi un altro uomo – perché l’album, intuiamo, non è più suo – , guadagna in forze e buonumore e si offre di accompagnare l’acquirente all’albergo. Dennistoun ringrazia e declina gentilmente l’offerta, non sono neanche cento metri, ricevendo allora calorose raccomandazioni di evitare i bordi strada accidentati. Sta anzi per uscire, quando la figlia del sacrestano gli si avvicina: lui per un attimo si domanda se lei non stia cercando di guadagnare qualcosa in proprio dall’affare economicamente discutibile del padre, ma la ragazza intende solo offrirgli una catena con una croce d’argento: in cambio, spiega, non vuole nulla. Un po’ a disagio, Dennistoun – che più avanti scopriremo essere presbiteriano – ringrazia e si lascia mettere la catena al collo (qui, di nuovo, è inevitabile ripensare a una simile scena all’inizio del Dracula, dove si esplicitava anche la ritrosia britannica verso simili res sacrae, ma il testo in questo caso è precedente): “Sembrava che avesse reso a padre e figlia un favore che essi non sapevano come ripagare”.

I due restano anzi a guardarlo fin quando non li saluta dai gradini dell’albergo Chapeau Rouge dove alloggia (per inciso, il Red Cap nella tradizione dell’area tra Inghilterra e Scozia è uno spirito cattivo uso a uccidere i viaggiatori): e dopo cena si ritira rapidamente in camera. Cogliendo solo un frammento di discorso tra il sacrestano e la proprietaria, che accenna che “Pierre e Bertrand rimarranno a dormire in casa”. Capiremo più avanti chi siano costoro.

Ma intanto ha iniziato a sentirsi nervoso, con la spiacevole impressione di avere qualcuno alle spalle. Certo, tutto questo era accettabile a fronte della meraviglia acquistata, di cui ogni attimo scopre qualche ulteriore ricchezza.

 

«Benedetto il canonico Alberico!», esclamò Dennistoun, che aveva l’inveterata abitudine di parlare da solo. «Mi chiedo dove sia adesso… Povero me! Vorrei che la padrona imparasse a ridere in un modo un po’ più allegro; ti fa sentire come se ci fosse un morto in casa. Ancora mezza pipa, hai detto? Forse hai ragione. Mi domando cosa sia quel crocifisso che la ragazza ha insistito per darmi. Del secolo scorso, suppongo… Sì, probabilmente. È un oggetto abbastanza fastidioso da tenere appeso al collo – veramente troppo pesante. È probabile che suo padre lo abbia portato per anni. Forse dovrei dargli una pulita prima di metterlo via».

 

E così si sfila il crocifisso e lo posa sul tavolo – notando però “un oggetto posato sul panno rosso proprio accanto al suo gomito sinistro. Due o tre idee di quello che poteva essere gli passarono per la mente a incalcolabile velocità”. Fino a pensare a un grosso ragno… e riconoscere invece una mano simile a quella del disegno. Dove torna il tema del ragno e la sua assimilazione a una mano minacciosa, quella artigliante che potrebbe strangolare:

 

Una pelle pallida, terrea, che non copriva che ossa e tendini dalla forza spaventosa; ispidi peli neri, più lunghi di quelli di qualsiasi mano umana; unghie che spuntavano in cima alle dita e si incurvavano adunche e acuminate, grigie, cornee e rugose.

 

E la creatura la cui mano era emersa sta sollevandosi in piedi – doveva essere ripiegata sotto il tavolo, lui schizza dalla sedia: e la vede,

 

avvolta in un manto nero e cencioso; coperta, come nel disegno, di peli ispidi. La mascella inferiore era sottile – come posso definirla? –, bassa, come quella di un animale; dietro le labbra nere si vedevano i denti; non aveva naso; gli occhi di un giallo acceso, dove le pupille apparivano nere e intense, e l’odio esultante e la sete di distruzione che vi brillavano erano il particolare più terrificante di tutta la visione. C’era in essi una forma di intelligenza, un’intelligenza superiore a quella di una bestia, inferiore a quella di un uomo.

 

Stravolto da paura e disgusto, sconcertato su ciò che debba fare in un simile frangente, brandisce il crocifisso, percepisce un moto del mostro nella sua direzione e poi urla. I due robusti servitori Pierre e Bertrand irrompono, si sentono spostare di lato da qualcosa che passa velocissimo in mezzo a loro, e trovano l’inglese svenuto: restano con lui tutta la notte, e quando l’indomani gli amici arrivano lo trovano un po’ ripreso. E non hanno troppe difficoltà a credere al suo racconto, una volta visto il disegno e parlato con il sacrestano che era arrivato all’alba all’albergo: niente affatto sorpreso, spiega che lui l’aveva visto due volte, e sentito un migliaio… ma rifiuta di fornire dettagli, come pure di dire da dove venga il libro. “Fra breve dormirò, e il mio riposo sarà dolce. Perché volete tormentarmi?”: e in effetti, ci informa una nota dell’autore, “Morì quell’estate stessa. Sua figlia si sposò e si stabili a St Papoul: non riuscì mai a comprendere le ragioni dell’«ossessione» del padre”. Ma sul rovescio del fatale disegno si legge:

 

Contradictio Salomonis cum demonio nocturno.

Albericus de Mauleone delineavit.

v. Deus in adiutorium. Ps. Qui habitat.

 

Sancte Bertrande, demoniorum effugator, intercede pro me miserrimo.

 

Primum vidi nocte 12mi Dec. 1694; videbo mox ultimum.

Peccavi et passus sum, plura adhuc passurus.

Dec. 29, 1701

 

Disputa di Salomone con un dèmone della notte.

Disegno di Alberico de Mauléon.

Versetto: Oh Signore, affrettati ad aiutarmi. Salmo: Chi abita [XCI].

 

St Bertrand, che metti i dèmoni in fuga, intercedi per me, misero.

 

Lo vidi per la prima volta il 12 dicembre 1694; presto lo vedrò per l’ultima volta. Ho peccato e sofferto, e dovrò soffrire ancora.

29 dicembre 1701

 

Una nota aggiunge l’informazione recata da Gallia Christiana: il canonico Alberico morì il 31 dicembre 1701 (dunque due giorni dopo l’iscrizione citata), “nel suo letto, di un colpo apoplettico”. Per inciso il “Salmo: Chi abita [XCI]” è quello che invita a non temere i pericoli della notte o del giorno. Le traduzioni bibliche recenti tendono a interpretare in senso naturalistico le minacce evocate nel Salmo, ma vari dei richiami si riferiscono in origine a entità demoniache, notturne o meridiane.

Comunque il narrante spiega sornione di non aver mai capito l’opinione di Dennistoun sul tema:

 

Una volta mi citò un passo dell’Ecclesiaste: «Vi sono alcuni spiriti creati per la vendetta, e nella loro furia vibrano colpi dolorosi». In un’altra occasione disse: «Isaia era un uomo molto saggio; non dice qualcosa di mostri notturni che vivono fra le rovine di Babilonia? Queste cose sono piuttosto al di sopra di noi, al giorno d’oggi».

 

Sembra insomma accettare l’idea che si trattasse effettivamente di un demone, che avrebbe infelicitato la vita di Alberico come poi del sacrestano; e la decadenza della cittadina lo fa pensare alle città desolate della Bibbia. Il canonico aveva interpellato il demonio per costringerlo a rivelare il luogo del tesoro, magari servendosi dalla Clavis Salomonis o della successiva Clavicula Salomonis (nota come Lemegeton)? In effetti simili informazioni non sono assenti nei grimori, e il demone potrebbe essere qualcuno di quelli lì descritti, come Purson, Barbatos, Astaroth, Seir, Kimaris, Raum, Andromalius, Foras, Amy, Valac, patroni della scoperta di tesori sepolti…

Ma a colpire il narrante è un’altra confidenza: dopo quei fatti, e recatosi l’anno precedente con Dennistoun a Comminges, a visitare la tomba del canonico Alberico, il bibliofilo parla un po’ con il vicario di St Bertrand. Venendo via, accenna come fosse una semplice supposizione al fatto che verrà celebrata un messa funebre cantata per il riposo di Alberico de Mauléon: salvo poi aggiungere “Non avevo idea che costassero così care”. Dunque l’ha richiesta lui…

Il racconto termina con la registrazione che il “libro si trova ora nella collezione Wentworth a Cambridge. Il disegno fu fotografato e poi bruciato da Dennistoun il giorno in cui lasciò Comminges in occasione della sua prima visita”. A suggerire che una copia possa essere meno minacciosa dell’originale: una questione almeno dubbia, che si rimanda ai nostri ascoltatori e lettori. Nell’epoca dell’indefinita riproducibilità seriale, in L’ultimo cranio del marchese di Sade Jacques Chessex specula acutamente sulle caratteristiche minacciose che dall’originale traghetterebbero alle copie. Vedete un po’ voi.

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James & James – Fantasmi (Victoriana 38/I) https://www.carmillaonline.com/2022/10/21/james-james-fantasmi-victoriana-38-i/ Fri, 21 Oct 2022 20:30:00 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=74484 di Franco Pezzini

[Sono ripresi a Torino per il decimo anno i corsi popolari, gratuiti e libertari della Libera Università dell’Immaginario, con la prima stagione di James & James – Fantasmi, un esame in ordine cronologico della produzione di ghost stories di Henry James & Montague Rhodes James, a cura di chi scrive e dell’iconografa Chiara Meistro, per le importanti implicazioni sul fronte iconologico. Si propone qui, in due puntate, il contenuto della prima puntata. Per le citazioni, si segue l’edizione Henry James, Racconti di fantasmi a cura di Leon Edel, [...]]]> di Franco Pezzini

[Sono ripresi a Torino per il decimo anno i corsi popolari, gratuiti e libertari della Libera Università dell’Immaginario, con la prima stagione di James & James – Fantasmi, un esame in ordine cronologico della produzione di ghost stories di Henry James & Montague Rhodes James, a cura di chi scrive e dell’iconografa Chiara Meistro, per le importanti implicazioni sul fronte iconologico. Si propone qui, in due puntate, il contenuto della prima puntata. Per le citazioni, si segue l’edizione Henry James, Racconti di fantasmi a cura di Leon Edel, Einaudi, Torino 1988, con traduzione in questo caso di Maria Luisa Castellani Agosti.]

 

1.1. Corpi, fantasmi e tante opere

Sforbiciare dall’opera di un autore come Henry James i soli testi sui fantasmi può risultare senz’altro una forzatura, considerando i mille fili tesi all’interno di una produzione eccezionale e i mille tipi di fantasmi – sociali, sentimentali, emotivi, morali – che corrono tra le sue opere. Questo è senz’altro un limite dell’operazione che ci apprestiamo ad avviare, che però non è un Tutto (Henry) James ma mira a comparare due serie di ghost story databili a un periodo più o meno sovrapponibile legato al mondo vittoriano – quelle appunto dei due James, Henry e Montague Rhodes, che declinano il tema del fantasma in modo diversissimi, nell’ambito di una cultura che ne sta facendo un vero e proprio feticcio. Studi recenti mostrano quanto l’impatto del lavoro delle società spiritiste influisca sugli sviluppi letterari della suggestione, che d’altra parte riceve forza dall’incontro e lo scontro di nuovi paradigmi filosofici e scientifici.

Henry James non è inglese ma americano, nasce a New York nel 1843: quindi quasi contemporaneo di un altro immenso narratore americano di fantasmi, Ambrose Bierce, nato l’anno prima (tra l’altro James morirà nel 1916, Bierce scompare nel 1914). James ha cinque anni quando esplode l’ultima delle grandi rivoluzioni del 1848, quella spiritista, ne ha sei quando l’anno dopo muore Poe e ventuno quando nel 1864 muore Hawthorne, che come Balzac e Turgenev sarà tanto importante per la sua narrativa.

L’ambiente in cui Henry James cresce è particolarmente fertile sul piano culturale. La sua è una famiglia di intellettuali di origini irlandesi: è figlio di una donna colta, Mary Walsh e di un teologo swedenborgiano (come certi personaggi di Le Fanu) e filosofo cultore di letteratura e amico di tutto il giro dei trascendentalisti, Henry James Sr., coltissimo e forse ingombrante. Il fratello di Henry è il filosofo pragmatista e psicologo William James (1842-1910), tra i fondatori della psicologia funzionale, presidente tra l’altro della Society for Psychical Research dal 1894 al 1895, per cui di spettri si discute in famiglia; anche la sorella Alice James (1848-1892) scrive, è molto legata a William (forse troppo, con sfumature incestuose tutte mentali) e soffre fin dall’età di diciannove anni di un insieme di problemi al tempo etichettati spesso come isteria, ma anche nevrastenia, gotta reumatica, suppressed gout, complicanza cardiaca, nevrosi spinale, iperestesia nervosa, crisi spirituale (nel diario parla di impulsi a uccidere il padre, o a uccidersi…), e che, trattati con terapie sperimentali come massaggi elettrici continueranno comunque ad affliggerla fino alla morte precoce a quarantatré anni – un personaggio di enorme interesse, il cui diario vivace, spiritoso e speziato tenuto fin dal 1889 mostra una scrittura elegantemente letteraria. I fratelli ammireranno quel testo, e William vi vedrà il radicale, insanabile conflitto tra ciò che è stata Alice e il mondo esterno, laddove invece lei riteneva trattarsi di una lotta tra la propria volontà e il proprio corpo. Sperando di averne giovamento, Alice si trasferirà in Inghilterra nel 1884 assieme all’amica educatrice Katharine Peabody Loring. Dalla sua figura, Susan Sontag trarrà materiale per il suo unico testo teatrale, Alice in Bed: ma il diario di Alice è un’opera a sé, e preziosissima è la parte della sua malattia terminale, tre anni con un cancro al seno, in assenza di altre terapie fronteggiato con morfina e altri oppiacei.

La famiglia conduce Henry in continui viaggi tra l’America e l’Europa, fa sì che studi con istitutori di rango a Ginevra, Londra, Parigi e Bonn; all’età di diciannove anni frequenta con scarso successo la Harvard Law School, ma fin da giovane legge e studia con passione le letterature europee –  inglese, francese, italiana, tedesca e russa, solo quest’ultima in traduzione – e prende a misurarsi con la scrittura, dal primo racconto, pubblicato in forma anonima nel 1864, “A Tragedy of Error”. Due anni dopo la famiglia si trasferisce da Boston a Cambridge, e lui conduce vita sedentaria a casa – che interromperà solo per il primo viaggio da adulto in Europa (1869). Una tranquillità imposta dal fatto che la vita sociale non lo ricrea in alcun modo, ma la vita in casa è “vivace quanto l’interno di un sepolcro”.

A quel punto è lanciato, e inizia a collaborare con una quantità di testate (tra queste The Nation, The Atlantic Monthly, Harper’s e Scribner’s), producendo una messe di opere che incideranno con potenza sull’idea moderna di romanzo. Scriverà 22 romanzi, di cui due incompiuti, 112 racconti (tra lunghi e brevi), alcune opere teatrali e un enorme numero di testi saggistici e articoli di critica letteraria. Dopo un periodo a Parigi, nel 1876 eccolo trasferirsi in pianta stabile in Inghilterra, inizialmente a Londra. Ma facciamo un passo indietro.

 

1.2. “La romanzesca storia di certi vecchi vestiti”

Quello che è stato individuato come il primo racconto del sovrannaturale di HJ (il suo settimo racconto pubblicato) compare appunto nel febbraio 1968 sul citato The Atlantic Monthly: “The Romance of Certain Old Clothes” verrà rivisto a più riprese fino all’edizione definitiva del 1885. E di primo acchito può sembrare un racconto di Hawthorne: teniamo conto che l’autore ha venticinque anni ed è ovviamente influenzato dalle letture che ama.

L’epoca è metà Settecento, Massachusetts: lì vive una gentildonna vedova, Veronica Wingrave (nella prima versione era Willoughby), con tre figli, un maschio e due femmine. “La bellezza era una tradizione di famiglia”, e i figli sono tutti belli. Il maschio Bernard è benedetto da tutte le doti esteriori e interiori salvo l’intelligenza, toccata alle sorelle, che hanno nomi shakespeariani in grazie della venerazione del defunto padre per il Grande Bardo (tanto più apprezzabile in una società che al tempo non ama quel tipo di scrittura): la maggiore è Rosalind, dall’eroina di Come vi piace (nella prima versione era Viola come la figura della Dodicesima notte, e la Rosalind di Shakespeare è più aggressiva della sua Viola, come la spinosa rosa lo è rispetto alla violetta); la minore Perdita, dal Racconto d’inverno. La madre, adempiendo con animo rotto il desiderio del defunto, invia il figlio in Inghilterra a studiare a Oxford. Dopo cinque anni e un viaggio in Francia, il ventitreenne Bernard torna un po’ preoccupato di trovare il New England noioso e antiquato, e in realtà deve ricredersi. Le sorelle intanto sono divenute “due deliziose signorine, con tutte le prerogative di grazia delle giovani inglesi e una certa innata simpatica brusquerie, un che di selvatico che, se non era una dote, costituiva un’attrattiva in più”. E il giudizio positivo è anche rafforzato agli occhi di Arthur Lloyd, un suo compagno di università e grande amico, bello e ricco, venuto con lui in America per motivi di commercio e che ha suscitato ottima impressione a casa Wingrave.

Le due sorelle, “nel fiore della loro freschezza giovanile”, sono comunque molto diverse. Rosalind, alta e pallida con trecce dai riflessi dorati – e plausibilmente molto diversa dal peperino omonimo di Shakespeare – “non era fatta per le avventure”. Quanto a Perdita, non richiama le malinconie evocate dal nome: “Aveva una carnagione da zingara e occhi infantili, ardenti, oltre al vitino più sottile e i piedini più veloci di tutta la patria dei Puritani”, ed è molto più vivace della sorella anche nel dialogo. Su entrambe Lloyd fa colpo, con le sue doti esteriori e interiori, l’educazione e i discorsi affascinanti che non trovano pari tra i giovanotti locali. A sua volta Lloyd, che ha il presentimento che finirà con lo sposare una delle due, è ancora incapace di formulare preferenze. Le due frattanto mostrano un contegno irreprensibile, pur vivendo una sottesa competizione per il signor Lloyd:

 

Nel loro rapporto reciproco […] stavano piuttosto sul chi vive. Erano buone amiche fraterne, e concilianti compagne di letto (dividevano infatti il lettone a quattro colonne) e più di un giorno sarebbe occorso perché tra loro germogliassero e fruttificassero i semi della gelosia […] Ognuna aveva deciso che, se disprezzata, avrebbe sopportato il suo dolore in silenzio e nessuno ne avrebbe saputo nulla; poiché, se erano capaci di molto amor proprio, erano anche fornite di una buona dose di orgoglio. Ma ciascuna nel proprio intimo pregava che, malgrado tutto, la scelta, la preferenza di Lloyd cadesse su di lei. Abbisognavano certo di molta pazienza, di molto dominio di sé, di molta capacità di dissimulazione. A nessuna ragazza di buona famiglia era lecito, a quei tempi, prendere la minima iniziativa; le era soltanto consentito rispondere a quelle che venivano prese. […] Le due giovani, l’una in quasi costante compagnia dell’altra, avevano infinite occasioni di tradirsi. Che ciascuna sapesse d’essere osservata non causava però la minima differenza in quei piccoli favori che si rendevano a vicenda, o nelle varie mansioni casalinghe che assolvevano insieme. Né l’una né l’altra dava segno di timore o d’agitazione sotto il muto dardeggiare degli occhi della sorella. L’unico visibile mutamento nelle loro abitudini fu che ebbero meno da dirsi. Parlare del signor Lloyd era impossibile, e parlar d’altro era ridicolo. Per tacito accordo cominciarono a mettersi i vestiti più belli, a escogitare dei piccoli espedienti di civetteria in materia di nastri, gale e falpalà consentiti nell’ambito d’un’indiscussa modestia.

 

È possibile che James abbia qui in mente altre due figure ispirate al teatro di Shakespeare, cioè la dialettica tra le pur diversissime Matilda e Isabella nel Castello d’Otranto di Walpole. Ma è estremamente interessante che proprio la compressione di emozioni qui in scena – per educazione, per buonismo – finirà con lo spurgare fantasmi terribili.

Per qualche mese sembra che nulla accada. Ma una sera di dicembre Rosalind si sta pettinando i capelli davanti allo specchio della toeletta, ma è buio, dunque accende le due candele fissate alla cornice dello specchio e va alla finestra a tirare le tende: e vede la sorella risalire il viale, poi esaminare qualcosa che tiene in mano e premerselo alle labbra. Quando Perdita appare sulla soglia della stanza sobbalza – pensava che la sorella fosse con la madre a un ricevimento di signore – e Rosalind le chiede di entrare e darle qualche colpo di spazzola ai capelli, profittando dello specchio per sorvegliarla. Perdita si accorge degli occhi di Rosalind puntati alle sue mani, e pochi attimi dopo la sua mano sinistra viene afferrata: “Di chi è quest’anello?” domanda la sorella con veemenza. Perdita deve confessare che è stato il signor Lloyd: ma al commento stizzito della sorella, secondo cui il giovane è diventato generoso tutt’a un tratto, ribatte che no, “Non tutt’a un tratto. È già un mese che me l’ha offerto”. Breve scambio teso: le è bastato farsi corteggiare un mese per accettarlo? Lei l’avrebbe fatto attendere almeno dueNon conta l’anello, ma ciò che significa!non è una ragazza ammodo, mamma e Bernard sono informati?la mamma ha approvato, e alla richiesta di Mr Lloyd ha concesso la sua mano. “Avresti voluto che chiedesse la tua, sorella carissima?”

 

Rosalind le rivolse una lunga occhiata, piena di rovente invidia e di sofferenza. Poi abbassò le ciglia sulle guance pallide e si scostò. Perdita si rendeva conto che la scena era stata spiacevole; ma la colpa era della sorella. Questa, tuttavia, ritrovò il proprio orgoglio e tornò sui suoi passi. – Ti faccio i miei migliori auguri, – le disse con un leggero inchino. – Ti auguro ogni felicità e lunghissima vita.

Perdita uscì in un riso amaro. – Non parlarmi in quel tono, – esclamò. – Preferirei che mi maledicessi di tutto cuore. Via, sorellina, – aggiunse, – non poteva mica sposarci tutt’è due!

– Ti auguro ogni bene possibile, – ripeté Rosalind come un automa, risedendosi davanti allo specchio, – una lunga vita e un mucchio di figli.

C’era qualcosa nel suono di quelle parole che non piacque affatto a Perdita. – Un anno almeno me lo concedi? – le domandò. – In un anno posso avere un bel maschietto… o magari una bambina. Se mi ridai la spazzola, ti aggiusto i capelli.

– Grazie – rispose Rosalind. – Sarà meglio che tu raggiunga la mamma. Non sta bene che una signorina fidanzata si prenda cura di una ragazza che non lo è.

– Ma andiamo – ribatté Perdita ritrovando il suo buon umore. – Io ho Arthur che si prende cura di me. Hai più bisogno tu del mio aiuto che io del tuo.

Ma la sorella la spinse fuori.

 

E a quel punto, finalmente sola, Rosalind può scoppiare in lacrime e sfogarsi un po’, in modo tale che al ritorno di Perdita insiste e riesce ad aiutarla a vestirsi con quanto di più bello abbia e ad accettare un suo merletto, per apparire degna della scelta del pretendente. “Assolse tali servigi con laconico rigore, ma si trattò appunto di puri servigi, intesi a chieder perdono, a offrire riparazione; e non ne prestò più altri”. Di nuovo il non detto, il non espresso che però resta sotteso al di là di ogni buona intenzione cosciente: aveva ragione Perdita a dire “Preferirei che mi maledicessi di tutto cuore”: quel che cova lì davanti allo specchio è quasi un atto di magia ritmato da auguri sinistri: “Ti auguro ogni felicità e lunghissima vita […] una lunga vita e un mucchio di figli”.

Non troviamo qui ancora il quadro di oppressive convenzioni sociali – legate anche al fronte dei passaggi di eredità – che non troppi anni dopo renderà un dramma il matrimonio di una sorella minore prima della maggiore (pensiamo a certe storie di Jane Austen), nell’ambito di un progressivo irrigidimento della condizione femminile dal Sette all’Ottocento: però certo la situazione di Rosalind è doppiamente difficile, sul piano psicologico come di giudizi collettivi.

Viene stabilita la data del matrimonio per l’aprile che viene, ma Lloyd è molto preso da impegni d’affari e insomma lo spettacolo delle tenerezze con Perdita fa soffrire Rosalind meno di quanto temuto. Del resto, verso di lei Lloyd ha la coscienza tranquilla, non c’è mai stato alcunché d’ambiguo e non nutre sospetti di un affetto diverso da quello fraterno. “Arthur si sentiva del tutto a suo agio: la vita prometteva così bene, sia dal lato domestico che finanziario!”, dove certo emerge il ritratto di un amabile babbeo incapace di empatia, e che non avverte una serie di rischi. Quelli grandi come quelli piccoli, quelli collettivi come quelli personalissimi: si è ancora lontani dal clima della Rivoluzione americana, e non avverte motivo di drammi familiari.

“Intanto in casa della signora Wingrave più che mai frusciavano sete, risuonavano i colpi secchi delle forbici, gli aghi correvano veloci. La brava signora aveva deciso che la figliola dovesse portarsi via di casa il corredo più elegante che i suoi mezzi le consentissero o che la contrada potesse fornire”. Inevitabile, di nuovo, pensare a Hawthorne: in particolare quello della Lettera scarlatta, dove il giudizio si attacca a un pezzo di stoffa, visto che la lettera scarlatta viene indossata. I sobri puritani, la cui enfasi sull’interiorità bandisce ogni vezzo esteriore, restano perplessi e tuttavia sottilmente intrigati dal gusto barocco di Hester Prynne, quella dimensione creativa che lei trasfonde nelle decorazioni, pizzi e trine degli abiti con cui si guadagnerà da vivere e nel design di moda della stessa lettera scarlatta che porta sull’abito. La voce narrante ne sorride, è una sorta di piccolo regalo che la sua eroina concede a se stessa, un assaggio di Bellezza. Qualcosa che però può in fondo richiamare a un’altra dimensione creativa nel segno del gusto e della Bellezza, la scrittura che aiuta a uscire dalle gabbie asfittiche del moralismo.

Teniamo ancora presente il titolo di questo racconto, “The Romance of Certain Old Clothes”, ma anche La lettera scarlatta è presentata nel sottotitolo originario come A Romance: parliamo cioè una narrazione allegorica, visionaria, se vogliamo fantastica ed ecco il rapporto col gotico del perturbante, non di un novel con le tipiche caratteristiche di attenzione alla concretezza sociale. E il frutto proibito circonfuso d’indicibile non è, come nella Lettera scarlatta, una trasgressione sessuale – per quanto astratta in chiave mitica e quasi onirica – ma qualcosa denunciato insospettabilmente fin dal titolo.

Tutti questi preparativi in vista del matrimonio, compresi i consulti con le comari dei dintorni, non possono che far soffrire Rosalind, che oltretutto per gli abiti nutre “una passione smodata e un gusto assolutamente squisiti, come sua sorella sapeva benissimo”: tanto più che Rosalind è alta, “maestosa e fiorente” e sembrava “fatta per portar rigidi broccati e ricche trine pesanti” – e dunque da quei conciliaboli tra madame cerca solo di astrarsi. Quando poi arriva a casa “un bel taglio di seta bianca damascata in turchino e argento, mandato dal fidanzato stesso, giacché a quei tempi non si considerava sconveniente che lo sposo prescelto contribuisse al corredo della sua promessa”, Perdita si rattrista di non sapere immaginare come utilizzarlo degnamente, andrebbe meglio a Rosalind – che, stimolata, a quel punto inizia a intervenire con competenza su tanta meraviglia di sete, rasi, mussole, velluti e merletti, senza una parola d’invidia. “Grazie ai suoi sforzi, il giorno delle nozze Perdita era pronta a sposare vanità mondane in numero superiore a qualsiasi altra emozionata fanciulla che mai avesse affrontato la benedizione sacramentale di un ecclesiastico del New England”.

Si è convenuto che la coppia passi i primi giorni dopo il matrimonio nella villa di un amico scapolo inglese di Lloyd, quindi dopo il rito Perdita torna alla casa materna per indossare un abito da amazzone. Rosalind la aiuta, ma poi non scende a salutarla: Perdita risale in casa, torna alla stanza e la trova in piedi davanti allo specchio, abbigliata con velo e ghirlanda da sposa lasciati dalla sorella per riprenderli al ritorno dalla campagna. Anzi, attorno al collo ha il pesante filo di perle donato come dono nuziale dal marito a Perdita – che resta in piedi sbigottita, fissando la sorella che si contempla nello specchio, come in un triste teatro,

 

scorgendovi Dio sa quali visioni audaci. Perdita ne fu orripilata. Vide risorgere l’odioso spettacolo della loro antica rivalità. Fece un passo verso la sorella, come per strapparle di dosso velo e fiori. Ma, incontrando nello specchio gli occhi di Rosalind, s’arrestò.

– Addio, cocca, – disse. – potevi almeno aspettare che fossi uscita di casa –. E abbandonò di corsa la stanza.

 

Notiamo di nuovo il tema dello specchio, rivelatore di verità imbarazzanti e dunque nascoste: Rosalind è la donna dello specchio, la sua magia è tutta lì, laddove Perdita si servirà di altri medium.

Nel primo anno di matrimonio, la distanza di venti miglia da Boston dove Lloyd ha acquistato una magnifica casa è sufficiente, coi mezzi limitati del tempo, a rendere rari gli incontri con la famiglia della madre di Perdita. E intanto Rosalind, afflitta da una terribile depressione, viene spedita dai parenti di New York per farla un po’ distrarre. Fa ritorno a casa in occasione del matrimonio del fratello, in apparenza guarita, e viene anche il cognato senza Perdita, che sta per partorire – e, serio e pensieroso com’è in quel momento, Rosalind lo trova particolarmente interessante. Una serietà che d’altronde non gli impedisce di notare lo scarto tra la bella e opulenta Rosalind (vestita oltretutto con scintillante eleganza, grazie a una cifra corrispondente a quella spesa per la sorella) e la sposina sofferente a casa, in faticosa gravidanza.

Il giorno dopo il matrimonio Arthur porta dunque con sé Rosalind per una cavalcata: avendo perso a un certo punto la strada, tornano al crepuscolo. La signora Wingrave li accoglie preoccupata, a mezzogiorno è giunto un messaggio da Perdita, sono iniziate le doglie: Arthur si mangia le mani e ingoiato un rapido boccone monta a cavallo, arrivando a casa a mezzanotte. Il parto è già avvenuto, è nata una bimba: la moglie gli domanda perché non sia stato con lei, e lui spiega candido – teniamo presente che non conosce la dinamica tra le due sorelle, o almeno non vi bada – di essere stato fuori con Rosalind. “La moglie emise un debole lamento e gli volse le spalle”, ma nonostante tutto la sua ripresa procede per una settimana… Salvo poi interrompersi e crollare, “fosse per un eccesso di dieta o per un’infreddatura”, e il disperato Arthur deve constatare che Perdita è vicina alla morte.

Lei dichiara di esservi rassegnata, e tre giorni dopo il peggioramento annuncia di sentire che non passerà la notte: fa allontanare la madre e i domestici e tiene accanto solo la piccola e il marito. Commenta che pare strano davanti al bel fuoco nel camino non ritrovare vita: tutto il fuoco che lei aveva dentro l’ha donato a quella “piccola favilla mortale”. Poi fissa il marito con sguardo penetrante, sospettoso: “Non era riuscita a riprendersi dal colpo infertole da Arthur quando egli le aveva detto che nell’ora del suo travaglio era stato con Rosalind”. Pur avendo fiducia in lui,

 

ora, sul punto di scomparire per sempre, provava nei confronti della sorella un senso di gelido terrore. Intuiva nell’intimo che Rosalind non aveva mai cessato d’invidiarle la sua buona sorte; un anno di serena sicurezza non aveva cancellato in lei l’immagine della fanciulla ornata dei suoi paramenti nuziali, sorridente di finto trionfo.

 

Chiaro che adesso che Arthur resta solo e afflitto la sorella – bella, seducente – si allargherà. Guardando lui ora, desolato e piangente, pare difficile “dubitare della sua costanza”, e del resto “lui non è fatto per una come Rosalind […] lei non lo ama veramente: ama soltanto i fronzoli, i bei vestiti, i gioielli”; e guardando gli anelli donatile dal marito e le crespe di merletto sulla camicia da notte considera che la sorella tiene più a quelle cose che a lui. “Fu come se, in quel momento, al pensiero dell’avidità della sorella, un’ombra scura si frapponesse tra Perdita e il corpicino indifeso della piccola”: e chiede al marito di toglierle gli anelli e, con tutti i suoi merletti, le sue sete, quel meraviglioso guardaroba che non ha uguali nella provincia, di destinarli come preziosa eredità alla figlia quando sarà donna. Quella spoliazione è rivelativa: a Perdita non interessano gli abiti in sé, ma la loro forza simbolica che passa al frutto del suo grembo.

Dal letto, argomenta: “Alcune di quelle cose un uomo può permettersi di comprarle una sola volta: se andassero perdute non le vedresti mai più. Perciò dovrai custodirle gelosamente”. Per la sorella ha lasciato comunque una dozzina di capi, specificando alla madre quali siano: compreso quell’abito azzurro e argento che era proprio fatto per Rosalind, mentre lei la faceva sembrar malata (una stoffa mandata dal marito, e che finisce con l’avere un tragico valore di prefigurazione del volto cereo di Perdita e di un futuro status per Rosalind). Ma tutto il resto dev’essere per la piccola, fortunatamente dotata della sua stessa carnagione e colore degli occhi. Dopo una ventina d’anni si sa che la roba torna di moda: e canfora e foglie di rosa, nel buio del cassone, conserveranno tutto. Chiede dunque che le prometta di conservare quei vestiti, ché non vadano dispersi: la madre “provvederà a farli avvolgere bene”, e lui li terrà in disparte, sotto chiave, nel cassone listato di ferro del solaio. Madre e governante consegneranno a lui la chiave, che lui darà solo alla figlia. Al marito, “stupito della forza con cui la moglie pareva aggrapparsi a quell’idea” fa promettere e poi giurare tutto quello, poi conclude che si fida di lui, con sguardo supplichevole.

“Arthur sopportò il suo lutto con virile fermezza”, e un mese dopo la morte della moglie alcune circostanze legate al lavoro lo richiamano in Inghilterra, dove passa quasi un anno – e la piccola viene accudita dalla nonna. Al ritorno, lui riapre casa e annuncia “l’intenzione di mantenere lo stesso tenore di vita che aveva prima della morte della moglie”. Alle voce che si sarebbe risposato, almeno una decina di fanciulle prendono a ronzargli attorno e “non si può davvero dire che fosse colpa loro se, nei sei mesi successivi al suo ritorno, la previsione non si avverò”. Continua a lasciare la piccina alla nonna, “la quale asseriva che un cambiamento d’ambiente in così tenera età poteva nuocere”, ma poi il senso di mancanza per il padre è troppo forte e la manda a prendere dalla governante. Per far fronte ai timori della madre preoccupata della piccola, Rosalind la accompagna annunciando che tornerà l’indomani, salvo invece restare a Boston per tutta la settimana e tornare a casa solo per prendere del vestiario. Il fatto è che quando mostra di voler allontanarsi la nipotina piange, e Arthur sostiene che il dolore ucciderà la figlia (notiamo che la bambina senza nome è un mero oggetto di una dinamica di giochi di ruolo). “Insomma, l’unica soluzione fu che Rosalind rimanesse con loro finché la piccina si fosse abituata ai visi estranei”: e ci mette due mesi. Solo allora Rosalind si accomiata dal cognato. Beninteso, la madre non era stata affatto contenta, “non era cosa per bene, aveva protestato, in provincia ne parlavano tutti” – anche se poi si era rassegnata alla cosa per il periodo di oggettiva quiete così goduto dalla casa. Il fatto è che il figlio vi ha condotto la moglie, e tra lei e Rosalind “esisteva un’aperta ostilità. Rosalind forse non era un angelo, ma nel trantran quotidiano era abbastanza di buon carattere e, se bisticciava con la moglie di Bernard, non era che non vi fosse provocata”. Il soggiorno presso il cognato risolve il problema: tanto più che le permette di stare accanto alla sua antica fiamma. “Gli acuti sospetti della povera Mrs Lloyd circa i sentimenti di Rosalind per il marito erano stati ancora ben lontani dalla realtà”.

Di quella passione – che passione rimane – Arthur sente l’influsso: l’idea di una fedeltà nell’amore alla defunta non rientra nella sua natura, e dopo non molti giorni di coabitazione con la cognata inizia a convincersi che (a usare il linguaggio del tempo) Rosalind è “diabolicamente bella”. Utilizzi o meno le arti insidiose che la povera Perdita “era stata tentata di attribuirle”, in ogni caso sa muoversi: e la scena di lei che ricama davanti al camino con la piccola sul tappeto che gioca con i gomitoli è un “quadretto affascinante”, che Lloyd sarebbe uno stupido a non notare, tanto più che Rosalind rivela atteggiamenti sapientemente materni verso la piccina. È però dignitosa e per lui quasi inavvicinabile, pronta sempre a ritirarsi mezz’ora dopo cena: e “Se queste erano arti, Rosalind era una grande artista”. Comunque il loro effetto graduale e ben dosato finisce col dar frutto:

 

parecchie settimane trascorsero prima che Rosalind cominciasse a sentirsi sicura che le sue entrate avrebbero compensato le spese. Allorché ne fu intimamente persuasa, fece il baule e riprese la via di casa. Per tre giorni aspettò; al quarto giorno Mr Lloyd comparve, pretendente rispettoso ma pieno d’ardore. Rosalind lo stette ad ascoltare con grande umiltà e lo accettò con infinita modestia. È difficile supporre che Mrs Lloyd avrebbe perdonato il marito; ma se qualcosa avesse potuto annullare quel risentimento, sarebbe stato il comportamento cerimonioso di quell’incontro. Rosalind impose al fidanzato un periodo d’attesa assai breve. Si sposarono, com’era doveroso, con una cerimonia molto intima – quasi in segreto –, forse nella speranza che, come si disse allora per celia, la defunta Mrs Lloyd non lo venisse a sapere.

Il matrimonio appariva felice sotto ogni aspetto: ognuno dei contraenti aveva ottenuto ciò che aveva desiderato: Lloyd “una donna diabolicamente bella”, e Rosalind… ma i desideri di Rosalind, come il lettore avrà osservato, sono rimasti un bel mistero.

 

Con due nubi sulla loro felicità, anche se forse il tempo le avrebbe dissolte. Nei primi tre anni, Rosalind non riesce a diventare madre, ma intanto il marito subisce pesanti perdite di denaro, col risultato di una diminuzione delle spese, “e Rosalind dovette adattarsi a non essere la gran signora ch’era stata sua sorella”. Regge comunque bene la parte della signora elegante, anche se ha scoperto con dispetto che il meraviglioso guardaroba di sua sorella è requisito a beneficio della figlia.

Per parecchi mesi non parla della questione al marito, ma, quando la evoca, lo fa in termini timidi: gran peccato che tante meraviglie vadano perdute, scolorite, mangiate dalle tarme, private di valore dal mutare della moda. Però il rifiuto secco di Lloyd le fa archiviare la questione, almeno temporaneamente; passano altri sei mesi, e i pensieri di Rosalind sono sempre lì al cassone, che sale a contemplare come un oscuro oggetto del desiderio – chiuso con tre grossi lucchetti e fasce di ferro, percosso con la scarpina si rivela favolosamente pieno. Eccolo l’oggetto perturbante e sostitutivo della morta, quasi a imitare la statua di Ermione del Racconto d’inverno. Trovando tutto ciò un’ingiustizia e una cattiveria, Rosalind decide dunque di ripartire all’attacco con il marito: ma quando l’indomani solleva la questione, lui la interrompe severo – non se ne parla. Lei ribatte d’essere “lieta di sapere in quale considerazione sono tenuta”, si sente “davvero una donna felice […] sacrificata a un capriccio”, e inizia a lacrimare di stizza e delusione. Al che il marito, che “come tutti gli uomini di buon cuore, nutriva orrore dei singhiozzi di una donna” si risolve a spiegare che è stata una promessa, un giuramento a Perdita: e a quel punto Rosalind prorompe in singhiozzi convulsi “che erano il seguito lungamente differito della violenta crisi di pianto cui s’era abbandonata la sera che aveva scoperto il fidanzamento della sorella”. Pensava di aver chiuso con la gelosia, che invece riemerge selvaggia: chiede che diritto avesse Perdita di disporre del suo avvenire e di obbligare lui a essere meschino e crudele. “Ah, occupo davvero un posto ben degno, ci faccio una gran bella figura! Mi si chiede di prendere il posto che Perdita ha lasciato! E che cosa ha lasciato, dopo tutto? Mai come ora m’ero resa conto di quanto poco ha lasciato!”, non ha lasciato niente… Per quanto il discorso sia illogico, non è perciò meno appassionato: Adamo/Lloyd cerca di baciarla e Rosalind/Eva lo respinge. Ha desiderato la donna “diabolicamente bella” e l’ha trovata… per cui si ritira confuso verso lo scrittoio, dov’è la chiave del cassone, chiusa in un pacchetto col suo sigillo gentilizio (“Je garde, ne era il motto”). La prende, si vergogna di rimetterla a posto – un’abdicazione che tradisce il suo stesso motto di famiglia – e la getta sul tavolo davanti alla moglie: lei ribatte di tenersela, la odia, lui dichiara di lavarsene le mani, “E che Dio mi perdoni”. Poi i due, come in una scena teatrale, abbandonano la stanza, ciascuno da una porta diversa: e quando lei vi rientra, trova la bambinaia e la piccola, che impossessatasi del pacchetto ha spezzato il sigillo con le manine. Può sembrare una simbolica autorizzazione: Rosalind si impossessa della chiave del frutto proibito.

All’ora di cena Lloyd esce dall’ufficio, ma è giugno e c’è ancora luce. Le pietanze sono in tavola, ma Rosalind non c’è e il domestico non la trova – in apparenza manca da tutto il pomeriggio. Anche il marito la cerca invano e gli viene in mente di poterla trovare in solaio, dove sale da solo. La chiama senza risultati dalla rampa e gli trema la voce: notiamo questa sua inquietudine, quasi paura, che annuncia il rapporto con il Perturbante ma insieme la trasgressione alle regole del Giardino. Sale dunque al vano tappezzato di armadiature (che, piene di abiti e biancheria, stanno alla situazione come gli alberi non interdetti dell’Eden), che termina con una finestra a occidente: il baule è lì davanti e la moglie vi sta di fronte in ginocchio. Incapace di emettere un suono, Arthur la raggiunge: il coperchio è sollevato a mostrare i tesori di Perdita, ma Rosalind ora è caduta riversa, una mano a terra e una sul cuore.

 

Le sue membra erano mortalmente rigide: sul suo volto, nella luce del sole al declino, c’era il terrore di qualcosa di peggio della morte. Le labbra erano dischiuse come in una supplica, in un’espressione d’angoscia e d’agonia; sulla fronte e sulle gote esangui spiccavano i segni di dieci orribili ferite cagionate dalle mani di un fantasma vendicatore.

 

A questo punto il titolo, “La romanzesca storia di certi vecchi vestiti”, rivela la sua misura sorniona e ironica. Si è osservato che il riferimento al romanzesco fa pensare alla scelta del primo Hawthorne di mescolare prodigioso e reale, anche se in Hawthorne un po’ tutta l’atmosfera è pregna di visionario, qui l’elemento sovrannaturale arriva solo in chiusura. Ma è pur vero che già nel discorso finale di Perdita, e se vogliamo fin dagli auguri – sinceri ma sinistri – formulati da Rosalind alla sorella davanti allo specchio un fiato di fatalità vagamente magico, da maledizione antica ristagna nell’aria. E in fondo il preludio è già in quella contesa tra le sorelle in apparenza tanto educata e contrassegnata da bon ton e parvenze di affetto: proprio Hawthorne era stato maestro nell’impastare fantasmi nel linguaggio.

D’altronde la dimensione perturbante – i rancori dei morti richiamati in una storia di rivalità tra sorelle – sedimenta negli abiti e particolarmente in quella raccolta proibita dove le foglie di rosa impediscono all’altra rosa, Rosalind, di accedere.

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Robert Aickman: quella fredda mano nella mia https://www.carmillaonline.com/2021/07/23/robert-aickman-quella-fredda-mano-nella-mia/ Thu, 22 Jul 2021 22:01:19 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=67234 di Walter Catalano

Robert Aickman, Brividi crudeli, Edizioni Hypnos, pp.440, 24,90 €.

Robert Aickman (1914-1981) è assai poco conosciuto nel nostro paese e non è certo famoso – ad esclusione di un relativamente ristretto gruppo di cultori devoti – neanche nella sua nativa Inghilterra. Eppure la sua prosa ellittica e sinuosa è probabilmente una delle più raffinate del Novecento britannico, almeno per quanto riguarda la narrativa fantastica. E’ infatti quasi interamente nel campo del fantastico che lo scrittore ha da sempre esercitato il suo talento, ma per [...]]]> di Walter Catalano

Robert Aickman, Brividi crudeli, Edizioni Hypnos, pp.440, 24,90 €.

Robert Aickman (1914-1981) è assai poco conosciuto nel nostro paese e non è certo famoso – ad esclusione di un relativamente ristretto gruppo di cultori devoti – neanche nella sua nativa Inghilterra. Eppure la sua prosa ellittica e sinuosa è probabilmente una delle più raffinate del Novecento britannico, almeno per quanto riguarda la narrativa fantastica. E’ infatti quasi interamente nel campo del fantastico che lo scrittore ha da sempre esercitato il suo talento, ma per stile e tematiche le sue short-stories (ha praticato anche il romanzo ma sono i racconti il suo pezzo forte) restano fuori da ogni comoda classificazione. E’ questo il bello dei testi di Aickman: non possiamo definirli horror, per quanto l’orrore – sempre sussurrato, sempre allusivo – ne faccia spesso parte; non possiamo del tutto chiamarli ghost-stories, per quanto la spettralità ne sia elemento presente e decisivo. Oggi il termine Weird ci fornisce un’etichetta più ampia che con minor grado di approssimazione appare sufficientemente adeguata a circoscrivere le sue narrazioni, anche se l’autore, aggirando con saggezza ogni ostacolo tassonomico, le chiamava semplicemente strange stories.

Un ritratto generale della figura e dell’opera di Aickman l’ho già tracciato su Pulp libri al seguente link: https://www.pulplibri.it/le-strane-storie-di-robert-aickman/  pertanto non mi dilungherò a ripetere dettagli biografici o notazioni critiche per i quali rimando direttamente all’articolo: invece mi soffermerò qui unicamente sulla silloge di racconti appena pubblicata da Hypnos Editore, quarto volume dell’ambizioso progetto che il bravo Andrea Vaccaro sta, con pazienza e determinazione, portando a compimento (ne dovrebbero mancare ancora tre): la pubblicazione integrale di Tutti i racconti fantastici dello scrittore londinese.

Dopo Sentieri Oscuri (comprendente le tre storie di We Are for the Dark, 1951 e Dark Entries, 1964) uscito nel 2012, I poteri delle tenebre (Powers of Darkness, 1966) uscito nel 2014, e Sub Rosa (1968) uscito nel 2019, è ora la volta di questo Brividi crudeli che traduce la raccolta forse più rinomata dell’autore, uscita nel 1975 con un titolo bellissimo che non è stato reso al meglio: Cold Hand in Mine. Un titolo che mai ha trovato una trasposizione italiana ugualmente evocativa: non lo fu nel 1990 quando – allora prima e unica opera di Aickman tradotta – Giuseppe Lippi tentò di inserirlo negli Oscar Horror Mondadori passandolo come Suspense, ma la promessa di orrore e di tensione – almeno nel modo diretto e manifesto a cui i lettori della collana erano avvezzi – nei racconti che componevano il volume non veniva mantenuta, collocando di fatto l’antologia che avrebbe dovuto introdurre un nuovo autore inevitabilmente fuori contesto. Non risulta soddisfacente nemmeno Brividi crudeli, per quanto sia una ben più rispettosa approssimazione alla multiforme unheimlichkeit prospettata da Aickman: l’improvviso, carezzevole tocco di una mano gelida, inaspettatamente gelida.

Titolo a parte, l’edizione Hypnos mantiene le ottime traduzioni di Lippi e aggiunge agli otto racconti della raccolta originale un ritrovamento recente, la novelette – inedita fino al 2015 – The Strangers, tradotta da Elena Furlan.

Si parte con Le spade – il cui adattamento filmato del 1997, sotto la direzione di Tony Scott, costituì l’episodio pilota della serie antologica horror The Hunger – storia di erotismo morboso, ambientata fra alberghi di malaffare e scalcinati luna park in cui il freak-show sconfina con l’esibizione pornografica. In un baraccone isolato una fanciulla, insieme attraente e ripugnante, si lascia trafiggere senza danno con una spada da un componente del pubblico alla volta: dopo aver sferrato il colpo e constatato l’inspiegabile mancanza di ferite sul corpo della giovane, lo spettatore ha il diritto di baciarla. La ragazza, sotto la protezione dell’impresario-magnaccia, non disdegna di concedere, a congruo prezzo, appuntamenti intimi per spettacoli privati agli habitué e il giovane protagonista non resisterà alla tentazione. Il racconto è un esempio perfetto della prospettiva particolare da cui Aickman guarda al sesso: in modo sempre assolutamente diretto senza tuttavia essere mai del tutto esplicito. Non c’è bisogno di Freud per vedere nella spada la metafora della penetrazione: coito e stupro coincidono, ogni carnalità è intrinsecamente sadomasochistica, ogni intimità sessuale dolorosa e crudele.

La vera strada della chiesa è invece un esempio dell’Aickman più mistico ed esoterico: certe soglie – da cercarsi in luoghi isolati e periferici del mondo, come il minuscolo arcipelago franco-britannico sul Canale della Manica, scenario del racconto – certe linee di energia che serpeggiano oltre il tempo e lo spazio, oltre la vita e la morte, verso un indefinibile ed enigmatico Altrove, si celano dietro l’ingannevole paravento della sacralità pagana ancestrale e delle sue sopravvivenze nelle credenze popolari dell’ugualmente ingannevole religione cristiana.

Niemandswasser ci trasporta in un ambiente mitteleuropeo, nell’atmosfera Biedermeier di uno degli stati della Confederazione germanica prima della guerra del 1866 fra Austria e Prussia, mentre principi asburgici e nobildonne berlinesi intrecciano amori, destini e misteri sulle rive infestate del lago Bodensee.

Diario di una ragazza inglese è un classico del vampirismo, pubblicato nel 1973 su The Magazine of Fantasy & Science Fiction e insignito nel 1975 del World Fantasy Award per il miglior racconto. Considerata da molti la sua storia più perfetta, è la relazione puntuale di un’inquieta adolescente britannica che registra (pregiudizi etnici inclusi) le tappe del Grand Tour italiano che sta percorrendo con la sua facoltosa famiglia lungo gli itinerari di Byron e Shelley: la fanciulla non riuscirà ad incontrare i due mitizzati poeti, li vedrà solo passare fuggevolmente a cavallo, ma ad una festa nell’antico palazzo di nobili conoscenti italiani farà un incontro ravvicinato assai più eccitante e sanguinoso.

L’ostello è un altro dei racconti più enigmatici e meritatamente famosi della produzione aickmaniana. A rigor di termini non vi si può parlare nemmeno di soprannaturale, eppure il Weird&Eerie di questa storia è ai massimi livelli. Un viaggiatore di commercio a corto di benzina trova casualmente rifugio per una notte in un albergo-pensione: l’accumulo di inquietanti e incomprensibili bizzarrie (l’aspetto e la disposizione degli ospiti durante la cena; la quantità del cibo e le condizioni del servizio; gli espliciti inviti erotici ricevuti da parte di una perfetta sconosciuta; le reticenze ambigue del direttore; il polimorfismo inspiegabile del compagno di stanza, ecc.) daranno i brividi al povero protagonista: un urlo lancinante nel cuore di una notte quasi insonne lo sconvolgerà definitivamente. Il giorno dopo il direttore dell’albergo, dopo avergli comunicato la tragica e improvvisa dipartita di uno degli ospiti, gli procurerà gentilmente un passaggio fino all’autobus per il centro abitato più vicino dove cercare un meccanico per recuperare l’auto: viaggerà insieme ai becchini sul carro funebre che porta via la salma del deceduto. Come ha commentato un critico: “una storia horror sull’orrore di gente così terrorizzata dall’orrore da essere disposta a tutto pur di evitarlo”.

Lo stesso cane è di nuovo un’eccentrica ghost-story senza fantasma, o piuttosto il fantasma c’è ma (quasi) non si vede: un minaccioso cane, guardiano di una villa apparentemente disabitata, esercita una sorta di possessione sulla compagna di giochi e primo amore del protagonista, misteriosamente riuscirà a portagliela via e, forse immune al tempo, a imprigionarla fra la vita e la morte.

Io e Mr. Millar è una storia di inquilini ed appartamenti; il racconto di formazione e di crescita di un giovane protagonista e della sua relazione clandestina con la bella vicina di casa, sposata e madre di diversi bambini; ma è soprattutto la storia di un’infestazione, un’infestazione provocata da un solo uomo e vivo: il misterioso e inqualificabile Mr. Millar, che trasferitosi nel palazzo vi innesca un crescendo di comportamenti, eventi e situazioni sempre più bizzarri e l’insorgere di un’atmosfera sempre più cupa e sgradevole che ostacolerà il love affair fra i due giovani conducendo a un climax presumibilmente soprannaturale e ad uno scioglimento cruento che libererà però finalmente l’ambiente, ripristinando l’(apparente) equilibrio iniziale.

L’uomo degli orologi è forse, di tutti, il racconto più allegorico. Ogni amore è soggetto al tempo, tutto finisce, anche la passione più divorante si consuma e si esaurisce attraverso le ore e i giorni. Nell’immediato dopoguerra inglese il protagonista si è portato in patria dalla Germania sconfitta la bella Ursula, che ha sposato: nata nella Foresta nera, tra gli orologi a cucù, la donna si circonda di strani e impensabili congegni meccanici e intrattiene una segreta relazione con un uomo misterioso che furtivamente viene di tanto in tanto a regolarli. Il marito geloso non riesce a superare la cortina di mistero e di riserbo della compagna ma scopre, al di là delle sue bugie e reticenze, che quando gli orologi si fermano, si rompono o si guastano, anche la bellezza e la gioventù di Ursula vengono meno. Ancora una volta la forza estranea e irrazionale, il “soprannaturale”, sarà il veicolo del disamore, della disarmonia, della fine di ogni rapporto di affetto e di unione.

Al di fuori della raccolta originale anche il lungo racconto aggiunto a questa edizione e ritrovato in una stesura non ancora definitiva, Gli stranieri, conferma, quasi fosse un’ossessione, quanto appena detto: qui la relazione fra il protagonista e la donna amata viene improvvisamente, e in questo caso anche tragicamente, interrotta dall’irruzione dell’Oscuro e dei suoi grotteschi alfieri che, durante un’assurda e angosciante festa di beneficienza, prenderanno possesso dell’amico “sfigato” trasformandolo in un temibile rivale, pericoloso ormai non solo sul piano erotico ma anche e soprattutto su quello metafisico. Ognuno degli attanti in realtà, innamorata fedifraga compresa, non è che la pedina di un gioco molto più grande e del tutto impenetrabile.

Aickman con tocco ineguagliabilmente allusivo, senza mai dare l’ombra di una spiegazione, quando non delinea scenari storici credibili, descrive l’Inghilterra depressa e cadente di un immediato dopoguerra (sia il primo che il secondo) che spesso persiste e si prolunga eternamente nei quartieri periferici degli anni ’60, remoti dalla swinging London, dalle minigonne e dalla musica beat. I suoi personaggi raccontano, quasi sempre in prima persona, e talvolta a distanza di anni ricordano eventi della gioventù, sepolti nel loro passato. Personaggi che non corrispondono affatto al tipico protagonista del dark tale anglosassone: l’esteta solitario alla Machen o alla Lovecraft, l’erudito antiquario alla M.R. James, l’intellettuale in fuga dal mondo alla Hodgson o alla Blackwood, personaggi diversi dallo stesso Aickman, che ben avrebbe potuto collocarsi egli stesso entro tali tipologie letterarie. I suoi protagonisti sono invece giovani piccolo borghesi in cerca di occupazione, editor di romanzetti pornografici, broker, commessi viaggiatori, impiegati della City; un campionario assolutamente non scontato di umanità minuta, la cui vivida descrizione ricorda la precisione analitica dei bambini e degli adolescenti ritratti da Walter de la Mare, l’unico letterato la cui voce si possa comparare alla sua.

C’è dunque sempre una buona ragione per leggere Robert Aickman e ce n’è una ancora migliore per cominciare proprio da questa magistrale raccolta, Cold Hand in Mine, o, se preferite, Brividi crudeli.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Collier fatali e “nuova” teratologia (Nightmare Abbey 11 / III) https://www.carmillaonline.com/2018/09/07/collier-fatali-e-nuova-teratologia-nightmare-abbey-11-iii/ Fri, 07 Sep 2018 21:13:38 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=48629 di Franco Pezzini

La decollazione nel boudoir   (puntata precedente qui)

La donna dal collier di velluto è una storia di teste tagliate. Certo, lo erano anche le versioni di Irving e Borel, ma Dumas enfatizza il tema a più livelli. Anzitutto presenta una vicenda assai più articolata delle precedenti, passando dalla forma-racconto al romanzo e coinvolgendo il lettore con ben altra intensità emotiva – anche grazie alla sincerità malinconica dell’inizio. In secondo luogo innesta la storia fantastica in un’ampia panoramica sulla rivoluzione (al filtro di una  lettura ideologicamente non neutra, sul tema [...]]]> di Franco Pezzini

La decollazione nel boudoir   (puntata precedente qui)

La donna dal collier di velluto è una storia di teste tagliate. Certo, lo erano anche le versioni di Irving e Borel, ma Dumas enfatizza il tema a più livelli. Anzitutto presenta una vicenda assai più articolata delle precedenti, passando dalla forma-racconto al romanzo e coinvolgendo il lettore con ben altra intensità emotiva – anche grazie alla sincerità malinconica dell’inizio. In secondo luogo innesta la storia fantastica in un’ampia panoramica sulla rivoluzione (al filtro di una  lettura ideologicamente non neutra, sul tema non ci soffermiamo): e in particolare lo spettacolo della spaventosa fine sulla ghigliottina di Madame du Barry già prefigura al lettore in chiave di doppio visibile la successiva morte, questa non descritta e circonfusa d’ombre, della donna dal collier di velluto. Un’altra testa appare effigiata sulla tabacchiera del bizzarro medico-trickster conosciuto da Hoffmann all’Opéra – lo stesso che poi apparirà a sciogliere il collier nella fatale camera d’albergo: «una piccola testa di morto» (La donna, cit., p. 105), un «piccolo teschio di diamanti» (ivi, p. 106), estremamente rivelativo nelle mani di quel personaggio cangiante, sorta di medium o psicopompo a cavallo tra i mondi della vita e della morte, del delirio e dell’irruzione sovrannaturale. Inoltre, come vedevamo, la testa di Arsène rotola via come quella di Antonia sparisce dal ritratto, in un rapporto di parallelismo e oscura specularità. E infine, chiuso il romanzo, Dumas lo inserisce nel ’51 in quell’ampia raccolta Les mille et un fantômes, il cui primo “capitolo” omonimo – a sua volta costituito da un mosaico di racconti – ritorna con insistenza sul tema delle esecuzioni capitali e in particolare delle decapitazioni, fino ai più macabri dettagli medico-legali (una bella edizione, I Mille e un Fantasma, con i Brogliacci di Paul Lacroix e il saggio introduttivo I fantasmi di Dumas e Lacroix, a cura di Marco Catucci, è da poco apparsa per i tipi Robin, Torino 2018). Lo scrittore – con il complice Lacroix che gli porge una serie di storie nel segno del bizzarro e dello spettrale – sembra insomma particolarmente interessato a tale simbolica, ne esplora le suggestioni e la sviluppa in una serie di variabili. In effetti il tema della testa tagliata, separata dal corpo, reca una ricchissima serie di provocazioni. Solo a titolo di esempio, in rapporto a opere che negli ultimi decenni le hanno incalzate, pensiamo all’uso che ne fa Giuseppe Genna nell’intrigante e amarissimo thriller/noir Le teste (Mondadori, Milano 2009) o alla comparsa quasi contemporanea della traduzione italiana del grande saggio di Julia Kristeva, La testa senza il corpo. Il viso e l’invisibile nell’immaginario dell’Occidente, uscito in Francia nel 1998 (Donzelli, Roma 2009).

D’altra parte un secondo elemento emerge molto chiaro: ne La donna dal collier di velluto, come nel primo testo della raccolta del ’51, le teste che rotolano sono tutte di donne. Non sembra un caso che Dumas inserisca a un tratto nel dialogo i nomi di Sade e di Justine: e proprio l’icona del supplizio femminile sembra qui costituire il punto d’incontro più inquietante – e peraltro consono alla spettacolarità feticistica odierna – tra strazio del corpo e provocazione sensuale, inabissamento psichico e terrori della Storia. A un livello generale, di salutare messa a fuoco degli aspetti equivoci di questa connessione estetizzante, rinvierei al bel testo di Adriana Cavarero, Orrorismo – ovvero della violenza sull’inerme (Feltrinelli, Milano 2007), e in questa dimensione non mi addentro – del resto il rapporto tra sadismo e agonie romantiche è stato abbondantemente studiato. Tale chiave, comunque, non esaurisce il discorso.

Tanto più che la testa (femminile) che cade è associata a un terzo elemento: una conseguenza fatale, inesorabile, che si abbatte sullo spettatore quasi folgorandolo – sia egli lo sciagurato Gottfried Wolfgang destinato alla follia, sia (a maggior ragione) l’Hoffmann che quel delirio, si immagina, proietterà nei suoi scritti come un’eredità virale. Ciò che Irving e Borel associavano alla pura epifania della Decapitata, Dumas lo riconduce a un meccanismo più complesso e interiormente devastante, legato a un giuramento sacro e a una morte a distanza, in rapporto con un Femminile che spiazza.

Ancora: il teatro di morte del romanzo si riferisce, come abbiamo visto, a un’epoca storica molto precisa. Un’epoca abbastanza vicina a Dumas – come ad altri narratori misuratisi sul tema – da recare un sapore di drammatica contiguità. Anzi un sapore che al narratore francese, erede dei valori di quella Rivoluzione, lascia un retrogusto amaro (o piuttosto dolciastro, ferrigno) e proietta ombre grevi. Tanto più che quei fantasmi, riproposti in infiniti memoriali, ma anche in tutta una ricchissima e pervasiva iconografia, sembrano strutturarsi secondo forme che accedono al mito.

Gli ingredienti, insomma, ci sono tutti. E come in quei giochi ottici dove dobbiamo rilasciare lo sguardo a cogliere un’immagine cifrata, e questa all’improvviso emerge in uno spessore virtuale nella confusione dei segni, il mostruoso rivela una prima immagine. Quel che Dumas sta richiamando sottotesto, attraverso echi e allusioni, è anzitutto il mostro che emerge in filigrana da infinite immagini dei giorni del Terrore: una Dea tremenda la cui icona è la testa tagliata e minacciosa, sollevata a segno pietrificante di un rito pagano. La Gorgone Medusa, insomma.

A dare la stura al sottotesto mitico di tanta iconografia è il terremoto simbolico dell’esecuzione di Luigi XVI. Spigolando tra le innumerevoli stampe raffiguranti l’esecuzione del re, ne troviamo per esempio una tedesca, anonima, esistente in numerose varianti e in realtà simile a modelli francesi ma più cruda. Un collaboratore del boia appare mostrare al popolo la testa mozzata del consacrato da Dio: si coglie la terribile energia della postura di quest’uomo, l’espressione allucinata e la sensazione che sia spaventato dalla testa che cerca di allontanare da sé, e quasi pietrificato dallo spettacolo che sta offrendo al popolo (cfr. La ghigliottina del Terrore. Catalogo della mostra curata da V. Rousseau-Lagarde e D. Arasse, Torino 17 febbraio – 10 marzo 1987, Polistampa, Firenze 1986, p. 67). Si noti che questo bozzetto lo troviamo riproposto in seguito – stessa postura del carnefice – in un’immagine relativa all’esecuzione di Robespierre. Il nostro Hoffmann avrebbe potuto trovarsi tra le mani proprio questa stampa, e la sua febbre interiore ne sarebbe stata certamente sollecitata.

Ma è proprio in seguito alla morte del re che si diffonde un tipo d’immagini anche più astratto e simbolico – anche questo poi riproposto per altri personaggi, Robespierre compreso. Particolarmente esplicito in una celebre acquatinta dell’editore rivoluzionario Villeneuve, il gesto del boia che solleva la testa mozzata del re, isolato però dal contesto,

 

si riduce a un avambraccio anonimo, rappresentante incontestabile della giustizia esercitata in nome del popolo. Viene così fissato una volta per sempre il valore di questo gesto dimostrativo che, nella tradizione delle immagini, è quello di Perseo che pietrifica Polidette mentre mostra la testa tagliata di Medusa. Nel rituale dell’esecuzione rivoluzionaria, l’esibizione della testa è destinata a terrificare, anzi, a pietrificare i nemici della patria. Di conseguenza, la testa del ghigliottinato diventa il suo vero volto smascherato nella morte e questo tipo di iconografia può essere definito “ritratto del traditore smascherato” [La ghigliottina del Terrore, cit., p. 51].

 

Nel senso che il volto dell’ultimo istante, come in un conato di terribile verità, coi suoi tratti e l’espressione assunta smaschererebbe il traditore: e in effetti, nel romanzo di Dumas, la testa tagliata è memoria e denuncia per Hoffmann del suo tradimento di Antonia e dei voti fattile.

Si noti che questo continuo ritorno delle immagini della morte del re e della sua testa, ostentata a pietrificare i nemici della patria, va ben oltre l’orizzonte delle stampe popolari: le troviamo su medaglie, coperchi di scatole e oggettistica varia, porcellane – dove magari la tazza cela l’immagine effigiata sul piattino sottostante, come nell’effetto moralizzatore della morte nascosta e poi rivelata delle anamorfosi…

Ma gli oggetti tradiscono lo spirito dell’epoca: e così, quando lo spiacevole medico dalla tabacchiera con la testa di morto brandisce un binocolo, la persona che si vede fissata attraverso quelle lenti, «chiunque fosse, trasaliva immediatamente e subito volgeva gli occhi verso chi la guardava, come se vi fosse stata costretta da un invisibile potere. E restava in tale posizione finché lo straordinario medico cessava di fissarla» (La donna, cit., pag. 109 – corsivo mio): restava cioè pietrificata da quello sguardo gorgonico. Certo qui Dumas strizza l’occhio all’Hoffmann narratore, ai cannocchiali dell’allarmante Coppola/Coppelius di L’uomo della sabbia, un figuro oniricamente bifronte come (scopriremo) questo medico che ha due diverse forme di apparizione. Ma il motivo della lente che ammicca a una visione diversa, e a una diversa messa a fuoco di quel mondo sottile ai confini indecidibili dell’incubo, per Dumas non si consuma nel semplice delirio. La gorgonizzazione legata alle lenti, infatti, non è imputabile solo alla personalità inquietante del medico: il binocolo, specifica questi, gli viene dall’amico Voltaire, dunque è in fondo, simbolicamente, la lente stessa dei Lumi. E come ad aggiungere un ulteriore livello di spiegazione, è a questo punto che il medico cita Justine di Sade: il suo accenno fuggevole a «una giovanissima donna che aveva letto quel romanzo» (ivi, p. 110) ed è «morta felicissima» (ibidem)«E l’occhio del medico scintillò di piacere al ricordo delle cause di quella morte» (ibidem) – reca il senso della saldatura tra Lumi, libertinismo e orrore che qui sembra costituire un sotterraneo specifico, personale e culturale, dello sguardo gelido di Medusa. Non a caso, subito dopo viene dato il segnale del secondo atto (siamo all’Opéra) e il medico annuncia: «Ora vedremo Arsène» (ibidem).

Quando poi la danzatrice appare – bellissima, con la flessuosità di una lucertola (ivi, p. 112) a richiamare un’affinità coi rettili non incongrua in una parente delle Gorgoni –  e Hoffmann si fa sfuggire un commento ammirato ad alta voce, lo sguardo di lei dal palco gli fa l’effetto di una scarica elettrica (ivi, p. 111): ancora una volta un occhio che folgora e mesmerizza, un occhio da basilisco o con effetto gorgonico. Evidente quando Hoffmann scopre di non poter quasi allontanarne lo sguardo, e per riuscirvi è costretto a «uno sforzo così doloroso che emise un grido, come se i nervi del collo, divenuti di marmo, gli si fossero spezzati in quel momento» (ivi, p. 114). Ma, come nota Hoffmann/Dumas, «una visibile correlazione si era stabilita tra i […] due sguardi» (ivi, p. 112) di Arsène e del medico, e anzi «vedeva distintamente i raggi che uscivano dai diamanti del fermaglio di Arsène [quello che trattiene il fatale collier di velluto viola] incontrarsi a mezza via con quelli che uscivano dalla testa di morto sulla tabacchiera del dottore in una linea retta, urtarsi, respingersi, e scaturire di nuovo in un fascio unico fatto di migliaia di scintille bianche, rosse e oro» (ivi, pp. 112-113). Uno scambio che parla il linguaggio del fato, e annuncia la sorte di Arsène ma insieme la potenza simbolica di un dramma, una sorta di riconoscimento del gorgoneion sulla strada di Hoffmann. Quella correlazione tra l’occhio del serpente e l’uccello che affascina (ivi, p. 121) inseguirà in forma allucinatoria Hoffmann anche in seguito: e ricordiamo che sarà proprio quel medico, alla fine del romanzo, a salire alla stanza riconoscendo il cadavere di Arsène. Suscitando nel lettore il dubbio che tutta la vicenda sia in realtà una rilettura a posteriori in chiave di delirio.

Scopriremo anzi che il fermaglio del collier di Arsène ha forma di ghigliottina. «Sì, ne fanno di graziose» commenta il dottore «e tutte le nostre donne raffinate ne portano almeno una» (ivi, p. 115). Ma il giovane si è fatto passare il binocolo, e attraverso quelle lenti fatali, per un bizzarro effetto ottico (ancora le lenti de L’uomo della sabbia), il giovane tedesco ha una sorta di amplesso con Arsène – un amplesso necrofilo in cui si sovrappongono le emozioni della giornata, l’immagine danzante diventa quella di Madame du Barry con la testa mozza, o viceversa Arsène appare danzando fino ai piedi della ghigliottina e tra le mani del boia. Il desiderio monta a tal punto che Hoffmann, dopo aver invano cercato soccorso nel talismanico ritratto di Antonia (altra testa), è costretto a fuggire dalla sala. Quando più tardi torna però davanti all’uscita degli attori per rivedere Arsène, «agitato da quella strana apparizione» (ivi, p. 119), non nota nemmeno il freddo e la neve che cade, trasformando «la redingote tedesca in una statua di marmo» (ibidem). Ancora insomma la pietrificazione: come nel dramma mitico della Gorgone ma in termini liberissimi, gli elementi dello sguardo fatale e della mutazione in pietra vengono cioè riproposti in una serie di suggestioni, fino alle estreme latitudini del concetto. Come quando più tardi Hoffmann, arricchitosi al gioco per farsi bello con Arsène, torna alla casa di lei e pregusta «la gioia di coprire con tutto quell’oro il bel corpo che gli si era svelato e che, rimasto di marmo davanti al suo amore, si sarebbe animato davanti alla sua ricchezza, come la statua di Prometeo quando ebbe trovato la sua vera anima» (ivi, p. 160). Dove il richiamo a un procedimento inverso alla pietrificazione gorgonica denuncia in fondo l’arida Arsène come vuoto simulacro, statua di pietra, proprio attraverso la squallida prospettiva di un’animazione per lucro.

Ma torniamo al Nostro pietrificato dal gelo. Arsène scompare immediatamente sulla carrozza di Danton, Hoffmann la insegue invano: e quando un paio di giorni dopo, ossessionato dall’immagine di lei, torna a teatro e apprende che i suoi gesti inconsulti durante e dopo lo spettacolo hanno segnato la rovina della diva e il suo allontanamento, il teatro e il medico stesso appaiono completamente diversi, privi di ogni lustro od orpello. Il visionario Hoffmann scopre così che l’ambiente visto due giorni prima apparteneva a una realtà passata – l’Opéra prima della rivoluzione, luccicante di gioielli ed eleganza – rievocata come per magia; il medico non ha tabacchiere preziose ed è un uomo qualunque, gli spettatori in sala sono poveracci, e persino i busti esposti (le ennesime teste) non raffigurano più Apollo e Tersicore come pareva a Hoffmann, ma Voltaire e Marat. Era la presenza di Arsène, spiega il medico, a trasfigurare tutto: «vi dico che l’amate, giovanotto, e che avete visto la sala attraverso il prisma del vostro amore» (ivi, p. 125). Eppure, ancora una volta, il discorso non si esaurisce qui: il dottore confida di non aver mai posseduto, neppure nei tempi più prosperi, una tabacchiera con pietre preziose come quella ostentata dal suo alter ego. Tutto ciò appartiene dunque a una dimensione sospesa tra l’allucinazione e qualche diverso piano della realtà: cioè Dumas rende partecipe il lettore, attraverso il suo gioco a più livelli, di una percezione sottotesto. Ed è con questo binocolo (per rifarci all’immagine già hoffmanniana delle lenti che colgono la realtà a una diversa distanza e profondità) che noi stiamo esplorando il romanzo, e troviamo la Gorgone. Come la Gorgone non si consuma in un’identità divina ma è al centro di una costellazione che comprende la testa tagliata e lo specchio, lo sguardo fatale, la pietrificazione e i serpenti, così anche qui ciò che rileva non è una banale identificazione tra Arsène e Medusa ma un contesto dinamico, un dramma mitico in cui i singoli elementi si compenetrano e si riassestano continuamente.

Così il dottore, come l’inquietante e indecidibile Coppola/Coppelius di L’uomo della sabbia riappare a Hoffmann qualche tempo dopo nel suo primo sembiante ingioiellato: spiega che il giovane avrebbe potuto rintracciarlo con facilità chiedendone l’indirizzo «al primo cimitero […] incontrato» (ivi, p. 131) e domandando del dottore dalla testa di morto (ibidem). Si definisce anzi il medico dell’Opéra (ibidem), ma alla fine del romanzo, davanti al corpo reclino di Arsène, spiegherà di essere il medico delle prigioni (ivi, p. 174): due ambiti in apparenza antitetici e saldati oniricamente attraverso la natura indecidibile di questa figura bifronte – ma con una tragica contiguità nel teatro del supplizio in piazza. Ridestandosi nell’Opéra ormai deserta dove si è assopito o passando nottetempo ai piedi della ghigliottina, Hoffmann si confronta con scene paradossalmente simili.

Comunque il giovane non si deve disperare per la scomparsa di Arsène, perduta nel labirinto di Parigi: ella infatti ha incaricato il medico di cercarle un pittore che la ritragga, e l’artista Hoffmann si offre con entusiasmo. Una carrozza tenebrosa chiamata dal dottore conduce il giovane a casa di Arsène, e la Bellissima appare da una porta nascosta «dietro uno specchio mobile» (ivi, pp. 135-136): come, viene da pensare, quello di Perseo. L’accesso all’immagine della Gorgone è possibile solo tramite uno specchio, e in queste pagine di epifania di Arsène il richiamo allo specchio torna ossessivamente. Arsène vuole farsi ritrarre in costume da Baccante, e la sconvolgente esperienza del suo denudamento vede una rifrazione entro gli specchi del boudoir; poi Hoffmann viene improvvisamente buttato fuori (è arrivato l’amante in carica), e umiliato comprende che per la mantenuta di lusso egli rappresenta un pittore qualunque, «una macchina da ritratti, come uno specchio che riflette i corpi che gli si presentano» (ivi, p. 142).

Ma anche la locuzione “macchina da/per ritratti” è significativa: proprio la ghigliottina è stata definita come “macchina per ritratti”, nel senso che isolando la testa del ghigliottinato, la mette sotto gli occhi dello spettatore. Suggestivo constatare come nel romanzo, in parallelo all’isolarsi “in ritratto” della testa mozza di Arsène, sparisce quella del ritratto di Antonia. D’altra parte proprio il citato tema del “traditore smascherato” riconduce a un ritratto-maschera in cui si condensa e riassume tutta la storia dell’individuo e il senso della sua vita (La ghigliottina del Terrore, cit., pag. 169). Una maschera: il che da un lato richiama all’uso, proprio durante la rivoluzione, di maschere funerarie rapidamente modellate sui tratti dei giustiziati, come volti ingrigiti dalla pietrificazione gorgonica; e dall’altro alla stessa Gorgone, figura-maschera anche nell’accezione più materiale. Un po’ tutta la Rivoluzione francese – ma in particolare la sua fase più drammatica, il Terrore – è all’insegna di questo volto di dea irriconosciuta in demone, dea-maschera o dea-testa, sorta di Bafometto corrucciato (e a proposito dell’idolo-testa Bafometto ricordiamo la mitologia sulla vendetta dei Templari consumata proprio in quei giorni con l’esecuzione del re Capeto). Un mostro immagine di un Femminile scatenato e sconvolgente: simbolica adatta, del resto, a quella Rivoluzione Francese in cui le donne si conquistano la «scena pubblica come vittime e come mandanti. Una furia da baccanti [ricordiamo che così voleva vestirsi Arsène per il ritratto] aveva soffiato sulla storia, e le donne volgevano a se stesse un volto inconoscibile, troppo vicino all’indistinto primordiale» (V. Papetti, La “debole mano” della signora Radcliffe, Introduzione ad Ann Radcliffe, I misteri di Udolpho, Bur Rizzoli, Milano 2010, p. 23), tra aspersioni lunari di sangue, gioielli a forma di ghigliottine e carmagnole sfrenate in abiti da sacerdotesse – coi musicanti magari abbigliati da satiri. Se Dioniso aveva insomma casa in Francia nei giorni del Terrore, il volto terrifico della Dea lo accompagnava. E se la mutazione artistica del volto di Medusa, da grottesco com’era nell’arte greca a più semplicemente femminile, ancorché anguicrinito e cereo, appare diffusa fin dal Rinascimento, la svolta definitiva può ravvisarsi proprio «in un tempo tanto mitologico», come lo definisce Dumas (La donna, cit., p. 100), quale la stagione rivoluzionaria: quando cioè la Gorgone decollata assurge a figura della “libertà alla francese” come – per gli intellettuali oltremanica – la saggia ed equilibrata Atena del contraltare “all’inglese”.

Tra i mostri-femmina delle mitologie d’Occidente la Gorgone è forse il più emblematico. Una figura i cui protomodelli sprofondano in un passato lontanissimo, fino a quelle maschere neolitiche della Dea della morte che sembrano plausibili prototipi del gorgoneion, il pietrificante capo di Medusa, o persino più indietro. Il nome del resto che in greco suona una sorta d’epiteto (gorgós, “terribile”) potrebbe provenire dal sanscrito garjana, sorta di onomatopea di un ringhio bestiale (garg come urlo). Il tema della mutazione delle vittime in pietra legata alla fatalità della maschera sacra ben si sposa con la funzione (come per altri mostri ibridi) di protettrice di edifici. Ciò che non semplifica la comprensione agli imbarazzati mitologi del mondo classico, che si interesseranno particolarmente a Medusa, unica mortale di tre Gorgoni sorelle e caduta – in qualche passato remoto – sotto la spada falcata dell’eroe maschio Perseo. Comunque un mostro, bloccato nell’atto di una boccaccia apotropaica dal valore forse magico: eppure le sue caratteristiche (compresi i nessi del termine greco con una costellazione semantica legata all’idea di “regnare”, cfr. qui) finiscono col richiamarla a una dignità ben più alta, all’aspetto minaccioso della grande Dea della vita e della morte. Gli Orfici chiameranno non casualmente gorgoneion il volto della luna, e tale lascito lunare permarrà ancora nelle vamp spettrali romantiche e simboliste – compreso dunque lo spettro di Arsène. Perché, a grattare la vernice della maschera, la mostruosità di Medusa si rivela in fondo la minacciosità mitizzata, irriconosciuta della donna: e questo aspetto, in pulsioni, fremiti e polluzioni, erutterà nell’arte tra Otto e Novecento. Quando diventa oggetto di una vera e propria ossessione, spostando spesso l’attenzione dal contesto generale (Perseo sparisce) alla testa di lei: e non necessariamente tagliata, anche se il distinguo diventa relativo. Del resto nel mito gorgonico si intrecciano temi diversi e spesso (non sempre) equivoci: così, accanto al rapporto tra femminile e mostruoso – e tra donna e serpente – troviamo il motivo della fascinazione fatale (la femme fatale, appunto) che pietrifica in una succube passività; il tema dello specchio, che permette di contemplare l’incontemplabile, fino alle ultime interpretazioni come metafora per il cinema; la decollazione da parte dell’eroe virile… Lo stesso urlo (garg), permette di decrittare anche in questa chiave il soggetto androgino – del resto l’antica Gorgone aveva connotati spesso bisessuali in un’identità femminile – di un’intera nebulosa di opere di Edvard Munch: emblematico è il bozzetto conservato al Bergen Kunstmuseum dove vediamo solo la testa urlante tra una foresta di mani disperatamente sollevate. Un tema insomma che impatta con incredibile potenza sulla modernità, sia in forme artisticamente “alte” – per le quali si rinvia a Jean Clair nel suo celebre saggio Méduse. Contribution à une anthropologie des arts du visuel (Gallimard, Paris 1989, tr. it.: Medusa. L’orrido e il sublime nell’arte, Leonardo, Milano 1989) – sia in altre di un immaginario molto più popolare.

Infatti il rapporto della Gorgone con il genere horror è molto più stretto di quanto spesso si creda. Si pensi alla decapitazione di dark lady letterarie come Milady de Winter (cioè ‘dell’inverno’, un nome adatto al volto oscuro della Dea) che lo stesso Dumas pone in scena ne I tre moschettieri; o alle vampire di letteratura e cinema, eredi e ipostasi della Terribile Femmina in un tripudio di vagine dentate e denti fallici, che inevitabilmente dopo il trattamento col paletto richiedono il taglio della testa. Ma si è già accennato alla Gorgone portata in scena da Fisher per la Hammer: un film che narra di uomini alla deriva, e di una donna che suo malgrado e senza saperlo, travolta da amnesie lunari, è posseduta dallo spirito del Mostro-Femmina. Ancora il Bram Stoker’s Dracula di Francis Ford Coppola, 1992, vede una delle vampire del castello del Conte dotata di una chioma medusea con serpenti. Nel romanzo, infatti, davanti a una di loro, l’ospite Jonathan Harker ha la sensazione di averla già incontrata, senza però ricordare dove: e se oggi sappiamo trattarsi di un riferimento alla vampira del racconto-frammento Dracula’s Guest (o meglio di un testo simile nelle prime cento pagine rimosse del romanzo), tra le possibili identificazioni c’era appunto Medusa – e probabilmente di lì gli sceneggiatori mutueranno la suggestione del film. Certo il riferimento a un ricordo sfuggente, un conosciuto/non riconosciuto dalle forti implicazioni erotiche reca per noi un senso molto preciso nel segno del Perturbante. E che questo si associ alla Gorgone, mostro sottotesto di una storia plurimillenaria e dello stesso romanzo di Dumas che abbiamo tra le mani, pare qualcosa di estremamente rivelativo.

[3-Continua]

 

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Collier fatali e “nuova” teratologia (Nightmare Abbey 11 / II) https://www.carmillaonline.com/2018/08/31/collier-fatali-e-nuova-teratologia-nightmare-abbey-11-ii/ Fri, 31 Aug 2018 21:33:49 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=48518 di Franco Pezzini

Hoffmann in Love   (puntata precedente qui)

Quando Alexandre Dumas pone mano a La femme au collier de velours, 1849, in Francia le fantasie “alla Hoffmann”, storie oniriche e bizzarre popolate di spettri, non costituiscono più una novità. Anzi la stessa vicenda che qui Dumas narra non è, almeno a grandi linee, farina del suo sacco: tanto che lui dichiara di riferire semplicemente un racconto affidatogli dall’amico più anziano Charles Nodier, letterato elegante e fantasioso, eruditissimo bibliofilo e appunto cultore di storie strane, ormai sul letto di morte. «Adesso, la [...]]]> di Franco Pezzini

Hoffmann in Love   (puntata precedente qui)

Quando Alexandre Dumas pone mano a La femme au collier de velours, 1849, in Francia le fantasie “alla Hoffmann”, storie oniriche e bizzarre popolate di spettri, non costituiscono più una novità. Anzi la stessa vicenda che qui Dumas narra non è, almeno a grandi linee, farina del suo sacco: tanto che lui dichiara di riferire semplicemente un racconto affidatogli dall’amico più anziano Charles Nodier, letterato elegante e fantasioso, eruditissimo bibliofilo e appunto cultore di storie strane, ormai sul letto di morte. «Adesso, la storia che leggerete è quella che mi raccontò Nodier», afferma Dumas a chiusura del primo capitolo (ed. cit., p. 36).

Non possiamo escludere che sia così, e non solo – come vedremo – per il tono tanto solenne dell’affermazione. Ma se dovessimo identificare una fonte letteraria diretta a ‘La donna dal collier di velluto’ dovremmo fare qualche altro nome – e per esempio un soprannome che, guarda caso, ci richiama proprio alla galleria dei mostri. Sto parlando del truce Pétrus Borel detto “Le lycanthrope”, al secolo Pierre Borel d’Hauterive, maestro del nero nella Francia del primo Ottocento, nonché leader di quella bohème artistica del petit-cénacle dell’inizio degli anni Trenta che annoverava Gérard de Nerval, Théophile Gautier, Philothée O’Neddy, e altri nomi eccellenti. Si parlerà di Frenetismo per indicare la corrente di questi romantici – soprattutto Borel – che si compiacciono di cercare ispirazione in gotici come Walpole e “Monk” Lewis. E del resto quando nel ’43 Borel pubblica sulla rivista «La Sylphide» il racconto Gottfried Wolfgang – scritto probabilmente nel 1840 – si tratta proprio di un ripescaggio, una traduzione/appropriazione, di una storia nera in lingua anglosassone, cioè il racconto The Adventure of the German Student dell’americano Washington Irving.

Insomma, dietro Dumas troviamo Borel, e dietro a Borel c’è Irving – sotto lo pseudonimo di Geoffrey Crayon. È infatti così che l’autore americano firma la raccolta Tales of a Traveller, 1824, di cui fa parte The Adventure of the German Student. Si noti che l’opera è composta nel periodo in cui Irving vive in Europa, in particolare in Germania e a Parigi: dato non casuale ai fini del contenuto del racconto. Protagonista è lo studente Gottfried Wolfgang, imbevuto delle più visionarie dottrine metafisiche in voga in Germania, e tormentato dalla convinzione di una malvagia influenza che graverebbe su di lui. Gli amici pensano che la miglior cura per le sue ubbie consista in un cambio d’ambiente, e insomma fanno in modo che vada a finire gli studi in mezzo alle piacevolezze di Parigi. Peccato che, quando il giovane ci arriva, la situazione nella capitale francese stia esplodendo: si scatena la Rivoluzione, e Gottfried all’inizio è partecipe dell’entusiasmo collettivo. Visto però che è sensibile d’animo, gli eccessi e le stragi finiscono col disgustarlo: col risultato che ricomincia a vivere da recluso, ripiegato sui suoi studi di volumi dimenticati – al punto che Irving lo definisce «un ghoul letterario, nutrito nell’ossario della letteratura in dissoluzione» (Borel, nella sua traduzione-riscrittura, ripropone la definizione sostituendo solo il termine vampire al ghoul di Irving, e una traccia “ammorbidita” sembra trovarsi in Dumas nel riferimento a quel Nodier che «trovava fra i libri capolavori ignoti, che traeva dalla tomba delle biblioteche», p. 29). Questa è la situazione quando una notte di temporale, nel periodo più buio del Terrore, il malinconico Gottfried si trova a passare in Place de Grève, proprio vicino alla ghigliottina; e lì, alla luce dei lampi, si accorge di una donna vestita di nero, seduta sotto la pioggia proprio sui gradini che conducono al patibolo. Commosso dall’aria desolata di lei, la avvicina: e resta sconvolto riconoscendo in quella giovane donna bellissima la protagonista di certi sogni che hanno continuato a visitarlo, lasciandogli addosso un febbrile innamoramento per lei. Ora se la trova innanzi in carne e ossa, e possiamo immaginare il tumulto interiore. La donna accenna di non avere amici né casa – o meglio, accenna di averla nella tomba – e lo studente non trova di meglio che offrirle ospitalità nella propria stanza per la notte. Lei accetta, e quando Gottfried può contemplarla alla luce del locale è «più che mai intossicato dalla sua bellezza»: per inciso, unico ornamento alla semplicità dell’abito nero è «una larga fascia nera attorno al suo collo, fermata da diamanti» (Borel specificherà che è di velluto). Già affascinato, Gottfried scopre nella donna uno spirito affine, come lui entusiasta e appassionata; e quando le rivela di averla amata attraverso i sogni, ella confida un parallelo misterioso impulso verso di lui. Arrivano anzi a promettersi reciprocamente per sempre, e Irving lascia pensare che la notte dei due insieme corra piacevole. Al mattino lo studente lascia dormire “la sua sposa”, e corre a cercare un alloggio più spazioso in cui trasferirsi insieme: ma quando rientra e cerca di svegliarla, lei non gli risponde ed è fredda. Gottfried chiama allora aiuto, accorre un poliziotto… e riconosce il corpo per quello di una donna ghigliottinata il giorno prima. Col risultato che, quando scioglie la fascia nera dal collo, la testa rotola sul pavimento (in Borel è lo studente a rimuovere la fascia ma – pare strano per un autore dalla fama tanto nera – manca il rotolare della testa). Insomma, Gottfried precipita nuovamente nelle vecchie angosce, si convince che uno spirito maligno abbia preso possesso di quel corpo (si trattenga questo dettaglio), e restiamo sospesi tra l’ipotesi spettrale e quella della follia – anche perché il povero Wolfgang finirà col morire in manicomio. Per chi ama il genere, una memorabile versione a fumetti della storia di Irving curata da Archie Goodwin e Jerry Grandenetti (Creepy Archives, Vol. 3) era stata antologizzata a suo tempo nelle vecchie raccolte di Zio Tibia.

Può interessarci fino a un certo punto se Dumas conoscesse entrambe le versioni (Irving e Borel) e, nel caso, quale abbia letto per prima. Quel che rileva è il bacino da cui attinge, e a cui attingono altri per storie analoghe, in quel periodo o più tardi, come Paul Lacroix, Gaston Leroux eccetera.

E infatti Irving si era ispirato a storie precedenti. Lui la sua versione l’aveva sentita dall’irlandese Thomas Moore, a cui però era giunta da Horace Smith, amico degli coniugi Shelley che ne aveva reso una variante più simile ai modelli originali, Sir Guy Eveling’s Dream, 1823: dove la città era Londra e la donna non era stata ghigliottinata ma impiccata, e il segno da tener nascosto era quello della corda. Ciò nel mondo anglosassone.

Mentre in Francia la storia correva per i repertori di storie fantastiche di cui i lettori erano ghiotti, come le Histoire des Fantomes et des Démons qui se sont montrés parmi les hommes, ou Choix d’anecdotes et de contes, De faits merveilleux, de traits bizarres, d’aventures extraordinaires sur les Revenans, les Fantômes, les Lutins, les Démons, les Spectres, les Vampires, et les apparitions diverses, etc. di Gabrielle de Paban, 1819, autrice il cui nome può non dirci molto, ma che qualcuno ha proposto di identificare in quella Clotilde Marie Paban (1793-?) cugina e moglie di Jacques Collin de Plancy, esperto di cose occulte e fantastiche e autore del famoso Dictionnaire infernal, 1818 (e a quel punto capiremmo meglio). Comunque nel testo di Paban il racconto si intitolava Le Revenant Succube, a rinviare idealmente a quel mondo di letti infestati – dai demoni succubi, appunto – che da secoli conciliano fremiti, timori e pruriti. La storia era piuttosto simile ma ancora più breve, rimandava al novembre 1613 e al posto della ghigliottina c’era (anche qui) una forca.

Ancora precedente era la narrazione dell’episodio nell’anonimo Le Livre des prodiges, ou Histoires et Aventures merveilleuses et remarquables de Spectres, Revenans, Esprits, Fantômes, Démons, etc., rapportées par des personnes dignes de foi pubblicato dall’editore Pillot nel 1802, che però riproponeva quasi letteralmente il testo di un’altra opera anonima davvero seicentesca, Histoire prodigieuse d’un Gentilhomme auquel le Diable est apparu, et avec lequel il a conversé sous le corps d’une femme morte, advenue à Paris le 1er Janvier 1613, apparsa a Parigi per François du Carroy nello stesso 1613, che tornava allo stesso episodio, alla donna impiccata e al demone ne aveva posseduto il corpo per sedurre un giovanotto. Poi, davanti alla gente, quel corpo era sfumato (letteralmente) e forse il giovane aveva dato di testa. Il messaggio moraleggiante dell’opera seicentesca era di non farsi accalappiare dalle sconosciute (sappiamo che fin dai tempi delle empuse l’incontro per strada era stigmatizzato come pericoloso), con tutti i rischi della promiscuità: ma soprattutto col tempo prevale il piacere del frisson narrativo.

In questi ultimi anni alcuni studiosi hanno affrontato il tema, permettendo di recuperare elementi mancanti della filiera. In particolare Florian Balduc ha curato un preziosissimo Colliers de velours. Parcours d’un récit vampirisé (La Fresnaye-Fayel, Otrante, 2015); e Fabio Camilletti prima nello splendido contributo La Sposa, Arsène, o la Biblioteca all’antologia Jolanda & Co. Le donne pericolose (a cura di Fabrizio Foni e di chi scrive, Cut-Up, La Spezia 2017) e poi in un capitolo dell’ottimo Guida alla letteratura gotica (Odoya, Bologna 2018) ha analizzato le strutture di questa saga elusiva.

In questa sede non ci interessa seguire (anche se sarebbe un discorso affascinante) i giochi delle varianti tra un testo e l’altro, e un meccanismo genetico che solo con grossolana semplificazione potremmo ricondurre al plagio. L’idea del diritto d’autore come oggi concepito non esisteva, e Nodier – straordinario affabulatore, lettore coltissimo e onnivoro, bibliofilo raffinato che amava reinventare storie altrui nel segno di una scintillante originalità (e poco importa lo facesse a voce, nel corso delle celebri serate con la sua corte di ingegni, o piuttosto per scritto) – l’aveva persino teorizzato. Nel testo Questions de littérature légale, 1812 (Crimini letterari, Duepunti, Palermo 2010), parlando della scrittura, teorizza una disinvoltura negli imprestiti – diciamo pure nei plagi – purché condotti con eleganza. Pensiamo a quella straordinaria lanterna magica che è il suo Infernaliana, 1822, dove – ammiccando al successo della raccolta Fantasmagoriana su cui torneremo – pesca disinvoltamente da storie altrui, trattate con la libertà dei miti condivisi.

Si è detto che il protagonista della storia, nelle versioni di Irving e di Borel, è l’oscuro studente Gottfried Wolfgang; e il fatto che sia tedesco rinvia ovviamente allo stereotipo geografico gotico che fin dal Settecento vede la Germania associata ai più vari brividi orrifici. Ma Dumas – e già Nodier, se davvero è stato lui a fare da tramite – rafforza questa suggestione imputando il racconto a un giovane tedesco molto particolare, e cioè il futuro scrittore fantastico Ernest Theodor Amadeus Hoffmann. In sostanza il testo, molto più ampio e ricco dei precedenti, si presenta come un delizioso pastiche in cui compaiono a livelli diversi tre campioni della letteratura – Dumas stesso in termini autobiografici, l’amico più anziano Nodier quale narratore, e Hoffmann come attonito protagonista: un tessuto che conferma la capacità di Dumas di padroneggiare allarmanti fantasie oniriche e potenti quadri storici, e insieme di sperimentare nuove strutture narrative con estrema varietà di toni ed esiti originalissimi. Varietà di toni, appunto, a partire dalla malinconia che inquadra il romanzo e un po’ tutta la raccolta Les mille et un fantômes, in cui Dumas lo incastonerà nel ’51, un periodo greve di senso di morte. Il cenacolo romantico dell’Arsenal degli anni Venti (il primo, straordinario, sorto a Parigi, e che con Dumas accoglieva Victor Hugo e Lamartine, Musset e Delacroix e tanti altri) è ormai disperso, gli amici sono scomparsi o lontani; e il ritratto affettuoso di Nodier, animatore del gruppo, introduce una narrazione che Dumas immagina confidatagli dall’amico sul letto di morte. Dove il sapore di un’antica complicità nel gioco letterario rafforza l’evocazione di un mondo amato e finito, ma insieme sembra protestare davanti a quel capezzale la dignità della fantasia e del darle voce.

Con questa avvertenza ideale il lettore passa al racconto di Nodier, e ad un mutamento di registro narrativo verso il notturno hoffmanniano: figure angelicate o dai movimenti oniricamente burattineschi, sensibilità esasperate, una Germania al trapasso tra stile Pompadour e impennate romantiche quale avvio e conclusione dell’apologo. Certo la voce narrante lascia il dubbio su quanto quel clima appartenga ad allucinazione dello stesso Hoffmann – musicista, pittore, letterato, uomo dalle straordinarie ricchezze interiori e dalle travolgenti emozioni che cerca invano di ordinare a equilibrio. Ma insieme conduce sul binario (tanto caro a Dumas) dell’affresco storico innervato da una critica sferzante delle glorie rivoluzionarie di Francia.

Vediamo dunque il giovane Hoffmann che, dopo aver giurato alla soave fidanzata Antonia di non giocare d’azzardo (una delle attività più biasimate, nella narrativa d’epoca) e di restarle fedele, se ne parte ingenuotto per una sorta di turismo artistico a Parigi. La città però – siamo nel 1793 – è nel pieno del Terrore: e l’incalzare di bozzetti sulla brutalità ottusa e grottesca dei rivoluzionari, sul disgusto del sangue e la cupezza del presunto paradiso delle virtù (una Parigi grigia d’inverno, tagliata dai convogli della Vergine Ghigliottina) pare tanto più interessante alla luce dell’attenzione e del coinvolgimento di Dumas nei turbinosi moti politici del suo tempo.

L’orrenda morte di Madame du Barry, cui il giovane assiste suo malgrado, sembra recare alla peculiare sensibilità di Hoffmann un’infiammazione foriera di strane conseguenze. Attraverso l’esperienza visionaria all’Opéra, dove è ammaliato dalla danzatrice Arsène amante di Danton, e poi nel tripudio notturno di nudità e gioco del Palais-Royal, Hoffmann passa come Faust lungo i Sabba, trascinato all’infedeltà da un desiderio quasi compulsivo. Nel corso di un goffo incontro con Arsène – era stato convocato per farle il ritratto, non è riuscito a trattenere un bacio ed è stato buttato fuori per l’improvviso arrivo dell’amante di lei – Hoffmann ha capito che solo col denaro può conquistare quella mantenuta d’alto bordo: e si risolve a cercarlo al tavolo da gioco. È troppo preso dalle sue ansie per far caso all’accenno dell’amico Zacharias su una donna bellissima condotta al patibolo. Ma quando, carico di denaro vinto alla bisca, cerca Arsène al suo alloggio non la trova: così rientra scorato attraverso la Parigi notturna e passa (ecco riproporre la scena fatale) per la piazza della ghigliottina. Ovviamente incontra la figura accovacciata; e ovviamente è Arsène, con tanto di collier, che racconta come il suo amante sia stato arrestato e lei sia sfuggita fortunosamente. Ma «Queste parole erano dette con uno strano accento, senza gesti, senza inflessioni; uscivano da una bocca scolorita che si apriva e si chiudeva come mossa da una molla; si sarebbe detto un automa che parlava» (p. 165). Certo Dumas sta giocando con l’immagine di certe oniriche, inquietanti donne-automi dei testi di Hoffmann: e giustamente Camilletti sottolinea i nessi con uno dei racconti più celebri della produzione hoffmanniana, L’uomo della sabbia, con il rapporto tra un altro studente tedesco, Nathanael, e la ragazza-automa Olimpia.

Nei fatti, in questo contesto, Arsène appare una sorta di zombie, o un’ombra mossa a base di istantanee, come in certi B-movie di spettri marca USA. Comunque anche in questa versione il giovane offre ospitalità, mostra anzi di avere dell’oro: allora «L’occhio della ballerina gettò un lampo» (ibidem), e visto che Hoffmann è dubitoso di ospitare la diva nella sua stanzetta è lei a condurlo a un magnifico albergo, camminando «con un passo rigido e automatico che non aveva nulla in comune con l’affascinante morbidezza che Hoffmann aveva ammirato della ballerina» (p. 166). Anzi sulle scale dell’albergo Arsène deve appoggiarsi a lui comunicandogli una sensazione di gelo, e nella stanza si avvicina al fuoco accovacciandosi in modo che «sembrava intenta a reggersi con le mani la testa sulle spalle» (p. 168). Sembra rianimarsi solo di fronte all’oro che il giovane le offre; poi accetta di bere ma non di mangiare («– Non potrei inghiottire – ella disse», p. 170), mentre lui mangia e beve soprattutto per farsi coraggio, «perché qualcosa di gelido emanava dal corpo della bella convitata» (ibidem). E anzi, quando Arsène beve, «alcune gocce rosate cadevano di sotto al nastro di velluto sul petto della ballerina» (ibidem). Hoffmann inizia ad avvertire qualcosa di terribile, e il lettore già immagina dove si voglia andare a parare: l’abilità del narratore sta però nel protrarre il gioco sul terreno dell’onirico e forse dell’allucinazione etilica. Quando il giovane prende a suonare al pianoforte, Arsène sembra trasfigurarsi e inizia a ballare: travolto dal desiderio, Hoffmann le si unisce nella danza e alla fine crollano sul letto. Al mattino, al risveglio, il giovane trova però Arsène rigida e fredda, chiama soccorso: e il medico sopraggiunto (un’inquietante figura di trickster che ricorda il bifronte Coppola/Coppelius de L’uomo della sabbia) lo loda per «aver ricomprato questo corpo affinché non marcisse nella fossa comune» (p. 173). Allo stranito Hoffmann spiega che la danzatrice è stata ghigliottinata il giorno prima; e alle obiezioni del giovane di aver cenato, ballato ed essere andato a letto con lei, il dottore apre il fermaglio del collier. Il rotolare della testa di Arsène sconvolge Hoffmann, che fugge inorridito gridando di essere pazzo, è arrestato e interrogato, cerca invano di ritrovare l’albergo per dimostrare le sue ragioni – e viene salvato dal medico che lo fa passar per folle e poi fuggire. Alla storia segue però un ultimo colpo di scena con la notizia della morte di Antonia, folgorata dal non mantenuto giuramento di fedeltà (in L’uomo della sabbia il protagonista rischiava di uccidere la fidanzata), e l’evaporazione del ritratto di lei dal medaglione tra le mani del fedifrago.

Se il Fantastico, sembra dire Dumas, non è accessibile se non al prezzo di una trasgressione, a condurvi è un insieme di circostanze tutto nel segno del Femminile. La femme fatale è sicuramente uno dei più ricorsivi fantasmi del Romanticismo nero, ad accreditare la donna come essere misterioso, attraente ma pericoloso e a volte demoniaco. Eppure il quadro è meno scontato di quanto possa sembrare di primo acchito. La contrapposizione/rifrazione tra donna fatale, Arsène, e donna angelicata, Antonia, è talmente parossistica da condurre a un paradossale scambio dei ruoli: così, mentre la larva zombizzata con cui Hoffmann si apparta suscita una sorta di greve compassione, è Antonia a imporre al fidanzato un giuramento sull’Eucarestia dal retrogusto minaccioso di inesorabilità – quasi sia lei, in qualche modo, la vera donna fatale, oppure le due si confondano in un’unica donna musicale (Antonia canta come Arsène danza) schizofrenicamente scissa nel mondo allucinato del protagonista. In fondo entrambe le teste cadono, quella di Arsène materialmente, quella di Antonia sparendo dal ritratto.

In realtà Antonia, scopriremo, è spirata in occasione del bacio che il fidanzato infedele ha dispensato ad Arsène ancora viva: da morta, la danzatrice non danneggia Hoffmann più di quanto già non faccia la sua fragilità nervosa. Ma Arsène è già uno spettro in vita, vampirizzata da una dimensione di desiderio esaurita nell’utile (un amore per la ricchezza che l’accompagna persino post mortem – se il tutto, ovviamente, non è un’allucinazione): ed è interessante che Hoffmann stesso, pur di avvicinarla, accetti l’idea di un rapporto sostanzialmente mercenario o di consumo. Cui potrà seguire, non lo esclude, il ritorno da Antonia: con un sapore provocatoriamente moderno, la tentazione sembra insomma non assumere lo statuto abissale della passione che sperde in derive lontane, quanto piuttosto la maschera immatura dell’irresponsabilità qui e ora, da cui il ritorno si pretenderebbe sempre possibile.

La reazione un po’ stranita di Hoffmann verso Arsène-similacro (chiamiamola così) è in fondo simile – mostra Camilletti, alla cui ampia disamina naturalmente rinvio – a quella verso Olimpia di Nathanael, cui torna in mente (recita il racconto) «la leggenda della fidanzata morta». O, com’è più nota, della sposa morta, della sposa cadavere: leggenda di origine forse ashkenazita, trascritta nella raccolta Shivhei ha-Ari (XVI sec.), recuperata in chiave di apologo contemporaneo come Die Todtenbraut da Friedrich August Schulze nella raccolta Gespensterbuch curata con Johann August Apel (1811-15), di lì tradotta come La Morte fiancée da Jean-Baptiste Benoît Eyriès nell’antologia Fantasmagoriana (1812, la famosa lettura di Villa Diodati) e traghettata fino a Tim Burton. Di più: nel racconto di Schulze approdato in Fantasmagoriana si trovano gli elementi della danza forsennata, di un giuramento fatale, del collo coperto della misteriosa dama e persino di un ruolo ambiguo di sapiente (il medico-trickster). Visto che l’affabulatore Nodier conosceva Fantasmagoriana, non stupisce scoprire che lui narrasse splendidamente (attesta Victor Hugo) una storia della “morte mariée”, probabilmente il racconto di Schulze nella versione francese. E stupisce ancor meno che J.P.R. Cuisin riporti una simile storia, La morte mariée, nell’antologia Spectriana (1817, ennesima gemmazione dal successo di Fantasmagoriana) sostenendo che gli è stata narrata da «[u]n giovane Drammaturgo che pratica con successo la letteratura del nord»… Così che Arsène finisce con l’essere realmente una sorta di ipostasi dell’Arsenal, la leggendaria biblioteca di cui Nodier è a lungo bibliotecario: nel senso di avatar libresco di infinite storie sedimentate in modo sfuggente, fantasmatico (chi è il vero autore, e in quale percentuale?) in libri alla deriva del tempo.

Ora, la Sposa Cadavere è – anzitutto – una mancata sposa: e dunque infelice, frustrata, a richiamare l’antica figura dell’ά̉ωρος, colui che è morto prima del tempo prescritto – compresi coloro che sono morti senza potersi sposare come avrebbero desiderato. In particolare se fidanzati, e dunque bloccati nel tempo tra due patti solenni, fidanzamento e matrimonio, entrambi modificativi d’uno status: ma se il secondo patto definisce una condizione esistenziale, il primo confina in una situazione in progress, liminare e transitoria, e una morte in quel momento espone a gravi rischi. In quei rischi è probabilmente incappata la Filinnio di Flegonte di Tralle (rinvio alla spettacolare edizione dell’opera flegontea, Il libro delle meraviglie e tutti i frammenti, a cura di Tommaso Braccini e Massimo Scorsone, Einaudi, Torino 2013), la non-morta citata a monte di tutti i repertori vampireschi e poi ripresa in nero da Goethe in La sposa di Corinto, ma che nel suo pathos originario non ha nulla di oscuro; in quei rischi è di certo incappata la figura nota come danseuse nocturne (per esempio la Wili slava, fidanzata morta prima delle nozze che con le compagne costringe il maschietto che abbia la sventura d’incontrarle a danzare fino alla morte) la cui storia folklorica precipiterà nel libretto Giselle di Gautier e Jules-Henri Vernoy de Saint-Georges (1841).

Ma in secondo luogo la Sposa è un cadavere, che cerca un contatto anche fisico – con quanto di Perturbante ciò evochi. Anche nel dubbio radicale su una qualche certezza del confine tra ciò che vive e ciò che è morto: un’ossessione del tempo dei Lumi che però poi si riproporrà ancora per tutto l’Ottocento come terrore del seppellimento prematuro. Non sembra un caso, aggiungerei, che due ritornanti come la Berenice di Poe e la Lucy Westenra del Dracula siano entrambe promesse spose.

Al di là dunque dell’indubbio omaggio che Dumas – che amava i pastiche – fa alla memoria del vecchio amico, almeno virtualmente Nodier potrebbe aver reinventato la storia pervenutagli da chissà quali voci (Borel? Irving? Paban? gli autori anonimi precedenti?); e d’altra parte – scrivevo a suo tempo con eccessiva prudenza – “il racconto potrebbe persino rimandare, chissà, a una sorta di leggenda metropolitana dei giorni del Terrore”. Camilletti conferma, sulla base di una mappatura più ampia e del raccordo con un’intera costellazione di storie sulla Sposa Cadavere, che proprio di leggenda metropolitana si tratta, ma con radici ben più antiche: e richiama da un lato il bacino di leggende sull’autostoppista fantasma (torniamo alla Melissa di Danilo Arona) e dall’altro il filone parallelo della morta che va a ballare, che con la danza di Arsène e altre che vedremo presenta alcuni nessi. Tanto più che il meccanismo è sempre quello – classico delle leggende metropolitane – della storia che arriva dall’amico di un amico; tanto più che la storia del collier di velluto (e capi analoghi, secondo la moda delle rispettive stagioni) rimanda, fin dalle prime edizioni, a uno sfuggente contesto urbano. La città dove non ci conosce e dove chi incontriamo casualmente potrebbe ben essere un fantasma.

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Collier fatali e “nuova” teratologia (Nightmare Abbey 11 / I) https://www.carmillaonline.com/2018/08/24/collier-fatali-e-nuova-teratologia-nightmare-abbey-11-i/ Fri, 24 Aug 2018 21:49:47 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=48324 di Franco Pezzini

[Nel 2010, organizzato dall’Associazione culturale Autunnonero, si teneva a Genova il Convegno di studi sul folklore e il fantastico Metamorphosis. Miti – Ibridi – Mostri, dove chi scrive aveva modo di presentare un intervento su Medusa e Salomè. ‘La donna dal collier di velluto’ e la “nuova” teratologia. Negli anni seguenti sul tema, che a partire dal romanzo di Dumas apre a un intero ventaglio di riflessioni sul Fantastico, sono usciti vari testi e articoli importanti che hanno permesso di arricchire notevolmente il quadro, e che citerò in prosieguo via via. A ideale sviluppo dei pezzi pubblicati nelle [...]]]> di Franco Pezzini

[Nel 2010, organizzato dall’Associazione culturale Autunnonero, si teneva a Genova il Convegno di studi sul folklore e il fantastico Metamorphosis. Miti – Ibridi – Mostri, dove chi scrive aveva modo di presentare un intervento su Medusa e Salomè. ‘La donna dal collier di velluto’ e la “nuova” teratologia. Negli anni seguenti sul tema, che a partire dal romanzo di Dumas apre a un intero ventaglio di riflessioni sul Fantastico, sono usciti vari testi e articoli importanti che hanno permesso di arricchire notevolmente il quadro, e che citerò in prosieguo via via. A ideale sviluppo dei pezzi pubblicati nelle settimane scorse qui e qui, come una sorta di successivo capitolo, mi sembra dunque non inutile riaggiornare la riflessione che appare nel bel volume degli atti ‘Metamorphosis. Miti – ibridi – mostri’, a cura di Sonia Maura Barillari e Andrea Scibilia, Aracne, Ariccia 2015. Alla cui ricchezza corale – oltre ai citati, Chiara Camerani, Rita Caprini, Giorgio Cremonini, Martina Di Febo, Carlo Donà, Anna Ferrari, Cesare Poppi, Massimo Soumaré – naturalmente rimando.]

 

La luce di un candelabro nella penombra del letto, un bel corpo femminile reclino, lo scorrere delle dita sul fermaglio del collier – e il rotolare della testa, non più trattenuta, sul pavimento della camera d’albergo: questa la sequenza più nota di un capolavoro di Alexandre Dumas, La femme au collier de velours, 1849 (La donna dal collier di velluto, Milano 2005), un gioiello letterario la cui forza fantastica guarda tuttavia ben oltre quel culmine orrifico. Perché parlarne nel contesto di un convegno sui mostri? In fondo nel romanzo, in senso proprio, di mostri non ne compaiono affatto: è una storia di fantasmi – elegantissima, costruita con un meccanismo narrativo di estremo coinvolgimento per il lettore – ambientata nel periodo della Rivoluzione Francese. Eppure, come vedremo, i mostri ci sono eccome; e mostri (per così dire) DOC, a connettere età lontanissime dell’immaginario. Ma prima di smascherarli, nascosti come sono sottotesto, può essere interessante una digressione: e per questo avvio dalla letteratura passiamo brevemente al cinema.

 

Appunti per una “nuova” teratologia

In un’intervista del luglio 1964 Terence Fisher, il regista-artigiano che aveva condotto a una nuova primavera i vecchi mostri gotici sotto i labari della Hammer, esprime un concetto di notevole interesse. Dice Fisher:

I critici cinematografici continentali riconoscono gli inglesi come gli esperti mondiali dell’orrore. È perché siamo timidi. La timidezza nutre le ombre, e le ombre nutrono i vampiri. Gli americani sono diversi, sono sfacciati; e il loro pubblico non ama i fantasmi, ama i mostri [T. Fisher, L’orrore è il mio mestiere (Horror Is My Business, da un’intervista registrata da R. Durgnat e J. Cutts, Films and Filming, n. 10, luglio 1964), in E. Martini (a cura di), Hammer & dintorni, Bergamo Film Meeting 90, S. Paolo d’Argon 1990, p. 69].

Per capire cosa Fisher intenda occorre contestualizzare le affermazioni. All’epoca dell’intervista, il regista ha già riportato in scena, per conto Hammer, vari mostri classici: la Creatura di Frankenstein nel ’57, Dracula nel ’58, la Mummia reviviscente nel ’59 e altri, compresa una curiosa Gorgone in trasferta nella Mitteleuropa del film The Gorgon (Lo sguardo che uccide) che appunto esce nel ’64. Con la Guerra Fredda gli Stati Uniti, che in particolare con la grande stagione Universal degli anni Trenta e Quaranta avevano lanciato nell’immaginario collettivo una fioritura di mostri gotici, li abbandonano per ripiegarsi su quelli più o meno fantascientifici, in particolare i mostruosi alieni del Pianeta Rosso Comunista: negli anni Cinquanta l’horror diviene dunque negli USA un genere desueto. Ma è appunto in questo clima che nel ’57 la Hammer rifonda l’horror dall’altro lato dell’oceano. Agli immensi studios Universal con legioni di figuranti si contrappone un angolo sperduto di campagna inglese con una villa continuamente riadattata quasi fosse un palcoscenico teatrale, e una piccola squadra che comprende regista, sceneggiatore, attori e un po’ di lavoranti, compresa la signora che fa i panini. Alla vaghezza atemporale degli horror Universal, dove la dimensione storica non interessava, si oppone qui in Inghilterra una riscoperta/riappropriazione del gotico in costume, con la ricostruzione d’ambiente di un Ottocento (mitteleuropeo o britannico non importa) profondamente vittoriano – come profondamente vittoriano è Fisher. Ma soprattutto (ai fini del tema di questo weekend) l’horror americano degli anni Trenta e Quaranta riprendeva in chiave popolare una fascinazione già dell’espressionismo tedesco per il baraccone dei mostri, un teatro delle meraviglie e dei gangster dell’anima nutrito di familiarità protestante con la Bibbia e di freudismi precotti – e questo carattere di wunderkammer emerge in particolare in quelle ultime prove (House of Frankenstein, House of Dracula) che spesso si definiscono macedonie all monsters perché assemblano Dracula, creatura di Frankenstein, Uomo Lupo eccetera in allegra combriccola tutti insieme, e già prefigurano le riletture comiche con Gianni e Pinotto. Se lì il monstrum era il meraviglioso che irrompeva, inquietava ma anche divertiva, ammantato di una peculiare poesia e destinato alla distruzione alla fine dello spettacolo mentre la coppietta di turno si salvava, lo stile britannico è tutto diverso. E dunque ai mostri delle House of… americane Fisher contrappone i suoi, che però definisce implicitamente fantasmi perché svelano caratteristiche molto più sfuggenti e perturbanti. Nella sua rilettura di Frankenstein il vero mostro è lo scienziato, coi propri demoni interiori; nel Dracula, fatta piazza pulita di lupi e pipistrelli (peraltro troppo costosi per il budget), il vampiro è lo spettro erotico che aggredisce dall’interno la società vittoriana nella sua dimensione più profonda, il sesso; nella saga della Mummia c’è il fantasma di una necrosi generazionale e culturale che rende l’archeologo interiormente bloccato quanto la Mummia lo è esteriormente… e potremmo continuare. Fino appunto alla Gorgone, il fantasma che si insedia a ogni anello di una catena umana di amanti condannati, in un apologo amarissimo, più poetico che orrifico, sulle conseguenze devastanti del sentimento. I mostri di Fisher non sono quelli del baraccone, ma fantasmi della crisi di un mondo, mostri della psiche e della cultura, dell’educazione e dei sentimenti.

È ovvio che stiamo ragionando in termini di modelli, con le forzature del caso: tra le esperienze Universal e Hammer esistono sicuramente punti in comune, e per contro le due avventure culturali non sono monolitiche come potrebbe sembrare da queste mie semplificazioni, ma molto variegate da regista a regista. Diciamo però che il forzare sulla contrapposizione può essere utile a chiarire l’affermazione di Fisher a proposito della presenza, nel cinema, di due modelli virtualmente “polari” di mostro, poi indefinitamente ibridati nei singoli casi. Da un lato quello che per comodità chiamerò il mostro-mostro, quello del baraccone delle meraviglie, esterno a noi e capace di emozionarci con la sua improvvisa irruzione al nostro orizzonte. Un monstrum, appunto, che presuppone una manifestazione eclatante: ovvio che il cinema popolare ci vada a nozze – con effetti speciali e quant’altro – anche se, attenzione, l’emozione suscitata non è necessariamente superficiale. Ma al mostro-mostro si oppone idealmente un altro modello, che in onore a Fisher potremmo chiamare mostro-fantasma: l’epifania mitica di un mostruoso che vive nelle nostre ombre, inabita il nostro mondo interiore e la nostra società a partire dalle sue stesse censure, e ci rigira come guanti a mostrare i nostri demoni. Un mostro insomma più interiore che esteriore: un mostro talora sottotraccia, e che identifichiamo anche grazie ai suoi connotati mitici. Sul tema dovremo tornare.

La galleria dei mostri dell’uomo della strada è oggi ancora più o meno ancorata a quelli che Fabio Giovannini (Mostri. Protagonisti dell’immaginario del Novecento da Frankenstein a Godzilla, da Dracula ai cyborg, Castelvecchi, Roma 1999, p. 84) definiva “gli orribili quattro”: Dracula, la Creatura di Frankenstein, l’Uomo Lupo e la Mummia – in particolare nella versione popolare veicolata dal cinema, e indefinitamente richiamata e parodiata. Ma in realtà si tratta di un panorama assai più fitto. Come scriveva Seneca in Fedra, «Perché arrestare la generazione dei mostri?»: la produzione non è mai cessata dall’alba dell’umanità, e ogni epoca arricchisce e rinnova il parco-mostri. Un esempio interessante può essere per esempio Jack the Ripper, personaggio indubbiamente storico ma oggetto di mito mediatico fin dai giorni di sangue del 1888, e acquisito come mostro paradigmatico (coi relativi aspetti di fluidità e libertà di rappresentazione) fin dall’espressionismo tedesco. L’impatto dei crimini seriali nell’immaginario degli ultimi anni e l’acquisizione alla galleria dei mostri di spettri slasher come Freddy, Jason & compagnia, non può che rafforzare a questo Gianni con il coltello in mano (a parafrasare Marcel Detienne) una livida aura simbolica e totemica.

Possiamo immaginare che nella teratologia del futuro il cinema giocherà ancora una parte fondamentale; ma nello sviluppo entrerà anche internet, veicolo di nuovi vampirismi e possessioni. Certo, la novità di una teratologia va rettamente intesa, ed è probabile che in gran parte i mostri di domani sorgeranno da strutture o figure che già conosciamo, sviluppandone innovativamente singole caratteristiche, personali o ambientali. Potranno per esempio flirtare con l’inorganico, coi virus informatici o con quella cifra Legione che già connota alcuni personaggi dell’horror contemporaneo: quando l’amico Danilo Arona parla dello spettro Melissa sorto da una risacca di sogni web, leggende metropolitane e magari grumi psichici (come racconta con buoni motivi nei suoi romanzi-saggi) offre una chiave straordinariamente interessante per questi nuovi orizzonti della teratologia.

Un altro filone dell’odierna galleria dei mostri destinato a perpetuarsi perché connesso al concetto di estremo (qualcosa che col mostro ha molto a che vedere) si articola poi attorno al tema della perversione sessuale. Sia pure in versione liberissimamente riveduta e corretta, il marchese de Sade ha del resto conseguito già da parecchio tempo la promozione a mostro in ambito di fiction (particolarmente indicativo è un film in sé banalotto come Waxwork di Anthony Hickox, 1988, dove un Sade totalmente apocrifo compare insieme a Dracula, l’Uomo Lupo e vari altri mostri “classici”); e l’età di Saw, Hostel, eccetera, vede i suoi eredi in azione non solo al cinema ma in un più vasto pelago fantastico.

Un ulteriore fronte di arricchimento al discorso però s’impone. Gli esempi citati attengono in generale al linguaggio dell’horror, per quanto nutrito per vie diverse da letteratura, folklore, cronaca nera, eccetera. Ma in realtà una teratologia corre per generi anche piuttosto distanti dall’horror etichettato come tale, con vari livelli di contaminazione. Parlo di poliziesco, feuilleton, romanzo in costume, persino agiografie, e parallelamente di tutte le relazioni dei rispettivi soggetti con le arti figurative – un rapporto che interesserà direttamente il cinema attraverso l’ispirazione di modelli iconografici. Si pensi a mostri come l’orango della Rue Morgue o il cane dei Baskerville, che innovano il catalogo dei mostri mitici con cui l’eroe di turno deve fare i conti e lo stesso concetto di teratomachia, la ‘lotta col mostro’ di rilevanza insieme mitica e iniziatica. Ma pensiamo anche a tutto il lussureggiante serraglio dei mostri-femmina che dilagano tra Otto e Novecento, figure in sé umane – con tutta la piacevolezza erotica implicita nel concetto – ma minacciosamente estreme nella loro potenza predatoria. Se in sostanza ogni epoca rinnova le maschere del mostruoso, questi mostri anomali, metaforici o sottotesto – ma non meno insidiosi, almeno dal punto di vista di chi li evoca – possono rappresentare l’immagine più emblematica di una “nuova” teratologia che parla attraverso simboli e allusioni, influenza percezioni diffuse, sostanzia categorie condivise.

E si può chiudere la digressione con una constatazione che pare d’interesse. In molte di queste declinazioni moderne del mostruoso, dal mostro del feuilleton a quello dilagante come virus informatico, una caratteristica spicca: alla fisionomia del mostro-mostro (secondo la terminologia alla buona che abbiamo utilizzato) sembra sempre più spesso sovrapporsi quella del mostro-fantasma, sorto dalla schiera dei demoni interiori del singolo e della società.

E passiamo al romanzo di Dumas.

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Nel labirinto degli occult detective (Victoriana 23) https://www.carmillaonline.com/2017/05/25/nel-labirinto-degli-occult-detective-victoriana-23/ Thu, 25 May 2017 21:51:22 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=38486 di Franco Pezzini

the-professor-4Da qualche mese in edicola è apparso un nuovo fumetto. Un bimestrale, “popolare” nel senso migliore del termine, e di taglio gotico classico – ma, per chiarirci, quello cinematografico dei film Hammer. E dove la caratteristica che subito salta agli occhi sta nel fatto che il protagonista, l’indagatore dell’occulto Mr. Benjamin Love – “The Professor”, donde il titolo della testata – sia costruito ispirandosi a tratti fisici e ad un certo numero di ruoli di Peter Cushing (nello specifico il Cushing giovane – in realtà ultraquarantenne – dei primissimi horror appunto [...]]]> di Franco Pezzini

the-professor-4Da qualche mese in edicola è apparso un nuovo fumetto. Un bimestrale, “popolare” nel senso migliore del termine, e di taglio gotico classico – ma, per chiarirci, quello cinematografico dei film Hammer. E dove la caratteristica che subito salta agli occhi sta nel fatto che il protagonista, l’indagatore dell’occulto Mr. Benjamin Love – “The Professor”, donde il titolo della testata – sia costruito ispirandosi a tratti fisici e ad un certo numero di ruoli di Peter Cushing (nello specifico il Cushing giovane – in realtà ultraquarantenne – dei primissimi horror appunto hammeriani). Nelle prime tre storie “The Professor” fronteggia una dinastia di Lilith incarnate (lui viene dalla comunità ebraica, c’è di mezzo anche un golem), gli zombie e un terrorista mesmerista.
La qualità è molto buona, le storie godibili e il mondo tardottocentesco evocato con efficacia. L’ideatore è Andrea E. Corbetta, mentre sceneggiatori e disegnatori ruotano: per esempio i primi tre numeri hanno visto testi del giornalista e scrittore Carlo Martigli, del veterano di sceneggiature a fumetti Giancarlo Marzano e di un nome notissimo del thriller/horror in Italia, Cristiana Astori; alle matite erano Paolo D’Antonio, Francesco Mobili e Riccardo Innocenti. Un quarto numero (Martigli – De Carlo – Corbetta – Giorgiani) è ora in edicola.
Leggendo con piacere queste storie, auspicando alla saga lunga vita, e con tutta la complicità di chi ama Cushing e i film Hammer, si apprezza al contempo il coraggio dell’intrapresa – perché è chiaro che si tratta di una sfida grossa. Da un lato, lo sappiamo, il gotico/horror può contare in Italia su una percentuale significativa ma non enorme di lettori: i grandi fatturati arrivano con altri generi, e basta un giro in libreria per constatare il trionfo di narrativa salottiera o comunque molle (tanto fantasy di qualità discutibile, tanto “rosa” più o meno ibridato, tanto poliziesco facile – a penalizzare per ingolfamento gli autori bravi). D’altra parte la figura dell’occult detective, funzionale a offrire una cornice a “casi” virtualmente infiniti, ha però conosciuto nel tempo successi piuttosto differenziati, in relazione a provocazioni e rovelli di diversi momenti sociali.
Per capire meglio potenzialità e rischi della maschera in questione può essere interessante, mi pare, ripercorrere a grandi linee la genealogia dei suoi sviluppi dagli esordi nel mondo moderno. Assumendo forzatamente un’accezione ampia nel termine occult detective, a comprendere specialisti di diversa professionalità – medici, cattedratici, detective in senso proprio, esorcisti, ghostfinder, ammazzamostri… – che lettori e spettatori di generazioni diverse hanno associato a indagini sul preternaturale: concetto, quest’ultimo, a sua volta sfumato in una serie cangiante di fattispecie.
Il primo detective dell’occulto della letteratura moderna sembra rimontare al lontano 1817. Si tratta del chiaroveggente Doktor K. di Das öde Haus (La casa disabitata) nel secondo volume di Nachtstücke (Notturni) di E.T.A. Hoffmann: a rinviare cioè a quel mondo a cavallo tra Sette e Ottocento in cui magnetismo, mesmerismo e tentativi di conciliare mistica (non allineata) e nuove scoperte scientifiche vedono in effetti brulicare figure di indagatori del mistero. Eruditi talora ancora imparruccati, tra attrezzature galvaniche, fantasmagorie e veggenze, che però non sembrano suscitare nei narratori il demone della serialità; mentre è interessante che proprio la cornice narrativa di questo racconto veda declinare l’opposizione tra straordinario e prodigioso a monte di tutta una riflessione che condurrà a Todorov. Quasi come ad affidare all’occult detective il patrocinio sul nuovo fantastico, laico e moderno, sorto dalle convulsioni di un mondo.
Va però osservato che, nel contesto di un Romanticismo ormai dilagante, l’indagatore degli spiriti è spesso una figura indigesta o addirittura un vilain. Posto dinanzi al magico della realtà – in particolare quell’amore che è un rischio, apre mondi “altri” ed evoca relazioni particolari e irripetibili – ecco l’esorcista propenso a fare terra bruciata, a sterilizzare dimensioni vitali o che comunque alla vita danno sapore. Così l’Apollonio del Lamia di Keats, 1819/1820, tanto pronto a derubricare ad astrazioni banalizzanti in conformità con un mondo che inizia a mercificare tutto (niente a che vedere con l’antico Apollonio storico, lui sì dottore psichico seriale); così l’inesorabile padre Sérapion de La Morte amoureuse di Théophile Gautier, 1836, che ripropone in tonaca lo stesso modello, a fraintendere totalmente il senso dell’amore umano; così altre figure di Gautier, di Nodier…
Il personaggio dell’occult detective si fa comunque strada soltanto poco per volta, e definendosi nella sua forma moderna entro l’alveo della narrativa angloamericana (anche se occorrerebbero studi mirati su altre letterature). Così, nel periodo dagli anni Venti a metà del secolo in cui il gotico assume – senza sparire – un ruolo più defilato e umbratile dopo la prima grande stagione di successi, nel 1840 troviamo per esempio tale Dirk Ericson impegnato a risolvere un caso sovrannaturale nella novella del britannico (ma emigrato negli USA) Henry William Herbert The Haunted Homestead. Herbert è contemporaneo di Poe, che invece non si mostra interessato alla fattispecie (anche se i suoi mesmeristi ci vanno molto vicino); ma l’idea che un occult detective offra promettenti possibilità narrative inizierà presto a diffondersi grazie al combinato disposto del nascere dello spiritismo (1848, con il caso delle sorelle Fox – un anno prima della morte di Poe che non può assistere ai relativi sviluppi) e delle nuove saldature tra gotico e occultismo (si pensi solo ai contatti tra il politico e narratore Edward Bulwer-Lytton e il mago francese Éliphas Lévi). Il peso di questi fenomeni sullo sviluppo della ghost story e sulla rinascita a metà Ottocento del gotico sarà fondamentale.
Appare così nel 1853 (presuntamente in traduzione inglese da un originale tedesco di cui non si sa nulla, e non mancano dubbi) l’anonimo The Mysterious Stranger, dove vero e proprio proto-Van Helsing è l’eroe maturo, il cavaliere di Woislaw, privo di un braccio sostituito da una fantastica protesi in metallo (oro, nel suo caso – la mutilazione iniziatica sarà presente ancora in The Professor, con la mano artificiale del protagonista): il racconto ispirerà Stoker per Dracula e, può sospettarsi da alcuni indizi, Le Fanu per Carmilla. Nel 1855 appare l’Harry Escott di un paio di storie del grandissimo (e in Italia misconosciuto) Fitz James O’Brien; nel 1859 a studiare il mistero di una casa infestata è l’io narrante di The Haunted and the Haunters; or, The House and the Brain di Bulwer-Lytton, unica tra queste storie a trovare poi nel tempo periodiche riproposizioni anche per la statura dell’autore. Nel 1861 a indagare è il narratore di un racconto del versatile americano Bayard Taylor, The Haunted Shanty, e nel 1862 il ruolo viene ricoperto da tale Ralph Henderson nel romanzo The Notting Hill Mystery di Charles Felix (cioè l’avvocato e giornalista inglese Charles Warren Adams). Nel 1866, ancora, troviamo l’occult detective Mr. Burton del romanzo a puntate The Dead Letter di Seeley Regester (cioè la scrittrice americana Metta Victoria Fuller Victor), primo romanzo di crime fiction in America.
Per la maggior parte queste figure sono destinate a poca fama postuma, esaurendosi nei testi – pur importanti, a volte – dove sono nate: a differenza cioè di quanto avviene col primo dottore dell’occulto (in senso tecnico e seriale) universalmente noto, il dottor Martin Hesselius di Joseph Sheridan Le Fanu. E che eredita dai vecchi esorcisti romantici il senso del caso da gestire e del paziente da curare, ma anche una certa equivocità di profilo: in questo caso come personaggio inaffidabile e sussiegoso, grande collezionatore di storie (come detto una delle caratteristiche di successo dell’occult detective, figura-cornice per indefinite avventure) ma il cui unico intervento in diretta nel caso di esordio Green Tea, 1869, si rivela un fallimento vergognoso. Laddove però Apollonio & Co. si inserivano da oppositori in un orizzonte romantico che esaltava la potenza dei sentimenti e la vitalità del loro tracimare al di là di misure, credenze e ideologie confezionate, Hesselius mostra in scena l’ambiguità delle risposte in un’epoca che ha perso le antiche fedi e sta cercando goffamente di sostituirle. Attribuendo al suo polveroso dottore una collocazione cronologica nel passato – quello del Doktor K. di Hoffmann, alla grossa – Le Fanu fa reagire i dibattiti (magico-)scientifici di una generazione precedente con provocazioni sul proprio presente vittoriano: e all’umanitarismo da salotto insipido ed egoista contrappone sornione le soluzioni improbabili di Hesselius, nell’unica certezza di un disagio epocale – perché i fantasmi non si limitano a infestare i modaioli tavolini a tre gambe. In un tempo come il nostro in cui tanto si dibatte di post-verità, e i più accaniti a combatterla (magari piantonando il web con le guardie) sono a volte i portatori di verità altrettanto farlocche; in cui le grandi affettazioni di attenzione per chi soffre sono spesso teatri per vetrinette compiaciute, senza la minima presa a carico; in cui agenzie antiche e moderne tendono a sconfinare dai propri ambiti e piantare bandierine, insomma le avventure dello spudorato Hesselius hanno ancora molto da dire.
Del romanzo breve Carmilla, 1871-72, Hesselius è solo il collettore: ma tra i vecchi che distruggeranno la giovane vampira – e la bontà dei quali è segnata da tratti francamente equivoci – spicca la figura grottesca dell’erudito vampirologo barone Vordenburg, discendente dell’antico amante della contessina non-morta. Dove già la connotazione fisica dice qualcosa di un ruolo non esattamente eroico.
Impossibile seguire passo passo le apparizioni di detective dell’occulto che a questo punto emergono in racconti e romanzi, più o meno a ricalco dei ghostfinder spiritisti o dei detective-esoteristi che iniziano a proliferare: e va detto che in molti casi si tratta di voci narranti o personaggi esauriti in un solo testo. Limitandosi dunque ai più emblematici, ecco lo Strickland di Rudyard Kipling, cimentatosi per la prima volta su un caso sovrannaturale nel 1890 (ma apparso già in precedenza in altre avventure); il curiosone Dyson di Arthur Machen dal 1894, con il racconto The Inmost Light, e che incontreremo in più opere; il Lord Syfret protagonista di una serie di novelle dell’“eugenic feminist” (scrittrice e medico inglese, una figura interessantissima) Arabella Kenealy antologizzate nel 1896; l’Augustus Champnell del prolifico e brillante vittoriano Richard Marsh (all’anagrafe Richard Bernard Heldmann) che indaga su crimini – sovrannaturali e non – in romanzi e racconti a partire dal 1897; e, nello stesso anno, il detective dottor Maxwell Dean nel romanzo Ziska. The Problem of a Wicked Soul della popolarissima Marie Corelli.
Già questo breve quadro mostra che detective “ordinari” e dell’occulto non rappresentano necessariamente categorie contrapposte, in un orizzonte culturale sempre più aperto ai mondi altri e a un’accezione ampia di mistero. E intanto, a partire dal Dupin di Poe, ha preso piede l’idea che per indagare con efficacia sia necessario avere doti un po’ strambe, peculiarità caratteriali che flirtano con l’anomalia, fissazioni spiazzanti per tutto il resto dell’umanità: come in fondo è il caso del più grande degli sciamani del poliziesco, l’Holmes doyliano. Il suo autore condividerà la fede nella “Nuova Rivelazione” spiritista coi ghostfinder che invadono i salotti tenendo in una mano i saggi di Allan Kardec e nell’altra macchine fotografiche e attrezzature della “nuova” tecnologia; e se Holmes non mostra particolari propensioni per il mondo metafisico, può pur sempre inserirsi in qualche modo nella compagnia, con i casi per esempio del mastino dei Baskerville e del vampiro del Sussex. In entrambi il prodigio è demistificato sulla base di una lunga tradizione inglese – gli spettri delle Grandi Madri del gotico come Ann Radcliffe sono sempre fasulli – ma c’è un’indagine sull’improbabile: e “dopo aver eliminato l’impossibile, ciò che resta, per improbabile che sia, deve essere la verità” (Il segno dei quattro). Mentre il sovrannaturale irrompe piuttosto sul piano simbolico e metatestuale con la figura del professor Moriarty, il Napoleone del crimine arcinemico di Holmes, che presenta caratteri quasi metafisici.
A ispirarsi spudoratamente all’immenso collega è Sexton Blake, “l’Holmes dei poveri” apparso nel dicembre 1893 subito dopo l’eliminazione dell’Arcidetective da parte dell’esasperato Conan Doyle, e destinato a sua volta a una lunga carriera (che la ricomparsa di Holmes dieci anni dopo non metterà in crisi): ma a differenza del modello, Blake batte la doppia pista di indagini ordinarie e sovrannaturali. Decisamente più emblematico è però l’Abraham Van Helsing del Dracula, 1897, sorto anche lui in assenza di Holmes (al punto da far vagheggiare a qualche critico buontempone che il suo inglese da operetta celi in realtà ancora una volta l’Arcidetective camuffato): emblematico per vari motivi. Anzitutto perché si presenta come rifrazione compiaciuta e ironica dell’eclettico autore e insieme come memoria del padre omonimo (entrambi battezzati Abraham): e in effetti nell’eclisse simbolicissima, epocale dei genitori che si consuma nel romanzo, Van Helsing diventerà padre per elezione degli eroi giovani contro l’alternativo padre cattivo Dracula. Poi perché immagine di Uomo Nuovo – idealmente a fianco della Donna Nuova, Mina – che sa conciliare sapienza antica e moderna in una stagione culturale che tenta nuove, provocatorie sintesi. Ancora: perché, erede delle bizzarrie di Hesselius e dei detective, Van Helsing le ripropone quali connotati del suo ruolo di iniziatore (fool, buffo nel modo di parlare, gaffeur rovinoso), sciamano (per inversione sessuale almeno simbolica: è isterico, cioè afflitto dal “male delle donne”), trickster (sa essere brutale, conduce ad atti di rara ferocia e “sovversivi” della realtà comune ma proprio per permetterne la reintegrazione), ancora una volta in contrapposizione all’iniziatore/sciamano/trickster nero, il Conte. E ancora, perché il suo unico “caso” noto in tema di occulto – quello appunto celebrato nel Dracula – sarà base per una sua trasfigurazione su schermo in cacciamostri seriale.
Ovvio che tale ruolo culturalmente provocatorio di Van Helsing sulle soglie vertiginose del Secolo Nuovo non possa essere conservato nelle sceneggiature – come emerge fin dalle prime e più emblematiche trasposizioni. Il simil-Van Helsing del Nosferatu di Murnau è il professor Bulwer, dal nome che pare omaggio al narratore/occultista Bulwer-Lytton (interprete è l’attore ebreo tedesco John Gottowt, assassinato dalle SS nel 1942): ma Bulwer è presenza inefficace di fronte alla catastrofe, e sarà l’amore-sacrificio dell’eroina a spacciare il tiranno vampiro. Un decennio più tardi, nell’America infestata dalla Grande Crisi, Edward Van Sloan interpreta il Van Helsing “rassicurantemente gutturale” – come lo definisce Siegbert S. Prawer – della saga Universal: lucido nell’individuare i gangster dell’anima (si noti che i crocifissi, in questi film, vengono branditi come rivoltelle nei coevi polizieschi) venuti dall’Europa a infettare sangue esistenze & mercati, ma attento a non occupare troppo spazio alla giovane coppia icona della giovane America. A rendere il personaggio un vero protagonista è invece a fine anni Cinquanta l’ascetico Peter Cushing, che riceve il ruolo modellandolo (con trovate anche personalissime) fino a divenire il Van Helsing più carismatico della storia del cinema, e non stupisce che “The Professor” sia ispirato a lui. Certo, il suo Van Helsing abbina a una rasserenante affidabilità il vago fanatismo (specie nei primi film) di chi tiene sempre il paletto in tasca – ma tant’è, la dinamica dei giorni Hammer tra nostalgia vittoriana, Swinging London in arrivo e minacce del sesso (al cinema il primo a colori, come il sangue) porta un’esplosione di euforiche contraddizioni in Inghilterra e nel mondo. Non è strano che gli spettatori d’epoca partecipino a quelle liturgie fitte di allusioni censuratissime (dunque più potenti), ai ruoli contrapposti e alle opposte ambiguità del professore e del vampiro con pari intensità simbolica; e non è strano che lo spettatore odierno, pur faticando magari a porsi nell’ottica di quei giorni lontani, riesca a cogliere ancora la forza del rituale. Questo scarto (in forme variegate) dal modello stokeriano si ripropone per tutti i Van Helsing successivi, compreso quell’Anthony Hopkins di Bram Stoker’s Dracula fisicamente più filologico per somiglianza, per inglese caricaturale e isterismo, e tuttavia piuttosto espressione del neogotico sopra le righe degli anni Novanta (difficile per esempio trovare in lui quel sentimentalismo che nel Van Helsing di Stoker, Jung docet, copre la brutalità). Se il mito di Dracula è uno specchio oscuro in cui ogni società proietta timori e desideri più o meno confessati o inconfessabili, di trasposizione in trasposizione anche il ruolo dell’alternativa/nemesi al Conte acquisisce inevitabilmente connotati diversi.
Ma torniamo al crepuscolo vittoriano di Stoker: ed è lì, nell’alta marea dell’irrazionale tra i due secoli, nel tentativo positivistico di ricondurre anche l’occulto a sistemi di regole note, e nella suggestione (crescente negli anni successivi) che il disagio montante dell’uomo moderno possa trovare beneficio nel ministero di dottori laici dell’anima, che fermenta un terreno tale da far moltiplicare i figli di Van Helsing. Tra Teosofia, spiritismo e revival della magia cerimoniale (basti citare la Golden Dawn) inizia così l’età d’oro dei dottori psichici, e non si può in questa sede che citarne qualcuno (per qualche approfondimento rimando qui).
A ridosso del Dracula, dal 1898, troviamo scendere in campo l’occult detective Flaxman Low di “H. Heron” e “E. Heron” (cioè l’inglese Hesketh Hesketh-Prichard e sua madre Kate O’Brien Ryall Prichard), eroe – si tratterebbe di un famoso scienziato – di una serie di storie brevi. Nel 1899 compare a firma del letterato e umorista americano Gelett Burgess il curioso Enoch F. Gerrish, protagonista di varie avventure idealmente a monte di Ghostbusters; e nel 1902 inizia la serie sull’investigatrice chiaroveggente Diana Marburg di L.T. Meade (Elizabeth Thomasina Meade Smith, irlandese, autrice di storie per ragazzine) e Robert Eustace (all’anagrafe Eustace Robert Barton, medico e giallista britannico). Per venire a personaggi più noti in Italia, a partire dal 1910 il Ghost-Finder Thomas Carnacki dell’inglese William Hope Hodgson, coi suoi divertentissimi strumenti che combinano tecnologia d’epoca e magia – impagabile il pentacolo elettrico – è un personaggio emblematico di fantasie che reinventano il Ballo Excelsior in chiave occulta preludendo a sua volta a Ghostbusters. Del 1913 è il vecchio antiquario-esoterista Moris Klaw del pure inglese Sax Rohmer, che dallo stesso anno inizia a contrapporre alle più note diavolerie d’Oriente di Fu Manchu l’affidabile funzionario anglo-indiano Denis Nayland Smith di Scotland Yard (degli occult detective in qualche modo un cugino); e del 1914 il Ghost-Seer Aylmer Vance dei britannicissimi Alice e Claude Askew.
Ma a prescindere dalle convinzioni eventualmente esoteriche degli autori (come forse nel caso di Sax Rohmer) in generale gli occult detective citati sono frutto di fantasia e buona tecnica di fiction, mentre altri colleghi vengono più direttamente dal mondo della ricerca mistica, magica o psichica militante. Come il curioso Jim Shorthouse (1900) e il raffinato dottor John Silence (dal 1908), di Algernon Blackwood, legati – soprattutto il secondo – alle sue frequentazioni di ambienti esoterici, e il dottor Taverner della grande occultista e narratrice Dion Fortune (dal 1926, ma ispirato al suo mentore Theodore William Carte Moriarty morto tre anni prima e attivo tra i due secoli): si tratta di curatori d’anime piagate da attacchi che possiamo interpretare in vario modo. Pensiamo anche al Norton Vyse della pittrice e narratrice inglese Rose Champion de Crespigny (1919), alfiera entusiasta della ricerca psichica; e soprattutto al Simon Iff dell’ineffabile Aleister Crowley (dal 1916) che usa logica e magia per risolvere casi più o meno polizieschi. Ma all’Haddo ispirato a Crowley, William Somerset Maugham già contrapponeva un esoterista buono, l’inefficace dottor Porhoët in The Magician, 1908.
A questi personaggi citati in ogni repertorio, ed emblematici di un orizzonte dove fantasie sull’occulto montano prima tra fiati di guerra in progressivo avvicinamento e poi tra conteggi di morti (anche tra gli autori: gli Askew affondati con la nave nel 1917, Hope Hodgson caduto a Ypres nel 1918…), depressione postbellica e nuovi fantasmi, se ne accompagnano però moltissimi altri. E limitandoci a quelli di maggiore importanza perché seriali o almeno attivi in più di un’avventura, l’elenco è impressionante. Andrew Latter di Harold Begbie (dal 1904), Jack Hargreaves di Allen Upward (1905), Westrel Keen di Robert W. Chamber (1906), il dottor Ivan Brodsky di H.M. Egbert (dal 1910), il dottor Xavier Wycherley di Max Rittenberg (dal 1911), Semi Dual “the Occult Detector” di J.U. Giesy e Junius B. Smith (dal 1912), il dottor John Durston di William Le Queux, e il dottor Arnold Rhymer di Uel Key (entrambi 1917), Solange Fontaine di F. Tennyson Jesse, e Godfrey Usher di Herman Landon (entrambi 1918), Shiela Crerar di Ella M. Scrymour, e Derek Scarpe di A.M. Burrage (entrambi 1920), Damon Vane di Elliot O’Donnell (1922)… Detective dell’occulto figurano tra l’altro in novelle di Conan Doyle (come nel 1899 l’indagatore Dr. Hardarce di The Brown Hand, e nel 1902 Lionel Dacre in The Leather Funnel), e ancora di Kipling (Mr. Perseus di The House Surgeon, 1909). Difficile non vedere in tutto questo un preciso segno dei tempi: angosce, attrazioni magnetiche, fantasie consolatorie…
Nel 1925 appare poi sull’americano Weird Tales uno degli occult detective in assoluto più attivi, Jules de Grandin di Seabury Quinn, protagonista di ben novantatré avventure e massima espressione del modello nel pulp. A sua volta affiancato in America da frotte di colleghi: a partire ovviamente dai vari detective o dottori che indagano nei testi di Lovecraft (una tantum, non serialmente perché il Solitario diffida dei tecnicismi occultistici: il narratore di The Shunned House, 1924/1937; Thomas F. Malone in The Horror at Red Hook, 1925/1927; l’ispettore Legrasse e il professor Angell di The Call of Cthulhu, 1926/1928; il dottor Armitage di The Dunwich Horror, 1928/1929; eccetera, mentre per esempio il viandante psichico Randolph Carter è una figura dai connotati un po’ diversi), di Clark Ashton Smith (a partire dal narratore di The Ghost of Mohammed Din, 1910) e naturalmente di Robert E. Howard. Che innova la categoria con il cacciamostri puritano Solomon Kane (dal 1928), affiancato però da una serie di occult detective relativamente più tradizionali (l’io narrante di The Black Stone, 1931, e di The Thing on the Roof, 1932, gli eroi Steve Harrison e John Kirowan, entrambi apparsi nel 1834…). E a questi possiamo aggiungere, nei pulp e non solo, Pierre d’Artois di E. Hoffman Price (dal 1926), Gerald Canevin e Lord Carruth di Henry S. Whitehead (rispettivamente dal 1929 e dal 1930), il Dr. Lowell del romanzo serializzato Burn, Witch, Burn! di Abraham Merritt (1932), il giudice Keith Hilary Pursuivant e John Thunstone, entrambi dell’attivissimo Manly Wade Wellman (rispettivamente dal 1938 e dal 1943)… Per i narratori pulp come già per i predecessori su riviste la soluzione dell’occult detective semplifica notevolmente la costruzione di storie fantastiche, in quest’epoca più spudorate e ruspanti. D’altra parte, come già avvenuto con Holmes, vari indagatori “ordinari” si trovano alle prese con fantasmi fasulli, e tra questi per atmosfere spettrali e suggestioni goticheggianti merita almeno menzione il Gideon Fell di John Dickson Carr, forse ispirato a G. K. Chesterton (dal 1933).
Una situazione un po’ diversa è quella degli sviluppi inglesi, dove in più casi la fiction è robustamente coerente con convinzioni occultistiche. È il caso di Agatha Christie, con le figure della raccolta sul paranormale The Hound of Death and Other Stories (1933), in cui appaiono studiosi quali Mortimer Cleveland e il dottor Dr. Edward Carstairs; e di Margery Lawrence, col detective dell’occulto Miles Pennoyer (1945). Ma soprattutto del prolifico Dennis Wheatley: poi anzi assurto ad autorità in temi magici (ma da avversario), e autore di varie saghe imbevute di paranormale, fin dalla seconda avventura del suo reazionarissimo eroe duca di Richleau, The Devil Rides Out, 1934 (che Christopher Lee interpreterà su schermo nel 1968). Nei testi di Wheatley il sovrannaturale si sposa alla politica, e il candore con cui abbina magia nera e comunismo – per lui legati in un unico orizzonte di caos – conduce il tema della detection occulta verso dimensioni fantapolitiche. Del resto l’autore è un uomo dei Servizi, e un altro suo eroe è il colonnello Verney, un ufficiale responsabile del controllo di gruppi sovversivi e logge sataniche: la cui avventura più nota resta To the Devil – A Daughter, 1953 (donde il film 1976, dove però Verney diventa uno scrittore esperto di occulto – a sua volta come Wheatley, insomma – interpretato da Richard Widmark). Tra gli altri protagonisti di saghe del Nostro, il cui impatto sull’immaginario fantastico postmoderno è molto maggiore di quanto in Italia solitamente percepiamo, c’è però anche un più tradizionale investigatore del paranormale, lo svedese Neils Orsen, ispirato all’occultista Henry Dewhirst e alle storie di Carnacki (1943). Di un ulteriore fortunato autore britannico, Jack Mann alias E.C. Vivian, all’anagrafe Charles Henry Cannell, a sua volta creatore del detective dell’occulto Gregory Gordon George Green detto “Gees” (dal 1936), ignoro sinceramente se coltivasse convinzioni esoteriche.
La golden age dei dottori psichici si chiude con gli anni Trenta: le riviste di narrativa popolare negli USA e in Gran Bretagna hanno raggiunto il picco di massimo successo, e il cinema vede la poesia del fantastico offerta ormai a immense platee. Certo, non c’è ancora un target di affezionati all’horror, e a vedere i mostri Universal si reca un pubblico indifferenziato: non è strano dunque che la legione dei cacciaspettri resti confinata su carta, e su schermo sia in pratica il solo Van Helsing a divenire in qualche modo seriale (compare anche in Dracula’s Daughter e fornisce il calco – stesso attore, Van Sloan – per l’archeologo-esoterista dottor Muller di The Mummy).
Ma i tempi stanno cambiando. Nel decennio successivo, con la guerra, le riviste popolari entrano in crisi, gli horror su schermo sono costretti ad assumere connotati molto più poveri e ripetitivi. Almeno a grandi numeri si preferiscono eroi aitanti, da contrapporre a vilain sempre più legati al nemico: e i detective dell’occulto non sono necessariamente i protagonisti più adatti. È vero, non spariscono e parecchie serie continuano, ma poco nasce di nuovo e comunque il tema conosce una contrazione; e un ulteriore decennio più tardi la crisi dell’horror con la Guerra Fredda stornerà il fronte delle minacce verso lo spazio e il Pianeta Rosso comunista. Con l’eccezione degli eroi reazionari di Wheatley e pochi altri (indicativo è il ritiro di Jules de Grandin nel 1951), gli esperti di esoterismo lasciano il posto a quelli di (fanta)scienza.
È allora che in Inghilterra emerge un fenomeno nuovo. Dopo aver varato una certa quantità di titoli di SF una piccola casa produttrice, la Hammer, si risolve al salto – per il tempo rischioso – del ritorno al gotico: e in effetti può notarsi un rapporto abbastanza stretto tra il maturo, rassicurante Quatermass fantascientifico degli anni Cinquanta e il gotico Van Helsing/Cushing nel 1958 destinato a divenire seriale fino a proiettarsi nell’età contemporanea. In quella che sarà definita (non troppo correttamente) la “svirilizzazione dell’eroe” emerge del resto qualcosa di molto britannico: a conquistare la scena non è il giovanottone destinato a salvarsi con la bella – modello classico a stelle e strisce – ma un uomo maturo, responsabile e ascetico. Profilo quanto mai favorevole al ritorno dei dottori dell’occulto: tanto più che nel frattempo, in naturale controtendenza all’accentuata tecnologizzazione e alle paure di una scienza che ha prodotto l’atomica, una serie di posizioni alternative riprende forza. Non è questa la sede per uno studio sul progressivo fermentare – attraverso più rivoli, su tutte le tinte ideologiche – di una sensibilità “magica” nel corso degli anni Sessanta, ma l’impatto planetario dei film gotici Hammer, giunti all’apogeo tra le minigonne di Carnaby Street, vi ha senz’altro un ruolo di concausa: e il revival magico a cavallo col decennio successivo – vera e propria esplosione di occulto in tutte le possibili declinazioni, che correranno per circa un decennio – riporta a galla anche gli occult detective. Con infinite ristampe dei classici di cui nasce un fiorente mercato, ma anche figure nuove, dove il modello si adegua ai tempi con un pizzico di psichedelia (indimenticabili certe copertine). Figli di quest’epoca sono per esempio Lucius Leffing di Joseph Payne Brennan (dal 1962); il cantastorie John the Balladeer, detto Silver John, ancora di Manly Wade Wellman, che incontra sulla propria strada varie vicende sovrannaturali (dal 1963); la squadra dei Guardians di “Peter Saxon” (in realtà uno pseudonimo collettivo – dal 1966 circa); e poi il dottor Owen Orient di Frank Lauria (dal 1971), il decisamente più noto Titus Crow di Brian Lumley (dal 1974), il dottor Alex Caspian di John Burke (dal 1976). Un caso un po’ particolare è quello dell’Anton Zarnak inventato da Lin Carter forse già nei primi anni Cinquanta ma apparso poi in racconti suoi e di autori amici. D’altra parte, e al di là delle infinite trasposizioni dei classici, negli anni Settanta i detective dell’occulto si moltiplicano anche in TV (si pensi all’americano David Sorrell di Louis Jourdan in due film 1969-70, all’ispettore francese Paumier della Squadra dei sortilegi – La Brigade des maléfices – del 1971, al Carl Kolchak protagonista di film e serie TV americane dal 1972, al britannico Tom Kovack interpretato da Leonard Nimoy nel 1973, più vari altri) e ovviamente nel cinema. Tra i fumetti può poi almeno citarsi il Doctor Spektor di Donald F. Glut e Dan Spiegle (dal 1972).
Fin qui i dottori “laici”: ma occorre ricordare per questa fase anche l’uscita del romanzo (1971) e poi film (1973) The Exorcist, che fa saltare il tavolo dell’horror, segnando un vero spartiacque, e portando lo specialista in clergyman del confronto col sovrannaturale e la categoria possessione sotto i riflettori. Le peculiarità del filone ecclesial-demonologico consigliano comunque di non trattarlo in questa breve rassegna.
Il gotico, linguaggio insieme del mito e della sovversione, subisce però un tracollo con il cosiddetto riflusso e la normalizzazione del decennio Ottanta. L’horror non sparisce, ma abbandona le forme tradizionali ora verso una serie di declinazioni giovanilistiche o comiche (a volte geniali, come in Ghostbusters, 1984, ma più spesso scipite), ora inseguendo dimensioni più oniriche e psicologicamente disturbanti. Non stupisce che in questa fase emergano personaggi di detective dell’occulto come il tatuatissimo – contro il male – Harry D’Amour di Clive Barker (dal 1985) o, nel fumetto, il nostrano Dylan Dog di Tiziano Sclavi (dal 1986): abbandonati i mostri tradizionali, il detective dell’occulto deve fare i conti con il labirinto di dimensioni diverse, febbricitanti e disturbanti, in osmosi con la sua interiorità. Di quest’epoca è anche, in chiave narrativa, il David Ash di James Herbert (dal 1988) e qualcuno aggrega alla categoria pure l’investigatore olistico Dirk Gently di Douglas Adams (dal 1987); mentre nel fumetto vediamo nascere (nel 1984) John Constantine, le cui connotazioni gotico-occultistiche – per l’epoca, piuttosto controcorrente – sono frutto della sensibilità particolare di Alan Moore. Il decennio viene idealmente chiuso dalla serie Twin Peaks ideata da David Lynch e Mark Frost (1990-1991 con seguiti – T.P.: Fire Walk with Me, 1992, e altri in arrivo), dove l’eccentrico e brillante agente Dale Cooper dell’FBI (Kyle MacLachlan) dovrà fare i conti proprio con la categoria della possessione, come a prefigurare un ritorno ad antichi orrori. A confermare che l’occult detective non è in sé un personaggio gotico in senso stretto, ma con frequenza nella sua declinazione seriale attinge a mitemi di un mondo mitico-magico eminentemente valorizzato dal gotico.
Sempre procedendo a volo d’uccello, vediamo infatti il gotico riapparire con forza nei Novanta. Idealmente con il Van Helsing di Anthony Hopkins, 1992, che apre le porte a una stagione di revival degli antichi miti. In spirito diverso da quello del passato, perché il mondo è ormai cambiato: non più nel segno del recupero orgoglioso – certo pragmatico ma vagamente nostalgico – di epopee nazionali come ai tempi Hammer, ma piuttosto della scoperta postmoderna che il gotico “funziona” ancora, che ha ancora appeal per un mercato planetario. E la diffusione di internet e le nuove tecniche di home video lo coroneranno, movimentando la conoscenza dei “classici” e consolidandone il culto.
Certo, ad affrontare casi “occulti” è ora una diversificatissima serie di personaggi, dei più svariati registri e spessori di linguaggio: ma, anche limitandosi a qualche esempio (ed escludendo, per dire, tutto l’universo ora fiorente di anime e manga, che aprirebbe discorsi a parte), la semplice elencazione delle date di inizio avventure basta a rendersi conto di quanto il periodo sia nuovamente fertile. Nel 1990 appare la Ghost Hunter Miss Penelope Pettiweather di Jessica Amanda Salmonson (narrativa); nel 1991 il patinato Sir Adam Sinclair di Katherine Kurtz e Deborah T. Harris (narrativa); nel 1992 Buffy l’ammazzavampiri (cinema, ma protomodello per la ben diversa serie TV che partirà nel 1997); nel 1993 Anita Blake di Laurell K. Hamilton (narrativa), il duo Mulder & Scully di The X-Files (televisione, poi cinema) ed Hellboy (fumetto, poi cinema – anomalo come detective per il suo statuto diavolesco); nel 1994 l’inquisitore Eymerich di Valerio Evangelisti (narrativa, poi vari altri linguaggi); nel 1998 Ethan Proctor di Charles L. Grant (narrativa); nel 1999 i protagonisti della saga The League of Extraordinary Gentlemen di Alan Moore e Kevin O’Neill, più volte alle prese con l’occulto; nel 2000 Harlan Draka protagonista del Dampyr di Mauro Boselli (fumetto); nel 2007 Harry Dresden della serie The Dresden Files (televisione); nel 2009 il duo di ammazzamostri Claudio & Vergy di Claudio Vergnani (narrativa); nel 2011 Grimm della serie tv omonima (televisione)… E a questi possiamo aggiungere la quantità di indagatori dei romanzi di Danilo Arona, la cui attività è iniziata certamente prima, ma si fa in questa fase sempre più intensa.
Figure molto diverse, si ripete, non tutte propriamente “gotiche” ma che della tradizione gotica richiamano singoli aspetti; figure solo in parte raccordabili in costellazioni (Buffy e Anita Blake si rivolgono per esempio a pubblici affini), ma che comunque colpiscono e coinvolgono grandi masse di lettori/spettatori, suscitano studi popolari come accademici, costruiscono di avventura in avventura universi alternativi (si parla di Buffyverse, Anitaverse eccetera). Il periodo lo permette, e le creature dell’antico gotico e i loro indagatori/cacciatori sembrano rappresentare maschere efficaci per esprimere istanze e sogni epocali. Col risultato di dilagare ben oltre i limiti della cosiddetta sottocultura gothica, e di interessare anche grandi capitali: e, ferma restando la varietà di contesti e (si ripete) di spessori culturali, il boom finisce con l’essere veicolato dalle sorti della saga Twilight, che tra romanzi e film copre il periodo 2005-12 con un impressionante indotto (imitatori, glossatori, anche “esperti” spuntati come funghi). Il suo esaurirsi segna in effetti una contrazione non solo del “romanticismo sexy” in chiave vampirica, ma, per saturazione, di un po’ tutta l’attenzione per il gotico e i suoi miti. Qualcosa che non penalizza – è ovvio – personaggi efficaci, ma sposta drasticamente gli equilibri generali: ed è indicativo misurare in metri lineari nelle grandi librerie la quantità di spazio occupata dal gotico (vero, o più spesso farlocco) durante la stagione Twilight, e quella ben più contenuta attuale.
Un’altra ottima cartina tornasole è però il cinema. E se, guardandoci indietro, prendiamo in esame in termini panoramici lo sviluppo dell’immaginario a partire dagli anni Trenta – quando cioè le grandi platee in Occidente iniziano ad accedere alla celebrazione dei riti gotici su schermo – ci troviamo davanti uno schema alla grossa riassumibile così:

anni Trenta (dal 1931, Dracula di Browning): crescita del gotico;
– anni Quaranta: assestamento e sfilacciamento;
– – anni Cinquanta: contrazione/eclissi;
anni Sessanta (dal 1957, The Curse of Frankenstein di Fisher): nuova crescita del gotico;
– anni Settanta: assestamento e sfilacciamento;
– – anni Ottanta: contrazione/eclissi;
anni Novanta (dal 1992, Bram Stoker’s Dracula di Coppola): nuova crescita del gotico;
– anni Zero: assestamento e sfilacciamento;
– – anni Dieci (dallo spegnersi del boom dei vampiri attorno al 2012): contrazione/eclissi.

Ed è in quest’ultima fase che ci troviamo ora. Dove “contrazione/eclissi” non significa una sparizione del gotico, ma solo l’entrata in una fase di recessione dalle mode – a dispetto anche di singole fortunatissime uscite, come la saga TV Penny Dreadful, con l’eroina Vanessa Ives di Eva Green che indaga in un sottomondo occulto (2014-16). E a parte alcune notevoli eccezioni prevale una stanca sensazione di già visto.
Possiamo aspettarci una nuova fase “up” (indicativamente) negli anni Venti? Difficile dire se il trend trentennale troverà ulteriori conferme, e difficile anche immaginare i connotati di una rinnovata crescita del gotico – che per esempio dovrà fare i conti con l’effetto-Legione dei fantasmi dell’era di internet, indefinitamente frantumati in sciami di grumi psichici come già adesso nei romanzi di Arona. I nuovi dottori potranno fronteggiare sempre più frequentemente simili emergenze, con un piede in Matrix e l’altro in The Exorcist: ma di più al momento è difficile dire.
In ogni caso The Professor arriva in questa stagione di “bassa”, e in attesa di una nuova fase “up” deve combattere per aprirsi la strada. E due riflessioni possono emergere.
Anzitutto si è visto che di società in società gli occult detective hanno recato diversissime provocazioni: le istanze dell’ordine soffocante e necrotizzante, la critica all’affidabilità delle agenzie riconosciute o il tentativo eclettico di rinnovarne l’approccio, l’apertura a una dimensione di mistero e la ricerca di guarigione dai propri demoni, la saldatura tra nostalgia e nuove euforie d’epoca, il recupero vintage di un linguaggio avvertito come simbolicamente forte… Ma al di là degli specifici il senso della maschera dell’occult detective, il successo del suo ruolo si misurano proprio in termini di provocazione, di shock culturale. Non semplicemente l’originalità delle azioni o la mossa inattesa (come in fondo per qualunque personaggio, per sostenere una buona storia), ma lo scarto dalle categorie del lettore/spettatore: all’imprevisto del monstrum, che viola l’equilibrio della realtà, segue cioè la risposta altrettanto imprevista (sul piano della logica prima che ancora delle azioni) da parte dell’occult detective. Detentore di una scienza di cui il lettore/spettatore deve poter cogliere qualcosa ma non tutto (come l’emergere della punta di un iceberg di cui si avverte la massa sommersa, che però resta invisibile: se il pubblico ha la sensazione di sapere quanto l’esperto, il personaggio fallisce), trickster e sciamano dalla vaga ambiguità, l’occult detective “funziona” quando spiazza. Serializzando, specie dopo un po’ di numeri, la sfida sta nel conservare tale carattere: ed è questo l’augurio che si rivolge a The Professor.
Ma c’è un secondo aspetto, più strettamente legato ai nostri tempi. Viviamo una stagione in cui le categorie di affidabilità e autorevolezza sono giustamente prese con le pinze, i quacquaraquà occupano poltrone dappertutto, la credibilità – a partire da quella umana – è merce rara: in questo senso la Nostra è molto più l’età di Hesselius che di Van Helsing. Ma se nella nostra vita abbiamo incontrato qualcuno con quella marcia in più, che con la sua competenza e maturità ha saputo cacciare qualche ombra che ci faceva male, che ha saputo calarsi nella casa infestata in cui in quel momento (può succedere) ci trovavamo, ecco l’occult detective di cui avremmo bisogno. E il volto di Cushing, l’affidabilità e insieme l’ambiguità dei personaggi da lui interpretati (a fronte della sua umanità personale, spesso ricordata) sembra felicemente ricordare in The Professor quel mix di sospetto e nostalgia che ci portiamo addosso.

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Questi fantasmi (Victoriana 22 / II) https://www.carmillaonline.com/2016/07/15/fantasmi-victoriana-22-ii/ Fri, 15 Jul 2016 21:45:12 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=31974 di Franco Pezzini

Gli inquiliniNon rassegnarsi alla Ghostxit

In Un autentico caso di infestazione (An Authentic Narrative of a Haunted House), 1862, Joseph Sheridan Le Fanu gioca come al solito a spiazzare, sornione: perché ciò che intriga più della mascherata di spettri – del resto denunciati implicitamente fin dal titolo – è il meccanismo per cui gli abitanti della casa infestata tendono a non riconoscerli per tali, e si lambiccano il cervello su ipotetici ladri od intrusi. Per quanto ampollosamente giudicati fededegni, questi testimoni (e qui sta il sogghigno dell’autore) mostrano una divertente lentezza [...]]]> di Franco Pezzini

Gli inquiliniNon rassegnarsi alla Ghostxit

In Un autentico caso di infestazione (An Authentic Narrative of a Haunted House), 1862, Joseph Sheridan Le Fanu gioca come al solito a spiazzare, sornione: perché ciò che intriga più della mascherata di spettri – del resto denunciati implicitamente fin dal titolo – è il meccanismo per cui gli abitanti della casa infestata tendono a non riconoscerli per tali, e si lambiccano il cervello su ipotetici ladri od intrusi. Per quanto ampollosamente giudicati fededegni, questi testimoni (e qui sta il sogghigno dell’autore) mostrano una divertente lentezza a rendersi conto dell’impossibile: e se gli spettri imitano con una certa efficacia aspetto e posture dei vivi (come del resto predicava Swedenborg a proposito dei suoi spiriti umani, troppo umani), viene da domandarsi quanti altri in precedenza abbiano attraversato inosservati la strada di questa brava gente.
A firma di un autore molto attento a capitalizzare il sapore e l’ambiguità delle storie di spettri tradizionali, il racconto citato è però un ottimo esempio di come la ghost story letteraria sparigli le carte, muti gli equilibri e i focus narrativi, cambi il modo di parlare dei fantasmi. Dove lo scarto non sta tanto in una natura fittizia invece che “genuina” dei medesimi, perché la differenza tra il fantasma recepito dai sensi e quello evocato dalla fantasia di uno scrittore e di lì scatenato nel mondo può non essere marcata quanto tenderemmo a considerarla.
Lord Halifax, filologicamente attestato sulle storie vere, offre (abbiamo visto) una callida iunctura di elementi anche ripetitivi, inconclusi, enigmatici – ciò che in fondo contribuisce al loro fascino. Ed è su simili piste sottili che si muovono gli acchiappaspettri delle varie società spiritiste e parapsicologiche attivissime fin dall’Ottocento, coi loro bollettini e le memorie degli esperti. La ghost story letteraria (e poi su schermi) chiede qualcosa di più o piuttosto di diverso.
Fantasie narrative sui fantasmi sono antiche quanto l’uomo, ma con il gotico conoscono una nuova primavera – fin dal seminale The Castle of Otranto, 1764, dove impazzano su uno sfondo di cartongesso idealmente a prefigurare una storia anche teatrale; e anzi con il termine della prima tornata gotica inizia la cosiddetta Golden Age of the Ghost Story che dura fino all’inizio della Prima Guerra Mondiale. L’ecatombe della guerra pare saturare l’Occidente di morte a tal punto da costituire una sorta di Ghostxit – anche se, ovviamente, il genere non muore affatto e prende a confrontarsi in modo sempre più stretto con la nuova macchina per fantasmi, il cinema. E magari con la televisione, come sa chiunque di noi abbia rabbrividito da ragazzino davanti a Il segno del comando, 1971, o a Ritratto di donna velata, 1974 (messo in onda ’75).
Ma già dagli esempi citati ci è chiaro lo scarto tra gli spettri di letteratura & schermi e quelli folklorici e tradizionali. La ghost story da genere narrativo può per esempio, come nel caso citato di Le Fanu, spostare il focus e il senso della narrazione; può offrire ai fantasmi parti più strutturate (come in The Canterville Ghost), o invece assorbirli in atmosfere spettrali impersonali ma non meno inquietanti (emblematiche quelle di Walter de la Mare); e spesso apparecchia più trama, più “originalità” ed effetti più drammatici – fino a destinare tragiche sorti a chi abbia imprudentemente fronteggiato le ombre. Se poi una dimensione spaziale rileva anche per entità paradigmaticamente inafferrabili come quelle in questione (e che anzi si presentano in genere come fenomeni topici), una delle forme-tipo della ghost story è costituita dai racconti sulla casa infestata, sorta di piano cartesiano dell’Obsideo ergo sum, e scrigno di vicende spesso articolate.
Una splendida panoramica è offerta in questo senso dalla raccolta Gli inquilini del piano di sopra. Case infestate nelle ghost stories, a cura di Gabriele Scalessa per i tipi Nova Delphi (pp. 240, € 11, Roma 2016). Presentati da una densa introduzione del curatore, scendono così in campo Baldwin, Blackwood, Bulwer-Lytton, Cram, Gilman, Le Fanu (con il racconto citato), Morrison e Wells: e il risultato è una pirotecnia fantastica che merita assolutamente la lettura. Cercando di non spoilerare in modo indebito – anche se, per tutti, il piacere sta nell’eleganza narrativa almeno quanto nella fantasia di trama – e rinviando comunque al commento di Scalessa, mi limito a qualche osservazione.
La serie è varata da un testo spesso citato e considerato un po’ a monte dell’intero filone, Gli infestati e gli infestatori, o la casa e la mente (The Haunted and the Haunters; or: The House and the Brain) di Edward Bulwer-Lytton: dove le terrifiche vicende affrontate in una casa infestata nel centro di Londra si rivelano legate all’opera di un (defunto) mesmerista. Il racconto è qui presentato nella versione breve che l’autore trasse nel 1864 dal testo omonimo più articolato del 1859 (gli interessati possono trovarlo con qualche fortuna tra i remainders come La casa e il cervello a cura del compianto Malcolm Skey per Theoria, 1985): del resto la scelta di scorciarlo fu di tipo pragmatico, legata all’intervenuta pubblicazione di un’altra opera di Bulwer-Lytton, A Strange Story, 1862, che presentava in forma più estesa temi consimili (scrupolo forse curioso da parte di un autore versatilissimo, in parallelo viveur e politico di qualche fortuna, la cui opera occupa trentasette volumi). Senza anticipazioni inopportune, è almeno possibile notare che la chiave sta in quel “brain” del titolo originario: quale può essere il lascito di una mente, o anche materialmente di un cervello, per quanto imputridito sotto la parrucca del suo possessore? L’attenzione non è insomma tanto alla carnevalata di spettri, per quanto impressionante, quanto ai meccanismi che la scatenano imprimendole una certa coloritura di Male: un’azione occulta del tipo caro all’autore, interlocutore del mago francese Éliphas Lévi e a sua volta praticante riti almeno curiosi (penso a certi oggetti ancora in bella evidenza nelle vetrine della sua proprietà di Knebworth).
Uno spunto, quello tecnico-occulto, che, saltando più avanti tra i testi della raccolta troviamo per esempio richiamato liberamente e con grande eleganza in quel gioiello che è Rue Monsieur-le-Prince, n. 252, a firma del grande architetto americano Ralph Adams Cram, 1895: se di lui è celebre soprattutto la progettazione di chiese neogotiche, ben altro genere di architettura connota la casa parigina del titolo, maledetta da usi infami della vecchia proprietaria e dai successivi sortilegi di un erede mancato. Nel testo di Bulwer-Lytton il responsabile del Male era un esponente di quel Settecento che i vittoriani vedono quale età dissipata e libertina, un mix tra Cagliostro e Saint Germain ma molto più luciferino della somma di entrambi; mentre lo stregone che nel racconto di Cram maledice la casa è citato come Sar Torrevieja, a caricatura in nero del coevo Sar Mérodack Joséphin Peladan, occultista e mecenate in quella stessa Parigi. Quanto ai riti della casa e al demone stesso scatenatovi, possono far pensare a echi di voci sull’americano Paschal Beverly Randolph, profeta della magia sessuale ben prima di Crowley e di cui Cram potrebbe aver sentito parlare.
A sua volta il padre della SF vittoriana, Herbert George Wells, è presente nella raccolta con una storia solo apparentemente tradizionale di infestazione in un castello, La sala rossa (The Red Room), 1894, pubblicato 1896. Qui l’originalità è garantita dall’intensità senza faccia di un male tracimante dalla sala stregata – anche qui si vagheggia all’inizio di spettri aristocratici – fino a impestare gli arredi dell’intero edificio, grondare dalle sue mura, trasfigurare in modo sinistro i vecchi che vivono alla sua ombra.
Ma a ristagnare in queste case e mobilitarne le ombre non sono solo occultismo o maledizioni. È una brutta storia banalmente umana quella sottostante l’epopea di spettri narrata da Le Fanu; come pure l’altra che l’involontario, buffo sensitivo Jim Shorthouse percepisce in una sordida pensione americana ne Il caso dell’uomo che origliava (A Case of Eavesdropping) del grande Algernon “The Ghost Man” Blackwood, 1900. Pur paludata qui dall’ironia della narrazione, in un quadro ambientale strepitosamente delineato, l’infestazione è raggelante.
In altri casi poi la causa specifica dei fenomeni resta equivoca: come accade nel terribile, bellissimo La sedia a dondolo (The Rocking Chair) di un’autrice americana da noi piuttosto sconosciuta, Charlotte Perkins Gilman, 1893 – una fiaba nera sul potere del desiderio che qualunque riassunto impoverirebbe, leggetela; nel quasi coevo, godibile Il fantasma finto e quello vero (The Real and the Counterfeit), 1895, a firma della scozzese Louisa (sposata) Baldwin, una delle sorelle MacDonald tanto importanti per la storia di arte e letteratura vittoriana, e che qui si misura con una vicenda certo apprezzata da Lord Halifax; o ne La presenza nella camera all’ultimo piano (The Thing In the Upper Room), 1910 dell’inglese Arthur Morrison, dedito di solito a polizieschi. Pur apparentandosi alle storie tradizionali proprio nella cifra di un’ambiguità frantumata, con rimandi sfilacciati a indefiniti catene seriali di apparizioni e ossessioni, nondimeno in questi testi lo stacco è evidente già nei drammatici finali ammanniti. Resta l’idea di uno spazio – anche banale, quattro mura, tetto e soffitto – dove non sembrano valere le regole di questo mondo, né i rapporti consueti con il tempo (si può rivivere il passato) o con l’individuazione (si può restare ossessi). Qualcosa in fondo di ben più disturbante del povero fantasma tradizionale, inquilino che col suo rumore – quasi di provocazione a un certo composto assetto emotivo e sociale – spezza una prevedibilità ritualizzata davanti al tè delle cinque per esservi poi inesorabilmente riassorbito.
Ma a parte il tema intrigante e la scintillante qualità letteraria delle prove, la raccolta di Scalessa vede un ulteriore punto di forza nella presenza di testi non troppo o per nulla noti ai lettori italiani, e persino di autori vergini di attenzioni nostrane: qualcosa che richiama alla vastità di un bacino – di opere, oltretutto, fuori diritti – che meriterebbe attenzioni assai più ampie di quelle in genere riservate oggi dall’editoria italiana. Anche se è vero che tali ombre perturbanti che sollevano il ditino a porre domande, che richiamano l’attenzione sulle infestazioni di un ambiente o di un mondo, che questionano sul rapporto con un passato che non passa, apparecchiano macchine per pensare assai più pericolosamente sottili e formative dei finti, funzionali ribellismi di non-morti ggiovani di lotta & di governo (o dello smaccato, tranquillizzante perbenismo di certo ubiquo poliziesco modaiolo – ma si va su altro terreno). Onore dunque agli editori – in genere piccoli – che non si rassegnano a una Ghostxit pelosa e mettono in circolazione questi gioielli dell’inquietudine.
Che per inciso ammoniscono a pensarci bene, prima di affittare per queste vacanze qualche stanza stranamente economica. Buonanotte.

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Questi fantasmi (Victoriana 22 / I) https://www.carmillaonline.com/2016/07/08/fantasmi-victoriana-22/ Fri, 08 Jul 2016 21:12:06 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=31812 di Franco Pezzini

HalifaxFantasmiSecondo Lord Halifax

Una delle caratteristiche proverbialmente note dell’immaginario britannico, fino allo stereotipo e alla barzelletta, sta nel suo rapporto coi fantasmi. Per carità, non che il Continente ne sia sprovvisto, basti pensare alle storie circolanti nelle nostre campagne o persino nelle grandi città; e anzi spesso simili racconti fanno parte del patrimonio familiare. Ma in un paese come il Regno Unito che coltiva con passione conservativa memorie e istituzioni del proprio passato remoto, il rapporto coi fantasmi è improntato a una peculiare, sostanziale complicità. Sia nel coltivarseli, rifuggendo – [...]]]> di Franco Pezzini

HalifaxFantasmiSecondo Lord Halifax

Una delle caratteristiche proverbialmente note dell’immaginario britannico, fino allo stereotipo e alla barzelletta, sta nel suo rapporto coi fantasmi. Per carità, non che il Continente ne sia sprovvisto, basti pensare alle storie circolanti nelle nostre campagne o persino nelle grandi città; e anzi spesso simili racconti fanno parte del patrimonio familiare. Ma in un paese come il Regno Unito che coltiva con passione conservativa memorie e istituzioni del proprio passato remoto, il rapporto coi fantasmi è improntato a una peculiare, sostanziale complicità. Sia nel coltivarseli, rifuggendo – se non in casi eccezionali – da qualunque tipo di sgarbata scorciatoia esorcistica, che depriverebbe il luogo infestato di un titolato abitatore; sia nell’inorridire con molta professionalità (con tutte le tinte di batticuore, insonnia, fremiti e quant’altro) quando ovviamente il fantasma di famiglia con altrettanta professionalità si fa vivo. A proposito del Canterville ghost, 1887, che prima di incontrare la pragmatica famiglia americana Otis aveva terrorizzato con fantasia istrionica intere generazioni più che avvertite della sua presenza (un vero e proprio cartellone teatrale di apparizioni che fa il verso a romanzi paleogotici e penny dreadful: “Red Reuben, or the Strangled Babe”, “Guant Gibeon, the Blood-sucker of Bexley Moor”, “Dumb Daniel, or the Suicide’s Skeleton”, “Martin the Maniac, or the Masked Mystery” eccetera) Oscar Wilde è molto più filologico di quanto spesso si consideri.
Chi scrive ha spesso utilizzato con profitto le repertoriazioni di fantasmi oggi recuperabili con comodità via internet: ma in fondo si tratta di pallide imitazioni dell’unico e vero baedeker dell’Inghilterra spettrale, il leggendario Lord Halifax’s Ghost Book, 1936, distillato della raccolta che appunto Charles Lindley Wood, secondo visconte Halifax (1839-1934) aveva compilato per uso privato. Uomo gentile di fede anglocattolica e dalla lunga attività a favore dell’ecumenismo (fu a lungo presidente della English Church Union) questo signore barbuto dal viso scavato amava in modo appassionato le storie di fantasmi, e ne raccoglieva tramite tutti i familiari e conoscenti. Come ricorda uno dei figli:

Il libro dei fantasmi di mio padre fu uno degli elementi più caratteristici della nostra vita a Hickleton. Lo teneva con la massima cura, di tanto in tanto apportandovi di proprio pugno qualche aggiunta e tirandolo fuori in occasioni speciali, come per esempio per Natale, per leggerci ad alta voce le pagine preferite prima di mandarci a letto.

Per continuare più avanti:

Forse anche a quell’epoca c’era chi non avrebbe riconosciuto questa abitudine come la ricetta migliore per salvaguardare l’equilibrio nervoso dei bambini, e mi ricordo anzi le proteste di mia madre, «i piccoli si spaventano troppo», anche se per quel che ricordo i suoi interventi non sortivano di solito alcun effetto. Dal canto suo, mio padre si giustificava dicendo che quelle letture erano utilissime allo sviluppo della fantasia, senza contare che le stesse vittime, affascinate e incantate da un senso di delizioso terrore, chiedevano sempre un’altra storia. Mi sono spesso chiesto da dove traesse origine l’attrazione che mio padre sentiva per le storie di fantasmi e simili, tanto da costituire con queste una specie di sfondo per la nostra infanzia. Esse indubbiamente rispondevano alla sua innata tendenza verso il mistero e il fantastico, in base ai quali si era formato una scala di valori per giudicare cose e persone. Nessun’altra accusa, salvo quelle riguardanti la moralità, era ai suoi occhi così lesiva della considerazione d’una persona quanto la mancanza di fantasia, e lo schema tangibile della vita quotidiana prendeva senso per lui dalla relazione che esso aveva con qualcosa di più profondo, qualcosa che si può sentire più che vedere, e che può essere colto solo grazie a una facoltà più sensibile della ragione.

Il testo, apparso in Italia già decenni orsono per Sugar e poi Longanesi, in questa forma è oggi felicemente riproposto da Odoya (Lord Halifax, Storie di fantasmi, trad. dall’inglese di Luciana Marchi Pugliese, pp. 255, € 18, Bologna 2016). E ciò che le sue pagine schiudono al lettore è una vera festa dell’affabulazione, dove il gioco a spaventarsi – entrando nei panni degli sconcertati testimoni, perché si tratterebbe in generale di storie autentiche – va di pari passo con la delizia delle descrizioni di ambienti, rapporti e dialoghi tra fine Settecento e inizio Novecento, molti vittorianissimi, a punteggiare di brividi la carta geografica della Gran Bretagna ma non solo. Non tutte le storie, poi, trattano propriamente di fantasmi (a usare un termine generico per l’intera nebulosa di ombre dei viventi di ieri, benevole o allarmanti, in qualunque modo manifeste e qualunque tipo di natura lascino individuare): questo piccolo atlante del bizzarro presenta infatti un assai più ampio spettro – si perdoni il calembour – di fenomeni sovrannaturali. Misteriose chiamate telefoniche notturne, grida strazianti ed enigmatiche, gatti vampiri, profezie oroscopiche, diavoli in agguato, incredibili sogni, animali annunciatori di morte… e persino eventi non sovrannaturalistici ma appartenenti piuttosto alle ombre oniriche o esistenziali del gotico. Dove il piacere assoluto della lettura schiude ulteriori suggestioni intriganti.
Una prima provocazione riguarda il rapporto tra l’opera e i materiali che raccoglie. In testa ai capitoletti troviamo infatti annotazioni a cura del figlio dell’autore, che era morto un paio d’anni prima e che forse non si aspettava nemmeno tanta circolazione delle sue carte. Ciò che leggiamo non è dunque la trascrizione puntuale, filologica e integrale del quaderno che l’ottimo Lord compilava, perché il curatore estrae testi del padre glossandoli e riordinandoli: e il primo fantasma di questi racconti non può essere che lo stesso Lord Halifax, seguito da tutta la torma incerta dei testimoni diretti e indiretti che gli hanno consegnato le storie o le hanno ritoccate (come emerge talora) correggendo il tiro di quanto inizialmente trasmesso da altri, o aprendo percorsi paralleli. Su alcune storie poi, estratte da riviste d’epoca o comunque consegnate senza griffe di affidabilità, l’insieme è persino più dubbio. Si pensi a un testo emblematico come questo:

Questo racconto era uno dei preferiti di lord Halifax, ed è preceduto dalla seguente nota: «Certifico che questa è una copia fedele del resoconto scritto da mr Pennyman a proposito del fantasma che frequentava l’albergo di Lille» (O. Barrington)

Mi avete espresso il desiderio di sapere quale credito si può dare a un racconto che, arricchito di qualche fronzolo, è stato recentemente presentato come una «storia vera di fantasmi», a distanza di trenta o quarant’anni dagli avvenimenti che lo hanno ispirato. Voglio quindi presentarvi i fatti, tali quali mi sono stati ricordati circa un anno fa da una mia vecchia amica, figlia del defunto W.A. Court; mi inviò il quaderno in cui il racconto era stato scritto, chiedendomi di leggerlo e di dirle se c’era in esso qualcosa di vero. Era stata amica intima di mia madre e di tutta la nostra famiglia, e non avendo mai sentito far parola di quella faccenda non riusciva a capacitarsi che fosse vera. Io stesso lessi il racconto con la massima sorpresa; era chiaro che non poteva essere stato scritto da nessun membro della famiglia contemporaneo ai fatti, né da nessuno particolarmente in confidenza con la mia famiglia, dato che c’erano in esso molti errori a proposito dei nomi e di altri particolari; altre cose tuttavia erano così verosimiglianti che ne rimasi sinceramente meravigliato. Tanti erano gli anni trascorsi e tanti gli eventi che l’episodio si era scolorito nella mia mente, infatti feci molta fatica nel cercare di ricordare come in realtà si fossero svolte le cose. Alla fine riuscii a ricordare tutto, tanto che ora sono in grado di rispondere alle vostre domande. […]

Eccetera eccetera. Tanto più che, concluso il racconto, si trova questa nota che ne avvia un altro parallelo:

La “versione romanzata” cui si fa cenno nel primo paragrafo di questo racconto era evidentemente una novella apparsa sul Cornhill Magazine e scritta dal noto scrittore, reverendo Baring-Gould, che in seguito scrisse a lord Halifax accludendo la seguente lettera che gli era pervenuta.

Caro Signore, solo ora mi capita tra le mani il numero di novembre del Cornhill Magazine, in cui leggo la vostra storia dell’“uomo nella gabbia di ferro”, molto interessante perché mi ricorda quanto capitò a me circa trent’anni fa all’hôtel du Lion d’Or a Lille. Vi narro quella vicenda perché penso che vi possa interessare. […]

Insomma un sistema pirandelliano di cornici per l’orizzonte di una traditio più o meno fluida o affidabile, dove Lord Halifax stesso a volte non ricorda più, e deve farsi rifrescare le idee da altri, ma il tempo è passato per tutti… Un contesto non meno fantasmatico dell’oggetto trattato, e che contribuisce a nutrire la delizia di queste pagine.
Il che però traghetta a notare un secondo aspetto. Per la quasi totalità, le vicende narrate conoscono come detto una presunzione di autenticità (tranne La storia macabra del colonnello P. che è frutto, dichiaratamente, della fantasia di Lord Halifax), anche se magari con qualche correzione di tiro nella nota d’incipit o nel segno di un sospetto aggiuntivo per il loro ripescaggio dai giornali. Ma è un fatto che per gran parte presentino i connotati delle storie “autentiche”: una certa asciuttezza testimoniale, la ripetitività (poco romanzesca) di fenomeni incongrui emersi come bolle su un qualche stagno torbido, e una mancanza di conclusioni se non in un senso molto generico o soggettivo. Ciò che, ancora una volta, ne accresce il fascino: come davanti a certe case infestate solitarie nella campagna, o certe locande haunted tutte sbarrate in paesotti silenziosi. Forse a una cert’ora apriranno agli avventori, al calar della sera, o forse sono chiuse da tempo e abbandonate: ci giriamo intorno, consideriamo le storie narrate senza riuscire a possedere una qualche narrazione compiuta. E il fantasma di quel fantasma ci accompagna ancora quando, a distanza d’anni, rivediamo quelle foto.

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Joseph Sheridan Le Fanu e le sorprese del tè verde (Victoriana 21) https://www.carmillaonline.com/2014/08/27/joseph-sheridan-fanu-sorprese-verde-victoriana-21/ Wed, 27 Aug 2014 21:48:47 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=17019 di Franco Pezzini

lefanuDuecento anni fa, il 28 agosto 1814, nasceva a Dublino uno dei più grandi narratori del fantastico moderno – e non solo, considerando il livello delle sue prove in altri generi letterari. Joseph Thomas Sheridan Le Fanu, figlio di un ecclesiastico, il decano Thomas Philip Le Fanu, e della signora Emma Lucretia Dobbin, sarà, com’è noto, l’autore di Carmilla, 1871/1872 (il che rende ovvio ricordarlo su questo sito) e di altri titoli celeberrimi come il mystery-thriller Uncle Silas, 1864, ma anche di una vasta produzione che sarebbe scorretto definire a priori [...]]]> di Franco Pezzini

lefanuDuecento anni fa, il 28 agosto 1814, nasceva a Dublino uno dei più grandi narratori del fantastico moderno – e non solo, considerando il livello delle sue prove in altri generi letterari. Joseph Thomas Sheridan Le Fanu, figlio di un ecclesiastico, il decano Thomas Philip Le Fanu, e della signora Emma Lucretia Dobbin, sarà, com’è noto, l’autore di Carmilla, 1871/1872 (il che rende ovvio ricordarlo su questo sito) e di altri titoli celeberrimi come il mystery-thriller Uncle Silas, 1864, ma anche di una vasta produzione che sarebbe scorretto definire a priori “minore”, e i cui confini non sono a oggi completamente mappati. In particolare testi pubblicati anonimi su riviste: solo in tempi recenti, per esempio, è stato ascritto al canone lefanuiano Spalatro, presentato senza nome d’autore nel 1843 sul ‘Dublin University Magazine’, e dove la presenza di una bella succhiasangue non-morta sembra prefigurare di lontano la più tarda contessina vampira. Un’edizione italiana si imporrebbe.

Tra le ultime fatiche del Nostro che, logoro di ansie e dolori, morirà (sempre a Dublino) solo cinquattottenne per un attacco cardiaco seguito a una brutta bronchite il 7 febbraio 1873, figura l’elegante ricucitura di alcune delle sue storie migliori in un’antologia dal titolo biblico, In a Glass Darkly – a far trascolorare la suggestione paolina su una nostra visione imperfetta della realtà (1 Corinzi 13,12, versione di Re Giacomo: “For now we see through a glass, darkly”) verso dimensioni più sottilmente inquietanti. In a Glass Darkly, edito a Londra nel 1872 da Richard Bentley & Son in tre volumi, raccoglie cinque opere eccellenti, emblematiche delle fantasie dello scrittore: Green Tea, The Familiar, Mr. Justice Harbottle, The Room in the Dragon Volant e appunto Carmilla (una traduzione sequenziale dell’intera raccolta in Italia è recente, Un oscuro scrutare. In a Glass Darkly, curata da Luca Manini e Fabrizio Ferretti per Miraviglia, Reggio Emilia 2011). Per questo carattere di ricapitolazione ideale di tutto un percorso autorale ma in qualche modo anche umano, piace ricordare Le Fanu proprio da tale punto di osservazione: e più precisamente da Green Tea, il racconto lungo che, diciamo così, offre il motore all’intera raccolta.

Le Fanu è tradizionalmente riconosciuto come l’inventore di una figura-tipo dallo straordinario successo postmoderno, fino a Dylan Dog, X-Files e oltre, cioè il detective “dell’occulto” in senso seriale – sia pure attingendo a modelli ben più risalenti, a partire idealmente dal personaggio tardoantico del filosofo-mago Apollonio di Tiana, attraverso tutta una trasformazione narrativa dalla biografia di Filostrato al Lamia di Keats. Per certi versi, come vedremo, l’“eroe” di Le Fanu, “the German Physician” Martin Hesselius, appare anzi provocatoriamente ben più moderno di tanti celebrati epigoni. Psicologo, metafisico e mistico, Hesselius è appunto la figura-cornice dei testi di In a Glass Darkly, presuntamente tratti dal suo enorme archivio attraverso l’ulteriore mediazione di un segretario-curatore: un sistema a più voci che permette all’Autore una presa di distanza dalle vicende narrate e dal modo di raccontarle, immergendole in una fondamentale ambiguità.

Ma oltre che figura-cornice, Hesselius è anche direttamente in azione in Green Tea, unico caso in tutta la raccolta: e in effetti il personaggio nasce con questo testo, 1869, che inizialmente Dickens fa pubblicare nella propria rivista ‘All the Year Round’. Affascinato da quelle che considera evidenti competenze di Le Fanu in campo metafisico, il mattatore della letteratura britannica si premura anzi di metterlo in contatto con l’amica Madame de la Rue, tormentata per anni da presunte insorgenze spettrali. Qualunque aiuto Le Fanu possa fornire alla brava signora, l’episodio – è lecito pensare – può contribuire a suggerirgli la struttura-cornice per la successiva raccolta.

Un ritratto di Hesselius ci è offerto dal prologo dell’amico-curatore, evidentemente inglese, per quasi vent’anni al suo fianco. Come lui medico, ed entusiasta della professione, “errava senza tregua da un luogo all’altro per suo volere, e sebbene non possedesse un patrimonio, nel senso almeno che diamo a questa parola in Inghilterra, era in ogni caso quella che i nostri avi definivano una persona «facoltosa». Quando l’incontrai la prima volta era già vecchio, contando un trentacinque anni più di me. […] Persona dallo sconfinato sapere, era in grado di intuire ogni caso con ineffabile colpo d’occhio. Era l’uomo adatto ad ispirare reverenza ed entusiasmo in un giovane come me, e la mia ammirazione nei suoi confronti ha superato la prova del tempo ed è sopravvissuta al gelido distacco della morte: segno che era ben riposta, senza alcun dubbio” (Joseph Sheridan Le Fanu, Tè verde,trad. di Attilio Brilli nella storica edizione Tè verde. Storie di fantasmi indiscreti, Serra e Riva, Imola 1981). Sulla frase finale il lettore sarà invitato a riflettere.

Una narrazione autografa del dottore sul caso Green Tea è reperita dal devoto curatore “fra un bailamme di appunti sui casi da lui registrati sessantaquattro anni fa, durante un viaggio in Inghilterra”, all’interno della corrispondenza con un tale professor Van Loo di Leida, non medico ma chimico e cultore di metafisica. Un “memorandum attached” riporta poi che tali lettere – redatte in lingue diverse “some in English, some in French, but the greater part in German” – sono state restituite a Hesselius alla morte di Van Loo nel 1819: a richiamare virtualmente una narrazione epistolare che solo l’adattamento del curatore “confeziona” in racconto. Dove l’apparente realismo e la pignola univocità dei singoli dati offerti si confronta con un tessuto narrativo fitto di allusioni, dati impliciti o solo possibili: uno stile che – lo ritroviamo anche in Carmilla – finisce con lo sperdere il lettore in una straniata deriva. Crediamo di saper tutto, e scopriamo via via quanto il testo ci sfugga.

Vediamo dunque cosa riferisce Hesselius: e il racconto della storia – attenzione, contiene spoiler – funge da invito (sommariamente) commentato a una lettura di straordinaria godibilità.

A casa dell’amica Lady Mary Heyduke, il Nostro incontra un certo reverendo Jennings (i nomi, ha avvertito il curatore, sono in parte alterati), e nota il suo “modo inconfondibile di guardare in tralice, come se stesse seguendo con la coda dell’occhio qualcosa lungo la bordatura del tappeto”: un atteggiamento oggetto di attenta disamina da parte del filosofo medico Hesselius, e occasione per una successiva, sintetica esposizione delle sue convinzioni di fondo – quelle, in particolare, circa il rapporto tra realtà naturale e mondo spirituale che essa esprimerebbe e dal quale trarrebbe vita. Complice uno dei più visionari sistemi metafisici della prima età moderna, quello del mistico svedese Emanuel Swedenborg (1688-1772), il gioco di fusioni e confusioni tra le sfere del corpo e dello pneuma provoca tutte le tradizionali categorie della ghost story, sparigliando con abilità oggettive inquietudini e colta ironia.

Ma Hesselius osserva anche che l’interesse è reciproco, e presto i due gentiluomini iniziano a dialogare. Jennings ha letto certi suoi Saggi di medicina metafisica, “i quali alludono a molto più di quanto dicano esplicitamente” (ecco l’allusione, cifra caratteristica della letteratura ermetica, ma qui giocata in un’elegante altalena di suggestione e ambiguità); e per quest’opera scritta in tedesco ma non tradotta in inglese, data alle stampe forse una dozzina d’anni prima ma ormai esaurita presso l’editore (dunque il paradigma del libro sfuggente, richiuso nell’alienità linguistica – la lingua, in particolare, di mistici ed esoteristi – e ormai perduto) il reverendo sembra tradire un interesse personalissimo e imbarazzato. In parallelo però a quanto l’attento osservatore Hesselius (è ancora l’occhio diagnostico dell’antico Apollonio) nota del reverendo, i toni sfumati e urbani di un confronto da salotto ci svelano anche qualcosa sul narratore: il compiacimento un po’ vanitoso sulla propria statura autorale, la sicumera circa il controllo della conversazione, una certa sufficienza o ironico distacco sui sentimenti “ingenui” dell’interlocutore (quando assimila l’imbarazzo di Jennings “a quello che fa arrossire una ragazza conferendole quella cert’aria un po’ amente”). E sulla stessa linea è il compiaciuto, spettacolare saggio di deduzioni che, alla partenza del reverendo e a proposito di lui, Hesselius offre a Lady Mary, già prefigurando le simili prove di un altro grande vanitoso, Sherlock Holmes – persino nell’autoassimilazione scherzosa a uno stregone, che Watson riecheggerà sulla figura dell’amico.

Più avanti il Dottore fa visita al reverendo, e nella biblioteca di lui si imbatte in volumi del venerato Swedenborg stranamente glossati dal proprietario; allora, racconta Hesselius, “messo sull’avviso dal tenore privato” delle annotazioni (che iniziano con “«Deus misereatur mei»”), ne distoglie pudicamente lo sguardo. Se il riserbo ostentato su note tanto personali è ovviamente quello che possiamo aspettarci da un gentiluomo, l’episodio è funzionale a introdurre alcuni stralci del mondo visionario del mistico svedese, fatto di richiami alla vista interiore, agli spiriti maligni e alle loro opere, preparando il terreno alle terribili rivelazioni che Jennings più avanti dispenserà. Ma insieme, ancora una volta, il testo può suggerire qualcosa su Hesselius, che implicitamente rimarca la propria impossibilità di intervenire in assenza di dirette, complete e tempestive confidenze del paziente – una sorta insomma di prima e implicita excusatio dell’illustre Dottore per quel che accadrà poi.

Comunque Hesselius non intende accreditarsi quale freddo analista. Jennings ha accennato in termini vaghi alla propria ipocondria (deprecando il luminare materialista Harley, il cui consulto è stato inutile) e a “crisi” per cui potrebbe, in futuro, dover cercare il soccorso del Nostro: e questi gli promette aiuto e discrezione. “Ci separammo in apparente serenità, ma sereno non lo era affatto ed io nemmeno. Ci sono alcune sfumature espressive di quello straordinario organo dello spirito, il volto umano, che hanno il potere di turbarmi dentro, sebbene ci sia ormai abituato e abbia contratto il severo distacco del medico. Lo sguardo sgomento del signor Jennings mi perseguitava. S’era insinuato nella mia immaginazione come un tossico, tanto che mutai i progetti della serata e preferii recarmi all’opera perché avevo bisogno di un diversivo”. E notiamo l’evocazione quasi subliminale del tema del tossico che tornerà più avanti in questo testo, ma anche in un’altra opera della raccolta, il grande mystery (non sovrannaturalistico) The Room in the Dragon Volant su seppellimenti prematuri e droghe arcane – altro fronte su cui Hesselius risulterà un esperto.

Però soprattutto, erede dell’antico Apollonio, il Dottore psichico si propone come nuovo modello di confessore laico, che offre fiducia e insieme spiazza per le sue peculiarità, disseziona i fatti con esasperata freddezza tecnicista ma ostenta emozioni e turbamenti grandiosi, gigioneggia in prove di bravura e si concede derive bizzarre, ai limiti del grottesco: il frutto di un gotico in via di profondo rinnovamento, in rapporto curioso coi miti della scienza e con le progressive maree degli irrazionalismi magici. Già si prefigurano le bizzarrie caratteriali del Van Helsing stokeriano, e di parecchi detective del sovrannaturale che incontreremo via via in letteratura, cinema, fumetti; ma anche le peculiarità dei loro colleghi “ordinari”, i grandi indagatori del crimine, capaci di attrarre le confidenze dei sofferenti (i clienti / pazienti) con un’affidabilità quasi sovrannaturale, forti della freddezza del raziocinio ma insieme spersi in fisime, hobby strani e pratiche compulsive. E tuttavia Le Fanu, come vedremo, spinge il gioco ben oltre quelle oggi consideriamo convenzioni di genere.

Dopo un apparente miglioramento, le condizioni di Jennings tornano a precipitare, e il reverendo convoca Hesselius nella cornice malinconica della sua casa tra i boschi di Richmond, promettendo una completa confessione dei propri turbamenti. L’arrivo di Hesselius alla “vetusta dimora” prefigura idealmente infiniti altri approdi del medico pneumatico sui luoghi dell’incubo, un topos sull’attesa e la tensione in vista del confronto col male (resta famosa l’immagine poi utilizzata per la locandina di The Exorcist, con la sagoma scura del sacerdote stagliata contro la luce livida dalla casa della possessione). E in effetti Jennings inizia ad aprirsi.

toleware green tea tinQuattro anni prima, libero da preoccupazioni, aveva posto mano a un’opera sulla metafisica religiosa degli antichi, un tema fascinoso ma insieme per nulla “benefico per la mente… la mente cristiana, voglio dire”; e per poter scrivere con impegno, soprattutto a notte fonda, aveva preso l’abitudine di consumare come stimolante forti quantità di tè verde. “Scrissi pagine su pagine, proprio qui, in questa stanza, nel tempio della quiete. Restavo alzato fino a tarda ora contraendo l’abitudine di sorseggiare il mio tè – il tè verde – nel prosieguo del lavoro. Tenevo sullo scrittoio una cuccuma poggiata su un lume da notte e facevo il tè tre o quattro volte fra le undici e le tre del mattino, l’ora in cui andavo a coricarmi”.

Può essere interessante considerare come ciò corrispondesse alle abitudini dello stesso Le Fanu: “Il suo metodo di lavoro era alquanto particolare. Egli usava scrivere soprattutto di notte, a letto, adoperando dei grandi quaderni rilegati. Vi erano sempre due candele sul comodino: una di queste veniva lasciata accesa mentre egli si concedeva un breve sonno. Risvegliatosi verso le due del mattino si preparava del tè molto forte – ne beveva tantissimo – poi scriveva ancora un’ora o due, in quel periodo strano della notte in cui la vitalità umana viene meno e in cui si dice che le potenze occulte abbiano il sopravvento. Non c’è da stupirsi, con il cervello così costantemente attivo, giorno e notte, a creare cose sempre terribili e misteriose, se Le Fanu fu tormentato da sogni orrendi”, attesta il figlio minore dello scrittore, nei ricordi raccolti e pubblicati nel 1916 da S.M. Ellis (trad. Malcolm Skey). Tra questi, per inciso, l’incubo ricorrente negli anni di trovarsi bloccato davanti a un antico palazzo che minacciava di crollargli addosso – qualcosa di cui aveva parlato certamente al medico, se costui, quando lo scrittore si spense nel sonno, si lasciò sfuggire: “Alla fine, la casa è caduta”.

Un giorno il reverendo era andato a consultare i testi di un conoscente, “certi volumi antichi, inconsueti, edizioni tedesche di testi di latino medievale”, messigli “a disposizione […] in una zona fuori di mano, nella City”. Green Tea, abbiamo già visto, è fitto di libri sfuggenti perché rari, destinati a pochi o magari irraggiungibili, ciò che agevola il gioco di oblique allusioni e rimanda a un terreno equivoco che solo il Dottore psichico può affrontare senza rischi; ma insieme risponde a un’oggettiva fascinazione dell’Autore per un certo tipo di ricerche bibliografiche. Ancora il figlio, riguardo allo scrittore nel periodo di Green Tea rammenta: “In quegli ultimi anni della sua vita usciva solo di rado dalla clausura, sempre di sera e col buio, per recarsi negli uffici della sua rivista oppure nella bottega di qualche libraio antiquario alla ricerca di opere sulla demonologia o sui fantasmi”.

Certo, questi racconti su The Invisible Prince – come Le Fanu veniva chiamato negli ultimi anni di volontaria reclusione – tendono a enfatizzare la dimensione pittoresca: sugli scrittori del fantastico c’è tutto un fiorire di storie bizzarre, a volte diffuse proprio dai familiari quasi a cercare di armonizzare l’uomo e le sue fantasie, a dare un senso a ciò che altrimenti apparirebbe gratuito. Come si è tentati di collegare l’orizzonte di angosce di Jennings con quelle che per esempio attanagliarono la vita coniugale di Le Fanu: la vicenda di Susanna, la sua giovane moglie malata di nervi, turbata da crisi di fede – ne parlava col cognato, visto che il marito sembrava aver smesso di frequentare i service religiosi – e morta in circostanze non chiare nell’aprile 1858 il giorno dopo un “hysterical attack”, lasciandogli addosso dolore e sensi di colpa. Resta come al solito, a voler uscire dalle forzature banalizzanti, lo scarto complesso di quella stanza di compensazione che è la vita, per cui autore e opera non si travasano mai reciprocamente in modo meccanico: anche se è legittimo ravvisare in questa raccolta dell’ultima stagione, al di là del libero piacere della scrittura e di un’ironia provocatoria di cui si dirà, una genuina dimensione di conoscenza del disagio psichico e del dolore metafisico. Tanto più che Le Fanu, a dispetto delle stramberie descritte, non era affatto un personaggio sinistro. Quando, un paio di giorni dopo la sua morte, la figlia Emma Lucretia si trovò a scrivere “mi dà conforto pensare che è in Cielo, perché nessuno poteva essere migliore di quel che lui è stato. È vissuto solo per noi, e la sua vita è stata tanto travagliata”, non è un semplice tributo al caro estinto di turno, ma l’effettiva fotografia di un uomo buono, affettuosissimo e capace di lasciare serenità agli altri. Riprendiamo però ad ascoltare Jennings.

È ormai tardi, quando torna a casa con l’omnibus. Ed è lì che accade qualcosa: perché nella vettura ormai vuota il reverendo vede comparire una misteriosa scimmia. Un animale tuttavia che il suo ombrello attraversa “da parte a parte, avanti e indietro, senza incontrare la minima resistenza”: e quando, inorridito, scende dal veicolo cercando di guadagnare la via di casa, la grottesca figura inizia a seguirlo. Nel suo tremebondo cercare di convincersi che si tratta di una semplice e patologica allucinazione, del mero “sintomo di una dispepsia nervosa”, Jennings non può ovviamente rendersi conto di stare varando una nuova era del fantastico. Un’era in cui i fantasmi prendono a comparire in tram (plausibilmente questo è il primo caso registrato); e un’era soprattutto in cui i reverendi, di fronte al Nemico dello spirito, non pensano più all’invasione demoniaca (il diavolo scimmia di Dio di secoli di predicazione) e non sono più attrezzati a farvi fronte con esorcismi – ma tentano solo blande terapie salutiste, si consumano nell’orrore e invocano Dio un po’ in ultima istanza, con una debolezza che sconfina nella poca convinzione. Quella notte, di fronte alla scimmia che lo fissa, Jennings si astiene dal tè verde limitandosi a un brandy allungato con acqua…

Per tutta una prima fase, racconta il reverendo, l’ossessione si era sostanziata nella presenza costante della scimmia a fissarlo, con una sorta di languore maligno; quindi la bestia era scomparsa per qualche tempo per poi tornare, con cocente delusione e orrore del poveretto, come dotata di nuova energia e maggiore irrequietezza. Tra nuove sparizioni della scimmia – assente anche nel momento di quella confessione a Hesselius – e infruttuosi tentativi di cura presso un famoso medico, Jennings tenta di occuparsi del proprio ministero: ma ora l’apparizione prende a ostacolarlo direttamente “in chiesa… sul leggìo… sul pulpito… nel recinto dei comunicandi”, giungendo ad accoccolarsi sulla Bibbia per impedirgli di proseguire la lettura ai fedeli. Dove lo scarto tra l’ossessione descritta e infinite altre dell’agiografia non sta neppure tanto nelle forme di manifestazione, quanto nello spiazzamento epocale della vittima innanzi al fenomeno – alla deriva di ogni categoria nota, fisica o spirituale, del povero reverendo. A un certo punto la bestia comincia anzi a impedirgli di pregare; e in una fase successiva prende a parlargli – “come se […] cantasse dentro nel cervello” – incitandolo a commettere delitti e persino a uccidersi.

Si noti che quest’impazzare dell’Ombra non emerge solo in Green Tea, e anzi connota gran parte della raccolta In a Glass Darkly: un orizzonte livido su cui il dottore psichico repertoria, discetta, fornisce spiegazioni, ma che in realtà fotografa anzitutto un senso di smarrimento. Nei racconti del primo “collezionista” di storie bizzarre creato da Le Fanu, il buon Father Purcell (1838-1840, pubblicati sul ‘Dublin University Magazine’ e raccolti postumi in The Purcell Papers, 1880), anche nei più inquietanti, la chiave era in fondo quella del sovrannaturale “classico”, spettri e demoni del folklore irlandese, le cui regole del gioco sono più o meno note. Al contrario i testi di In a Glass Darkly registrano anzitutto una crisi di comprensione. Gli uomini colpiti sono persone di mondo, magari colte, che hanno ben chiara l’ipotesi dell’allucinazione: materialisti scettici e navigati, religiosi eruditi, persone di volta in volta e quasi indifferentemente benevole o malvagie. A cercare un carattere che accomuni profili tanti diversi, si potrebbe pensare a quella sorta di superficialità che fa sorridere delle antiche paure, senza però coglierne le ragioni profonde, l’Ombra e il Male; alla perdita di categorie “sicure” senza una qualche rielaborazione personale; all’assenza di nomi da dare alle colpe e ai sogni, come di un senso di profondità interiore. In un’altra storia di persecuzioni spettrali della raccolta, The Familiar, la vittima è un ufficiale, il capitano Barton, che a un certo punto chiede aiuto a un “allora famoso predicatore” – l’ennesimo teologo salutista, la cui placida incomprensione delle profondità del male è in fondo solo l’altra faccia della fragilità del collega Jennings. Le pagine del suo dialogo con l’angosciato Barton (di formazione laicista, ma in ultimo pronto a sperare “che per mezzo di qualche altra forza spirituale più potente di quella che mi tortura, quest’ultima possa essere combattuta ed io finalmente liberato”) sono anzi, nel loro gioco di grottesco e amaro, tra le più terribili del racconto. Alle confidenze del sofferente, il teologo non sa recare che qualche osservazione di buon senso, un paio di rimedi come la dieta e il moto, qualche rampogna per l’abbandono agli “impulsi dell’immaginazione” e la generica promessa di preghiere – tanto che “Si separarono con un frettoloso commiato, pervaso di malinconia”, poi il teologo “ritornò nella sua camera, a rimuginare con agio sul singolare colloquio che aveva poco prima interrotto i suoi studi”. Nella critica feroce alla religione di buon senso dei suoi tempi, l’ugonotto Le Fanu sta ricordando qualcosa dei drammi della moglie, delle angosce da lei rovesciate tra i banchi della St. Stephen’s Church vicino a casa, delle ombre stesse che forse non era riuscito a condividere con lei? Non possiamo saperlo, ma l’ipotesi colpisce.

In ogni caso, come a specchio oscuro di questa inadeguatezza del mondo ad aiutare le vittime, riverbera la spudorata disinvoltura degli spettri, la loro incomprensibilità: donde l’orrore indicibile e tutto moderno di Jennings per l’incongruità della persecuzione subita, il rapporto sghembo tra causa ed effetto, il collasso tra dimensioni della realtà (fede, salute, ruolo sociale e ministeriale) e relativi punti fermi. Come ricorda Malcolm Skey parlando della ghost story, “Oltre alle sue elaborazioni di modelli classici e popolari, il contributo più importante di Le Fanu a questo genere così sfuggente è l’aver saputo creare una serie di fenomeni studiatamente ambigui, che affiorano lenti ma inesorabili come grumi venuti su dal nulla nel liquido torbido della psiche, per poi assumere una forma autonoma” (Presentazione a Joseph Sheridan Le Fanu, L’inseguitore, Theoria, Roma-Napoli 1988). E che in altri casi della raccolta vedremo strabordare persino dall’orizzonte psichico dell’interessato, coinvolgendo illusionisticamente le capacità sensorie dei suoi stessi vicini o parenti – fino al caso-limite di Carmilla, il riflesso che si fa carne amante e vampiresca.

Il fatto è che Le Fanu, come nota Guido Almansi (nella Prefazione alla citata edizione di Tè verde), “scrive tutte le sue storie sul filo del rasoio fra la buona e la mala fede, in quanto è troppo furbo per credere agli esseri soprannaturali, troppo intelligente per non credervi […]. Gli spiriti evocati da Le Fanu vengono da un «oltre» che possiamo continuare a chiamare «oltretomba» per ignavia o per incompetenza nomenclatoria. […] Le sue storie sono incredibili solo per colui che rifiuta di credere sia nel trascendente della legge che nell’immanente della coscienza: furono quindi incredibili per i miopi positivisti ottocenteschi, contemporanei di Sheridan Le Fanu, che relegarono i suoi racconti nella sottospecie del gotico (in cui poi si ritrovano in ottima compagnia con il Dottor Jekyll e Mr Hyde di Robert Louis Stevenson). Le storie di questo volume non sono paurose perché fantastiche bensì paurose perché vere: con la forza della verità di un caso clinico di Freud, a cui tendono a rassomigliare. […] La scimmia, il demone familiare, il revenant […]  non vengono da lontano ma da uno specchio: sono incarnazioni del doppelgänger, riflessi del nostro essere, voci della nostra coscienza, proiezioni della nostra angoscia, immagini duplicate del nostro volto inquietante. […] Il solo nemico è la nostra anima mortale: non la coscienza, che potrebbe offrire una possibilità di riscatto; ma la coscienza della propria incoscienza (ovvero la coscienza della propria assenza di coscienza). La scimmietta, il demone familiare, il giudice onirico abitano un vuoto d’aria nell’intimo dei protagonisti. / In altre parole questi fantasmi appariscenti hanno l’incerto statuto, fra presenza ed assenza, dei servi defunti del Giro di Vite di Henry James. Ma questa parziale rinuncia all’obbligo pesante dell’esistere non sottrae niente alla loro prepotente e persuasiva veridicità. Forse non esistono, ma sono bravissimi nel fingere di esistere, nel mimare lo spettacolo della loro vitalità”. Ciò che ancora in età postfreudiana rende questa collezione di doppi e spettrali persecutori sul crinale ambiguo tra psiche e oltretomba foriera di genuine inquietudini per i lettori – e insieme delle delizie di una rara eleganza narrativa.

Jennings si confessa a fatica con Hesselius, che tenta di calmarlo; e anzi, davanti al resoconto angosciato su una certa passeggiata di poche settimane prima, quando solo la presenza di una nipote aveva frenato il reverendo dal tuffarsi in un precipizio, lo conforta suggerendogli di ravvisare nell’episodio la prova della benevolenza di Dio. Ma è ancora e sempre una religiosità di buone parole, e il richiamo vertiginoso dell’abisso rimane.

Edward Ardizzone 1929Poi Hesselius si congeda, con la promessa di investigare sul caso e di far sapere qualcosa l’indomani, e la richiesta di avvisarlo prontamente alla ricomparsa della scimmia. Si attarda però a meditare in una locanda, dove stila (osserva il curatore, in un inciso) “una nota minuziosa, nella quale […] esprime le proprie opinioni sul caso, sui comportamenti a cui si associa, oltre a prescrivere una dieta e le medicine specifiche. È una nota strana… qualcuno potrebbe definirla mistica. Sia come sia, dubito che possa interessare quel genere di lettori per i quali scrivo, per cui ometto di riportarla”. Rimandando all’ennesimo testo irraggiungibile (la nota di Hesselius), l’inciso prepara con un’opportuna dilazione all’impatto del finale, spiegando il ritardo con cui il Dottore torna al proprio appartamento e in fondo il precipitare della vicenda. Un ritardo curioso, e in qualche modo imbarazzante: Hesselius, raccolti uno scrittoio portatile e gli effetti personali, si è fatto condurre a due miglia dalla città, all’amena locanda «Alle due corna», “un posticino tranquillo e beato, dalle mura solide e spesse. In questo sito di pace, al riparo da ogni fastidio” ha deciso di dedicare le ore notturne e del mattino successivo a meditare sul caso. Un po’ di pagine prima il Dottore ostentava turbamento per i vaghi cenni del povero Jennings sul proprio male: pare strano che ora, al corrente di un quadro ben più dettagliato e drammatico, e dopo aver chiesto espressamente di essere avvisato sul ritorno della scimmia, prenda la faccenda con tanta calma. Sdilinquendosi sull’idilliaca oasi di pace per le proprie colte meditazioni, e senza fornire all’ammalato un recapito per l’emergenza. Rientra a casa, bontà sua, solo verso l’una del giorno dopo – trovando (ovviamente) un’angosciata missiva di Jennings. La scimmia è tornata e sa tutto, e sta scaricando la propria rabbia sul reverendo: il domestico di lui, sgomento per non aver trovato Hesselius e non sapere dove reperirlo, ha anzi avuto ordine di non tornare senza una risposta.

Affrettatosi a quel punto a Richmond, Hesselius giunge però troppo tardi: Jennings l’ha fatta finita, tagliandosi la gola con un rasoio. Dove Le Fanu consacra la novità dei fantasmi “moderni” che appaiono in tram e sparigliano le categorie corpo/anima con una prima, raggelante sorpresa al lettore: in scena è un tipo di demone che l’uomo di Dio non solo non comprende ma non riesce a cacciare, restando travolto dalla tentazione fino a commettere il peccato per antonomasia (così, vittorianamente, nella simbolica lefanuiana), il suicidio. Una sorta insomma di negativo fotografico del topos classico della tentazione di sant’Antonio (uno dei classici plot, rammentiamolo, di un proto-horror che ha nutrito l’arte per secoli prima che il genere horror apparisse in quanto tale): qualcosa che per la particolarissima dialettica tra aggressore e vittima già contrassegna Green Tea come un punto di svolta, e la raccolta In a Glass Darkly che di lì idealmente si dipana come una delle opere-chiave del fantastico moderno.

Da quella casa, Hesselius si allontana “cupo e irrequieto” – e ora Le Fanu, implacabile, gioca la seconda sorpresa. L’esperto sdottrina per un po’ di “di un processo di avvelenamento, d’un tossico che eccita l’azione reciproca dello spirito e dei nervi, e che conduce alla paralisi il tessuto che separa queste funzioni gemelle dei sensi, quella esteriore e quella interiore”. Poi rammenta sussiegoso di aver curato con successo “cinquantasette casi di questo genere di visionarietà che definisco indifferentemente «sublimata», «precoce» o «interiore»” – più il caso (apprendiamo) dello stesso destinatario Van Loo. “Non esiste malanno di cui soffre l’umana fralezza che non possa essere risolto più agevolmente, e con maggior sicurezza, da una piccola dose di pazienza e da un’assennata fiducia nel medico. A queste condizioni elementari, garantisco una guarigione completa” ha la bontà di garantirci. Per continuare soave: “D’altra parte non dimenticate che non avevo neppure iniziato a prendere in cura il signor Jennings. E non mi sfiora nemmeno il dubbio che avrei potuto guarirlo in diciotto mesi, o in un paio d’anni al massimo. Ci sono infatti dei casi che si risolvono in breve tempo, altri assai più tenaci. Ma ogni medico degno di questo nome, che affronti un simile caso con senno e assiduità, otterrà l’effetto sperato. / Voi conoscete di già il mio trattato attorno alle Funzioni basilari del cervello. Adducendo un’ampia casistica, credo di dimostrare”… E lasciamolo diffondersi in chiarimenti tecnici sulla possibilità di suturare l’occhio interiore – che nel caso di Jennings sarebbe stato inconsapevolmente socchiuso proprio per l’abuso di tè verde, permettendo la percezione degli “spiriti incorporei”. (Incuriosisce tra l’altro che oggetto dell’abuso sia proprio il tipo di tè, quello verde, meglio apprezzabile dall’organismo – ma forse, anche in questo, Le Fanu gioca sull’ambiguità delle ricostruzioni.)

Puntiamo piuttosto allo spudorato finale: “Il povero signor Jennings volle farla finita. Ma tale catastrofe fu l’esito di tutt’altro morbo che, per così dire, si sovrappose alla malattia di cui era già sofferente. Il suo caso era una specifica complicazione e ciò che lo portò al tracollo fu la mania suicida che aveva ereditato. Mi è impossibile considerare il povero signor Jennings un mio paziente, visto che non avevo neppure cominciato a prendere in cura il suo caso e che lui dopotutto non aveva ancora riposta in me, ne sono sicuro, la sua piena, incondizionata fiducia. Ma quando il paziente non si fa partigiano della sua stessa malattia, la guarigione è indubitabile”. Insomma, un vero virtuoso dell’autogiustificazione.

Come nota Skey, “L’unico caso in cui [Hesselius] interviene direttamente e «in tempo reale» […] si rivela un vergognoso fallimento, che l’insigne scienziato poi liquida frettolosamente con alcuni riferimenti compiaciuti ai successi ottenuti in circostanze analoghe. / A più critici è venuto il sospetto che il medico tedesco sia infallibile soltanto per autodefinizione. In fondo, è un erudito, e basta. È innamorato delle classificazioni, della tassonomia dei fenomeni, e delle statistiche della propria discutibile bravura: i casi analoghi a quello descritto nel racconto L’inseguitore sono «circa duecentotrenta», quelli simili alla tragedia del reverendo Jennings, ben cinquantasette, e così via”. A Le Fanu insomma non basta aver sovvertito la dinamica dell’aggressione spettrale: da un lato per fronteggiarla inventa un esorcista “laico”, “moderno”, che tenta nuove sintesi a categorie messe alla prova dal travaglio di un’epoca; ma dall’altro ne mina impietosamente la credibilità. Certo attingendo ancora al modello-Apollonio (quello di Keats, che salva così bene il discepolo dalle insidie di Lamia che il giovane muore subito dopo), ma in realtà ricostruendolo in termini liberissimi, con una sorta di sberleffo in buona letteratura. Tutta l’impalcatura di serietà dottrinale affettata dal segretario/curatore (devoto quanto bovinamente acritico) si sperde insomma nel limbo dell’inaffidabilità.

In effetti, se non rivedremo Hesselius in azione, ci verranno forniti ulteriori particolari sulla sua attività e la strabordante produzione scritta. La forma è sempre quella di più livelli-cornice, con la voce del curatore che presenta i testi, alcune annotazioni del dottore e il racconto-testimonianza di personaggi che il curatore non ha conosciuto – una struttura, come detto, che da un lato accentua la verosimiglianza della narrazione e dall’altra evoca una progressiva deriva verso l’incontrollabilità. Mentre il contenuto riguarda in genere storie di doppelgänger, precipitati psichici inesorabili che faticheremmo a immaginare esorcizzati dall’Hesselius di turno “con la semplice applicazione di eau-de-cologne diacciata” (come avvenuto col paziente Van Loo).

Per esempio, Mr. Justice Harbottle (già apparso sulla rivista ‘Belgravia’ nel 1872 come The Haunted House in Westminster) è la fosca storia della nemesi piombata su tale cattivissimo magistrato: dove la condanna onirica da parte di un Giudice Capo Twofold (letteralmente “Doppione”, e in effetti “immagine ingigantita di lui stesso, l’immagine del giudice Harbottle grande almeno il doppio”), davanti a una corte sinistramente pneumatica, spurga spettri avvertibili – in apparenza – anche da testimoni esterni. Dunque nel prologo il curatore cita un ennesimo, “straordinario saggio” di Hesselius (Il senso interiore e le condizioni in cui si esplica, particolarmente il volume I, sezione 317, nota Z, con rimandi al II, sezioni 17-49); e deve destreggiarsi tra due diverse versioni della medesima vicenda, quasi a riecheggiare ironicamente (i doppi, ancora) il rapporto tra questo testo e una sua precedente novella, An Account of Some Strange Disturbances in Aungier Street, 1853, nell’ambito di una sofisticata dialettica di riscritture e varianti dei medesimi temi.

Nel già citato The Familiar (a sua volta riscrittura di un testo precedente, The Watcher, 1851), il povero capitano Barton è vittima del precipitato spettrale di un defunto marinaio – una sorta di grottesca versione stavolta ridotta dell’originale, ma dall’apparenza concreta come altri spettri della stessa raccolta. A tentare di proteggerlo interviene anche un doppione del generale Spielsdorf di Carmilla, il generale Montague padre della promessa sposa di Barton – ancora una volta un anziano e pragmatico militare, e ancora una volta con scarsa efficacia. D’altra parte, nel Prologo a questa vicenda, il curatore parla di “circa duecentotrenta casi più o meno simili a quello che ho narrato in Tè verde”, cita una nota di Hesselius che rimanda ai propri saggi manoscritti “A. 17” e “A. 19”, e accredita il racconto di un reverendo amico dei protagonisti – scrupolosissimo ma “incompleto dal punto di vista medico”, donde per il Dottore l’impossibilità di pronunciarsi “con sicurezza”.

Carattere spettrale e di doppelgänger hanno, com’è noto, i vampiri di Carmilla, cioè l’ultimo testo della raccolta; mentre un’interessante e inattesa variazione di registro giunge col romanzo breve che immediatamente lo precede, The Room in the Dragon Volant – che, radicalmente reinventando certe fantasie paleogotiche sul sovrannaturale fasullo, si svela come detto una storia poliziesca. Ancora una volta il richiamo a Hesselius è nel Prologo, in cui scopriamo che ha composto anche un saggio Mortis Imago, “un eccellente trattato dedicato alle droghe che erano in uso nel Medio Evo […] una dissertazione singolare, ricca di citazioni da versi e prose del Medio Evo, alcune delle quali, tra le più preziose, provengono stranamente dal lontano Egitto” – e opera destinata a occupare, secondo il devoto curatore, “il nono e il decimo volume” dell’intera raccolta degli scritti di Hesselius. Dove il continuo richiamo alla profondità della dottrina del dottore e alla sua (indubbia) versatilità non riesce ormai a dissipare una certa diffidenza da parte nostra.

È vero d’altronde che i dottori psichici successivi a Hesselius – Van Helsing compreso – muoveranno da un fronte diverso, cioè dal successo della letteratura poliziesca in “casi”, finendo col costituirne semplicemente l’espansione verso lidi ulteriori e più imbarazzanti: in altre parole, il loro stile deriva più direttamente da Sherlock Holmes che non da Hesselius. Forse non casualmente, e nonostante il fiorire di film su Carmilla, il metafisico tedesco di Le Fanu non troverà risonanza cinematografica; e anche in narrativa ben pochi avranno la fantasia (o l’ardire) di richiamarlo in scena.Tra le eccezioni, il curioso romanzo francese Le Cauchemar mandchou: Tribulations infernales du Docteur Martin Hesselius di Gérard Dôle, 2005 – dove le lettere di Hesselius al dotto compatriota Justinus Kerner spunterebbero nientemeno che dagli archivi di Vidocq, il famoso capo della Sûreté di Parigi; e l’allegro The Darker Passions: Carmilla di Amarantha Knight alias Nancy Kilpatrick, 1997, in cui il ritrovamento delle memorie della narratrice di Carmilla da parte di Hesselius spalanca una pirotecnia hardcore coinvolgente l’intera pattuglia del capolavoro lefanuiano.

Ma, a citare ancora Skey, “È davvero un caso che il primo psychic doctor, con la sua immensa erudizione, sia un bluff? È un caso che l’unica vicenda in cui interviene sia un clamoroso fallimento, e che la vittima sia un sacerdote? […] No, Le Fanu non vuole che il lettore gli sfugga. Non vuole che le sue «vittime» trovino conforto in comode sicurezze, che si tratti della scienza, dell’occultismo, o della fede religiosa. Vuole che ci rimanga sempre un dubbio. Anche a costo di creare, nella penombra della sua clausura swedenborghiana, un «mago» che non funziona. Dopo tutto, non era una vittima anche lui?”.

Di più: quella partita tra un autore malizioso e il suo lettore finisce con l’aprire a un gioco più ampio. Fantasmi che spiazzano nel paradosso ogni categoria tra naturale e sovrannaturale, esperti all’indecidibile confine tra vertigini di dottrina e bluff: la cifra è quell’ambiguità che connota – già è emerso in altre puntate di questo itinerario – il fantastico nella sua accezione più propria, laica e moderna. Un imbarazzo che schiude alle domande riaprendole di continuo, a livelli diversi: una provocatoria macchina per pensare che dalla letteratura ci conduce con Hesselius, in modo più diretto di quanto i denigratori del fantastico potranno mai capire, sui viottoli della nostra vita.

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