Fucecchio – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Padurap paduloop https://www.carmillaonline.com/2024/08/23/padurap-paduloop/ Thu, 22 Aug 2024 22:05:27 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83519 di Luca Baiada

Liduino lo incontrai nel 2013 in un circolo di paese. Eravamo a un passo dalla palude. Sto parlando della palude interna più grande d’Italia. È in Valdinievole, dove abitava Tofanelli. È il Padule di Fucecchio, perché in Toscana la lingua non l’hanno imparata, l’hanno fatta, sicché la palude è il padule, come la luce si spenge e gli scritti si interpetrano, che poi le persone ammodo la chiamano metatesi. Però metatesi è una parola che uno di quei padulini, uno come il Betti, per dire, non l’avrebbe usata, lui con quella voce e le mani di scaglie di [...]]]> di Luca Baiada

Liduino lo incontrai nel 2013 in un circolo di paese. Eravamo a un passo dalla palude. Sto parlando della palude interna più grande d’Italia. È in Valdinievole, dove abitava Tofanelli. È il Padule di Fucecchio, perché in Toscana la lingua non l’hanno imparata, l’hanno fatta, sicché la palude è il padule, come la luce si spenge e gli scritti si interpetrano, che poi le persone ammodo la chiamano metatesi. Però metatesi è una parola che uno di quei padulini, uno come il Betti, per dire, non l’avrebbe usata, lui con quella voce e le mani di scaglie di tartaruga.

In quel tempo volevo farmi dire dal Faina una ballata, una ballata popolare vecchia, ma vecchia è dire poco; antica, via. Una ballata sull’eccidio del Padule di Fucecchio, fatto dai tedeschi e dai fascisti il 23 agosto 1944, pochi giorni prima che la Valdinievole fosse liberata.

Questa ballata che volevo dal Faina non ha un titolo, anzi ce l’ha nel senso che gliel’hanno messo, ma dopo: Popolo se m’ascolti, che sono le prime parole. L’autore l’ho cercato, voglio dire ho provato a individuarlo, dev’essere morto da un pezzo. Certe volte sono arrivato a un passo da lui, ma poi, sarà che non volesse farsi trovare, non mi è riuscito. Era un barrocciaio, cioè un carrettiere. Un po’, l’autore doveva essere anche il popolo che ascoltava, il popolo che sentiva le varie versioni e interveniva per correggere, cambiare. Ma questo barrocciaio, niente. Però c’era lui, ancora vivo, lui che la ballata la sapeva perché l’aveva sentita dal barrocciaio, subito dopo la guerra, e l’aveva mandata a memoria. Lui l’aveva salvata.

Sì, ma avete capito lui chi? Il Faina oppure Liduino, o magari il Tofanelli. O invece il Betti? Io impiegai un po’, a capire, perché se non sei proprio di quelle parti, duri fatica. Liduino e Tofanelli e Faina e Betti erano la stessa persona, ma chiamata così a seconda. Dagli amici, dall’anagrafe, dalla fama. Perché Liduino Tofanelli era un Faina, cioè un discendente di una famiglia dove fanno Tofanelli di cognome ma sono soprannominati tutti insieme Faini, e uno per uno Faina, da non si sa quanto tempo, e chissà perché, e se lo domandi in giro sorridono e si guardano come a dire: questo è cittadino.

Ma Liduino aveva anche un soprannome suo: Betti, come un famoso cacciatore, che a parlarne si farebbe notte, perché cacciava tanto tempo fa e conobbe anche gente venuta da fuori. Gente ricca che per un po’ si mischiava ai poveri, si immergeva in qualcosa di speciale, fra vita brada e scherzi grassocci, come quella scritta con cui Renato Fucini, nel Padule, immortalò un altro cacciatore, Pinciano, uno famoso come Betti o come Bandino, sul muro della sua casa: «Questa è la reggia di Pinciano il grande, / che senza la beccaccia fa i crostini / grattandosi la merda alle mutande».

Dicevo della ballata. Quella ballata il Faina me la dovette ripetere e ripetere, perché mi colpì talmente che tornai bambino. Diventai come quando vuoi sentire una cosa cento volte anche se sai già come va a finire. Poi, per una diecina d’anni, ogni 23 agosto ho scritto qualcosa per quei poveri morti, quei 174 assassinati, e ho messo sempre come titolo un verso della ballata misteriosa, e senza il permesso del barrocciaio. Ma non si è fatto vivo neanche così.

Io non so portare il barroccio. Io ho portato il barchino, l’altro mezzo di spostamento nel Padule, che bisogna pingere con la forcola nel fondo, e vai dal cannellaio al chiaro, e torni, e così si entra in un mondo incantato. Ma ecco, sto divagando perché non mi riesce di venire al dunque.

Per farla breve. Adesso volevo comporla io, una ballata, ma come quella del barrocciaio non la sapevo fare. Io l’ho fatta così, perché ogni cosa ha il suo tempo e adesso va il rap e poi c’è il loop, e questa è la ballata Padurap paduloop, che si può dire a cantilena, a rap, su una base ritmata, magari giocando con le mani su un vinile che gira. Oppure cliccando un file audio, per esempio questo:

Rap-loop

Ci vorrebbe anche della gente che fa hip-hop. Gente di oggi, magari gente di città che non ha mai visto neanche le galline, o le vede solo a pezzi, in scatola, quando le porta cotte, chilometri e chilometri in bicicletta, a casa di chi non le sa cucinare. Perché tanto, in Toscana, di finti contadini e finte damigelle e finti cavalieri, ne abbiamo pieni i quadretti pubblicitari e anche i coglioni.

 

Non basta ricordare, non basta ricordare,

se la parola inciampa, bisogna camminare.

 

La sai la storia atroce, ascolta questa voce,

sono nomi lontani, sono caduti umani.

Conosci questi nomi, conosci questi luoghi:

Sant’Anna di Stazzema, Cavriglia, Marzabotto.

Ma un’altra storia antica, questa storia nemica,

non l’hai sentita mai, non sai che cosa sia.

E se l’ascolterai, non dimenticherai,

dirai «questo mi tocca», dirai «è storia mia».

È una palude grande, fra le montagne e l’Arno,

gente di ceppo forte, di dignità operosa.

È una terra di mezzo, c’è nato Leonardo,

e puoi trovarci il popolo, la vita laboriosa.

Ti dicono Cerreto, Fucecchio, Monsummano,

e poi Larciano e Ponte, parole che non sai,

ma tu dì «caro sangue», ma tu dì «cuore umano».

È un’ala, la memoria, e adesso volerai.

 

Popolo se m’ascolti ti spiego la tragedia,

del 23 d’agosto l’orribile commedia.

 

È il 23 d’agosto, è nel quarantaquattro,

e l’Italia è divisa, e l’Arno fa il confine;

una strage terribile, centosettantaquattro,

pane zuppo di lacrime, dolore senza fine.

Sconfitti, quei tedeschi, grande è la loro rabbia,

uccidono, violentano, rubano gli animali,

e questa terra freme, e questa terra è in gabbia,

ma i partigiani lottano, nei boschi e fra i canali.

Dall’alba al pomeriggio, sono ore di massacro,

insiste la mitraglia, brulicano soldati.

Muoiono donne, bimbi, tra spari e fumo acre,

pastori, contadini e poveri sfollati.

 

Non basta ricordare, non basta ricordare,

se la parola inciampa, bisogna camminare.

 

Sulle aie, nelle case, arrivano col fuoco,

hanno mitragliatrici e portano l’elmetto.

Sono curiosi, i bimbi: credono che sia un gioco,

pensano a foto in gruppo, fatte col cavalletto.

«Ho tanta tete, tete!», fa Graziella ferita,

e muore in braccio a un’altra che è grande poco più.

E i fichi dell’estate, che sono pane e vita,

dal pancino di Pietro escono rossi giù.

E duro è questo canto, e puro è il loro pianto,

braccianti con le spose, lattanti nel grembiule.

La vecchia e la più piccola cadono quasi accanto,

piccine tutte e due, pulcine del Padule.

Carmela è cieca e sorda, chiama i parenti invano:

non sa che li hanno uccisi, tutta la sua famiglia.

Nella sua tasca un milite mette una bomba a mano:

Carmela ha novant’anni, non resta che poltiglia.

 

Popolo se m’ascolti ti spiego la tragedia,

del 23 d’agosto l’orribile commedia.

 

Remo è preso con gli altri, con Maggino il pastore,

li portano sull’argine, per i tedeschi è un gioco:

spinti nel fosso asciutto, gridano di terrore,

adesso sono in trappola, e quelli fanno fuoco.

Ha un capanno sicuro, il dolce Ferdinando,

ma ha promesso alla Ida che sola non starà.

La va a trovare trepido, s’affretta camminando,

e Ida aspetta, aspetta. Lui non arriverà.

Gente portata via, vecchi portati via,

li strappano dai letti, li strappano dai petti.

Antonio vede il sangue, ripete «mamma bua»,

gli spaccano la testa, solo silenzio resta.

Il marito di Angiola si chiama come lei.

Angiola vuole Angiolo, corre verso il canneto.

Corre anche il figlio Dario, non si vedranno mai:

si sente ta-ta-ta, restano in tre sul prato.

 

Non basta ricordare, non basta ricordare,

se la parola inciampa, bisogna camminare.

 

Vede i tedeschi, Lia, esce dal casolare.

Lando è fuori nascosto, e lei è la sua sposa:

vuole dirgli il pericolo, fa finta di falciare,

e muore al posto suo, cerbiatta generosa.

Sono forti, le donne, come mamma Maria:

la figlia Italia sanguina, la palude è assediata,

Maria la mette in barca e rema e rema via;

ma i tedeschi le fermano, e Italia è dissanguata.

Perciò, se trovi un fascio, e dice «Cristo» e «fede»,

tu mettilo alla prova, se quello fa il patriota:

digli che Italia è morta, ma c’è Maria che vede;

è una Passione povera, e lui è un povero idiota.

Marisa solo tredici, e ventun anni Anita:

e se davvero hai un cuore, aprilo con coraggio.

Una ha le cosce in pezzi, l’altra è stata svestita,

sono morte, e ora sai, qual’è l’ultimo oltraggio.

 

Popolo se m’ascolti ti spiego la tragedia,

del 23 d’agosto l’orribile commedia.

 

Dopo, vedovi e vedove, e orfani disperati,

notti di pietra, incubi, e giorni di sudore.

Fanno due ombre in terra, tutti i sopravvissuti,

lacrimano anche dentro, affamati d’amore.

Il tempo non ha tempo, il sangue è un lago nero:

i figli sono padri, le bimbe sono spose.

Nel fondo del dolore lo specchio è più sincero,

ci guardi la tua faccia, e parlano le cose.

L’innocenza è una trappola. Dici «sono innocente»,

ma la storia cammina. Tu non hai fatto il male,

però se contro il male tu non hai fatto niente,

il male è dietro l’angolo e ti verrà a cercare.

 

Non basta ricordare, non basta ricordare,

se la parola inciampa, bisogna camminare.

 

La vita da scampati è vita di assediati,

tremano ai temporali, o al volo di un moscone;

hanno la mano stanca, hanno la testa bianca,

sono cuccioli antichi, col cuore di leone.

Quando la loro voce sarà nella tua bocca

tu parlerai per loro, dirai senza paura.

Ricorda questa storia, è storia che ti tocca,

quello che fai è te, nessuno te lo ruba.

Quando racconterai, se ti daranno ascolto,

chiederanno il perché, diranno «non c’è scelta».

Tu racconta, ripeti: è un mostro senza volto

la colpa immaginaria che uccide un’altra volta.

Diranno «colpa loro, colpa dei partigiani»,

tu non gli dare ascolto, tu spezza le catene.

Ripeti con i piedi, ripeti con le mani,

ripeti con la voce se hai sangue nelle vene.

 

Popolo se m’ascolti ti spiego la tragedia,

del 23 d’agosto l’orribile commedia.

 

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L’orribile commedia https://www.carmillaonline.com/2023/08/23/lorribile-commedia/ Tue, 22 Aug 2023 22:05:32 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78451 di Luca Baiada

 

La più piccola aveva quattro mesi, la più vecchia novantadue anni. Assassinate dai tedeschi nel Padule di Fucecchio il 23 agosto 1944. Gli inglesi nel 1945 scrissero che i morti erano 184. Certi resoconti dell’epoca dicono duecento, persino ottocento. Mi sono chiesto il numero esatto, so che ormai è stato stabilito: sono 174. Adesso mi domando cosa sia, l’esattezza del numero. Quando ci chiediamo il numero preciso, su quella soglia ci siamo noi. Trappola morale, terribile e indispensabile, quella differenza dice anche il nostro posto fra i vivi e [...]]]> di Luca Baiada

 

La più piccola aveva quattro mesi, la più vecchia novantadue anni. Assassinate dai tedeschi nel Padule di Fucecchio il 23 agosto 1944. Gli inglesi nel 1945 scrissero che i morti erano 184. Certi resoconti dell’epoca dicono duecento, persino ottocento. Mi sono chiesto il numero esatto, so che ormai è stato stabilito: sono 174. Adesso mi domando cosa sia, l’esattezza del numero. Quando ci chiediamo il numero preciso, su quella soglia ci siamo noi. Trappola morale, terribile e indispensabile, quella differenza dice anche il nostro posto fra i vivi e i morti, e insieme la scelta fra acquietarci di fronte all’assassinio oppure chiedere giustizia, smascherare ogni travestimento, ogni surrogato. Nello scarto di una strage, nella coscienza dello scarto, si affaccia la strage della coscienza. Ogni zona grigia chiede: e tu, da che parte stai?

Dopo il vertice italo-tedesco di Trieste, nel 2008, con gli accordi sulle riparazioni memoriali la Germania ha speso pochi milioni di euro per iniziative di cultura. Tanti libri e libriccini e convegni e parole. Tanto mai più. Così erano i patti, in quell’incontro pittoresco. Berlusconi era soddisfatto per il siluramento della breve legislatura 2006-2008 e per il ritorno al governo (bella forza: prima, alla fine della legislatura 2001-2006, aveva avvelenato la legge elettorale col «porcellum»). Questioni importanti come la crisi Alitalia avevano preso la piega desiderata. Il potere era saldo eppure prometteva sviluppi: non c’era un successore ma nuove leve scalpitavano. Nel governo c’era una vivace ministra della gioventù, una che «fa ggiovane»: si chiamava Giorgia.

Nell’incontro internazionale fatto a Trieste, anche alla Risiera di San Sabba, il padrone delle televisioni fece uno dei suoi scherzi: il cucù alla Merkel. Che ridere. A Berlusconi l’appoggio tedesco faceva comodo, e poi contava su una presidenza del consiglio senza fine; tre anni dopo l’avrebbe lasciata senza tornarci. Stupirsi? Se un uomo ha un medico che propone la sua immortalità, può anche far lazzi alla signora che guarderà con sorrisino di Mutti le sue dimissioni. Il frutto delle intese di quel periodo fu: niente alle famiglie delle vittime di strage e deportazione, spiccioli per gli storici e le amministrazioni locali. Hanno chiamato tutto questo riparazione, memoria attiva, lenimento, simbolo pesante. Sulla strage di Fucecchio la manovra è stata alacre.

A Cintolese, comune di Monsummano Terme, è stato finanziato un monumento, direttamente nel cimitero, di fronte al cancello principale. I parenti, per visitare le tombe, devono vedere un’opera pagata dai tedeschi (per questo, qualcuno entra da un altro varco). Da tempo il manufatto è malmesso. Poco lontano c’è una tomba speciale, e ancora adesso c’è chi va a calpestarla calcando il piede con piacere: là giace – come si dice qui, Iddio l’accresca pena – il fascista che collaborò coi soldati. A pochi passi, il fascista e i ruderi pagati dalla Germania. Finalmente riuniti.

Anche a Massarella, frazione di Fucecchio, Berlino ha finanziato un monumento: è stato spianato un declivo, con le misure di un parcheggio, e c’è una staccionata a picco sul Padule. Sulle lastre conficcate in terra, oltre al cortese ricordo del contributo della Germania, ci sono i nomi delle vittime cadute nei paraggi. C’è anche un Cerrini. Vediamo meglio.

I Cerrini erano una famiglia di Venturina, in Maremma. Il padre Eder, comunista, il primogenito Enos, il figlio minore Eros. Nella strage cadde Enos, e infatti nel centro di Venturina c’è una strada col suo nome. Invece Eros sopravvisse al conflitto mondiale. Sul monumento è stato scritto Eros, non Enos, come se i tedeschi fossero tornati a finire il lavoro. Eppure sulla chiesa di Massarella, a pochi passi, c’è una lapidina di quelle da tre soldi, ma italiani, voluta dal Comitato di liberazione nazionale poco tempo dopo la guerra, e il nome del caduto è giusto: Enos Cerrini. Sul monumento grosso, pagato dalla Germania, il nome è stato scritto sbagliato. Successivamente qualcosa o qualcuno deve aver suggerito di correggere: adesso, anche sul monumento moderno si legge Enos Cerrini. Già, ma si vede anche la correzione. Scoperto lo sbaglio, non era il caso di sostituire la lastra? Invece, via il nome Eros con un taglio, e arriva un tassello col nome nuovo. Una toppa con saldatura.

Di tutti gli strafalcioni sparsi per l’Italia, nella beffa riparazionista uscita dal vertice del cucù, basterebbe assaggiare questo. A Massarella, da una parte c’è la memoria pagata a miccino, ma a testa alta, col nome giusto; dall’altra c’è la memoria rassegnata. Per scrivere subito il nome giusto bastava guardare la facciata della chiesa, ma bisognava avere passione e curiosaggine, non quattrini tedeschi facili e notabilati italiani pronti a raccattarli. La farina del Diavolo va tutta in crusca, la memoria spesata dalla ragion di Stato offende le vittime. E può nascondere: ventotto lastre dell’opera, a Massarella, portano ciascuna una parola («memoria, sangue, acqua…»), ma nessuna ricorda i fascisti e il collaborazionismo.

A Ponte Buggianese, località Capannone, c’è un edificio che con la strage c’entra come gli Stati italiani preunitari con la Seconda guerra mondiale. Era una dogana, poi magazzino, sugli antichi confini fra possedimenti lucchesi e fiorentini. È stato restaurato col contributo di Berlino. Un lavoro riuscito benissimo, assicurano quelli che riescono a vederlo dentro. Si era detto di farci incontri, raduni di auto d’epoca, cultura e passatempi. Dovrebbero esserci anche alloggi per le visite, e i cartelli nelle vicinanze promettono: «Ospitale Dogana del Capannone». È quasi sempre chiuso. Però c’è un minimo centro di documentazione, raramente visibile. La Dogana è stata usata con impegno per eventi; primeggia la presentazione, sei anni fa, dell’Atlante delle stragi, prodotto di punta fra quelli finanziati dalla Germania, e di un volume di cui è coautore Paolo Pezzino, che dello stesso Atlante è il direttore scientifico. Forse si tratta di imprevisti effetti promozionali.

Ancora a Ponte Buggianese, invece, c’è la tabaccaia: è uno di quegli essiccatoi, alti e inconfondibili nelle campagne toscane, manufatti di archeologia industriale che parlano del lavoro e del sudore. Pochi la notano, ma laggiù, davvero, ci fu la strage: contadini e sfollati, anche da lontano. La più piccola, Giancarla Ferlini, tredici anni. Insieme ai fratelli Malfatti, Evandro e Inghilesco. Insieme a Nicole Sandra Settepassi, diciassettenne. Non si può nominare Nicole senza dire dell’ombra, del diversamente morto che la seguì: suo padre Aldo, che perduta quell’unica figlia si suicidò nel 1951.

Un barrocciaio della Valdinievole, poco dopo la guerra, aveva composto una ballata e la ripeteva a memoria: «Popolo se mi ascolti / ti spiego la tragedia, / il 23 d’agosto / l’orribile commedia…». Davvero orribile commedia, il modo in cui sono state trattate le vittime delle stragi nazifasciste, fra esercizio brutale del potere, diversivi chiacchierini e furbizie di legulei.

Sulle stragi, di processi penali se ne videro pochi nella seconda metà degli anni Quaranta, e a già negli anni Cinquanta, a parte Reder e Kappler, i tedeschi erano stati liberati e i fascisti italiani amnistiati. Dopo la rifrequentazione dell’Armadio della vergogna, l’archivio custodito negli uffici centrali della giustizia militare, in questo secolo ci sono stati una ventina di dibattimenti. In quel periodo, in Italia, sono andati in detenzione – ma non in carcere o non a lungo – tre militari. Sui risarcimenti, poi, la Germania punta i piedi da sempre. Dopo la riunificazione non ha più scuse legali, eppure si aggrappa a ogni pretesto e trova ampi appoggi italiani. Ha già fatto una causa contro l’Italia, proprio nel 2008, dopo il vertice di Trieste, davanti alla Corte internazionale di giustizia, all’Aia. L’anno scorso ne ha iniziata un’altra, davanti alla stessa Corte, seguita, a distanza di ore, da una normativa italiana (nel decreto-legge 36) per venirle subito incontro.

A volte il passato non passa, non vuole passare. Vergangenheit, die nicht vergehen will, scriveva Ernst Nolte, quello della grande contesa storica, l’Historikerstreit, cominciata su «Frankfurter Allgemeine» nel 1986. Nolte fu accusato di revisionismo, ma il suo lavoro era persino più insidioso di quello revisionista, perché nel diluvio verbale furbo e minuzioso che proponeva, e che avrebbe affascinato una parte della cultura europea un po’ come le asserzioni oracolari di Carl Schmitt, era sottintesa una pacificazione morale, finale e digestiva. Ma la giustizia? Il modello, avviato sulle pagine del famoso giornale, parrebbe aver avuto un’eco suggestiva, e in varie direzioni. Il figlio di Ernst Nolte, Georg, è un giurista, adesso fa parte proprio della Corte dell’Aia e si attende di conoscere un suo contributo al processo: si tratta di stabilire le conseguenze dei crimini che Nolte padre chiudeva in abili cornici verbali, per i suoi giochi di illusione ottica. Se per Ernst Nolte lo sterminio degli ebrei era colpa dei sovietici, dove si andrà a cercare, fuori della Germania, la responsabilità giuridica delle stragi di italiani?

In nome della ragion di Stato il tira e molla di vertenze, leggi e posizionamenti – in Italia, all’Aia, a Strasburgo – ha calpestato le vittime con nuovi oltraggi. Ultimo, appunto, il decreto-legge del 2022, con uno stanziamento modesto (a carico dell’Italia), che per funzionare vuole un decreto interministeriale, arrivato di recente. La Corte costituzionale, qualche settimana fa, ha escluso che queste norme vadano contro la Costituzione: grazie a un cosiddetto «bilanciamento» ha fatto prevalere le cancellerie sulle persone. I risarcimenti possono aspettare, forse ci saranno solo per alcuni e in misura incerta. Il rischio è che siano fatti con le monete di mastro Adamo, «ch’avevan tre carati di mondiglia».

E pensare che sono passati quasi ottant’anni. Anni di lutto, di attesa e di dubbi. «La speranza: l’ultima tortura, di quante ho mai sofferte, la più atroce», così mormora il protagonista del Prigioniero. È un’opera che Luigi Dallapiccola, ispirandosi a un racconto di Villiers de l’Isle-Adam, La torture par l’espérance, iniziò a scrivere durante la Seconda guerra mondiale. Tempo di chiarezza, anche sugli inganni falsamente soccorrevoli. E non solo durante la guerra, ci fu chiarezza. Per esempio, negli anni successivi una commissione di giuristi e intellettuali italiani investigò su uno dei massacri più noti, quello di Boves, e consegnò i risultati all’autorità giudiziaria tedesca. Quella archiviò. Allora la commissione – era il 18 febbraio 1969 – presentò una ricusazione ad ignominia:

«Tutti i magistrati tedeschi che si sono pronunziati hanno rifiutato di accertare la verità e protetto i criminali nazisti. La magistratura tedesca deve essere ricusata perché indegna di fiducia. La storia, che ha già giudicato Peiper e tutti gli altri criminali nazisti, giudicherà anche la decisione del Tribunale di Stoccarda. In Italia sarà pubblicata la documentazione del processo».

Ma va detto chiaro: credere che tutti i giudizi della storia siano definitivi è sbagliato; i documenti vivono grazie ai lettori, agli interpreti e ai critici; comunque, la memoria non basta. Avere propositi alti è bene, ed è bene sapere che si scontrano con una bassa realtà. Anche la lapide del Cln per i caduti, a Massarella, fu dettata «con la certezza di giustizia».

Sembrano lontani, il mondo e la storia, dalla palude interna più grande d’Italia? Eppure sono vicinissimi: lo spazio si contrae, se opache manovre servono a fare monumentini. Anche il tempo si schiaccia e si allinea, se una dogana preunitaria diventa un centro di piccolo spettacolo, mentre in un ufficio giudiziario internazionale, in Olanda, i giuristi hanno sul tavolo le conseguenze di crimini atroci, gli stessi che il revisionismo e il riparazionismo hanno limato, arrotondato, aggiustato in una mota di chiacchiere.

 

 

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Poveri cuori umani https://www.carmillaonline.com/2015/08/23/poveri-cuori-umani/ Sun, 23 Aug 2015 00:41:44 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=24721 di Luca Baiada

Fucecchio«Eran tutti innocenti, / poveri cuori umani. / Dissén que’ malviventi: “Voi siete partigiani”. / Vecchi e ragazzi, donne e bambini, / barbaramente fecen morì. / Teniamo in mente tutti / quell’accaduto atroce / ci hanno pieno di lutti / spregiando anche la croce…». Sono le parole di una ballata popolare, è vano cercarne l’autore. Un barrocciaio di Larciano, dicono, forse della Colonna di San Rocco: uno che cantava e poetava guidando il carretto, al tempo in cui brillavano le lucciole e non gli schermi elettronici. Magari stava a cassetta su uno di quei lenti carri che percorrevano [...]]]> di Luca Baiada

Fucecchio«Eran tutti innocenti, / poveri cuori umani. / Dissén que’ malviventi: “Voi siete partigiani”. / Vecchi e ragazzi, donne e bambini, / barbaramente fecen morì. / Teniamo in mente tutti / quell’accaduto atroce / ci hanno pieno di lutti / spregiando anche la croce…». Sono le parole di una ballata popolare, è vano cercarne l’autore. Un barrocciaio di Larciano, dicono, forse della Colonna di San Rocco: uno che cantava e poetava guidando il carretto, al tempo in cui brillavano le lucciole e non gli schermi elettronici. Magari stava a cassetta su uno di quei lenti carri che percorrevano la Toscana coperti da una piramide di fiaschi. Ma forse non era lui, forse la ballata è nata da sé, fra i contadini e i cacciatori del Padule di Fucecchio.

Davvero, eran tutti innocenti, il 23 agosto 1944, quando i tedeschi, accompagnati da fascisti italiani, massacrarono 174 persone, compresi bambini piccolissimi. E innocenti non vuol dire ignavi. La questione dell’innocenza tornerà, si ripresenterà ogni volta che il tema sarà affrontato, dura e aguzza come una pietra. In realtà, fra i caduti c’erano un paio di partigiani, c’era una persona in contatto con gli Alleati, ce n’erano altre che aiutavano la Resistenza. Insieme morirono anche fascisti, di quelli senza importanza nell’apparato repubblichino, presi a caso. E poi c’erano tutti quelli che avevano disertato: militari, un poliziotto, un carabiniere, persone che la guerra aveva sospinto nelle sacche del conflitto, dove le ombre rendevano oscura la differenza fra militanza non armata e attendismo, ma dove per i tedeschi che occupavano l’Italia anche la non collaborazione coi burattini di Salò significava ostacolo e sabotaggio.

Su queste categorie, col loro portato di ambiguità e con le loro conseguenze storiche, giuridiche, morali, si giocheranno distinguo che non hanno mai smesso di produrre perplessità e frizioni. Se i morti sono combattenti, si rischia di giustificare la strage, di confonderla nel ribollire del sangue e della guerra. Se invece sono spettatori di un conflitto in cui non hanno preso posizione, il loro rifiuto di impegnarsi per Hitler e Mussolini, un rifiuto che per molti fu privo di connotazione partitica, e ricco invece di senno, di onestà, di bisogno di pace e lavoro dopo anni di dittatura, viene dimenticato: così, l’arma invisibile che impugnarono in un passaggio cruciale della storia del Novecento viene strappata dalle loro mani, condannandoli a sembrare imbelli, contro la loro volontà.

Qual è dunque la lettura giusta dei fatti? Le parole di una vecchia ballata aggirano il dilemma vittimacaduto, mettono da parte la scelta angusta fra innocenti e militanti, e rovesciano l’accusa di brigantaggio sui tedeschi: i malviventi, i Banditen sono loro. I morti, dice il barrocciaio, erano innocenti, eppure quell’accusa insistente – alle Partisanen, parole che echeggiarono sin da quel terribile 23 agosto a Fucecchio, come in altre zone di rastrellamenti e massacri nell’Italia occupata – non viene né smentita né ammessa. Ci sarebbe da congratularsi, con l’anonimo compositore, per il modo intelligente in cui affronta il tema, ma appunto non sappiamo neppure il suo nome. Conosciamo quello di Liduino Tofanelli, padulino tenace e appassionato – passionista, si dice in Valdinievole – che tanti anni fa mandò a memoria la gagliarda ballata, e quello dello storico Marco Folin, che la raccolse per iscritto negli anni Novanta. Ma l’autore, vai a cercarlo: vaga è la vita di un barrocciaio, oggi qui, domani là.

Il percorso tortuoso con cui la memoria – su questa e su altre stragi – si è avvitata e imbrigliata nelle suddivisioni e nelle regole vere o immaginarie, costituisce in fondo una deviazione, torva e rassegnata, verso la pretesa di mettere ordine, e verso una caduta di autostima, quindi verso una resa morale e un’accettazione della violenza. Si comincia a perdere quando si vuole essere impeccabili, e questo è un tranello con cui ogni vittima deve fare i conti. Ed ecco le leggende sugli avvisi di sfollamento e sulle delimitazioni delle aree vicine al fronte, ecco i miti sugli antefatti, sulle cause del massacro: la disinvoltura di una donna, l’uccisione di un tedesco, il furto di armi. Ecco la regola immaginaria dieci italiani per un tedesco, ecco il fantasma della rappresaglia. Insomma, tutti gli arnesi dell’autocolpevolizzazione e del giustificazionismo, che insidiosamente, tenacemente, nel corso dei decenni hanno finito per far accettare il sangue e l’impunità degli assassini.

Eppure era tutto così chiaro. La Valdinievole occupata, Pisa ancora sotto il fronte, a Firenze il centro liberato ma la periferia ancora in mano tedesca, la Linea gotica fortificata ma gli Alleati sempre più vicini. In quel tratto del Valdarno, il lato sinistro del fiume era già liberato, mentre sul lato destro c’era la 26ª divisione corazzata della Wehrmacht, col generale Peter Eduard Crasemann. Dall’alba al pomeriggio del 23 agosto 1944, i tedeschi e alcuni fascisti girarono intorno al Padule di Fucecchio, la palude interna più vasta d’Italia, uccidendo soprattutto lungo i margini settentrionali e orientali. Non entrarono negli acquitrini, per non incontrare la formazione Silvano Fedi, e in questo modo dimostrarono come la distinzione fra partigiani e italiani fosse un imbroglio morale, una carta truccata: quando si trattava di uccidere, ogni italiano era un partigiano, anche se aveva quattro mesi come Maria Malucchi, però quando si trattava di combattere la differenza era chiara.

La limpidezza dei fatti è stata intorbidata da cattiva memoria, ancor più dall’incompleta realizzazione della democrazia in Italia, e in fondo da quella crisi dell’autostima che pesa sulle conquiste italiane dal Risorgimento a tutto il Novecento. Così, mentre la strage di Fucecchio supera anche il settantesimo anniversario, la mancata giustizia si continua a sentire. Pochi processi a ufficiali tedeschi, celebrati negli anni Quaranta, ma già all’inizio degli anni Cinquanta non ce n’è più neanche uno in carcere. Poi tutto a Roma, nell’armadio della vergogna, e infine un processo nel 2010-2012, con altri due militari condannati e mai estradati dalla Germania. I danni, mai risarciti. Lo Stato tedesco in un primo momento condannato a pagare, con acconti per quasi quindici milioni di euro, poi anche quel capo della condanna è stato revocato, dopo una pronuncia della Corte internazionale dell’Aia. La Germania si era rivolta all’Aia sin dal 2008 per non risarcire, e per offrire invece parole, parole, tante parole di riconciliazione, di perdono, e limitarsi a finanziare con poca spesa qualche iniziativa memoriale.

Sul piano penale, di recente c’è stata una novità, di quelle prevedibili: ad aprile 2015 un’autorità giudiziaria, in Baviera, ha negato l’esecuzione nei confronti del condannato ancora in vita, Johann Robert Riss. Su quello civile, però, c’è una bella pagina aperta: il Tribunale di Firenze, in processi civili contro la Germania, per altri casi di uccisione e deportazione, si è rivolto alla Corte costituzionale, che a ottobre 2014 ha fatto piazza pulita della decisione della Corte dell’Aia, e ha riaperto la strada alla possibilità di condannare lo Stato tedesco: «[Si deve] escludere che atti quali la deportazione, i lavori forzati, gli eccidi, riconosciuti come crimini contro l’umanità, possano giustificare il sacrificio totale della tutela dei diritti inviolabili delle persone vittime di quei crimini». Forte di questa pronuncia, a luglio 2015 lo stesso Tribunale di Firenze ha nuovamente condannato la Germania per due casi di deportazione; c’è chi si domanda se sulla base di questi principi anche i superstiti, o i familiari delle vittime di Fucecchio, potrebbero tentare nuove strade. Che la Germania faccia di tutto per non pagare è ovvio, ma perché gli italiani dovrebbero rassegnarsi?

Chissà cosa direbbe il barrocciaio, quello della ballata, di fronte a tutto questo, lui che aveva attraversato la guerra, i bombardamenti e le stragi. Possiamo immaginarlo con uno di quei visi arguti, alla Yves Montand, attore originario della Valdinievole e costretto a crescere in Francia per sfuggire alla persecuzione fascista contro la sua famiglia. Eccolo, guarda un po’! Si avvia col suo carro, rinsaccato in una giacchetta di fustagno, un berretto calcato sugli occhi e un cane smilzo, è proprio Ivo Livi cresciuto a Marsiglia, ma canta in italiano: «Popolo se mi ascolti / ti spiego la tragedia, / il 23 d’agosto / l’orribile commedia. / A raccontarla mi proverò / non so se in fondo ci arriverò…».

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La carne e la memoria https://www.carmillaonline.com/2015/01/20/carne-memoria/ Mon, 19 Jan 2015 23:01:16 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=20079 di Luca Baiada

(da «Il Ponte», LXXI n. 1, gennaio 2015)Crimini nazifascisti foto

[Si ringrazia la rivista Il Ponte per la gentile concessione]

La stagione dei settantesimi anniversari delle più gravi stragi nazifasciste – furono compiute nel 1944 – è chiusa, ed è tempo di qualche nota. Prendo spunto soprattutto dalla strage del Padule di Fucecchio del 23 agosto, di 174 morti, perché è delle più gravi e meno conosciute.

I caduti. In Italia sono almeno quindicimila, di cui cinquemila in Toscana. E questo considerando solo i morti civili, esclusi i partigiani uccisi in combattimento, ed esclusi anche i militari uccisi dopo l’8 settembre [...]]]> di Luca Baiada

(da «Il Ponte», LXXI n. 1, gennaio 2015)Crimini nazifascisti foto

[Si ringrazia la rivista Il Ponte per la gentile concessione]

La stagione dei settantesimi anniversari delle più gravi stragi nazifasciste – furono compiute nel 1944 – è chiusa, ed è tempo di qualche nota. Prendo spunto soprattutto dalla strage del Padule di Fucecchio del 23 agosto, di 174 morti, perché è delle più gravi e meno conosciute.

I caduti. In Italia sono almeno quindicimila, di cui cinquemila in Toscana. E questo considerando solo i morti civili, esclusi i partigiani uccisi in combattimento, ed esclusi anche i militari uccisi dopo l’8 settembre 1943, o deportati e uccisi, o deportati e tornati stremati, per una breve sopravvivenza.

I castighi. Pochi ufficiali tedeschi sono condannati, subito dopo la guerra, e già negli anni Cinquanta in Italia restano in carcere solo Kappler e Reder, colpevoli l’uno delle Ardeatine, e l’altro di un fascio di massacri. Figure intermedie, un colonnello e un maggiore: non troppo in basso, per non infierire sul sano popolo tedesco, e non troppo in alto per non disturbare gli alti comandi. Uno lo fanno fuggire nel 1977, l’altro nel 1985 si finge pentito e lo lasciano andare in Austria, dove subito chiarisce di non essersi pentito per niente. Dopo la fine della guerra fredda si celebrano altri processi, ma solo le condanne di Erich Priebke e Michael Seifert hanno esecuzione. Il primo lo consegna l’Argentina, il secondo il Canada. Tutti gli altri restano in Germania, anche da condannati.

I risarcimenti. In pochi casi, solo a partire dal 2006, si condanna al pagamento lo Stato tedesco, ma quello ricorre alla Corte di giustizia dell’Aia, l’Italia si difende benone, e quindi la Germania vince ottenendo dalla Corte, nel 2012, una pronuncia contro i risarcimenti di Stato. I privati tedeschi, invece, restano condannati a pagare i danni alle famiglie italiane e agli enti locali. Ma non pagano. E già che ci sono, siccome questi esborsi li hanno messi sul lastrico, non pagano neanche le spese. A proposito di Fucecchio: le condanne ai risarcimenti, disposte nel 2011, contenevano le provvisionali, cioè liquidazioni in acconto, in favore di enti e famiglie. In tutto, per questa sola strage, 14.690.000 euro. L’acconto i tedeschi non l’hanno pagato, quindi il saldo non vedono l’ora di pagarlo.

Adesso, per i settantesimi anniversari, tante commemorazioni, con parole, musiche e spettacoli. Tutto necessario, certo. Eppure, ripetuta ossessivamente, la parola memoria prende un senso strano. Già ebbe un che di acidulo dopo il 1989, perché prima memoria non aveva questa cittadinanza nel linguaggio politico. Ma ora, con la memoria al posto di altro, sembra una toppa peggiore del buco. La giustizia è zoppa, ma eccovi la memoria. Assassini impuniti, ma tanta memoria. Nessun risarcimento alle vittime, ma abbiamo buona memoria. Come quella della funzionaria tedesca che ha parlato alla commemorazione di Fucecchio. Pazienza che abbia detto Pàdule invece che Padùle, ma non ha nominato affatto il nazismo, e ha ricordato 170 morti invece che 174. Un piccolo sconto, dai. Peso bono, prezzo tondo. In quel momento, nei cimiteri del Valdarno, 174 diversamente vivi si sono guardati sbigottiti, e si son chiesti chi sono i quattro di troppo, gli sforbiciati per alleggerire la colpa ai tedeschi: Maria Malucchi, di quattro mesi? Carmela Arinci, di 94 anni? Angiolo e Angiola Borghini, marito e moglie? Chissà chi sono i quattro, ammazzati nel 1944, e dimenticati davanti a un monumento nel 2014.
A questi incontri, eventi coi vip nella location, c’è la Germania. Invitata e riverita, alacremente commemora. Costa meno che pagare i risarcimenti. Già, il risarcimento: non è una parolaccia, eppure questo personaggio dev’essere proprio sozzo e pustoloso, se in pubblico è stato ricordato così poco. A Fucecchio, per esempio, per niente. Al suo posto, un’altra parola è stata ripetuta fino a consumarla: riconciliazione. Dopo un conflitto ci si riconcilia, certo. E davvero, la battaglia fra una bambina di pochi mesi e la Wehrmacht è deplorevole, perciò merita di essere chiusa con un brindisi: zum Wohl!
Risarcimento, invece, significa pagare il dovuto alle famiglie e agli enti, cominciando con le provvisionali disposte nelle sentenze dopo il 1994. A volte, negli ultimi tempi, si è parlato di riparazioni. Magia delle parole. Le riparazioni sono somme modeste, pagate solo agli enti, non alle persone, per iniziative memoriali: qualche albero, una lapide, una gita scolastica. Corre voce che così un Comune abbia ottenuto tre o quattromila euro. No, non ci credo: è il prezzo di una moto usata, e per quel Comune una sentenza ha stabilito un acconto di 50.000 euro. Certamente sono maldicenze.
Risarcimento, dicevo, significa denaro, e neppure questa è una parolaccia, anche se un certo senso di colpa trattiene i familiari delle vittime dal rivendicare il denaro. Non per tutti è così, ma molti provano vergogna, un sentimento in cui gli assassini, o piuttosto i loro eredi, zuppano tranquilli l’impunità. Ma a Fucecchio, lo scorso agosto, la funzionaria tedesca si è commossa, la voce spezzata, e al sentimento ha aggiunto la poesia: pioveva, e ha spiegato che nell’anniversario della strage anche il cielo versava lacrime. No, la poesia dopo: bisogna che la Germania versi denaro, a cominciare da quei quasi quindici milioni di euro di acconti.
Il risarcimento del danno non economico, come quello da lutti e privazioni, nelle università italiane lo insegnano, pensa un po’, con un nome tedesco, Schmerzengeld: il denaro del dolore. Denaro, appunto. Invece le lacrime del dolore, Schmerzentränen, non sono previste come mezzo di pagamento. Se lo fossero, ci si potrebbero rimborsare i titoli italiani, quando li mette all’incasso la Germania. Ma questa possibilità è remota, e sono sereni, i sorrisi dei funzionari di Berlino alle cerimonie. Sereni come il cielo dopo un temporale.
E i discorsi delle autorità? Sono autorevoli discorsi, certo. Però, e torno sempre a Fucecchio, un italiano di Cintolese ha parlato così:

«Mi chiamo Quinto Malucchi. Ho settantasette anni. Perciò, settant’anni fa avevo sette anni. Un bambino come tanti, che abitava in via del Fossetto, dove ora c’è una fabbrica di scatole. Eravamo sei figli. Quando la casa venne requisita dai tedeschi, che ci posizionarono un cannone, ci costrinsero a lasciarla. Il mio babbo, insieme a’ suoi cugini, trovò una capanna all’inizio del Padule, di sotto la Nievole. Il proprietario utilizzava questa capanna per metteci il fieno che allevava i cavalli. Fra tutti eravamo ventuno. Si dormiva in terra sui materassi di cartocci di granturco. Mamma insieme alle cugine andava a fare ’l pane a casa, gli omeni andavano a badare agli animali. I tedeschi quando c’avevano da fare dei lavori prendevano trenta-cinquanta uomini. La mattina del 23 agosto gli omeni si nascosero nelle fosse dietro l’erba alta. Il mio babbo si nascose in una buca, che aveva scavato per allevare i maiali. Lì i tedeschi lo uccisero, lasciando vivi gli animali. Mia madre aveva quarant’anni, vedova con sei figli, la più grande vent’anni, la più piccola quattr’anni. Convivere con un dolore così forte e con una miseria nera. La guerra non risolve i problemi. La guerra porta miseria, dolore e disperazione».

Ecco i fatti. Ecco un uomo. Perché le autorità non possono essere queste, perché? L’Italia profonda ha persone così, vengono fuori quando meno te le aspetti, a smentire l’idea funesta che ci facciamo vedendo troneggiare una qualsiasi grisaglia.
Poi ci sono i paragoni coi crimini di guerra che si consumano oggi, lontano o sulle soglie dell’Europa. Paragoni come compitini, e se ne sono sentiti alle commemorazioni delle stragi, con disinvoltura sospetta, sempre ripetendo che la memoria serve a impedire altra violenza. La realtà è diversa. Meglio che gli armati di oggi non sappiano nulla delle commemorazioni italiane, altrimenti potrebbero ragionare così: i responsabili delle stragi naziste sono rimasti impuniti, si è parlato di riconciliazione, ma niente risarcimenti. Insomma, a commettere stragi si rischia, tanto tempo dopo, di fare discorsi, spettacoli e deposizioni di fiori, e di mandare qualcuno a commuoversi e a parlare di lacrime del cielo (speriamo che piova).
Sciagattata, la memoria diventa al centro lo spettacolo di una classe dirigente autoreferenziale, ai margini il brusio di chi ricorda veramente, di chi porta i lutti sulla carne, ma non è abbastanza visibile. In certe occasioni pubbliche c’erano superstiti che mormoravano la loro scontentezza, la delusione, l’insoddisfazione per il senso di retorica, di posticcio. A contrariarli sono le parole di circostanza, le frasi consumate, le lacune.

Non sono certo le attenzioni della capitale, a consolare. La commissione parlamentare sull’armadio della vergogna, insediata nel 2003, ha chiuso i lavori nel 2006 e non c’è stata una discussione in aula. Nel 2014 un’interpellanza alla Camera, firmata da vari gruppi, ha chiesto al governo di muoversi per l’esecuzione in Germania delle sentenze italiane, e per eliminare ogni segretazione sugli atti acquisiti dalla commissione 2003: non è stata trattata, sta lì e arrugginisce. Visto che l’armadio della vergogna fu riaperto nel 1994, l’interpellanza e le relazioni della commissione saranno discusse quando l’italiano sarà una lingua morta.
Ma non tutto è fermo, e si è aperta una bella pagina: in processi civili contro lo Stato tedesco, il Tribunale di Firenze ha sollevato la questione di costituzionalità, smentendo la sentenza dell’Aia del 2012: «Invocare l’eguaglianza sovrana tra gli Stati […] vuol dire rifiutare di pronunciare giustizia». E a ottobre 2014 la Corte costituzionale ha accolto la tesi, disturbando il letargo del diritto internazionale e riaprendo la strada alle azioni legali sui beni della Germania:

«Il limite che segna l’apertura dell’ordinamento italiano all’ordinamento internazionale e sovranazionale (artt. 10 e 11 Costituzione) è costituito […] dal rispetto dei principi fondamentali e dei diritti inviolabili dell’uomo, elementi identificativi dell’ordinamento costituzionale. E ciò è sufficiente a escludere che atti quali la deportazione, i lavori forzati, gli eccidi, riconosciuti come crimini contro l’umanità, possano giustificare il sacrificio totale della tutela dei diritti inviolabili».

Questo successo civile e umano, prima ancora che giuridico, si deve alla tenacia dei deportati e dei superstiti, e anche all’avvocato Joachim Lau, un legale tedesco attivo in Toscana, al magistrato di Firenze Luca Minniti e ai giudici della Corte, soprattutto al presidente Giuseppe Tesauro. C’è chi cerca la giustizia senza accontentarsi della memoria.
Cos’è, la memoria? Un italiano di Empoli, deportato in Germania nel 1943: «Confidavo al mio diario le mie amarezze, le umilianti azioni degli aguzzini tedeschi, ma anche i miei desideri e le mie speranze». Quel diario glielo trovarono le guardie:

«Un vastissimo campo isolato nella campagna: era la prigione, e me ne resi conto dalla numerosa sorveglianza e dal ferro spinato a forma di croce ad ogni finestrino. Mi fu tolto vario vestiario e rimasi con la camicia e in pantaloni, e il misero corredo fu completato da un paio di enormi zoccoli di legno, che dovetti calzare per tutto il tempo di permanenza nel campo. Il freddo era tremendo, dieci gradi sotto zero, i giorni monotoni e interminabili li trascorrevamo stretti l’un l’altro con gli altri tre occupanti la cella, conversando a bassissima voce pena l’esser puniti con un nerbo che feriva a sangue le carni. Ogni mattina sveglia alle quattro, appena giorno venivamo mandati fuori per svolgere la consueta marcia quotidiana punitiva, che consisteva nel trascinarsi dietro i pesanti zoccoli, di circa un chilo e mezzo l’uno, attorno alle aiuole del giardino, coperte di neve, con la testa china, ciò dalle due alle tre ore».

Colpevole di scrivere: pericolosa, la memoria vera. Invece, quella al posto della giustizia è parole al posto dei fatti, peggio dell’oblio. Ultimo sipario della società dello spettacolo, la memoria tappabuchi nutre professionisti della parola, confezionatori di brutti opuscoli e di messe in scena rozze, sperimentatori di cose vecchie che è facile contrabbandare per avanguardia, dopo i saldi di stagione e prima della sagra del coniglio. Un piccolo notabilato abbocca, la pastura è buona e costa poco, il pubblico non paga perché non si accorge che ha già pagato, e si torna a casa con le mani colme: guardate, ho preso gratis la memoria.
Viene in mente la novella Passaggio memorabile di Renato Fucini, scrittore toscano dell’Ottocento. In un paesino arriva una compagnia di imbonitori girovaghi, che distrae dalla miseria e poi se ne va lasciando tutto come prima. E alla fine: «Il medico sfogliava gli ultimi fascicoli dello Sperimentale per trovarci qualche condotta vacante, e Nando barrocciaio scordava la fame abballottandosi in braccio la sua creaturina che rideva».

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