George Pal – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Tra futuro semplice e futuro anteriore (Victoriana 34) https://www.carmillaonline.com/2022/01/22/tra-futuro-semplice-e-futuro-anteriore-victoriana-34/ Sat, 22 Jan 2022 21:38:47 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=70227 di Franco Pezzini

Rimane, ancora, la vecchia domanda:

“Chi è Robur? Si saprà un giorno?”

In realtà lo sappiamo fin d’ora. Robur

è la scienza futura, forse quella di

domani. La sicura riserva dell’avvenire.

Jules Verne, Robur il Conquistatore

 

 

La nostra generazione di figli degli anni Sessanta è stata forse l’ultima a vedersi proporre come letture dell’infanzia/adolescenza l’alternativa di due modelli “polari” di storie avventurose: Salgari o Verne. Forse meno opposti di quanto venisse percepito, visto che sempre [...]]]> di Franco Pezzini

Rimane, ancora, la vecchia domanda:

“Chi è Robur? Si saprà un giorno?”

In realtà lo sappiamo fin d’ora. Robur

è la scienza futura, forse quella di

domani. La sicura riserva dell’avvenire.

Jules Verne, Robur il Conquistatore

 

 

La nostra generazione di figli degli anni Sessanta è stata forse l’ultima a vedersi proporre come letture dell’infanzia/adolescenza l’alternativa di due modelli “polari” di storie avventurose: Salgari o Verne. Forse meno opposti di quanto venisse percepito, visto che sempre di avventura si trattava e, al di là di alcune fondamentali differenze ideologiche e tematiche, entrambi narravano di eroi, pericoli, amori, viaggi su sfondi esotici con gli occhi dell’Occidente (a dirla con Conrad) tali da far sognare. Ma di fatto, a seconda delle famiglie e dei relativi gusti, arrivava in biblioteca uno o l’altro dei due titani (più raramente entrambi), modellando le fantasie e magari i giochi: e non so quanto, a influenzare la scelta per Verne, influisse il boom e l’odor di futuro di quegli anni entusiasti. Del resto, nonostante stereotipi diffusi, il Verne anticipatorio – sottomarini, macchine volanti, razzi… – resta materia di relativamente pochi titoli, laddove rileva piuttosto il tema di viaggi straordinari come epica per ragazzi.

Di fatto, tra i due autori, a casa nostra approdava Verne, complice anche il successo di film come il notissimo Ventimila leghe sotto i mari (20,000 Leagues Under the Sea) di Richard Fleischer, prodotto dalla Walt Disney, 1954, con James Mason, Kirk Douglas e Peter Lorre, visto al cinemino parrocchiale, assieme a mia sorella – al tempo piccola – atterrita dalla megapiovra. Ma poi anche il meraviglioso Il giro del mondo in 80 giorni (Around the World in 80 Days) di Michael Anderson, 1956, con David Niven e un’intera parata di divi in incredibili camei, riproposto indefinitamente in televisione; l’ancora godibilissimo Viaggio al centro della Terra (Journey to the Center of the Earth) di Henry Levin, 1959, con James Mason, più lucertole e iguane truccate da dinosauri; L’isola misteriosa (Mysterious Island) di Cy Endfield, 1961, con Herbert Lom, recuperato una sera al mare; Cinque settimane in pallone (Five Weeks in a Balloon) di Irwin Allen, 1962, con Cedric Hardwicke, Richard Haydn, Peter Lorre ed Henry Daniell, offerto alla tv dei ragazzi. E solo più tardi – li ho amati meno, ma la qualità era alta – gli sceneggiati Michele Strogoff, 1975 e Mathias Sandorf, 1979, entrambi di Jean-Pierre Decourt.

D’altra parte Verne offre tra le sue pieghe infiniti riferimenti immaginali: e su uno avrei – e con me chissà quanti altri figli degli anni Sessanta – sognato a lungo. In più romanzi, da Ventimila leghe sotto i mari a L’eterno Adamo, Verne porta in scena un tema classico dell’immaginario sui paradossi del tempo, passati remotissimi e impennate di civiltà inattesa: e cioè quell’Atlantide che negli anni Sessanta sarà un tema cavalcatissimo dall’archeologia misteriosa alla Kolosimo. A quel tempo, del resto, fiorisce la clipeologia, ovvero: dove i dischi volanti della guerra fredda incontrano il mondo antico. Ma per me ancora una volta sarà un film a introdurre al tema, cioè il visionario e divertentissimo Atlantide, il continente perduto (Atlantis, the Lost Continent) di George Pal, 1961, presentato alla tv dei ragazzi dal giornalista Mino Damato assieme a un’altra delizia di effetti speciali d’antan, Atragon (海底軍艦 Kaitei gunkan, lett. “La nave da guerra sottomarina”) di Ishirō Honda, 1963. Nella pellicola giapponese – grondante di vago nazionalismo, ma in realtà ancor oggi godibile – a minacciare il mondo moderno riemerge dagli abissi sottomarini l’impero di Mu di un altro continente perduto, reso noto da James Churchward (1851-1936) attraverso inaffidabili volumi che negli anni Settanta circoleranno trionfalmente anche in Italia. Mentre il film di Pal mixava su uno sfondo da peplum esperimenti da isola del dottor Moreau, costruzione di macchine distruttive di inarrivabile potenza e un po’ di amore (che mai guasta). Giorgio De Santillana stava al tempo meditando sul suo seminale Hamlet’s Mill (con Hertha von Dechend, uscirà in America nel 1969, e solo nel 1983 in Italia per Adelphi), che avrebbe offerto una chiave di ben altro spessore a tante speculazioni della fantarcheologia e al suo rapporto col tempo.

George Pal, all’anagrafe György Pál Marczincsak, era un tecnico degli effetti speciali ungherese (per quanto naturalizzato statunitense), anzi uno dei padri di questo tipo di novità per lo schermo: e il suo film, con l’immagine estremamente suggestiva del continente che s’inabissa, risente della sua formazione. Ma sempre da oltre Cortina – e anzi restandoci – emerge un altro nome eccellente, di peso specifico particolare per noi ragazzini d’epoca. Sempre in zona-Verne, di programmazione televisiva non frequentissima ma neppure troppo rara, erano infatti gli incredibili cartoni animati di Karel Zeman, dove attori garbati e ironici muovono surrealmente all’interno di incisioni ottocentesche, con un occhio di riguardo a meraviglie tecnologiche d’epoca. Qualcuno è ispirato all’autore francese, come La diabolica invenzione (Vynález zkázy, 1958), I ragazzi del capitano Nemo (Ukradená vzducholoď, 1966) e, in alcune scene e scelte di suggestioni, pellicole dal soggetto apparentemente distante, per esempio Il barone di Munchausen (Baron Prášil, 1962) con specifiche citazioni da Dalla Terra alla Luna. Scopro oggi attraverso il web che La diabolica invenzione – un gioiello di fantasia e ironia, va visto assolutamente – è ispirato a un testo minore di Verne, Face au drapeau, 1896, che determinò persino una causa per diffamazione: a intentarla, l’inventore della melinite (un potente sostitutivo della polvere nera, 1885, adottato dal governo francese nel 1887), il chimico Eugène Turpin (1848-1927), che vi si era sentito ritratto nel personaggio di Thomas Roch. Roch figura nel romanzo come inventore del Fulgurator, arma terrificante di distruzione di massa, impazzito a seguito dello scarso interesse riscontrato nelle grandi potenze. Forse Turpin aveva un po’ la coda di paglia: a parte la pubblicazione di un opuscolo antigovernativo, fu accusato di aver venduto il frutto del suo ingegno all’Impero tedesco, venne condannato e imprigionato a Étampes, e infine graziato il 10 aprile 1893 a seguito di una campagna di opinione pubblica: tre anni dopo uscì il romanzo di Verne. Lo scrittore e il suo editore Louis-Jules Hetzel vennero patrocinati con successo da un personaggio al tempo ancora avvocato, Raymond Poincaré, che in seguito diverrà presidente della repubblica, ma oggi sappiamo dalla corrispondenza di Verne che il modello ispiratore era in effetti proprio Turpin. Il romanzo appartiene comunque alla fase più pessimista e misantropica della produzione verniana, lontana dai toni solari e lievi degli anni sereni (prima del 1886): a emergere è il tema, avvertito con inquietudine dall’autore, delle armi terribili che tanto triste tributo pretenderanno in effetti nel secolo seguente. Per l’ultimo Verne (scrive Michel Butor), “la scienza rappresenta un pericolo demoniaco”: e Face au drapeau resta un testo meno conosciuto, a dispetto del densissimo tessuto di spunti peculiarmente verniani lì assiepati, quasi un precipitato dei motivi sparsi in tutto il resto della sua opera.

E proprio questo Verne più nero e meno noto mi incuriosiva da ragazzo. Di Face au drapeau ignoravo l’esistenza, ma gli Oscar Mondadori offrivano una serie di titoli a cura di Giansiro Ferrata e Mario Spagnol, con raccolte di tavole ottocentesche e coronati dalle superbe copertine di Karel Thole (un illustratore dalla statura di geniale artista che ha davvero influito con potenza sull’immaginario di un’epoca): e soprattutto tre romanzi avevano fatto breccia nella mia fantasia.

Anzitutto – e restiamo alle diaboliche invenzioni – I cinquecento milioni della Bégum (Les 500 millions de la Bégum), 1879: la storia di una favolosa eredità spartita tra due uomini di scienza per realizzare parallele città ideali. Un Le due città ricalibrato ai tempi nuovi, ai sogni urbanistici di un’epoca (la modernizzazione di Parigi sotto il prefetto Haussmann, 1852-1869), ai postumi della guerra franco-prussiana (1870-1871) e al rafforzarsi dei nazionalismi paralleli. Il filantropo francese dottor François Sarrasin edifica in Oregon la pacifica e utopica France-Ville, mentre il mad doctor tedesco Herr Schultze, militarista, razzista e industriale bellico, fonda, in una “falsa Svizzera” americana a sud dell’Oregon, Stahlstadt, la “città dell’acciaio”: un “labirinto attorno a un cannone” (come la chiama Butor) in cui il mondo industriale rivela tutto il suo lato gotico. Dopo un surreale tentativo di bombardamento di France-Ville da parte del pessimo Schultze (il supercannone spedisce innocuamente in orbita il superproiettile, un obice capace di congelare e asfissiare contemporaneamente tutti gli esseri viventi in un raggio di trenta metri), il mad doctor protetto dai due titani tedeschi Arminius e Sigimer verrà trovato stecchito per l’esplosione di una delle sue funestissime armi: nessun eroe lo affronta in mortale duello, a farlo fuori provvede provvidenzialmente il suo stesso arsenale. La scena del ritrovamento del suo corpo e mummificato “a cento gradi sotto lo zero” nel laboratorio segreto, una sorta di Führerbunker, offre al lettore un vago brivido di raccapriccio e insieme un fiato di sollievo. Il romanzo prende e affascina, ma soprattutto intrigano le due città coi misteri e i sogni celati tra le loro pieghe: in qualche modo giocattoli come quelle bocce di Natale che scuoti e cade la neve, ma insieme teatro di modi diversi e serissimi di concepire la comunità umana. Leggendo oggi Verne cogliamo una serie di retaggi spiacevoli di un certo tipo di formazione occidentale, come il razzismo nella presentazione di alcuni stereotipi etnici; ma cogliamo anche grandezze e ironia, e una preoccupazione genuina per la direzione presa dalla Storia.

Se Herr Schultze è un personaggio francamente spiacevole, ben diversa statura ha un altro eroe nero minaccioso, imparentato col capitano Nemo e con il conte di Artigas di Face au drapeau: cioè il protagonista eponimo del romanzo Robur il conquistatore (Robur le Conquérant), 1886, l’anno insomma della svolta pessimista di Verne, tra lutti (l’amico editore Pierre-Jules Hetzel, morto il 17 marzo a Montecarlo; l’anno dopo si spegnerà sua madre Sophie Verne), beghe familiari, e l’attentato (9 marzo) da parte del nipote malato di mente che lo ferisce alla gamba e lo lascerà zoppicante per il resto della vita – non potrà neanche andare al funerale della madre. Eppure Robur non è un antieroe crepuscolare: vitalistico, beffardo, un titano che prende in ostaggio i due esponenti principali del Weldon Institute di Philadelphia – Zio Prudenza che ne è il presidente, e il suo avversario interno nonché segretario dell’Istituto, Phil Evans, due ricconi col pallino del volo – trascinandoli nei cieli del pianeta sul suo avveniristico Albatros. Mentre al Weldon gli iscritti sono fanatici del volo aerostatico, quello di mezzi più leggeri dell’aria a cui il romanzo dedica una parte divulgativa molto interessante e dettagliata, e stanno anzi dibattendo su dove piazzare l’elica al gigantesco dirigibile Go ahead, l’incredibile Albatros è orgogliosamente più pesante dell’aria: viene ipotizzato abbia propulsione elettrica, tramite energia tratta dall’atmosfera, ma Verne abilmente non ne offre conferma. Alla fine Robur sparisce e per un po’ non ne abbiamo notizie…

Fino a quando cioè non esce il sequel, molto più cupo, Padrone del mondo (Maître du Monde), 1904: un Robur ormai alla deriva del suo delirio di onnipotenza ha inventato un mezzo mobile, l’Épouvante, capace di muoversi su terra, nell’acqua e anche nell’aria, seminando il panico… Sulle sue tracce si pone stavolta un poliziotto, il narrante John Strock, e alla fine l’apparente scomparsa di Robur tradito dalla propria hybris nello sfidare un uragano sul Golfo del Messico lascia il dubbio se possa essersi salvato. In questo Robur di seconda stagione si è vista un’incarnazione del totalitarismo, quasi a prefigurare i tiranni mostruosi del cinema espressionista che presto arriverà: un’incarnazione strepitosa che capitalizza le trame dei due romanzi la offrirà comunque Vincent Price in Master of the World di William Witney (1961, produzione AIP) fronteggiato da Charles Bronson come Strock per i buoni uffici dello sceneggiatore Richard Matheson.

Quando Verne scrive questi tre romanzi, la formula da lui adattata è – a usare un termine più tardo – quella della fantascienza; ma se la guardiamo dal nostro punto di osservazione, possiamo utilizzare una diversa denominazione di genere. La collocazione narrativa in un contesto ottocentesco, frequentemente vittoriano o più o meno coevo, di tecnologie anacronistiche spesso basate sul vapore (steam) – dunque idealmente un arco di tempo vastissimo dalla Reggenza alla Belle Époque – ha condotto come noto a fine anni ottanta al varo del termine steampunk: una variante scherzosa di cyberpunk dove al posto dell’elettronica troviamo la meccanica, da cui a cascata infinite altre per ambientazioni diverse che presentino a calco analoghe caratteristiche. Dalle modulazioni del concetto steampunk a ricalco di generi narrativi come per esempio steampunk western (si pensi solo a Wild Wild West su set al vapore in effetti ottocenteschi) o steamfantasy (aka steampunk fantasy, con congrua vaghezza atemporale: cfr. anche elfpunk per Harry Potter & Co., mythpunk…) si passa così a fattispecie parallele in chiave retrofuturistica. Affidiamo il tema alla forza evocativa dell’elenco: per cui ecco lo stonepunk della rivoluzione neolitica, il bronzepunk sull’età del Bronzo (Dedalo e affini: vogliamo parlare del Talos di Harryhausen o dell’Atlantide di Pal?), l’ironpunk sull’età del Ferro, il sandalpunk o piuttosto Ptolemypunk sul mondo antico greco-romano o specificamente ellenistico (scienza e tecnica alessandrina, con prodigi come quelli progettati da Erone), il candlepunk medioevaleggiante, il clockpunk sul Rinascimento, il rococopunk sull’età di cui in definizione, il Voltapunk sull’epoca di galvanisti e prodigi voltaici tra fine Settecento e inizio secolo successivo (l’età di Frankenstein, in fondo), il Decopunk o coalpunk di ambientazione art Deco negli USA tra i Venti e i Cinquanta, il dieselpunk dalla fine della Seconda guerra mondiale agli anni Cinquanta, l’atompunk o transistorpunk 1945-69, lo steelpunk di fine XX secolo, il nowpunk coniato da Bruce Sterling… e tanti altri potrebbero essere inventati.

Certo, nella percezione corrente può non essere così chiara la distinzione tra il futuro del passato effettivo – la protofantascienza o fantascienza arcaica, in sostanza il futuro come concretamente prefigurato da Verne & soci nelle loro opere – e il futuro del passato virtuale, cioè lo steampunk propriamente detto, frutto di una fantasia a posteriori su tecniche che noi attribuiamo a personaggi di età precedente. Ma in effetti il recupero transmediale (per esempio a fumetti o cinematografico, si pensi solo a The League of Extraordinary Gentlemen di Alan Moore e Kevin O’Neill nel suo avvio vittoriano) può rendere un tema della protofantascienza – per dire, il Nautilus di Nemo – adeguato soggetto per reinvenzioni steampunk. E sull’onda di questo tipo di trasposizione/slittamento proprio il vecchio Zeman, dal profondo della sua Cecoslovacchia oltre il Muro – quel Muro che però riusciva a valicare con la forza della sua ironia e una poesia insuscettibile di censure persino dei più ottusi burocrati – mi pare il testimone forse più emblematico a monte di quel gioco col passato e col futuro che oggi tutti conoscono come steampunk. Un genere – o sottogenere, fate voi – non a caso influenzato potentemente da Verne e dalle sue riscritture filmiche (peso particolare viene riconosciuto per esempio alla citata trasposizione fleischeriana di Ventimila leghe sotto i mari) e che oggi muove un’intera sottocultura, tra fumetti, giochi (di ruolo o videogiochi), musica, abbigliamento, oltre ovviamente a narrativa e cinema.

Oggi lo steampunk conosce una ventata di fortuna: e in fondo non è strano. La contemporanea crisi della fantascienza, in Italia e forse non solo, si innesta in un fenomeno più ampio e più inquietante, la crisi (potremmo dire) del tempo verbale futuro nell’immaginario e nella lingua delle giovani generazioni, cioè della categoria futuro. Parlare di futuro, oggi, è non solo estremamente complesso ma, in radice, una sfida controcorrente: in genere, nella comunicazione istituzionale pubblica o anche privata, per futuro si ammannisce solo un presente asfittico e prolungato. Come la vita vampiresca di certi finanzieri o politici – che possono rinviare sine die la pensione ai comuni mortali, per i quali il concetto di lavoro (che a grandi numeri non nobilita l’uomo ma è stigma di una caduta o almeno di tanta fatica) è totalmente diverso da quello vagheggiato da una classe privilegiata tra poltroncine e cattedre dove ascoltarsi parlare. In genere il linguaggio politico ed economico parla di futuro per garantire in realtà solo un angusto ed egoistico presente: un futuro farlocco, di fiato cortissimo e dal contenuto sostanzialmente fittizio. Un presente virtualmente eterno, che assorbe cannibalisticamente il futuro e – ovviamente – dimentica il passato: persino la tensione a superarlo guarda solo a un altro presente, come in loop.

Rispetto all’ottimismo degli anni Sessanta, quando ai bambini si sgranava la domanda classica “Cosa vuoi fare da grande?” e tutto si enfatizzava nell’estasi di un futuro raggiungibile solo a tendere un braccio – ed ecco Verne, o meglio una certa idea di Verne – e che d’altronde sembrava fiorire nel presente attraverso un nuovo benessere, le promesse del boom, le macchine da Pronipoti Hanna-Barbera, è cambiato il mondo. Fin nelle strutture narrative: dal sognare lo sbarco sulla Luna a postulare che quell’evento – simbolicamente ed emotivamente immenso, per noi che possiamo ricordarlo – non ci sia mai stato. Oggi il futuro fatica a essere concepito, trovato interessante o addirittura espresso. È come se conoscesse una eclissi la forma verbale futuro semplice: come se dalla tabella delle coniugazioni dei tempi quella categoria di espressione prospettica fosse sparita.

Che tutto ciò impatti sulla capacità di sperare delle giovani generazioni, infettandole di sfiducia e tatticismo individualistico è appena ovvio. Lo stesso odierno fiorire nell’editoria per ragazzi di romanzi distopici (in larga parte fantasy travestiti, i tempi di Verne e Salgari sono lontani anni luce) non vede affatto un discorso sul futuro, ma sul presente e le sue crisi, classicamente dell’adolescenza.

E lo steampunk? Se la fantascienza, grammaticalmente parlando, guarda al futuro semplice, lo steampunk mira al futuro anteriore, “come sarebbe stato il passato se il futuro fosse arrivato prima” (voce Steampunk, su urbandictionary.com) o piuttosto come sarebbe apparso il futuro in un passato diverso. I cosplayer abbigliati in abiti steampunk recepiscono questa dimensione malinconica? O la cogliamo solo noi, memori di un’epoca diversa e destinati a sparire come dinosauri in un tempo breve? Sulla nostra capacità di concepire in termini giustamente critici e avvertiti una categoria futuro – che non si consumi nella cifra apocalittica di un’estinzione di massa, ipotesi su cui pure sarebbe saggio riflettere – si gioca molto più di quanto al momento ogni agenda politica preveda.

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Nemico (e) immaginario. Il nemico allo schermo: nemici dell’America, nemici dell’umanità https://www.carmillaonline.com/2016/08/09/nemico-immaginario-nemico-allo-schermo-nemici-dellamerica-nemici-dellumanita/ Tue, 09 Aug 2016 21:30:28 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=29805 di Gioacchino Toni

cloverfield_021Dopo aver analizzato, attraverso la metafora dello zombie, le pulsioni autodistruttive dell’essere umano contemporaneo incapace di sognare un mondo migliore [su Carmilla], indagare più in generale la figura del nemico portata sugli schermi dal cinema di fantascienza americano contribuisce a ricostruire l’immaginario diffuso statunitense a proposito di ciò che, di volta in volta, viene percepita come minaccia da cui difendersi e da eliminare. Se da un lato la figura del nemico veicolata dal cinema fantascientifico viene costruita sulla percezione diffusa di ciò che è ritenuto [...]]]> di Gioacchino Toni

cloverfield_021Dopo aver analizzato, attraverso la metafora dello zombie, le pulsioni autodistruttive dell’essere umano contemporaneo incapace di sognare un mondo migliore [su Carmilla], indagare più in generale la figura del nemico portata sugli schermi dal cinema di fantascienza americano contribuisce a ricostruire l’immaginario diffuso statunitense a proposito di ciò che, di volta in volta, viene percepita come minaccia da cui difendersi e da eliminare. Se da un lato la figura del nemico veicolata dal cinema fantascientifico viene costruita sulla percezione diffusa di ciò che è ritenuto essere il nemico in un determinato momento storico, dall’altro tale rappresentazione contribuisce a rafforzare alcuni aspetti stereotipati dell’immaginario del periodo. Se spesso si tratta di confermare e rafforzare convincimenti in linea con l’establishment, in altri casi il cinema non manca di svolgere una funzione critica anche radicale.

Sono diversi i nemici individuati ed affrontati nel corso del tempo dall’America e, direttamente od indirettamente, dal suo cinema fantascientifico. Per sommi capi, a partire dal Secondo conflitto mondiale, si possono elencare: il Giappone con il suo attacco improvviso a Pearl Harbor; la Germania nazista con le sue mire espansionistiche; l’Unione Sovietica ed in generale la diffusione del comunismo; il Medioriente forte delle sue risorse petrolifere desiderate e considerate immeritate dall’Occidente. Vista la potenza di fuoco di cui il cinema a stelle e strisce dispone, la figura del nemico da esso messa in scena coincide con il nemico dell’intera umanità. Nonostante, in un modo o nell’altro, i nemici dell’America tendano ad essere presentati come i nemici dell’umanità, non mancano pellicole di science fiction in cui il nemico è lo stesso establishment statunitense con i suoi eterni vizi imperialisti e guerrafondai.

Al fine di approfondire tali questioni, risulta utile far riferimento al libro di Roberto Giacomelli, Nemici dell’America, nemici dell’umanità. Il “nemico” nel cinema fantascientifico americano (Sovera Edizioni, 2014). Il volume attraversa la storia del cinema di fantascienza americano alla ricerca delle modalità con cui viene presentata la figura del nemico. Certo, non ci si può attendere un’analisi esaustiva di un genere che ha prodotto centinaia di pellicole, soprattutto se si vogliono esaminare anche le opere di minor qualità. La scelta dei film operata da Giacomelli è inevitabilmente parziale ma si tratta di una buona base di partenza su cui riflettere e, volendo, l’analisi proposta dallo studioso può essere integrata da opere non citate e/o se ne possono togliere alcune che appaiono ai limiti del genere o, ancora, nulla vieta di riassemblare i film trattati secondo logiche differenti.

La prima tappa del viaggio di Giacomelli all’interno della cinematografia fantascientifica statunitense parte dagli anni ’40, quando gli schermi risultano popolati da figure di mad doctor, in linea con i timori esercitati dal progresso scientifico applicato all’ambito bellico che richia di finire nelle mani di folli megalomani. Il cinema di fantascienza, sostiene l’autore, non è riuscito a trarre grande ispirazione dal nemico giapponese, nonostante il suo rappresentare un antagonista infido che attacca di sorpresa ed alle spalle. Piuttosto, il riferimento al Giappone, nell’abito fantascientifico, si è concentrato sul tragico epilogo del conflitto bellico rappresentato della bomba atomica americana, con i suoi nefasti effetti che, oltre al massacro immediato, si proiettano sull’ambiente e sulle generazioni a venire. Il filone dei monster movie degli anni ’50 si sviluppa proprio a partire dai disastri provocati dagli esperimenti nucleari, tanto che nello stesso Giappone vengono prodotti diversi film ruotanti attorno alla figura del mostro derivato dalle mutazioni innescate dalla catastrofe atomica di Hiroshima e Nagasaki e dagli esperimenti nucleari nel Pacifico. A tal proposito non si può che citare il nipponico Godzilla (Gojira, Ishiro Honda, 1954).

Negli anni ’40 il cinema americano preferisce concentrarsi sul nemico nazista seppure, si argomenta nel saggio, in maniera indiretta. Secondo l’autore, «è possibile riscontrare un’influenza tra la fanta-scienza del Terzo Reich e la fantascienza cinematografica» (p. 26). Non è pertanto difficile cogliere il parallelismo tra la figura dello scienziato pazzo, incline ad utilizzare gli sviluppi scientifici per folli progetti personali, ed i gerarchi e medici nazisti, quando non lo stesso Führer, con i loro progetti eugenetici.

Dr_Cyclope_and_HimmlerNel saggio vengono portati tre esempi su tutti di opere degli anni ’40 in cui compaiono figure di mad doctor. Il primo, Mostro Pazzo (The Mad Monster, Sam Newfield, 1942), narra la storia di uno scienziato che, al fine di rafforzare le truppe americane nella loro guerra contro il Terzo Reich, finisce col progettare un’armata di soldati licantropi. Il film pare voler mettere in guardia gli Stati Uniti dai rischi che si corrono nell’accentrare troppo potere nelle mani di un singolo che può rivelarsi un pazzo. Il secondo film, Il Dottor Cyclops (Dr. Cyclops, Ernest B. Schoedsack – Merian C. Cooper, 1940), è un’opera in cui uno studioso, non a caso di origine nord europea e palesemente somigliante ad Heinrich Himmler, decide di miniaturizzare coloro che intralciano i suoi esperimenti, suggerendo così allo spettatore l’idea del malvagio che costruisce un regno di terrore in cui gli altri esseri umani vengono sovrastati, miniaturizzati, appunto. Nel terzo caso, La donna e il mostro (The Lady and the Monster, George Sherman, 1944), si racconta di uno scienziato che riesce a mantenere in vita il cervello degli esseri umani anche dopo la morte e di come tale esperimento finisca con lo sfuggirgli di mano visto che il cervello mantenuto in vita risulta in grado di controllare la volontà altrui. In queste tre pellicole il nemico è da ricercarsi nelle mire megalomani di qualche scienziato pazzo ma non si manca di denunciare la responsabilità di chi consente che ciò accada: la Nazione deve impedire che un singolo sia messo in condizione di determinare la rovina del Paese se non dell’umanità intera.

Terminatala la Seconda guerra mondiale si entra presto nella Guerra Fredda ed il nemico cambia dentro e fuori lo schermo. Il Blocco sovietico sostituisce il Terzo Reich ed al regime hitleriano succede il pericolo comunista. Il filone cinematografico fantascientifico non può che trarre feconda ispirazione dalla corsa allo spazio che vede l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti contendersi il cielo e, soprattutto, attraverso esso, il primato in ambito scientifico, tecnologico e militare. In un simile clima che mette a contatto l’essere umano con lo spazio, la science fiction, attraverso centinaia di romanzi e film, non può che far riferimento ad invasioni aliene e conflitti stellari. «Il nemico assume sembianze polimorfiche, si insinua nella mente, prende il controllo delle sue vittime, è invisibile, subdolo e letale. È alieno e spesso marziano, rosso come il pianeta da cui proviene e come il paese in cui vivono i russi, comunista. Il nemico può nascondersi ovunque, assumere le sembianze dell’americano modello, arrivare perfino ai vertici politici. E così la concretizzazione della paranoia dilagante è presto in atto» (p. 33).

Soprattutto a partire dai primi anni ’50, con il diffondersi del maccartismo, non solo il vero nemico dell’America è il comunista ma questo può essere chiunque. Dunque, sostiene Giacomelli, «dagli anni ’50 agli anni ’70 […] il nemico aveva una valenza ben specifica ma allo stesso tempo non possedeva una fisionomia autentica. Chiunque poteva essere il nemico e il cinema di fantascienza lo intuì ammantando gli alieni invasori che popolavano i cinema degli anni ’50 di chiare connotazioni metaforiche che richiamavano le paure dell’epoca» (pp. 33-34).
Gli alieni, proprio come i comunisti, mirano a colonizzare il pianeta mimetizzandosi con i comuni esseri umani. Il film simbolo di tale filone di alieni alla conquista della terra è indicato dal saggio in L’invasione degli ultracorpi (Invasion of the Body Snatchers, Don Siegel, 1956). In realtà il regista e lo sceneggiatore affermano di non aver mai pensato a metafore politiche che vedessero le forze aliene identificabili con i comunisti ma resta il fatto che il film, contestualizzato all’interno della Guerra Fredda, non può che esser letto dal pubblico americano degli anni ’50 in tal modo.
Nel film A prova di errore (Fail-Safe, Sidney Lumet, 1964), rifatto per la tv nel 2000 da Stephen Frears, tratto dall’omonimo romanzo di Eugene Burdick ed Harvey Wheeler, si fa riferimento a come il malfunzionamento tecnologico determini la catastrofe nucleare. Chiaramente, suggerisce Giacomelli, il film riesce a risultare coinvolgente anche grazie al clima che si è venuto a creare con la Crisi dei missili di Cuba del 1962. Anche nel celebre lungometraggio Il dottor Stranamore (Dr. Strangelove: How I Learned to Stop Worrying and love the Bomb, Stanley Kubrick, 1964) si fa riferimento all’avvio della catastrofe nucleare. In questo caso la causa non è imputabile ad un errore tecnologico ma alla follia militare supportata da un consigliere ex scienziato nazista che sogna la ripopolazione del pianeta, dopo il disastro, ad opera di una razza superiore. Attraverso il registro della commedia grottesca, il film di Kubrick, tratto dal romanzo del 1958 Allarme Rosso (Red Alert) di Peter Geroge, mostra che «il nemico è come una serpe che l’America ha covato in seno per diverso tempo» (p. 37). E questa serpe è parte integrante dell’establishment.

giacomelli_nemici_americaA proposito di film statunitensi che, rifacendosi alla corsa allo spazio delle due superpotenze, si concentrano sulla possibilità di invasioni aliene o sui pericoli provenienti da quello spazio che l’uomo intende conquistare, Giacomelli si sofferma su Uomini sulla Luna (Destination Moon, George Pal, 1950) e RXM – Destinazione Luna (Rocketship XM, Kurt Neumann, 1950). Nel primo film viene mostrata la frenesia delle superpotenze intente a giocare d’anticipo sulla rivale e come la scelta di affrettare i tempi da parte americana, determini una serie di problemi risolti soltanto grazie ad un patriottico happy end. Nel secondo lungometraggio alcuni astronauti americani, finiti per errore su Marte, hanno modo di vedere gli esiti di una guerra atomica che ha sconvolto gli abitanti del lontano pianeta e, sul finale del film, l’umanità viene esplicitamente messa in guardia circa gli esiti nefasti di un conflitto nucleare. Anche Conto alla rovescia (Countdown, Robert Altman, 1967) mostra come la fretta di anticipare gli avversari porti gli americani a mettere piede sulla luna il più presto possibile. A metà anni ’70 la competizione tra USA ed URSS nella corsa allo spazio termina con una missione in cui i due paesi collaborano. Anticipando i tempi La cortina di bambù – Il mistero di Saturno (The Bamboo Saucer, Frank Telford, 1968) narra di una collaborazione spaziale tra russi ed americani contro la Cina. Non sfugge come il comune nemico cinese proiettato nello spazio dagli schermi cinematografici coincida con l’epoca della Rivoluzione culturale di Mao.

Affinché termini la Guerra Fredda nella realtà occorre attendere la finire degli anni ’80, nel frattempo, ricorda Giacomelli, la fantascienza americana produce film che non mancano di palesare nuove e vecchie paure. Ad esempio, Capricorn One (id., Peter Hyams, 1978) è un film che narra di un finto sbarco americano su Marte traendo linfa dal diffondersi negli anni ’70 di teorie cospirazioniste che manifestano dubbi anche a proposito dell’autenticità dello sbarco sulla luna di Apollo 11. Dopotutto non è passato molto tempo dallo svelamento delle menzogne relative al Watergate ed alla guerra del Vietnam. Il nemico tende, dunque, ad essere identificato nel Governo stesso e nelle agenzie che cospirano alle spalle dei cittadini. Il saggio cita anche The Day After – Il giorno dopo (The Day After, Nicholas Meyer, 1983) come esempio di film che continua a narrare del confronto militare-nucleare tra le due superpotenze. Invece, in Essi Vivono (They Live, John Carpenter, 1988) la pura deriva dalla possibilità di controllare la volontà altrui ed in questo caso la minaccia, suggerisce l’autore, anziché comunista appare essere borghese e capitalista.

Chiusa la parentesi della Guerra Fredda, il nuovo nemico, dentro e fuori dagli schermi, diventa il mondo mediorientale: un antagonista che palesa una cultura, una religione ed usanze difficilmente conciliabili con l’Occidente. Ovviamente la contrapposizione dell’America con il nemico mediorientale inizia ben da prima dell’abbattimento delle Twin Towers, comunque la Prima Guerra del Golfo si ha ad inizio anni ’90 ed un decennio dopo è la volta della Seconda e, «come accaduto nei precedenti conflitti che hanno delineato la fisionomia del nemico statunitense, è l’intero Occidente ad entrare in prima persona nella questione. Il terrorista diventa l’incubo post 2000 per eccellenza […] Bin Laden è il moderno ba-bau, immortale raffigurazione del terrore capace di spazzare via i simboli del potere occidentale, ossessione di una nazione» (p. 43). Il nemico è il mediorientale, non importa di quale nazionalità, egli rappresenta una minaccia senza volto, un nemico pronto ad immolarsi senza preavviso, un po’ come i vecchi kamikaze giapponesi.

In RoboCop (id., José Padilha, 2014), reboot realizzato dal regista brasiliano del film degli anni ’80 di Paul Verhoeven, «l’intento di attualizzazione della vicenda che da un immaginario futuristico di fine anni ’80 avrebbe dovuto legarsi a quello post 2000, tende a identificare immediatamente il mediorientale come minaccia per gli Stati Uniti, da combattere e soprattutto da prevenire. […] Il film di Padilha si muove poi su altri terreni che interessano, oltre al conflitto politico interno, anche le questioni di carattere etico sull’utilizzo della tecnologia applicata alla medicina, ma [l’incipit] già riesce ad inquadrare efficacemente la preoccupazione tutta americana verso un estraneo imprevedibile e l’azione diretta per sabotarlo e prevenire la minaccia che in passato ha colpito il cuore degli Stati Uniti» (pp. 44-45).

Cloverfield (id., Matt Reeves, 2008), film che riprende le modalità del mockumentary, è indicato dallo studioso come apologo sulle paure americane post 11 settembre: «Cloverfiled è proprio il manifesto più esplicito di un malessere comune tra i cittadini di New York (e on solo), che sotto all’aspetto del film di genere nasconde il più efficace e spaventoso specchio della tragedia avvenuta e sempre pronta a ripetersi» (pp. 46-47). Nel film il mostro che semina distruzione nelle strade di New York è ripreso dal “cineocchio” di un ragazzo qualsiasi che si ritrova casualmente a documentare gli avvenimenti. «Una sorta di temerarietà da testimone (audio)visivo che nell’epoca di You Tube e dei videofonini si inocula nel più impensabile individuo, spinto dalla voglia di documentare, di poter dire ad amici ed estranei “io c’ero” […] nel post 11 settembre Cloverfield utilizza a suo vantaggio la paura per gli attentati terroristici e ne ricrea il caratteristico clima di terrore trasfigurandolo in una nuova creatura che si va ad aggiungere al nutrito bestiario di mostri di fantascienza che da oltre mezzo secolo spaventa e diverte il pubblico» (p. 47)

Se la paura per il gesto terroristico, per l’azione improvvisa del nemico, accomuna diverse produzioni di science fiction catastrofica contemporanea, nel saggio si ricorda come non siano mancati cenni ad attentati terroristici nemmeno nel cinema di fantascienza del passato, come, ad esempio, avviene nel film La guerra dei mondi (War of the Worlds, Steven Spielberg, 2005), attualizzazione di inizio millennio del romanzo di H.G. Wells del 1898. L’invasione aliena ai danni dell’umanità narrata dal romanzo ben si presta ad attualizzazioni: «il marziano è il diverso con intenti ostili, colui che proviene dall’altra parte del confine e invade il nostro territorio con potenza distruttiva. Ogni epoca ha la sua guerra e ogni guerra ha, secondo il punto di vista, un nemico ostile e guerrafondaio» (p. 47). Giacomelli ricorda come il romanzo di Wells abbia dato «profetica forma al nemico giapponese nel celebre sceneggiato radio curato da Orson Welles nel 1938 ed è stato adattato con efficacia nel 1953 nella riduzione cinematografica di Byron Haskin… Nel film di Haskin il nemico venuto da Marte poteva essere letto come la metafora del nemico comunista […] e infatti si inseriva nel momento clou della Guerra Fredda» (pp. 47-48). Se nel film di Haskin dei primi anni ’50, in fin dei conti, sembra essere la fede cristiana a «veicolare l’abbattimento delle navette spaziali aliene», nel film di Spilberg del 2005 sembra , piuttosto, essere la fede nella famiglia a determinare la sconfitta aliena.

Invasion_body_Snatchers_1956Anche il già citato L’invasione degli ultracorpi (1956), tratto dal romanzo di Jack Finney, viene indicato dal libro come opera-simbolo della “paranoia da Guerra Fredda”. Il romanzo di Finney è fonte d’ispirazione anche per Terrore dallo spazio profondo (Invasion of the Body Snatchers, Philip Kaufman, 1978) che, secondo Giacomelli, rappresenta la versione più pessimistica tra le opere cinematografiche ispirate all’opera narrativa. Nei primi anni ’90 i pericolosi baccelli alieni tornano nel film Ultracorpi – L’invasione continua (Body Snatchers, Abel Ferrara, 1993) ed, in questo caso, non è difficile scorgere l’eco della Guerra del Golfo. Nel film di Ferrara l’invasione nemica prende avvio proprio in una base militare americana, il male si propaga a partire da quel mondo militare che dovrebbe difendere il Paese dagli attacchi nemici. I militari «sono i primi a cadere sotto il fuoco omologante dei parassiti vegetali di provenienza extraterrestre, che trovano nel mondo militare un ambiente molto fertile ai loro intenti di massificazione. La mente militare, infatti, detta la disciplina e la disgregazione dell’ego di fronte ai dettami di chi è gerarchicamente superiore, un’ideologia che svuota le coscienze così come gli invasori alieni fanno con le vittime umane, creando così un parallelismo che sembra minare in special modo i sistemi di difesa dell’uomo, rendendolo inerte di fronte all’attacco nemico» (p. 49). Tutto ciò ci induce a prendere atto che, in realtà, il nemico siamo noi.

Nella serie televisiva Invasion (ideata da Shaun Cassidy, 2005-2006), all’interno di uno scenario di provincia semi-rurale scosso dai grandi uragani che hanno sconvolto gli Stati Uniti, si torna a trattare la clonazione e l’assenza di emozioni delle copie che sostituiscono gli esseri umani. In questo caso viene narrata una società in cui non ci si può più fidare di nessuno e in cui non ci si riconosce più nemmeno all’interno della famiglia. Nel film Invasion (The Invasion, Oliver Hirschbiegel, 2007), ennesima produzione cinematografica che si rifà al romanzo di Finney, si torna ad ambientazioni metropolitane che, secondo Giacomelli, evidenziano un parallelismo tra il loro presentarsi lugubri e l’assenza di emotività che contraddistingue i replicanti alieni. In questo caso «sono gli stessi corpi umani a trasformarsi in armi per il nemico, come se l’uomo fosse già predisposto al cambiamento, all’invasione. […] Il male è già sedimentato nell’essere umano, ha bisogno solo di una spinta esterna che possa farlo emergere e Invasion ci lascia il dubbio che il cambiamento in atto non sia proprio un male, ma semplicemente una ulteriore fase del processo evolutivo e adattativo dell’essere umano» (p. 51).

battle-los-angelesIn alcuni film gli extraterrestri-invasori rimandano esplicitamente al nemico mediorientale ed a tal proposito il saggio si sofferma su Skyline (id., Colin Strause, Greg Strause, 2010), che sin dal titolo rinvia all’attacco al WTC, e World Invasion (Battle: Los Angeles, Jonathan Liebesman, 2011), ove i marines si trovano a combattere strada per strada «contro una minaccia aliena che mira all’estinzione dell’umanità, anzi dell’americanità, vista l’enfasi patriottica che la vicenda tende a sollevare soprattutto con l’esaltazione della figura del soldato a stelle e strisce» (p. 51). In Dead Air (id., Corbin Bernsen, 2009) il virus letale che deve distruggere l’America è propagato da un gruppo di terroristi esplicitamente mediorientali. In questo caso, suggerisce il saggio, il film, nel far ricorso a tutti gli stereotipi relativi al terrorista arabo, scadendo nel becero razzismo, ha almeno il merito di esplicitare la xenofobia dilagante dell’America di Bush Jr. Il film riprende la tematica del contagio ed in questo caso si tratta di un virus diffuso nell’aria dai terroristi mediorientali che provoca comportamenti aggressivi ed antropofagi. Nonostante il piano criminale non si attui totalmente, il Paese, una volta che si è messo in moto il contagio, pare ormai destinato a dover continuare a fare i conti con rabbiosi, distruttivi e dinamici morti viventi. «Per l’opinione pubblica le azioni terroristiche provenienti dal Medio Oriente sono la paura reale di inizio secolo, aggressori che distruggono le certezze e la quotidianità di ogni individuo, di ogni onesto lavoratore colpito a morte nelle sua stessa abitazione o sul luogo di lavoro […] Si tratta di nemici degli Stati Uniti e, di riflesso, dell’intero Occidente» (pp. 53-54).

Giacomelli, dopo aver passato in rassegna le modalità con cui il cinema fantascientifico ha dato immagine ai nemici dell’America, si concentra sulle figure dell’Umano e dell’Alieno così come vengono presentate dalla science fiction statunitense. Entrambe le figure vengono analizzate come figure di nemico: l’essere umano come minaccia per se stesso e per il pianeta, come artefice del male, causa e conseguenza dei disastri e l’Alieno come figura su cui proiettare, quasi sempre, le caratteristiche peggiori dell’umanità stessa. Nel nostro prossimo scritto ci soffermeremo su tali aspetti analizzati dall’autore nella seconda parte del saggio.

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