Genoa – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Riportando tutto a casa https://www.carmillaonline.com/2017/11/30/riportando-tutto-a-casa/ Thu, 30 Nov 2017 22:02:27 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=41928 di Filippo Casaccia 

Simone Pieranni, Genova macaia, Laterza 2017, pp. 148, € 14

Noi genovesi siamo diversi. Ci sentiamo diversi e viviamo questa diversità esibendola con un orgoglio che spesso è solo il modo per nascondere la dolce tristezza che ci contraddistingue. Abbiamo spesso un carattere ispido, burbero, mugugnone, con cui poi si raggiungerà un’intesa, ma che al primo approccio vi tiene a distanza, con diffidenza, prendendo le misure. E di come siamo, di come ci comportiamo, ce ne rendiamo conto solo quando a Genova, finalmente, facciamo ritorno e guardiamo la nostra città con [...]]]> di Filippo Casaccia 

Simone Pieranni, Genova macaia, Laterza 2017, pp. 148, € 14

Noi genovesi siamo diversi.
Ci sentiamo diversi e viviamo questa diversità esibendola con un orgoglio che spesso è solo il modo per nascondere la dolce tristezza che ci contraddistingue. Abbiamo spesso un carattere ispido, burbero, mugugnone, con cui poi si raggiungerà un’intesa, ma che al primo approccio vi tiene a distanza, con diffidenza, prendendo le misure.
E di come siamo, di come ci comportiamo, ce ne rendiamo conto solo quando a Genova, finalmente, facciamo ritorno e guardiamo la nostra città con uno sguardo un po’ da foresto, come si dice da noi, apprezzando di nuovo quella dolcezza di vivere per cui l’inverno è sempre un po’ più clemente di quello che vivi a Milano e l’estate sempre un po’ più fresca.
Bene: se non avete avuto la fortuna di nascere anche voi in questa Superba da sempre coacervo di contraddizioni e di armonia tra anime diverse e che vive di passato e poco di futuro, a farvi capire quella malinconia sottile, quella somma di risentimenti e alterigia che è Genova e l’essere genovese e di come la città e la natura di chi la abita siano inseparabili, contribuisce questo nuovo libro di Simone Pieranni, ancora una volta – come nel precedente 72 – con un racconto in forma di autofiction, senza che importi quanto narrato della vita dell’autore sia vero o verosimile o forse solo immaginato.
Vi chiedo di perdonarmi se mi scapperà dell’autobiografismo non richiesto ma nel magnifico libro di Pieranni mi sono ritrovato perfettamente. E mi è successo pur partendo da presupposti sociali e geografici diversi. Io cresciuto nella Albaro borghese e distaccata di Levante, lui – di poco più giovane –, nella periferica Bolzaneto più laboriosa, già lontana dal mare, a Ponente.
Nel percorso che abbiamo fatto tutte e due da punti eccentrici ed opposti della città verso il suo cuore, alla sua scoperta – durante l’adolescenza e ai tempi dell’università –, c’è lo stesso stupore. E c’è un identico sentimento provato nella lontananza da quel nome che è luoghi familiari, affetti, amicizie, profumi, sapori e anche sofferenza, tanta. Perché – e questo spettro aleggia su di noi come su tutta la nostra generazione – Genova è la città del G8, di un mondo diverso solo sognato, di una repressione violenta mai sanzionata. Genova è diventata un simbolo, un modo di dire, “quelli che erano a Genova”, i fatti di Genova, i processi di Genova.
Una ferita che non si richiude e il cui dolore nasconde tutto il resto.
Quello che avvenne in qui giorni del 2001 ha anche scippato l’autore del nome del suo preciso luogo di nascita. Bolzaneto non è più una delle tante realtà periferiche inglobate dalla città, no: ormai è solo la caserma di Bolzaneto, quella di fianco alla quale lui giocava da bambino.
Ed è per risarcire la città, per dare dignità ai nomi che hanno una storia per fortuna diversa, Pieranni – che di quei giorni infami è stato testimone e poi ne ha seguito come cronista la storia giudiziaria – intraprende una serie di percorsi attraverso una realtà fisica che è una sfida podistica: discese e salite ripidissime tra acqua e monti, raccontando la natura verticale oltre che orizzontale di una città che è srotolata sul mare e chiusa alle spalle dall’Appennino, ma che vive nelle vallate anguste che in questi rilievi si fanno strada, passando da un sole caldo a un’ombra gelida. Genova è una città di funicolari, ascensori, ponti su altri palazzi, portoni di casa all’ultimo piano in alto e giardini bui al piano terra, stretti tra muri di contenimento altissimi. È affacci, sbocchi, strettoie, vicoli ciechi, svincoli micidiali – come cantava De Gregori – e uscite autostradali che sono le porte d’ingresso a questi tragitti di conoscenza. E ognuna di queste bocche che ti ingoiano nel corpo della metropoli ha una sua peculiarità.
Genova Ovest ti catapulta già nel centro, salutandoti con la Lanterna, e subito ti immette in quel serpentone di asfalto che è la Sopraelevata, così cara a noi e così invisa ai turisti che non capiscono quale tuffo al cuore sia tornare a casa e avere a disposizione una camera-car fenomenale, con tutta la città ai tuoi piedi, con la modernità accanto ai palazzi del 1000, il cemento a fianco della pietra, dei mattoni, del marmo.
Genova Est invece sfiora, per aria, un acquedotto storico e ti fa costeggiare il cimitero di Staglieno, il carcere e lo stadio di Marassi, il torrente Bisagno che tutti conoscono per le troppe esondazioni, la stazione Brignole e infine la Foce e il mare. E di nuovo le memorie del G8 in corso Italia.
Ma c’è anche Genova Nervi, un’uscita autostradale che significa evasione, mare, spiagge – spiagge come lo sono quelle di Genova e dintorni: scogli lepegosi e sassi, ma lì, a due passi da casa, evocate da quelle facce marroni, sempre abbronzate che hanno i genovesi che mettono il naso al sole appena possono (e possono molto spesso).
La città, il centro, sono poi attraversati da un reticolo di tragitti individuali, di incroci, di sorprese, perdendosi e ritrovandosi: ed ecco allora il Cantinone, i centri sociali, le facoltà, le panetterie, la comunità di San Benedetto al Porto, la poesia di Caproni fatta realtà e quella in musica e parole di Ivano Fossati e tanti altri ancora.
Io, futuro architetto, scoprii veramente il cuore della mia città nel 1994, facendo una ricerca sociologica per la facoltà di Economia.
Vengo da Albaro – uno dei quartieri alti, come li chiama Pieranni – e ho vissuto in una condizione astorica, protetta, vicino a Boccadasse, col lungomare davanti, le domeniche delle vasche dei genovesi con la radiolina attaccata all’orecchio per seguire i risultati del Genoa e di quegli altri.
Quel lavoro mi permise di capire che, quelli che erano fondali per noi studenti privilegiati, erano in realtà voragini profonde: entravo negli appartamenti che si affacciavano sui caruggi, vedevo come si viveva tra quei muri antichi, spesso fatiscenti, e constatavo la dignitosa vitalità imprenditoriale di quella immigrazione che ancora non era comodo dipingere come pericolosa. E al contempo testimoniavo la sparizione, spesso per semplice consunzione, della Genova antica, non più al passo coi tempi.
Ovviamente per Pieranni è interessante la commistione delle vite di questa città e come si sono consolidate nella pietra, nei luoghi. E per condurci per mano in questo viaggio racconta anche le vicissitudini dei suoi familiari.
La Genova di Ponente del dopoguerra rivive attraverso la figura della nonna paterna: la città dell’acciaio, dell’Italsider – una presenza ingombrante, venefica, che significava fatica, sacrificio, la polvere di ferro nei vestiti, sui davanzali, nell’aria; e anche riscatto sociale e orgoglio operaio. E la nonna è anche testimone della Resistenza, della Liberazione e della Genova migliore: quella dei fatti del 1960 e delle magliette a strisce, quando la città si oppose al ritorno in città dell’ex prefetto Basile e al congresso del Movimento Sociale Italiano al teatro Margherita (teatro che ritorna nella narrazione, quasi per essere riabilitato, per un concerto di De André che vidi anch’io). E da quel rifiuto si misero in moto una serie di avvenimenti che poi portarono alla caduta del governo Tambroni. Quella volta la piazza aveva vinto.
Grazie alla voce di uno zio un po’ legera, che scappa più volte e più volte ritorna e stringe amicizie che ben esemplificano la trama sentimentale di questo autentico porto di mare, c’è anche la storia millenaria della città, ripresa attraverso la sua passione per quel 1200 che la vide diventare una potenza mai militare ma commerciale e finanziaria, una ricchezza che diventerà una maledizione quando qualcuno non rimetterà i suoi debiti, condannandola la Repubblica al declino.
E poi il Ghedda, amico dello zio, curioso animale metropolitano dalla vita romanzesca che vive la giungla del centro storico trovandosi in mezzo ad affari e malaffari, forte di un’ascendenza nobile e poi calato in quell’intrico che era la città vecchia prima degli anni più recenti, più insipidi, incattiviti dall’eroina e dalla gentrificazione.
Ma in tutto questo andirivieni della memoria non c’è mai il compiacimento per la Genova balorda e delinquente o per il passato glorioso, secondo certa facile retorica. No, Pieranni osserva e riflette, con la sua curiosità, volendo svelare gli aspetti che al visitatore casuale sfuggono, specialmente oggi, con la città apparentemente ripulita, pacificata.
L’ultima testimonianza è quella più intima: la figura del padre a cui l’autore si rivolge sempre. È il racconto della ricerca di un contatto, di una comprensione, di un abbraccio ostacolato da due nature troppo diverse, tra un genitore distaccato e un figlio irrequieto ma riservato, arrabbiato col mondo e pronto a scappare nel posto più lontano dal mare che esista, nel cuore dell’Asia centrale, sul limite del deserto del Takla Makan, in Cina, a Urumchi.
Manca il versante materno, citato solo una volta quasi di sfuggita, con pudore, in occasione del ritorno poco distante dalla metropoli, a Recco. Forse è una mia interpretazione ma questo ricongiungimento è una sorta di riconciliazione con la natura materna (e matrigna) della città, come se la separazione avesse portato a una conoscenza possibile solo grazie alla distanza.
Genova macaia è una prova dalla scrittura fine e ricchissima, con un equilibrio prezioso tra saggio e narrativa: una guida per l’anima e anche per il turista che ragiona col cuore e coi piedi.

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Viviana Correddu: Il Gallo siamo noi https://www.carmillaonline.com/2016/02/25/viviana-correddu-il-gallo-siamo-noi/ Thu, 25 Feb 2016 21:06:20 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=28736 di Dziga Cacace

front_redViviana Correddu, Il Gallo siamo noi, Chiarelettere, Milano 2015, 180 pagine, € 13

Era stato difficile spiegarlo agli amici che avevano alcune preclusioni ideologiche: dopo il mio primo incontro con Don Andrea Gallo, ero rimasto folgorato. Gli avevo fatto – oltre dieci anni fa – due interviste televisive: lui paziente, disponibile, seducente, arguto nella sintesi e decisamente simpatico. Ma erano stati l’atteggiamento e le parole a telecamera spenta a conquistarmi: un’umanità travolgente, una semplicità immediata, una bontà che dalle parole si faceva materia, che sentivi, vedevi, percepivi mentre incrociava i “suoi” ragazzi nella comunità di San Benedetto [...]]]> di Dziga Cacace

front_redViviana Correddu, Il Gallo siamo noi, Chiarelettere, Milano 2015, 180 pagine, € 13

Era stato difficile spiegarlo agli amici che avevano alcune preclusioni ideologiche: dopo il mio primo incontro con Don Andrea Gallo, ero rimasto folgorato. Gli avevo fatto – oltre dieci anni fa – due interviste televisive: lui paziente, disponibile, seducente, arguto nella sintesi e decisamente simpatico. Ma erano stati l’atteggiamento e le parole a telecamera spenta a conquistarmi: un’umanità travolgente, una semplicità immediata, una bontà che dalle parole si faceva materia, che sentivi, vedevi, percepivi mentre incrociava i “suoi” ragazzi nella comunità di San Benedetto al Porto, a Genova, quando dava un parere o chiedeva semplicemente come andavano le cose. In quei due pomeriggi di incontro avevo potuto intuire quale carisma emanasse la sua figura e, se fossi credente, oggi, parlerei di Grazia.
Il suo impegno pubblico ultradecennale e le sue prese di posizione lo avevano reso – negli ultimi vent’anni di vita – anche un personaggio mediatico, ma era il lavoro con la gente – spesso invisibile, la gente e il lavoro – a renderlo unico. La sua non era un’impresa economica fondata sulla bontà retorica e troppe volte ambigua, no, era un impegno concreto, quotidiano, di fatica e di assistenza, a tanti che avevano bisogno, senza fare domande, senza giudicare sul perché fossero arrivati da lui.
Queste impressioni me le ha confermate la splendida testimonianza di una ragazza che dall’incontro con Don Gallo ha avuto una svolta esistenziale. Il Gallo siamo noi racconta di come si siano intersecate la vita di Viviana Correddu e quella dell’uomo che l’ha salvata dopo sette anni di eroina, ed è un racconto spontaneo, in realtà neanche pensato per trarne un libro, bensì come una sorta di debito da onorare verso se stessa, attraverso la parola terapeutica, e un omaggio a chi, come l’autrice, ha seguito un percorso simile al suo, incontrando il Don.
Viviana non è una scrittrice di professione (anche se cura un blog sul Fatto Quotidiano), fa un altro mestiere e ha sempre lasciato alla scrittura la possibilità di esprimere quello che a parole faceva fatica a uscire. Ha destinato i proventi del libro a quella che è diventata una delle sue famiglie, la comunità di San Benedetto, una comunità d’accoglienza, lontana da tanti modelli terapeutici coercitivi. Qui è fondamentale la responsabilità individuale: non si è controllati o rinchiusi e bisogna assumersi la responsabilità della propria condotta. Autodeterminazione è la parola chiave, che però non significa che non esistano regole, compiti, ruoli, cose da fare e da portare a termine, lavorando con e per gli altri. Viviana ha ritrovato a Sanbe – come la chiama affettuosamente – quella fiducia che non riusciva più a ottenere dopo sette anni in cui aveva mentito ad amici, a familiari e soprattutto a se stessa. Il racconto è vivo, vivace e doloroso, quotidiano e a tratti anche lirico – è una passione della Correddu, la poesia – ma soprattutto è un racconto vero: oggi è una donna serena, i suoi occhi chiari sono combattivi e speranzosi e c’è una storia da condividere.
L’autrice non intellettualizza, non si giustifica, non accusa. Non rinnega niente e se deve vergognarsi – afferma –, è con se stessa, non con altri. Si prende le sue responsabilità a ulteriore riprova del percorso intrapreso in comunità. È stata la “tossica, egoista, disperata e bugiarda” che ha scelto di vivere e lottare, e ce l’ha fatta. L’ho incontrata una fredda mattina di gennaio, sotto Palazzo Ducale a Genova, ed è una minuta gigantessa, con la schiettezza a volte ispida dei genovesi, ma anche la generosità di chi è passato attraverso la condivisione del dolore e della fatica di vivere, in un centro storico che – oggi come ieri – è crogiolo di diversità e difficoltà.
E poi c’è il ritratto di Andrea, che Viviana conosce quando è ormai sugli ottant’anni, ed è un ritratto che non troverete da altre parti: un genoano burbero e simpatico, “un vecchio rompipalle viziato”, perché viziato dai ragazzi della comunità, amatissimo e rispettato, capace di accogliere e ascoltare chiunque, aiutandolo e facendolo sentire qualcuno, importante, per sé e gli altri. E che non mancava di chiamare ragazze e ragazzi “i miei tossici di merda”, una definizione iperbolica che si poteva permettere.
Il Don Gallo col cappellaccio nero e il sigaro nella bocca sdentata che esce da queste pagine è lontano dai santini post mortem buoni per le t-shirt. È un uomo sanguigno e tenerissimo, istrionico e “puttana” (come si definiva) per raccogliere soldi e aiuto per i suoi ragazzi. Ed è un Don che parlava chiaro agli ospiti della comunità: non lesinava urlate e incazzature e non voleva mai darla vinta a nessuno, neanche alla malattia, chiedendo in uno dei suoi ultimi giorni del baccalà fritto di cui era umanamente goloso.
Prete di strada, partigiano, comunista, voce di chi voce non ne aveva. Uno che finiva la messa cantando Bella ciao, perché per lui la messa iniziava in quel momento, fuori dalle mura della chiesa fisica, in mezzo alla gente; una chiesa che era inclusione e compresenza, mezzo e non fine, in movimento, senza giudicare, dove avevano diritto di parola Moni Ovadia o Enzo Motta, lo straordinario protagonista de La bocca del lupo.
E quel suo modo di dire: “Poi fai come credi”, dando libertà ma chiedendo assunzione di responsabilità, come chiave per ritrovare un’esistenza dignitosa.
Ne Il Gallo siamo noi – oltre a una prefazione intensa di Vasco Rossi, amico del Don e della comunità – sono raccolte anche le testimonianze di altri ospiti di San Benedetto: altre storie, altri cammini e incontri. Persone che si sono ritrovate grazie a chi ha valorizzato la loro unicità, senza proclami o slogan per la rivoluzione futura, ma che lavorava oggi, qui, adesso, con gente in carne e ossa, finalmente restituita alla vita. E la religione pare sempre importare poco. Sicuramente non interessava a Don Gallo che accoglieva e discuteva volentieri con tutti – atei, fedeli o agnostici – facendo un discorso di umanità, mai di credo: “Tutti insieme, gomito a gomito”.

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Divine Divane Visioni (Cinema porno 08/11) – 69 https://www.carmillaonline.com/2015/03/26/divine-divane-visioni-cinema-porno-0811-69/ Thu, 26 Mar 2015 22:00:45 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=21380 di Dziga Cacace 

Scrivere è avere torto tutto il tempo. 

ddv6900767 – L’immondo Quella villa in fondo al parco, commesso da Giuliano Carnimeo, Italia 1988  Una disperata serata anni Novanta a casa di amici: non ricordo se si trattasse di una Vhs a noleggio o di una drammatica messa in onda di qualche tivù privata; ricordo però che questo film ci era sembrato agghiacciante, una puzzonata insostenibile al di là del bene e del male. E oggi confermo: una schifezza unica di cui trovate ampia e imbarazzata documentazione in Rete (anche sotto il titolo per il mercato estero Rat Man per [...]]]> di Dziga Cacace 

Scrivere è avere torto tutto il tempo. 

ddv6900767 – L’immondo Quella villa in fondo al parco, commesso da Giuliano Carnimeo, Italia 1988 
Una disperata serata anni Novanta a casa di amici: non ricordo se si trattasse di una Vhs a noleggio o di una drammatica messa in onda di qualche tivù privata; ricordo però che questo film ci era sembrato agghiacciante, una puzzonata insostenibile al di là del bene e del male. E oggi confermo: una schifezza unica di cui trovate ampia e imbarazzata documentazione in Rete (anche sotto il titolo per il mercato estero Rat Man per la regia di Anthony Ascot). Dunque: siamo a Santo Domingo e un pochissimo plausibile scienziato sudato che ogni tanto blatera di DNA si vanta di essere riuscito a fecondare una scimmia col seme di un topo. Ne è nato un ominide peloso come Lucio Dalla, alto come Pupo e simpatico come Povia (non so perché queste similitudini musicali, m’è venuta così) che squittisce e ha ansia di sangue, bastandogli un’unghiata per metterti fuori combattimento con leptospirosi fulminante. Il Nobel de noartri tiene l’essere bestiale (che è un nanetto vero, porello) in un tugurio zozzissimo, chiuso in una gabbia per canarini, ma dopo due minuti di film, con montaggio serrato di tre pose emblematiche, sappiamo che la gabbia è vuota e il mostrillo è on the hunt. Farà infatti strage di modelle e accompagnatori e il finale sospeso ci fa capire che la faccenda potrebbe interessarci da vicino, prima o poi. Cast di facce ridicole assortite, su cui spiccano le due bellone che dovrebbero dare qualche brivido osé. Ma Janet Agren è fisicamente in disarmo: inoltre scomposta nelle scene horror e partecipe come un gesso pompeiano nelle altre. Eva Grimaldi, con due sopracciglia nere tipo Elio, si distingue invece per l’interpretazione di 5 minuti di doccia insaponata con mugolamenti insensati (va bene il caldo e l’umidità di Santo Domingo, ma mugolare?) e poi per l’epico confronto con Rat Man stesso, campionario di urla, strepiti e pianti che paradossalmente sono una delle cose migliori di questo supposta pellicola, “supposta” nel senso che lo spettatore capisce subito dove la prenderà. Non conosco classifiche di sorta ma Quella villa in fondo al parco (titolo coerente con la trama e tutto il resto: non significa niente!) è per conto mio imbattibile nella categoria delle cagate: qui siamo oltre l’evacuazione diarroica o a spruzzo, qui siamo alla sublimazione della materia fecale, questo film fa cagare a vapore. (Dvd, marzo ‘10)

ddv6902768 – Glorioso, imperfetto e sincero Inglourious Basterds di Quentin Tarantino, USA 2009
Che film sublime e bizzarro! Non saprei che altro dire di una vicenda che riscrive la Storia senza pudori, mescola dramma e divertimento e ha diversi momenti grandiosi e qualche inciampo (il capitolo 2) ma comunque, sempre, ti stupisce, nel bene come nel male. La cinematografia è di livello altissimo: gli attori, i colori saturi della fotografia, la generale ricostruzione d’epoca o il clamoroso film nel film. Ed è un’opera, questa, che dice dell’amore per il cinema che ha Tarantino: è uno col vizio di fare il coglione vantando ammirazione per fetecchie astronomiche ma che poi, mettendo in scena, fa capire che è sì un cazzone, ma di gusto estremo e raffinatissimo, che fotografa la splendida Mélanie Laurent come se fosse Marlene Dietrich e che non ha imbarazzi a mettere a fianco Cenerentola e la Riefenstahl, navigando nel kitsch con estrema consapevolezza. E che sa parlare al cinéphile come allo spettatore cane e che questo spettatore cane lo costringe a ritmi e dialoghi che nei blockbuster di oggi sarebbe difficile trovare. Nel cinema di Quentin ci sono anche le parti che fan prudere le mani, ovviamente: discorsi che non portano a nulla, strizzate d’occhio irritanti, comparsate di cinematografari stazzi, citazioni a go-gò per darsi un tono, ma c’è anche l’impresa che ormai osano in pochissimi di fare un cinema diverso, inaspettato, ma inclusivo, che non esclude per censo e cultura, ma abbraccia il pubblico. Magari in quella maniera un po’ fastidiosa che ha il cagacazzi pazzerello della compagnia. Ma che comunque, alla fine, trasmette un calore. Oh, a me ‘sto film è piaciuto. (Dvd; 1/3/10)

ddv6903769 – L’inferno di Gomorra di Matteo Garrone, Italia 2008
Ad un mese dall’ultimo film, interrompiamo il black out con un altro Dvd. Nel frattempo – devo rendervene conto – mi son concesso un Inter – Genoa epico come un film di John Ford. Non andavo allo stadio a vedere una partita di calcio dal 1987 e l’occasione s’è rivelata eroica come la difesa di Alamo: il Genoa rinchiuso nel fortino, a resistere agli attacchi abbastanza stracchi dell’Inter. Solo che NOI non abbiamo capitolato. Vista la temperatura siberiana, ero conciato così, con l’abbigliamento rossoblù opportunamente occultato per timore dei tifosi interisti: mutandoni da Gino Bramieri, calzamaglia della North Pole da missione artica, maglietta genoana ufficiale da trasferta in puro acrilico a scintillante contatto pelle (i calciatori le portano attillatissime, figuratevi come sta addosso a me), calzettoni ufficiali sintetici a traspirazione impedita, magliettone in cotone a maniche lunghe di merchandising non ufficiale, camicione di velluto, sciarpa grigia, guanti esquimesi, pantaloni cargo. A fine vestizione ero già in un bagno di sudore e avevo oggettivi problemi di deambulazione, plastico come l’omino della Michelin. Però in tribuna son stato benissimo, seppur attento a non proferire parole che tradissero la mia fede calcistica. E dopo questo epico film, ho visto qualcos’altro, in questo mese? Ho perso Shutter Island all’Orfeo, perché le proiezioni sono tutte in contemporanea alle 20 e non esiste lo spettacolo delle 21 (poi dici la crisi… dei cervelli, sì). Comunque ci son girate le balle (anche perché da stupidi non avevamo controllato prima la programmazione) e siam tornati a casa. Lì abbiamo provato ad affrontare il celeberrimo steampunk nipponico a cartoni animati Steamboy, vagamente infantile, e all’ennesimo sbuffo di Barbara e alla provocazione “…e perché non ci guardiamo Belle e Sebastien?”, abbiamo mollato il colpo. E abbiamo optato per l’impegno: Gomorra, colpevolmente perso in sala. Dal testo di Saviano sono prese cinque storie (non ne sono sicurissimo, dovrei ricontrollare), adattate per poter dipingere l’affresco su cosa sia la Campania in mano alla camorra: un inferno in terra. Garrone ha saputo mettere in scena una vitalità disperata, che sogna la libertà. Da quella autentica, pulita e sincera, a quella di chi non vuole più obbedire a nessuno e sceglie di diventare prepotente a sua volta. E le aspirazioni si mescolano al culto di Scarface o a quello, esasperato, del corpo (la manicure, il piercing, l’abbronzatura); e ancora il cibo, l’abbigliamento, l’esibizionismo, le armi (gli AK 47), le moto… parziali ricompense o illusori compiacimenti per chi sa di essere condannato a non avere altro. Attori presi dalla strada diretti benissimo: il solo che finge – e che non è quello che fa credere di essere – è Servillo, l’unico attore con una faccia riconoscibile. Stile da cinema-verità, tanta camera a spalla (del regista), luci naturali, facce antiche o freschissime, montaggio nervoso e un gusto iconico che rende tragiche e belle anche le Vele di Scampia. Forse c’è un po’ di freddezza: le didascalie finali servono da monito, ma allontanano anche dal pathos del racconto. Però, nulla da dire: bel film, importante, direi riuscito. (Dvd; 28/3/10)

ddv6904770 – Il divo di un fiammeggiante Paolo Sorrentino, Italia/Francia 2008
Niente male, questo Sorrentino, sai? E cresce film dopo film. Qui individua un modo originale per raccontare il divo Andreotti: in chiave onirico-fantastica, con ampie porzioni di reale ma trasfigurate dall’invenzione plastica. Non si scade così né nel film di denuncia para-televisivo, né nel documentario e ne viene fuori un’opera che sembra un sogno, o un incubo, quello del sonno che l’Italia sta ancora dormendo e, immagino, mai smetterà di dormire. Il film si apre con un Andreotti/Hellraiser, che prova a combattere il mal di testa con l’agopuntura. Non è un caso, così come la caratterizzazione di Servillo – al limite della macchietta – dei movimenti del Gobbo, che più di una volta sembra il Nosferatu di Murnau: spalle strette e passo fluido come se lo stessero trascinando su un carrellino. La messa in scena è elegantissima, la fotografia predilige le atmosfere buie (Bigazzi, molto bravo), le grafiche danno un tocco inventivo. I protagonisti sono tutti notevoli nell’assecondare questo clima esasperato, teatrale, gelido, dove i pochi momenti di calore sono affidati ai rapporti con le donne, come l’umanissima moglie di Andreotti. Il film finisce all’improvviso e potrebbe continuare a lungo, ma Sorrentino è così: ti spiazza continuamente. Scegliendo punti di vista originali, tagliando le scene quando meno te l’aspetti o musicandole con temi razionalmente incongrui ma perfetti (i Trio con Da Da Da o la Pavane di Fauré). Film premiato a Cannes e ben accolto all’estero. Ecco: ma un’opera così, a cosa serve? Glorifica il soggetto? Insegna, a chi non la conosce, la sua storia? Fornisce nuove chiavi di interpretazione? Boh, so solo che Andreotti, vedendosi così raccontato, s’è molto molto offeso e voleva querelare: povera stellassa dall’animo sensibile. (Dvd; 1/4/10)

ddv6905771 – Oooh, finalmente La prima cosa bella in sala, da tanto, di Paolo Virzì, Italia 2010
Dopo non so quanti mesi torno finalmente al cinema assieme a Barbara. Tra tanta offerta spingo per una commedia che mi faccia frignare a dovere, m’aggia a sfuga’. Tutti m’han detto della qualità lacrimatoria dell’ultimo Virzì e la scelta è presto fatta, anche perché al cinema Ariosto c’è il geniale spettacolo delle 21, che consente di mangiare prima della visione, a orari decenti (nella fattispecie compio un attentato al mio colesterolo in un ristorante cinese lì vicino). Stefania Sandrelli oggi e Micaela Ramazzotti ieri sono la stessa bella ragazza, Anna Michelucci, che ha fatto girare la testa a tanti e tanto ha amato, punita e trattata male dalla vita perché ai ricatti maschili invece non ha ceduto. Trattata quindi da zoccola perché zoccola non era realmente (o perlomeno così l’ho vissuta io, ma il dibattito è aperto col pubblico maschilista che se hai la minigonna, allora, un po’ mignotta lo sei) e il figlio Bruno deve fare i conti con quanto ha creduto per tutta la sua esistenza, ora che mamma sta morendo. La prima cosa bella ha un bel narrare, con alcune astuzie e alcuni difetti (la scena finale che viene anticipato troppe volte, l’intreccio iniziale un po’ farraginoso). Però funzionano il passaggio dal passato al presente, con continui tranelli allo spettatore, ed è riuscito l’affresco familiare, grazie anche ad attori ben diretti e in parte. Certo, Mastandrea fa un po’ sempre la stessa parte, in minore, sottraendo, però è intenso e credibile ed è brava anche Claudia Pandolfi e tutto il cast di contorno. Inoltre il ricatto sentimentale della vicenda è punteggiato da battute azzeccate, cosa che amplifica il groppo emozionale: io praticamente piangevo a calde lacrime già da metà primo tempo. Per me un buon film, sniff sniff. (Cinema Ariosto, Milano; 3/4/10)

ddv6906772 – Cla-mo-ro-so Soy Cuba del Genio Mikhail Kalatozov, URSS/Cuba 1964
Bimbe e Barbara via per le vacanze di Pasqua. Io rimango nella città vuota a lavorare, ma la sera festeggio con il cinema che mi è altrimenti precluso: un bel sovietico! Trattasi di un caso particolare: film commissionato dall’URSS per celebrare i nuovi alleati rivoluzionari cubani, realizzato da Kalatozov e poi nascosto al pubblico per trent’anni. Riscoperto – tra gli altri – da Coppola e Scorsese, infine distribuito su scala mondiale. Attraverso quattro storie individuali si ripercorre il cammino del popolo cubano verso la libertà, ma non è cinema di propaganda. È cinema di poesia, lirico, struggente, con un passo narrativo che è esattamente figlio di quegli anni Sessanta e che oggi provocherebbe gran moria di spettatori in sala. La fotografia, abbacinante, nitidissima e straniante per l’uso di un grandangolo estremo, ricorda quella del cinema-verità: Soy Cuba è girato con una Eclair che sta in mano all’operatore come oggi una handycam da due soldi e questa leggerezza produttiva consente l’impensabile: movimenti di camera vertiginosi, primi piani in faccia ai protagonisti, punti di vista impossibili, la camera che rasenta il terreno, poi si eleva per quattro piani di altezza nel centro dell’Avana, poi attraversa una casa e infine vola per le strade. Se uno non lo sa – come credo chiunque che non abbia guardato prima i contenuti speciali del film – si chiede: ma come cazzo avranno fatto? Kalatozov doveva avere degli operatori incredibili, inventivi e coraggiosi perché tutto il film è composto da scene dove la tensione è data non solo dalla storia, ma dal tuo esserci in mezzo, realmente: tra le fiamme, in una sparatoria, colpito dall’acqua degli idranti o in mezzo a chi festeggia la vittoria della Rivoluzione. Semplicemente incredibile. Certo: lo consiglio a una percentuale irrisoria della popolazione cinefila, ma è realmente un masterpiece, nascosto per anni proprio per la sua natura ostica. Volevano la Retorica, ebbero la Magia e la Poesia, qualcosa che il Potere non è mai in grado di capire. (Dvd; 4/4/10)

ddv6907773 – Anarchia, Godard e Tognazzi: La vita agra di Carlo Lizzani, Italia 1964
Luciano Bianchi viene a Milano con la ferma convinzione di fare il botto e vendicarsi della società che ha lasciato morire 43 minatori per risparmiare sui costi di sicurezza. Ma la metropoli lo ammalia, lo seduce, lo spegne. Luciano diventerà un affermato creativo pubblicitario e addio sogni dinamitardi. Cominciamo col dire che tantissimi – critici e supposti storici – non fanno altro che ripetere che vuole far brillare il Pirellone. Non è vero: il “torracchione” del romanzo qui è illustrato visivamente con la Torre Galfa. Tiè, pelandroni. Comunque il protagonista – con la faccia splendida di Tognazzi – si trascina tra tradimenti coniugali, licenziamenti, traduzioni e afasia. Nel film di Lizzani è tutto rimontato in modo narrativamente funzionale e c’è l’esito di cui ho già detto, invece nell’opera letteraria rimane tutto felicemente vago. Le due cose non sono in contraddizione e trovo che sia film che romanzo funzionino a modo loro. La vita agra su pellicola non è forse un capolavoro tout court come alcuni proclamano (ma l’entusiasmo giustifica rassegne, pubblicazioni, curatele etc.; dev’essere dura fare il critico di mestiere, eh?), ma è comunque una pellicola molto buona, col difetto forse di non decollare veramente mai, interpretando perfettamente, però, il senso d’attesa del testo di partenza. Tognazzi mi pare meno incazzato di Bianciardi, più malinconico e angosciato che sanguigno. E il film si trascina un po’ come lui, vittima degli eventi piuttosto che motore. Comunque qui ci sono cose che all’epoca dovevano essere veramente hard, come il rapporto extraconiugale con la splendida Giovanna Ralli. E anche la critica alla società dei consumi e alla persuasione occulta erano argomenti molto lontani dal pubblico. La vita agra – tra nouvelle vague, commedia all’italiana e aspirazioni politiche – allora scontentò tutti, chi voleva la ghignata feroce e chi l’urlata ribelle, ma è un film affascinante nella sua leggera imperfezione, nell’essere talmente avanti da non poter essere subito compreso, e non lo si dimentica facilmente. Bello! (Dvd; 5/4/10)

ddv6908774 – Mmh… sì, ma non esageriamo: Il profeta di Jacques Audiard, Francia 2009
“Capolavoro, capolavoro, capolavoro”. Ogni film che vedo, ormai, è accompagnato da questo ritornello degli amici o di mio padre, un mantra che viene recitato sgranando rosari e per dare un senso alle proprie visioni. Io invece faccio la volpe e l’uva e mi fa tutto schifo. Prima di vederlo, perché poi, dopo, assolvo sempre. Questo Profeta l’ho affrontato dopo il bombardamento psicologico di tantissimi entusiasti e l’ho trovato bello, sì, decisamente, ma capolavoro non direi. È un’analisi entomologica dell’ambiente carcerario, con le regole che fanno di te vittima o padrone, indifferentemente che tu stia dentro o fuori. Bravissimi attori, musiche inaspettate, qualche svisata surreale poco riuscita, fotografia un po’ anonima, pochi palpiti umani di vera compartecipazione, secondo me. Bella storia, insomma, ma il mio cuore è da un’altra parte. E poi mezz’ora di troppo, dài. (Cinema Ariosto, Milano; 10/4/10)

ddv6910775 – Attenzione, perché Anche i nani hanno cominciato da piccoli di Werner Herzog, Repubblica Federale Tedesca, 1970
I nani sono cattivi. Ce lo ha detto De André, lo ha ricordato Randy Newman, mostrato Freaks e confermato quello di Arcore, da una ventina di anni a questa parte. Ma prima di tutti è stato Herzog a fare un triplo carpiato regalandoci una visione dantesca della società, dove tutti sono nani. E cattivi, cattivi proprio. Perché tutti siamo nani. E probabilmente malefici, col “cuore troppo vicino al buco del culo”. Il film, fin da subito, ti spiazza: è in atto una rivolta, ma non si capisce bene dove: prima pensi che sia un istituto per nani, poi una colonia penale (ma solo per nani?!?) e poi ti rendi conto che – appunto – tutti sono nani, ma che vivono in un mondo fatto a misura d’uomo. Per cui non torna un cazzo! Ed è evidente che la “normalità”, la scala a cui vivono i non-nani, è il pericolo, è la difficoltà di vivere e basta. La rivolta degenera e il termine “degenera” non rende l’idea di cosa Werner riesca a mettere in scena, una sinfonia dell’orrore (e attenzione, non dell’horror, che è una metafora nel migliore dei casi, una pagliacciata negli altri e presuppone un patto con lo spettatore; no, qui c’è l’orrore della realtà, a cui lo spettatore non è pronto perché ci vive già in mezzo). Girato nella spettrale e vulcanica Lanzarote, tutto è ostile e tutti sono ostili, nel tentativo di ritagliarsi uno spazio di momentanea felicità o anche nella semplice illogicità della violenza: tutti contro tutti, anche contro la natura, tesi a sopraffare il più debole, uomo, pianta o animale che sia. La gioia della violenza non è più riservata solo ai “grandi”, altro che compassione, anzi: con la nostra umile statura abbiamo qualcosa in più da far pagare alla Vita tutta. Galline che si scannano o che si contendono un topo morto, sordociechi vessati crudelmente, alberi abbattuti per puro compiacimento distruttivo, una scimmia crocefissa, un maiale preso a bastonate (vere), un cammello che non riesce a sedersi, le uova rotta senza motivo, le piante bruciate, tra risate agghiaccianti e idiote e voci chiocce. Scene lunghe, poco montaggio, sguardi frequenti in macchina dove leggi il “…ma posso davvero?!?” degli attori, chiamati a sfasciare tutto o il “ma sei pazzo?” di chi rischia di pigliarsi un piatto in testa. Il film è una rivolta contro le istituzioni, il buon gusto, la buona creanza, la natura, la tecnica, la religione, la logica. Perché l’uomo è così e il regista tedesco non ha dubbi né speranze che si redima. Ti costringe a guardarti in faccia e ribalta le tue convinzioni e convenzioni, ipnotizzandoti con una macchina che gira a vuoto in un cortile, in un carosello folle dove nulla viene risparmiato. Girato con due lire, allucinante, blasfemo, illogico, brutale e inquietante, il film potrebbe anche durare la metà, ma la fatica fa parte del prezzo del biglietto. Insomma: esattamente divertente non direi, ma salutare sì. P.s.: dopo un film così ti piglia un’inspiegabile frenesia di vedere altro Herzog. Due anni fa ero alla Fnac con la stessa voglia. Cerco tra i Dvd: nulla, tutto esaurito all’improvviso. Chiedo spiegazioni, incredulo, a un commesso che mi dice: “Tre giorni fa Herzog era ospite da Fazio, il giorno dopo abbiamo venduto tutto. Tutto”. La televisione… (Vhs da RaiTre; 28/4/10)

ddv6911776 – The Boat That Rocked di un furbetto, Gran Bretagna 2009
Sarà che nell’ultimo mese ho assunto perlopiù puntate di Heidi a rullo continuo (e mica male, sai?), e una fetecchia come questo I Love Radio Rock (titolo ruffiano italiano) l’ho visto fin volentieri. Racconta in maniera pesantemente edulcorata l’odissea di una fittizia radio pirata che avrebbe trasmesso dalle acque del mare del Nord, rifacendosi all’esperienza delle varie emittenti che alla fine degli anni Sessanta contrastavano il monopolio della BBC. Qui ci si mette di mezzo anche il governo e tutto è swingin’ London, gonne a fiori, amore libero, lotta ai matusa che hanno paura dei capelli lunghi e altre piacevolezze e luoghi comuni. La musica è chiaramente bellissima, ma sarebbe stato difficile sbagliarsi. Gli attori sono discreti e la ricostruzione d’epoca è oleografica e dolciastra senza offendere granché. La regia sbrodola e da tre ore di montaggio (più che una saga, una sega) il film è stato portato a due, con ulteriori tagli per l’edizione nordamericana. Tutto ciò non ha evitato un bel flop, che il pubblico d’accordo che si beve tutto ma alla coprofagia c’è un limite: si parte decentemente per approdare ben presto alla commedia stupidina, ricca di episodi che divertono senza però lasciare niente di memorabile. Il team produttivo, del resto, è quello di Notting Hill e Quattro matrimoni e un funerale (e alla regia c’è tale Richard Curtis) filmetti scioccherelli per uditorio boccalone. Nel quale mi metto volentieri, anche se qui – dopo un po’ – non se ne può più di amori, liti, rappacificazioni, sfide e altre corbellerie, come se il tenore della commedia autorizzasse qualsiasi stronzata. L’unica cosa decente, tra le tante furbate a buon mercato, è il dubbio che rimane sulla reale identità del protagonista, un diciottenne cacciato da scuola e mandato per punizione dalla madre sulla nave pirata di Radio Rock, spunto narrativo che già mette in chiaro che siamo nell’irrealtà pura. Il film è ruffiano, abbastanza ritmato, colorato e nostalgico come sanno essere gli inglesi. E nella storia che diventa farsa, ognuno di noi può trovare una scintilla che gli faccia battere ancora il cuore per il rock. No, forse no… ma adesso – scusate – torno a vedermi Heidi. (Dvd; 26/5/2010)

ddv6912777 – Lo splendido Il vento fa il suo giro di Giorgio Diritti, Italia 2005
Seratina dedicata al cine divanato, anche se stasera sarei pure uscito, ma avevo la spina dorsale ridotta come i pezzi del Jenga e il culo rotto, color dell’arcobaleno come quello dei babbuini: non posso negare che la bicicletta abbia effetti immediati sulla tua salute. A Barbara un po’ timorosa propongo un film che è diventato qualche anno fa un piccolo caso, grazie alla pervicacia del cinema Mexico di Milano che ha insistito a proiettarlo per mesi, finché il passaparola e qualche critico sveglio (ci sono) ne hanno sancito la consacrazione. Io rimandavo e per vederlo in sala ho fatto troppo tardi. Il Dvd è il giusto rimedio e confermo: Il vento fa il suo giro è realmente un piccolo capolavoro, umile, pulito, senza sbavature. Un film che se l’avesse fatto un macedone, i critici onanisti si sarebbero strappati le vesti. Mentre siccome lo dava una piccola sala indipendente: boh, roba da studenti pulciosi, troppo poco glamour. E invece questo apologo sull’egoismo e sulla morte della comunità umana è molto più politico (e al contempo poetico) di tanto cinema finto-impegnato, zeppo di proclami ma senza un’idea al di là degli slogan. Qui si racconta cosa sia il leghismo senza mai dire la parola Lega, come riemerga quel fascismo interiore sempre vigile nell’italiano medio, attaccato al denaro e alla paura che un diverso te lo porti via. Succede in due ore che vanno via come un siluro. Attori dalle facce interessanti, montaggio coerente e fotografia digitale ottima, con una propria qualità cromatica non da poco. La dignità produttiva è dovuta – oltre che all’intelligenza della regia – anche all’aiuto di tantissimi, debitamente ringraziati a fine pellicola (spicca un grazie “per la Kangoo bianca”). Ovviamente il film non ha vinto un David di Donatello perché al posto di vedere un’opera degna come questa, chi votava era in terrazza a spartirsi futuri finanziamenti e bersi un drink, ché i premi, tanto, erano già spartiti. Addavenì la Rivoluzione Culturale, quella cattiva, però. (Dvd; 31/5/10)

(Continua – 69)

Qui le altre puntate di Divine divane visioni

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Divine Divane Visioni (Cinema porno 08/11) – 67 https://www.carmillaonline.com/2015/02/12/divine-divane-visioni-cinema-porno-0811-67/ Thu, 12 Feb 2015 22:00:11 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=20555 di Dziga Cacace

Sbrighiamoci, prima che torni a tutti il buonsenso! (Re Julien, Madagascar 2)

ddv6701742 – Lo spietato capolavoro Old Boy di Chan wook Park, Corea del Sud, 2005 Certo, lo so: sono come un carcerato che, al momento della liberazione, troverebbe sollievo carnale anche in una bambola di plastica dura, quella coi bordi taglienti. Però, oh, ve lo giuro: questo Old Boy è un capolavoro, un film di rara bellezza e intensità. E ha tutto per farmi bene oggi che il cinismo televisivo è ormai diventato un mio sinistro tratto costitutivo accompagnato alla spocchia di chi non vuole misurarsi [...]]]> di Dziga Cacace

Sbrighiamoci, prima che torni a tutti il buonsenso! (Re Julien, Madagascar 2)

ddv6701742 – Lo spietato capolavoro Old Boy di Chan wook Park, Corea del Sud, 2005
Certo, lo so: sono come un carcerato che, al momento della liberazione, troverebbe sollievo carnale anche in una bambola di plastica dura, quella coi bordi taglienti. Però, oh, ve lo giuro: questo Old Boy è un capolavoro, un film di rara bellezza e intensità. E ha tutto per farmi bene oggi che il cinismo televisivo è ormai diventato un mio sinistro tratto costitutivo accompagnato alla spocchia di chi non vuole misurarsi con l’ignoto per paura di non capire. Questo è un masterpiece assoluto in salsa agrodolce. Dunque (e occhio agli spoiler, coreanamente agliati): Oh-Dae-Soo è un poveretto con un diavolo per capello, una sorta di Brancaleone incazzato come una pantera per aver passato 15 anni di prigionia in un appartamento, senza sapere per quale motivo meritasse la pena e chi lo avesse costretto lì dentro. La tortura atroce però non è stata solo la reclusione ma proprio il dubbio: la classica frase “cosa ho fatto per meritarmi tutto questo?”. E quando il protagonista si trova all’improvviso libero, il suo unico pensiero è capire il perché e il per come. E vi ho già detto troppo. Film grandioso e agghiacciante, pieno di idee e violentissimo, ma di una violenza psicologica terribile, fuori scena, che non ti serve chiudere gli occhi: fa male lo stesso. Girato benissimo, fotografato da dio con gelida rarefazione cromatica, recitato e montato meglio, Old Boy ti spiazza e ti spezza con continui cambi di registro, in un vortice senza fondo. Eccezionale, insomma, anche al netto della mia difficoltà coi nomi coreani: ad un certo punto ho rimpianto i film dei tempi dell’autarchia, quando i protagonisti dei film stranieri avevano sempre nomi tradotti in italiano e tutto era molto più semplice (anche se un coreano di nome Rodolfo o Gioacchino farebbe strano, eh?). (Dvd; 29/4/09)

Pinocchio743 – Il truffaldino Pinocchio yankee, di Hamilton Luske e Ben Sharpsteen, USA 1940
Sofia rimane abbastanza indifferente alla favolona, io mi diverto amaramente a notare l’adattamento disneyano che ha regalato al mondo un Collodi completamente stravolto: rivoglio Mastro Ciliegia! Il disegno è splendido per ricchezza di dettaglio, morbidezza di tratto e cura del colore, ma gli sfondi testimoniano un’aberrante congiura semplificatoria, tipicamente yankee: l’architettura è completamente incoerente e predomina un inedito stile alpino-alsaziano remixato con un gonfio neocoloniale messicano. Passando ai personaggi molto zuccherosi, la fatina – possibile CILF (Cartoon I’d Like to Fuck, Cacace) per le mie fantasie malate – non mi attizza per niente: sarà il ricordo dell’agghiacciante Lollobrigida col capello bluastro nel Pinocchio televisivo di Comencini (sceneggiato che puzzava di povertà da ogni dove, ma era bello proprio per quel motivo) o perché qui è una slavata biondina che parla come una mentecatta e perdona sempre Pinocchio, tanto che il burattino ci ricasca ogni volta. Chissà se da Burbank han mai pagato qualche diritto agli eredi di Collodi: più che altro meriterebbero i danni, visto lo scempio subito dal libro. Considerato uno dei grandi capolavori Disney, in realtà è uno dei meno memorabili e dei più colpevoli. Ma non ho la forza per arrabbiarmi ulteriormente, dài. (Dvd; 16/5/09)

ddv6703744 – L’eccitante La bella addormentata nel bosco di Clyde Geronimi, USA 1959
Cinemascope grandioso, sfondi e architetture disegnati perfettamente e tratto spigoloso un po’ Fifties. Film molto carino, se si pensa che la vicenda è una fiaba da tre minuti tre di racconto. Sofia è ammaliata e non la spaventa la cattiveria della fata malvagia. Bene: dopo il composto pensierino da persona seria, il doveroso commento da vecchio porco: la principessa Aurora è finalmente una CILF (vedi pensierini sopra) niente niente male. Se le metti addosso un body rosso hai una perfetta popputa bagnina di Baywatch, dallo sguardo finto-virginale un po’ assente. Ma non deve essere neanche una brutta chiavata la strega Malefica, bicornuta, molto Suicide Girl ante litteram e con dei poteri magici che potrebbero garantire inediti fuochi d’artificio. Vabbeh, basta. Ah, no: ma cosa cazzo è un fuso? E un arcolaio?! Me lo chiede Sofia e non so rispondere, da sempre! (Dvd; 22/5/09)

ddv6704745 – Ancora strepitoso, E.R. Anno 7 di Michael Crichton, USA 2000/2001
La vita, la morte e tutto quello che sta in mezzo. Sarà la lontananza di oltre due mesi da un seriale tivù, ma questo mi sembra molto movimentato e adrenalinico. È evidente che gli sceneggiatori stiano concertando un diluvio emozionale inesorabile e ogni puntata ha un bel crescendo e diversi colpi di scena, sia drammatici che d’azione. Prendo ad esempio la numero 7, Rescue Me (e fate finta di conoscere il cast. Anzi, no: vi do due ragguagli ogni volta): Elizabeth (inglese, chirurgo, fidanzata di Benton) scopre di aspettare un bimbo e viene denunciata per negligenza in sala operatoria; Mark (Ciccio, il capo del pronto soccorso) accerta la presenza di un tumore nella sua testa; Jing-Mei (tirocinante) affronta la madre tradizionalista che non sa che è incinta, di un nero oltre tutto; Benton (chirurgo, nero, tormentato) ha casini a non finire col lavoro, la fidanzata e la sua situazione familiare. Abby (infermiera) non riesce a liberarsi della madre bipolare ma continua il suo avvicinamento a Kovac (nuovo pediatra dell’ER), che ha appena scazzato con Carter (ricco e democratico) che deve stare attento a non drogarsi di nuovo… Ritmo tesissimo, dramma ai massimi livelli. I nuovi personaggi sono ormai ben ambientati e non c’è la sensazione che si stia prendendo tempo: le storie sono fluide e mettono alla prova i nervi e le ghiandole lacrimali spesso e volentieri. Non posso dire perché, perché già lo saprete essendo io impostato su un fuso orario indietro di dieci anni, ma questa è la penultima serie che vedo. Dopo non avrà più senso e sto già soffrendo. (Dvd; giugno e luglio 2009)

ddv6705746 – Il dionisiaco Madagascar 2 di Eric Darnell e Tom McGrath, USA 2008
Secondo episodio decisamente migliore del primo (già godibile, alla fin fine), con i quattro amici (leone, zebra, giraffa e ippopotama scappati dallo zoo di New York) finiti nella savana africana. La trama continua a essere semplice e leggibile, ma crescono esponenzialmente le caratterizzazioni, specialmente quelle dei personaggi secondari, e le gag funzionano. C’è uno straordinario villain, il leone Makunga, dotato di una mimica facciale incredibile come il suo avversario, il poderoso felino “alfa” Zuba; ma esaltano anche i quattro pinguini in missione impossibile, la vecchietta nemesi newyorchese di Alex (il leone del quartetto) e soprattutto quel grandioso inno all’imbecillità che è Re Julien, un lemure felicemente ambiguo e sessualmente lascivo, carogna e se possibile dedito alla crapula. L’animazione è di gran livello e i primi 20 minuti sono da antologia, come sintesi di racconto e ritmo indiavolato. Mentre il primo Madagascar cresce alla distanza, questo prende subito e c’è da augurarsi un terzo capitolo. A tanto son ridotto (29 giugno, Sofia: “Speriamo che stanotte dormi papà, eh… però mi sa di no, sai?”). (Dvd; giugno 2009)

ddv6706Il Grande Passo Falso 2009
Anticipare le vacanze assieme a una coppia di amici ci era sembrata una buona idea: rifugiarci in un villaggio evitando il caos e la calura d’agosto e dedicarci allo svacco più atroce, senza doversi preoccupare troppo dei bambini. Solo che abbiamo sbagliato tutto perché siamo finiti in una di quelle centrali concentrazionarie del divertimento che David Foster Wallace mi fa un baffo, anche se non saprò raccontarvela come lui.
Il luogo del delitto è il famoso Tanka Village, un resort oceanico vicino a Villasimius, nel sud della Sardegna. Non proprio a buon mercato ma provvisto di ogni comfort, ristoranti, teatro con musical (wow), anfiteatro con concerti, baby dance e altro ancora. Oh, del resto: lavoro, guadagno, spendo, pretendo.
E così ci ritroviamo immersi fino al collo nella fanga dell’Italia berlusconiana – di cui il nano è profeta massimo, ispiratore e perfetto faccia da cesso specchio riflesso – tra mandrie di villeggianti che immagini indebitati fino al collo per concedersi questa settimana di esibizione reciproca, dove ci si veste, trucca e parla come Simona Ventura e Costantino Vitaliano. Tutti giovani forever, ancora ragazzi a cinquant’anni, adulti mai: catenazze, collane, ori, argenti e mirre, pietre preziose, braccialetti, tatuaggi, orologi con quadranti grotteschi, vestiti a colori acidi, lamé e strappi ad arte, marchi, firme ed etichette, a coprire e scoprire pance che debordano, ombelichi su ventri rugosi, tette che crollano come l’Aquila e pelli istericamente abbronzate. Uomini e donne esibiscono le mutande fuori dai calzoni, unghie curatissime con la perizia di un amanuense e calzature che neanche Caligola nei periodi di minore lucidità: gli stivali in pelle (con 32° di temperatura media), però infradito. Giuro.
Mi sento il Numero 6 de Il prigioniero. Non capisco nulla.
Siamo abbacinati e sconvolti. Tolta l’oretta tardo pomeridiana jazz di tre scappati di casa che ascolto solo io, unico nel resort, non riusciamo a godere di nessuno dei benefit – snob del cazzo che non siamo altro – in imbarazzo costante con la t-shirt nera dei Deep Purple in mezzo a gente firmata Dolce e Gabbana. Per un volatile sollievo rimane l’edicola del villaggio, dove però trovi poca roba e ti devi accontentare di stampa sovversiva come Repubblica o il Corriere. A leggere cosa scrivono Pigi Battista o Ezio Mauro ti crollano i coglioni (questi orchestrano il dibattito politico nazionale con la credibilità di un Alvaro Vitali direttore di Segnocinema) e aumenta il nervoso. Guadagno quotidianamente le mie copie in mezzo a trogloditi che si fanno la mazzetta con Libero, Il Giornale, Chi, Visto, Novella 3000 e Di Più. Di più non so di cosa. Noto anche l’eccentrica con gutturale accento nordestino che chiede “il giornale di puszl, grazie”.
E poi siamo in coda, sempre in coda, sempre superati in coda, a pranzo e cena, guardando tonnellate di cibo buttato via. E per una Sofia che si diverte frequentando il kindergarten, c’è un’Elena che si rifiuta di farci dormire, rendendoci degli irritabili zombie catatonici: siamo giunti pressoché DOA, rischiamo di ripartire OPD. Nel caldo venezolano realizziamo che dopo una vacanza così servirebbe un’altra vacanza per riprendersi. Magari anche un po’ d’ufficio farebbe bene. Sicuramente un consulto psichiatrico.
Tento di movimentare la villeggiatura facendo uno scherzo al fraterno amico Ric, compagno di sventura. E’ fresco e vanitoso proprietario di una macchina insensatamente voluminosa e lo stuzzico lasciandogli sul parabrezza un biglietto: “La sua auto è grossa e me ne compiaccio, ma la mia lo è di più. Firmato l’inquilino della 256”. Me ne dimentico, sinché non mi viene a bussare alla camera la sera dopo. Apro la porta della stanza, lo vedo tutto rosso in volto, penso che mi abbia sgamato e invece lo sento dire: “Adesso vieni con me che devo spaccare la faccia al deficiente della stanza 256”. Siamo ridotti così, come dei miserabili, contagiati dall’aggressività consumistica del contesto.
ddv6707Le poche volte che mi avventuro in spiaggia sono vicino di sdraio di Mimmo Criscito (terzino del Genoa dall’italiano prealfabetico), del musicista Mario Lavezzi (ex Camaleonti e Flora Fauna Cemento, che importuno con un progetto strampalato di intervista che poi lascio perdere), del telecronista Mediaset Bruno Longhi (già bassista anche lui nei Flora Fauna Cemento, figuriamoci se non gli rompo le balle) e infine di Alessandra Mussolini, colpo di grazia che mi fa desistere da ulteriori frequentazioni del bagnasciuga (Mussolini, bagnasciuga… com’era la faccenda? Ah, che ci han fatto un culo come un rosone. Per fortuna).
Barbara riparte col demonietto in aereo e io ritorno in macchina percorrendo la Sardegna con Sofia e quasi per espiare mi fermo, nel sole di un primo pomeriggio, a Ghilarza, luogo gramsciano per eccellenza. Ci sono 42 gradi secchi, è tutto chiuso e non so cosa visitare. Che senso ha? Vedo una grande foto di Gramsci. Mi guarda severo, forse è un’allucinazione climatica. Sembra che muova le labbra. Sì, lo fa. Dice “Coglione”. (Luglio 2009)

ddv6708747 – Si può fare di Giulio Manfredonia, Italia 2008 e un delinquenziale Abel Ferrara
Si può fare è una buona commedia drammatica, popolare, come se ne facevano una volta, che tratta di disagio mentale senza essere farlocca o facilona. Poi, certo, c’è qualche cedimento alla retorica e alla lacrimuzza (nel finale) e più di una volta senti l’assonanza di troppo con Qualcuno volò sul nido del cuculo. Ma, ripeto, è un film onesto, non banale, che spazia da Basaglia a Forman, e in controluce ci parla anche di tradimento degli ideali e adattamento alla società “fredda” dopo il calore della contestazione giovanile. Insomma, tocco leggero e attento nell’affrontare un tema invece pesante, con qualche scena molto intensa (la scelta dei “nuovi” matti da portare in una cooperativa, liberandoli dall’istituto di cura) e altre molto divertenti (il sesso in gita aziendale, la stella a 5 punte “vista sui muri” e riprodotta senza intenzione). Claudio Bisio è in forma e il cast di facce azzeccate è ben diretto. Ritmo sostenuto, bel copione, fotografia discreta, musica divertente (i genovesi Pivio e De Scalzi blueseggianti e balcanici: un po’ alla cazzo, ma fan sempre piacere). Insomma: un buon piccolo film. A differenza di quello che ho visto venerdì 17 luglio, quando ho sopportato assieme a mio padre mezz’ora di Go Go Tales di Abel Ferrara, prodottino semplicemente allucinante. Certo, è ingiusto valutare dopo pochi minuti, ma sono mica la Cassazione, io. E come posso descrivervi il senso di dislocamento spazio-temporale di fronte al doppiaggio, la recitazione, le situazioni messe in scena, le facce da cazzo assortite e la totale mancanza di senso di questo film (se non aver raggirato un produttore che ha messo il grano perché Ferrara passasse qualche mese a Roma, tra alcol, polveri e baldracche)? Detto ciò, Abel viene sempre perdonato, avendoci regalato Il cattivo tenente e la slinguazzata tra Asia Argento e un rottweiler. (Dvd; 18/7/09)

ddv6709748 – Grindhouse – Death Proof, una defecatio post mortem di Quentin Tarantino, USA 2007
Che Tarantino fosse pericoloso, era noto. Perché è il brillantone che può anche imbroccare la serata storta e sfinirti di cazzate ed è quello che accade con questo film insensato, omaggio/parodia/calco dell’exploitation anni Settanta, talmente calligrafico e imitativo da risultare una fetecchia esattamente come le opere (…) che vuole omaggiare. A prova di morte è pervaso da quell’atmosfera malata che trovavamo in quelle cagate con regia e storie completamente scrause che solo le tivù private della nostra infanzia compravano e avevano il coraggio di mandare in onda. In più metteteci decine di citazioni incrociate di film propri e di amici, di slasher sconosciuti ai più, di poliziotteschi italiani e di film brutti e basta, in un frullatore dove non capisci più questo darsi di gomito col vicino rimbambito pure lui. Insomma, rimani stordito da questa messe immane di vaccate, ma il problema vero – alla fine – è nella lunghezza del film, nella pressoché totale mancanza di azione (a parte due scene) e nei dialoghi senza qualità, eterni ed esiziali. Quentin ha dichiarato: ho voluto celebrare le donne e le loro chiacchiere. Sarebbe da denuncia, ed esistessero ancora quei bei gruppi di femministe incazzate ne verrebbe fuori proprio una scena tarantiniana, con le scalmanate che se lo vogliono evirare. La confezione è d’altro canto divertente: si parte con titoli seventies bellissimi e si prosegue con programmatici errori di continuità, bloopers clamorosi, scavalcamenti di campo, salti di pellicola e di audio, giunte sporche tra i rulli, impronte, righe e spuntinature. La musica come sempre va a segno e anche la fotografia satura è notevole. Però, se in Kill Bill la voglia di giocare era assecondata da invenzioni narrative continue, qui no e ho presto realizzato che Quentin mi stava lentamente sodomizzando, me consenziente. A prova di morte dura due ore, sembrano sei e non ne meriterebbe mezza… solo gli ultimi 20 minuti hanno un po’ di consistenza (cioè pura e semplice ottusa azione). Se volete, il finale è anche divertente, però il film rimane una merdaccia, di una bruttezza e di una inconcludenza da non crederci. Grande il perfido Kurt Russell, deludente Rosario Dawson che sembra un pugile dopo 8 round, c’è pure un cameo di Tarantino, con una faccia che, se lo vedeva Lombroso, gli faceva comminare un ergastolo per direttissima. (Dvd; 20/7/09)

ddv6710749 – L’incredibile Azur e Asmar di Michel Ocelot, Francia 2007
Fiaba splendida, messa in scena con perizia cromatica inarrivabile. Si è investiti da geometrie e composizioni abbacinanti, mentre si racconta la vicenda di due fratelli uniti dalla vita e separati dal censo, dalla razza e dalla religione. Uno bianco, ricco e con gli occhi azzurri, l’altro arabo, crespo e che – dopo un’infanzia povera – è diventato un altero principe. Avventure a non finire, morale all’insegna della tolleranza reciproca, scoperte continue e un piacevole senso di serenità, avvolti dagli sfondi e dalle architetture sontuose. Nonostante ogni tanto pensassi al videogioco Prince of Persia, visivamente Azur e Asmar è eccezionale. Il messaggio conciliante e la speranza di dialogo tra Occidente e Oriente, riportano purtroppo alla natura fiabesca del racconto. (Dvd; 27/7/09)

ddv6711750 – Un bel colpo (secco): Slap Shot di George Roy Hill, USA 1977
La squadra di hockey va male, la fabbrica cittadina sta chiudendo e presto saranno tutti a spasso: operai e giocatori. Il coach che va ancora in campo, Reggie Dunlop, deve farsi venire qualche idea, anche perché come hockeista è ormai passé mentre come allenatore, con questi risultati, non se lo piglierebbe nessuno. E comincia a giocare sporco, ma mica come la Juve, no, niente Moggi: lui fa soffiate false alla stampa, irride gli avversari, usa ogni trucco a disposizione per creare spaesamento nel nemico ed entusiasmo nella sua squadra, demotivata e zeppa di cialtroni. E riesce nel miracolo, anche grazie all’arrivo nel team dei tre fratelli Hanson, che sembrano sfigati come Joey Ramone ma sul ghiaccio menano di brutto come Johnny con la sua Mosrite. E così i Chiefs di Charlestown cominciano a vincere, trascinano il pubblico, diventano consapevoli di risorse fino a quel momento nascoste, fino a un finale folle e veramente inaspettato. In mezzo ci sono incomprensioni linguistiche, fidanzate e mogli disperate, gelosie professionali e allenamenti a sollevare birre. Reggie ha la faccia furbetta di Paul Newman e alla regia c’è quella vecchia volpe di Roy Hill. Un po’ Stangata, un po’ Butch Cassidy, Colpo secco è un film solido, divertente e arguto, magnifico esemplare di quel cinema anni Settanta bello robusto. (Ri)Visto perché più volte citato dai Wu Ming come loro cult. Come dargli torto? (Dvd; 31/7/09)

ddv6712751 – Poesia: Wall E di Andrew Stanton, USA 2008
Riportando tutto a casa, tra 700 anni: una pianticella in mezzo alla rumenta, i nuovi primi passi dell’umanità. Pura poesia, digitale e umanissima, con una prima mezz’ora che è il cinema all’ennesima potenza, con protagonista un robottino sfigato in mezzo alla devastazione del pianeta. Incredibile. Come sempre, alla Pixar, spira la brezza del genio. Poi la vicenda diventa più ordinaria e fanciullesca, con la consueta corsa contro il tempo etc. etc. Però siamo sempre dalla parte del capolavoro, come caratterizzazione dei personaggi, tocco leggero, invenzioni. Sofia ha visto senza problemi la parte iniziale, muta (siamo noi adulti ad avere paura della mancanza di dialoghi. Anzi, siete voi!). Qualche apprensione normale per i suoi 4 anni nel concitato prosieguo. Significa che dovremo rivederlo. Spero presto. (Dvd; 5/8/09)

ddv6713752 – L’imbarazzante 24 – Stagione Sei di Joel Surnow e Robert Cochran, USA 2007
(Attenzione: spoiler a go-go). La sesta serie di 24 parte nel peggiore dei modi: nessuna plausibilità, tutto drammatizzato senza ritegno e senza equilibrio. Dopo che alla fine della splendida serie precedente Jack Bauer era stato sacrificato alla ragion di stato e consegnato ai perfidi cinesi, ecco che qui basta una telefonata del presidente (il fratello di David Palmer, il Kennedy nero) per farselo rendere. Barbuto, zozzo, tumefatto e ammutolito. Arriva che il cielo è ancora nero (le 6 e 13 di L.A.) e dopo 15 minuti c’è un sole che spacca le pietre e lui è sbarbato, pettinato, probabilmente profumato e pure con una manicure invidiabile. E sapete perché se lo son ripreso gli americani? Per darlo in mano a un terrorista islamico assetato di vendetta che in cambio rivelerà dove trovare il responsabile degli attentati che stanno mettendo sotto assedio gli USA. Ovviamente Bauer accetta (non fiata, obbedisce e va mestamente al macello; 20 mesi in mano ai cinesi devono averlo rincorbellito non poco… e non solo: c’è il consueto imperativo morale ricattatorio, l’higher good, il bene superiore, davanti al quale ogni considerazione etica va a farsi benedire, fino all’autosacrificio. Di questo ne riparliamo più avanti) ma ovviamente la faccenda non finisce qui. Come detto, il primo episodio fa abbastanza schifo. Il ritmo c’è e l’azione pure, ma manca la sospensione d’incredulità che ci ha tirati scemi per anni. Stavolta il miracolo non accade. E da qui in poi è un crescendo. Pretendere verosimiglianza sarebbe assurdo, è chiaro (tra l’altro verosimiglianza con cosa?). Ma questo non è più un thriller, è fantascienza. Al quarto episodio viene data l’immunità a un terrorista efferato, Jack Bauer fa secco un commilitone per difendere il succitato cattivone e poi c’è un bello champignon atomico sulla città degli angeli. Insomma, di questo passo arriveremo alla fine della serie con: lo scioglimento della calotta polare in poche ore, l’arrivo del Messia in Israele (quello vero, a questo punto), l’atterraggio degli UFO e la scoperta dei responsabili di Ustica… (nah!, così sarebbe troppo). Però non ci risparmiamo la consueta cagnara in un consolato straniero, una tragedia familiare shakespeariana, i terroristi che sono una masnada di montanari coglioni, il gusto – tra il menagramo e l’apotropaico – nel far vedere cosa potrebbe accadere (se non ci difendessimo a ogni costo) alla Land of the Free, la classica cospirazioncina bombastica interna alla White House e i “veri” patrioti che per amor della Nazione fan nuclearizzare il loro paese, così poi si può rispondere al fuoco, per Dio. Siccome vedere 24 è come fumare crack, rimaniamo scimmiati dalla serie anche stavolta e, va da sé, il divertimento c’è. Eccome, ma l’equilibrio perfetto (e subdolo) di altre edizioni s’è perso. Crediamo per sempre, perché ormai o si esagera ancor di più o sembra tutto all’acqua di rose. Il problema più grosso, ad ogni modo, è che l’inganno di 24 è diventato sempre più scoperto, non c’è più alcuna reputazione “democratica” da difendere: Jack Bauer, pentendosene sempre dopo e magari anche affrontandone le conseguenze (con lacrime coccodrillesche), travalica ogni volta i limiti: la tortura non è un metodo – aberrante e inumano a cui, Dio non voglia!, siamo stati costretti a ricorrere -, è il metodo e dagli e ridagli, per quanto forti siano le tue difese intellettuali, ti abitui a considerarla una brutta cosa che qualcuno deve pur fare per salvare il culo a tutti. Questa serie in particolare è scopertamente assolutoria e, se vogliamo, paradossalmente anche meno insincera del solito: tutti i politicanti ambigui, alla fine, fanno le scelte giuste per la Patria. E in fondo, a parte qualche arabo puzzone e qualche cinese infido, non ci sono veri cattivi. Per cui, sì, dopo anni, devo ammetterlo: 24 è una serie clamorosa, molto entertaining, molto destrorsa, decisamente bushiana. Mi verrebbe da dire che, no!, io so resistere e so godere solo del lato ludico. Ma poi la notte un po’ ci penso e ho i complessi di colpa. (Dvd; settembre e ottobre 2009)

ddv6714753 – Altro giro, altro capolavoro: Mr. Vendetta di Chan wook Park, Corea del Sud, 2004
Evidentemente questo regista è un genio. Qui c’è tutto quello che voglio da un film, oggi. Ho 40 anni, sono un ordinario rimbambito italiano, dormo poco o niente da un anno e mezzo e sono ancora lontano dal riprendermi. Ma soprattutto nella mia vita ho ingurgitato tonnellate di pellicola e ascoltato migliaia di storie. Per divertirmi, per pensare, perché ne valga la pena insomma, ho bisogno di una vicenda originale, che mi sorprenda e che mi appaghi. Sono come quella puzzona della signora in giallo con Ambrogio, quella col languorino, per capirci. Oh: lo so che non è facile, ma per godere devo trovare soluzioni espressive inedite. Un’estetica diversa, che mi stupisca e che mi faccia dire: a questo non ci aveva ancora pensato nessuno. Tanto meno io, te capì? E questo Park è grandioso: qui non c’è nulla di risaputo. Sembra tutto fresco, diverso. Dico “sembra” perché la distanza occidentale e la mia abissale ignoranza del cinema dell’est asiatico probabilmente ingigantiscono il sapore di novità, ma qui mi esaltano i volti, le ellissi narrative, le scelte fotografiche, gli snodi imprevisti. Questo è un film bello da vedere, tanto che potrebbe essere anche muto, ed è quasi perfetto perché Old Boy porterà al livello estremo le premesse di Mr. Vendetta. Riassunti non ve ne faccio, ma uno spoilerino insignificante sì: dopo trapianti senza anestesia, autopsie, torture con gli elettrodi, suicidi, annegamenti e colpi di mannaia o di mazza da baseball, alla fine trionfa la giustizia rivoluzionaria. E se un film così lo fa un coreano del sud, chissà che bocconcini ci riservano quei buontemponi del nord schienati dal cinefilo Kim Jong Il, eh. (Dvd; 11/10/09)

ddv6715754 – E ho pianto: Up! di Pete Docter e Bob Peterson, USA 2009
Interrompo il mio digiuno cinematografico in sala che dura da ben 515 giorni (per un film visto parzialmente, perché se dobbiamo a risalire a un film intero, i giorni di astinenza sono 679. Interessantissimo, no? La parola magica è: “figli”) e vado con Sofia a testare questo nuovo Pixar di cui si dicono mirabilie. E in effetti Up! è un film straordinario, un Frank Capra del nuovo secolo. Io piangevo di nascosto, tirando su col naso e mordendomi l’interno delle guance, e Sofia mi chiedeva preoccupata se stessi male. E piangevo dopo neanche dieci minuti (in cui si racconta con intensità impressionante la vita di una coppia), perché questi artisti geniali della Pixar hanno saputo costruire un inno all’avventura, all’amore e alla fedeltà alle idee seguendo i percorsi meno battuti e prevedibili. Il protagonista è un simil Spencer Tracy, molto incazzato coll’orbe terracqueo intero, sdentato e catarroso, talmente legato al vecchio mondo che grida (con la voce di Arnoldo Foà: 94 anni e non sentirli) “tagliati i capelli, hippie!” a uno yuppie. Si accompagna a un bimbo petulante, che conosce il mondo solo attraverso esperienze vicarie (dai libri ai videogiochi). Assieme scopriranno tante cose che, se le elencassi, il film sembrerebbe una stronzata. E invece è l’ennesimo capolavoro che ci dice che si può diventare adulti e rimanere bambini e liberarsi di tutto, anche delle cose che ci sembrano irrinunciabili, per volare di nuovo. Discutendo con amici, c’è chi individua nella moglie rimpianta la zavorra che legava il protagonista. Ma il problema è loro, non mio, e del resto le recensioni sono esercizi d’autoanalisi su sogni di celluloide condivisi. In sala c’erano pochi spettatori, nessun bambino e qualche liceale che viene al cinema per chiacchierare. Ah: il 3D, questo 3D, è pazzesco. (Cinema Gloria, Milano; 19/11/09)

(Continua – 67)

Qui le altre puntate di Divine divane visioni

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Bambi Fossati, chitarra cosmica https://www.carmillaonline.com/2014/09/04/bambi-fossati-chitarra-cosmica-2/ Thu, 04 Sep 2014 20:41:13 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=15677 di Filippo Casaccia

[In omaggio a Bambi Fossati, mancato il 7 giugno scorso, ripubblichiamo un pezzo che gli avevamo dedicato anni fa]

Bambi Fossati 1È là che devi andare, laggiù Oltre il sole, e navigare…

Anche noi italiani abbiamo avuto i nostri piccoli Hendrix. E venivano tutti da Genova. Uno era Nico Di Palo, chitarra visionaria e acida dei New Trolls prima maniera; l’altro era Pier Niccolò “Bambi” Fossati, il sognatore dei Garybaldi, uno dei migliori gruppi rock italiani di sempre. Non so, nell’acqua della mia città, tra gli anni Sessanta e Settanta, doveva esserci qualcosa di particolare e alla generazione [...]]]> di Filippo Casaccia

[In omaggio a Bambi Fossati, mancato il 7 giugno scorso, ripubblichiamo un pezzo che gli avevamo dedicato anni fa]

Bambi Fossati 1È là che devi andare, laggiù
Oltre il sole, e navigare…

Anche noi italiani abbiamo avuto i nostri piccoli Hendrix.
E venivano tutti da Genova.
Uno era Nico Di Palo, chitarra visionaria e acida dei New Trolls prima maniera; l’altro era Pier Niccolò “Bambi” Fossati, il sognatore dei Garybaldi, uno dei migliori gruppi rock italiani di sempre.
Non so, nell’acqua della mia città, tra gli anni Sessanta e Settanta, doveva esserci qualcosa di particolare e alla generazione dei cantautori era succeduta quella dei rocker: in un laboratorio musicale vivacissimo nacquero band straordinarie come i Delirium (con un altro Fossati, Ivano), i Nuova Idea, gli Osage Tribe, il Duello Madre, i Latte e miele, i futuri Matia Bazar che allora si chiamavano Jet… c’erano fermento e idee e soprattutto grandissima libertà. E veramente il più libero, il più magicamente hippie di tutti loro, era Bambi, chiamato così per il suo amore per la natura e per la poetica abitudine di perdersi nei boschi sopra Tiglieto.

Quando l’ho conosciuto, è stato un incontro che mi ha riempito il cuore, perché Bambi, generoso e povero in canna, gentilissimo e politicamente incazzato, è una persona innocente e talentuosa, che suonava realmente in maniera disinteressata. La musica, per lui, non si faceva per denaro, carriera o affermazione personale, ma per inseguire un sogno di condivisione, pace e libertà.
E questa visione naif e sincera della vita, Bambi l’ha pagata, rimanendo uno splendido segreto per molti appassionati ma non per il grande pubblico.

Bambi Hard Rock CafoneMa andiamo con ordine; dunque: per nove anni ho curato sul mensile Rolling Stone una rubrica chiamata “Hard Rock Cafone”. Avevo licenza di sparare in un’ampia riserva di caccia: il rock degli anni Settanta e dintorni, partendo dall’hard rock e divagando allegramente. E tra i primi sfizi che mi son tolto uno è stato raccontare la storia di Fossati, appunto.

Nel 1992 suonavo in gruppo di rock blues e mi capitava di provare in un cubotto di cemento armato che si trovava proprio sopra il cimitero di Genova, Staglieno, una location più adatta al death metal sepolcrale che alle mie ignoranti svisate sulla Eko.
A differenza dei miei compagni io ero cane come pochi e lasciavo spesso l’immonda sala prove per fumarmi una sigaretta. Il cubotto era una specie di silo a più piani; ci andavamo la sera tardi, per cui non ho mai appurato cosa fosse stato realmente, in origine, però da un piano inferiore per nulla insonorizzato arrivavano note celestiali: con una certa riverenza mi avevano detto che era Bambi che provava, “una gloria underground degli anni Settanta”, e io non avevo mai trovato il coraggio di presentarmi per conoscerlo e magari, attraverso l’imposizione delle mani, ricevere un po’ della sua perizia strumentale.

Dopo quindici anni ho recuperato il suo numero di telefono e l’ho chiamato. Mi ha risposto, incredulo che qualcuno volesse intervistarlo (“Ma Rolling Stone, quello? Ma sei proprio sicuro?”), e sono riuscito a organizzare un incontro. Abitava sopra la stazione ferroviaria di Brignole e per raggiungere casa sua bisognava farsi parecchie centinaia di gradini in salita, una fatica che sarebbe stata ben ripagata. Infatti Bambi, finito di impartire una lezione di chitarra, mi ha accolto e mi ha raccontato la sua storia, quella di un ragazzo innamorato della musica.

Bambi GleemenGenovese purosangue dall’accento marcato, capelli raccolti in una coda, la sigaretta sempre accesa, Bambi individua un preciso punto di svolta nella sua vita: il 23 maggio del 1968, quando Jimi Hendrix suona al Piper di Milano. Lui ha saputo del piccolo tour italiano (Milano, Bologna e Roma) leggendone su un Melody Maker comprato all’edicola della stazione Principe. Assieme al compagno di banco e di avventure Ronzani prende il maggiolone di suo fratello (“Come Thelma e Louise… e nessuno di noi due aveva la patente!”) e affronta notte e nebbia per vedere il concerto. Che è uno shock: “Sembrava fosse atterrata un’astronave… Jimi era un alieno!”; e con una piccola soddisfazione: “Finita l’esibizione, dietro le quinte mi son fatto dare una delle sue sigarette, una Philip Morris senza filtro che ho ancora, tutta sbrindellata…”. Nel frattempo il giovane Pier Niccolò suonava col suo primo gruppo, i Gleemen, che — dopo una frizzante cover di Lady Madonna — arriva all’esordio discografico con l’album omonimo, un disco che trascende il beat dipingendo affreschi psichedelici, sfiorando l’hard come all’epoca solo i Trip avevano osato, e regalandoci il primo compiuto blues elettrico italiano, Chi sei tu, uomo.

Poi si decide di dare una svolta: il gruppo cambia ragione sociale e col singolo Marta Helmuth i Gleemen diventano Garybaldi, le sonorità si induriscono (tra Hendrix e i Deep Purple di Mandrake Root) e arrivano anche le prime censure: la canzone narra di una strega bruciata dall’inquisizione e la Rai non gradisce. Poi l’album che consegna i Garybaldi alla storia, il folgorante Nuda (1972) che è impreziosito dalla più bella copertina del rock italiano, un triple gatefold con una Valentina come da titolo, disegnata da Guido Crepax: semplicemente spettacolare.

Bambi Nuda

Il disco è bello e fresco e tra suite, cascami hendrixiani, improvvisazioni ed esperimenti progressive (nel senso migliore del termine, quello autentico e dell’epoca) rimane uno dei documenti più validi di quella stagione. Bambi non è un chitarrista particolarmente tecnico (anche se leva la pelle a tanti giovinastri di oggi che polverizzano senza senso scale misolidie), ma ha un feeling impressionante e il suo sound in Italia non ha eguali. È la stagione dei grandi raduni pop e i Garybaldi ci sono sempre; aprono per i Van Der Graaf Generator, i Santana e anche i Bee Gees (!) e suonano ovunque, molte volte a fianco degli amici Area. L’imperativo di quegli anni viene abbracciato in pieno da Bambi: “Essere originali e unici, prima di tutto!”. E poi condividere, la musica e la visione del mondo: “Ero uno hipster, uno hippie con una tendenza politica, chiaramente di sinistra… parlarne oggi fa strano, ma comunicare — per noi — era la cosa fondamentale!”. Le foto ci restituiscono sul palco un Bambi baffuto, capellone e sempre con la bandana (“Quando suonavo, sudavo come una bestia. La mettevo per questo, mica per imitare Hendrix… ma vallo a spiegare ai critici musicali!”). Dopo il più sperimentale Astrolabio (1973, a Bambi è accreditata una Chitarra Cosmica) i Garybaldi si fermano. Lui non dà retta a De André: (“Ci siamo scolati qualche bottiglia di whisky, assieme. Mi diceva sempre: devi andare via da Genova!”) e compone il lirico, solare e sognante Bambibanda e melodie (1974), album dove è più forte l’influenza di Carlos Santana e la chitarra spazia libera su tappeti di percussioni, come nella clamorosa Pian della Tortilla.

7b2cc34a3ef4cc15828abcd4103c1d29_origIntanto il clima politico si è incattivito e Fossati mette da parte la chitarra elettrica, scomparendo un po’ dal giro: “Avevo un progetto che si chiamava Acustico Mediterraneo… ci facevamo i cazzi nostri!”. Quando torna ai watt sparati dal Marshall, la musica è cambiata ancora e il pubblico vuole ballare, figuriamoci ascoltare un improvvisatore. Sono gli anni in cui Genova conosce la crisi nera, con la ritirata del comparto siderurgico, la disoccupazione, la paralisi del porto, l’eroina che quando arriva viene venduta a troppo buon mercato per non destare qualche sospetto… Anche Bambi soffre, ed è pure genoano: “Non ci siamo ritirati: abbiamo continuato, ma in disparte… siamo così a Genova, ci nascondiamo nei caruggi”. Nelle classifiche dominano porcate sintetiche che cresceranno una generazione di zombie, ma il vero problema — pratico e quotidiano — è che non si trova più da suonare dal vivo. Bambi non ha grandi royalties da ricevere e si arrangia insegnando a suonare a tanti ragazzi, da ottimo cattivo maestro, tornando alla ribalta solo nel 1990 con il bel Bambi Fossati e Garybaldi, solido rock blues e un curioso rap in genovese. Come per tanti chitarristi di matrice hendrixiana, lo stile diventa croce e delizia. Bambi ha una sua via personale ma “se in concerto non faccio qualche cover di Jimi, mi mangiano vivo”. Seguono a distanze abbastanza regolari Bambi Comes Alive (1993) e poi, via via incattivendosi sonicamente, Blokko 45 (1996) e La ragione e il torto (2000), in uno stile che il musicista definisce “psycho metal blues”. Del resto, a differenza di tanti suoi coetanei, Bambi non si affida alla nostalgia ma ascolta cosa succede in giro ed è entusiasta dei Pantera e soprattutto dei Rage Against the Machine, micidiale miscela molotov di rap, metal e consapevolezza politica. A proposito, gli chiedo: dov’eri durante il G8? “Qui, a casa mia… in piazza a prendere le mazzate!”. Parecchie sigarette dopo, la chiacchierata finisce facendo il punto sul Sistema che lui già attaccava più di trent’anni fa: “T’incula da quando hanno inventato l’orologio. Capisci? L’universo in una sveglia!”. Lo lascio come se lo conoscessi da sempre.

Da allora, Bambi l’ho visto ancora due volte; mi sembrava stanco, alle prese con mille difficoltà, anche economiche: “Se avessi un euro per ogni sito che parla di me, sarei ricco sfondato!”. E invece…
Poi ho saputo che i Garybaldi si sono riuniti, senza di lui, purtroppo malato. Nessuno pensi a sciacallaggio, anzi: i riuniti Garybaldi — con la straordinaria chitarra di Marco Zoccheddu, un tempo Gleemen e poi con gli Osage Tribe e De André — sono un omaggio a uno dei nostri poeti, uno che ci ha fatto sognare senza usare le parole ma una chitarra.

Da ascoltare:
Nuda (1972)
Bambibanda e melodie (1974)
Da vedere:
Vicino in un momento, Dvd documentario contenuto nel Cd Note perdute (2010)
Da leggere:
Codice Zena di Riccardo Storti (2005)
Jimi Hendrix, 5 giorni a maggio — Italia 1968 di Roberto Bonanzi e Maurizio Comandini (1998)
Anni 70 — Generazione rock di Giordano Casiraghi (2005)

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Un weekend del 1993 – 3/5 https://www.carmillaonline.com/2014/08/07/weekend-1993-35/ Thu, 07 Aug 2014 21:01:54 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=15654 di Filippo Casaccia

[Qui le altre puntate, la 1 e la 2] Metti un sabato sera, al rave

weekend3La serata s’è subito messa bene. Vecchi amici, un buon rosso e cibo eritreo. Raffa e io siamo gli unici fessi che, da veri ghiottoni, ingoiano il peperone verde piccante intero. Saporito sì, ma fortino e la lingua diventa un altoforno. Le lacrime agli occhi e la sudorazione da sauna non c’impediscono di apprezzare il compagno Pier che tiene banco durante la cena e sfoggia il suo ethos. Sembra una convention elettorale perché espone, in 100 punti, il [...]]]> di Filippo Casaccia

[Qui le altre puntate, la 1 e la 2]
Metti un sabato sera, al rave

weekend3La serata s’è subito messa bene. Vecchi amici, un buon rosso e cibo eritreo. Raffa e io siamo gli unici fessi che, da veri ghiottoni, ingoiano il peperone verde piccante intero. Saporito sì, ma fortino e la lingua diventa un altoforno. Le lacrime agli occhi e la sudorazione da sauna non c’impediscono di apprezzare il compagno Pier che tiene banco durante la cena e sfoggia il suo ethos. Sembra una convention elettorale perché espone, in 100 punti, il suo programma, con una parola buona per tutti: il frignone Leoluca Orlando, Di Pietro, Occhetto, Formentini, gli orridi Ragazzi del muretto, Castagna, Venditti, Alba Parietti, Minghi, Costanzo, Mino Damato, Mara Venier, Pannella, Sgarbi, Fede, Ferrara e Berlinguer padre, figlia e cugino. E di Andreotti ha una certezza: “Altro che un bacetto a Riina, ci ha messo 5 centimetri di lingua”. E ancora Santoro, Guglielmi, Curzi, Donatella Raffai, Dandini e Augias: “E questa è la cultura di RaiTre: tutti gli animali della savana che ciulano”.
Lo accuso d’intolleranza e mi ricorda che più di una volta ho detto che se vado al potere, come niente faccio due milioni di morti, ispirato proponimento polpottista che abbraccia in pieno. M’arrendo all’evidenza della mia confusione mentale. Si parla d’altro ma è sempre Pier a fare lo show con bislacche teorie sul rapporto intimo di coppia, teorie che non lo hanno ancora, incredibilmente, reso padre. Si parla anche di politica, di questo governo delegittimato e delle probabili elezioni in primavera. Dichiaro che questa volta si vince facile, a man bassa: altro che Patroclooo, Achilleeeee! Raffa dice che non vinceremo mai. Mi fa presente che sono di sinistra e pure genoano: ho mai vinto qualcosa in vita mia? M’incupisco. Poi Matteo tira fuori Berlusconi e la sua uscita su Fini, per le comunali di Roma. Si dice che voglia entrare in politica. Sì, e mette su un partito così, dal nulla? Ma dài, Matteo… Pacche sulle spalle che si riservano allo scemo del villaggio. E alle undici, satolli, sudati e bevuti, che si fa?
Raffa, sempre in vena di originali iniziative, propone di andare ad un rave che si tiene alla “Cascina detta di pulci” di Vaiano Valle: si esibiranno i Mutoid, anarco-transmutanti inglesi svernati a Santarcangelo di Romagna. E come dire di no a questa botta di vita intellettuale, a quest’occasione di frugifero confronto sociale ed artistico? Faccio presente che non vorrei far troppo tardi, se no la Uno di Barbara si trasforma in una zucca e le scarpine di cristallo non mi entrano più. Sì, sì, mi rispondono, e si parte giulivi verso l’area del dissenso.
L’arrivo è avventuroso e l’atmosfera nella cascina è strana. È cadente e ci vive dentro una comunità di punkabbestia con i loro cani: bisogna stare molto attenti alla marea di stronzi per terra e dallo stato del pelo delle bestie si comprende il soprannome della cascina. I punkabbestia tanto sono truci nell’aspetto quanto gentili nel comportamento. Vengono addirittura a prenderci: ci viene incontro una macrognocca con la testa da gorgona rasta. La cascina è in mezzo ai campi e per evitare ingorghi fanno parcheggiare lì vicino, poi ti portano loro con un furgone. Guida un’altra bellona, dalla testa che sembra la coda di un pavone in amore. Nel Centro Sociale musica techno-punk a volume assordante: siamo decisamente i primi e infatti non è neanche mezzanotte. Facciamo i disinvolti ma è impossibile non notarci: siamo lì (scopriremo) con 4 ore d’anticipo sull’avvenimento. A piercing vari, dreadlock, giarrettiere smagliate e tagli da ultimo incazzato dei mohicani oppongo desert boots e giacchetta di velluto da futuro architetto, che indosso con la classe di un modello sgonfio. Qualcuno intuisce che ho delle sigarette: inizia una processione per chiedermele. Mi adeguo e dopo un po’ cerco anch’io gente da cui farmele offrire perché le mie le ho finite, solo che io sembro un infiltrato della Digos e me le danno mal volentieri. Un tizio più barcollante degli altri mi offre una pasticca e io declino molto urbanamente facendo presente che ho già le Mentos da sballo. Non ride.
Verso l’una ci illudiamo che il rave stia iniziando perché arriva un po’ di gente. In realtà anche i punkabbestia hanno i loro Fantozzi, mica come noi che, equivocando simpaticamente, possiamo sempre far finta di esser venuti per cena. Infine ecco i nomadi Mutoid che cominciano a predisporre il luogo per l’esibizione con le loro bellissime macchine customizzate alla Mad Max. L’abbigliamento aderisce a quello del film: il più sobrio indossa una maglia di cotta metallica che neanche re Artù in acido. La birra scorre a fiumi, i cani scagazzano, la musica pompa ossessiva, gli autoveicoli modificati degli artisti sgasano tra fuoco e fiamme. Quando gli altoparlanti sputano i Clash tento di fare cenni d’assenso ai convenuti. I miei sorrisini d’intesa non producono nessun effetto. Cazzo gliene frega a loro se i Clash li conosco anch’io? Niente, infatti. Allora, faccio il compagnone e m’introduco in una delle stanze in cui, presumibilmente, ad un certo punto si danzerà. Mi rendo conto che ho una concezione del ballo e dell’espressione corporea che forse potrebbe condividere giusto Visconti, tipo valzer finale de Il gattopardo. Nella stanza ci sono luci fluorescenti e le casse vomitano un riff ottuso e ripetitivo. Tutti dondolano, qualcuno si avvicina e mi guarda strano: sicuro che son della Questura. Verso le due l’orchite e la scarsa interrelazione con i frequentatori del centro sociale ci inducono a fuggire alla chetichella. Spariamo balle ad alta voce, tipo: “Andiamo a fare due passi, ma torniamo” oppure “Là dentro si soffoca”. Non ci crede nessuno; siamo entrati per primi e stiamo miseramente scappando. C’incamminiamo per i campi, dandoci alla macchia complice il buio, ma il furgone della Cascina guidato dall’implacabile macrognocca gorgona ci scova e ci offre un passaggio: vergogna da ladri, ma non esitiamo, tanto ormai abbiamo già fatto tutte le peggio figure possibili. Durante il percorso mi appoggio al portellone che scoprirò non essere chiuso: alla prima curva, scivola lateralmente portandomi con sé. Resisto strenuamente appeso al portello aperto, con le gambe che ondeggiano fuori dal veicolo, sotto gli occhi severi delle bellissime rasta. Arriviamo alle macchine, ringraziamo e salutiamo con gli occhi bassi. Del rave leggeremo su Decoder. Siamo uomini d’azione, e letterati pure.

(3 — CONTINUA)

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