Front National – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 14 Dec 2025 09:25:41 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Colpire gli estremi per andare al centro: il fascismo francese e il Front National https://www.carmillaonline.com/2017/10/03/colpire-gli-estremi-andare-al-centro-fascismo-francese-front-national/ Mon, 02 Oct 2017 22:01:10 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=40854 di Jacopo Frey

M. Gervasoni, La Francia in nero. Storia dell’estrema destra dalla Rivoluzione a Marine Le Pen, Marsilio, 2017, pp. 320.

La Francia in nero. Storia dell’estrema destra dalla Rivoluzione a Marine Le Pen di Marco Gervasoni, agile e utile ricostruzione della storia dell’estrema destra in Francia, è un testo capace di colmare un vuoto importante nella storiografia e, soprattutto, nella pubblicistica italiana, spesso incline ad affrontare tematiche di respiro internazionale senza avere una reale cognizione dell’argomento trattato e delle implicazioni storiche di certi fenomeni. In questo volume Gervasoni propone [...]]]> di Jacopo Frey

M. Gervasoni, La Francia in nero. Storia dell’estrema destra dalla Rivoluzione a Marine Le Pen, Marsilio, 2017, pp. 320.

La Francia in nero. Storia dell’estrema destra dalla Rivoluzione a Marine Le Pen di Marco Gervasoni, agile e utile ricostruzione della storia dell’estrema destra in Francia, è un testo capace di colmare un vuoto importante nella storiografia e, soprattutto, nella pubblicistica italiana, spesso incline ad affrontare tematiche di respiro internazionale senza avere una reale cognizione dell’argomento trattato e delle implicazioni storiche di certi fenomeni. In questo volume Gervasoni propone una riflessione storica analizzando un contesto ben preciso: il momento in cui l’Europa è entrata in fibrillazione per la possibilità che il Front National vincesse – realmente – le elezioni presidenziali. Poi sappiamo come è andata: ha vinto Emmanuel Macron e tutto è tornato a posto. La Francia in nero permette di capire quali siano le radici del neofascista Front National che, stando alle reazioni dei media nostrani, “d’improvviso” è risultato il terzo partito in uno dei paesi pilastro dell’Unione europea.

Partendo da queste premesse il titolo naturale della nostra recensione avrebbe dovuto essere un altro, forse dal tono più sempliciotto ma sicuramente più azzeccato: “La scoperta dell’acqua calda, ovvero i mass media di fronte alla crescita del neofascismo. Il caso francese”. Nell’arco della lunga campagna che ha condotto alle presidenziali del 2017 l’informazione europea ha riappiccicato addosso al Front National l’etichetta di neofascista, da tempo archiviata in favore della più moderna definizione di movimento populista. Recuperando di fatto tutto un dibattito che i più avevano trascurato sulle radici dell’odio frontista che affondano nel negazionismo, nella nostalgia per la Francia di Vichy e per l’Algeria dei Pieds noirs.. Insomma in tutto quello che gira intorno alla parola chiave neofascismo. Ed eccoci alla scoperta dell’acqua calda di cui parlavamo poco sopra. Il FN non ha mai cambiato opinione, magari ha ammorbidito alcune delle prese di posizione pubbliche; in realtà però ha sempre fatto in modo che le proprie tesi fossero ben al centro del dibattito pubblico, riuscendo a trasformare il proprio messaggio nel pivot attorno al quale il resto del mondo politico avrebbe dovuto poi prendere posizione. Com’è possibile che lo si scopra solo ora che si tratta di fascisti?

Nel dibattito pre-elettorale la pericolosità del Front National non è stata misurata solamente nella radicalità del suo messaggio politico ma nella crescente capacità attrattiva che esercita su consistenti settori delle classi popolari francesi, in particolare fra gli operai e i lavoratori manuali. Si è allora tirato in ballo il gaucho-lepénisme, categoria politologica molto utilizzata negli ultimi anni per identificare tanto il passaggio di settori tradizionalmente di sinistra – come per l’appunto gli operai – a destra, quanto per indicare un presunto parallelismo fra i discorsi e le proposte dell’estrema sinistra e dell’estrema destra. E qui arriviamo al punto. Il ricorrente richiamo a questa presunta similitudine tra destra e sinistra e la “riscoperta” delle tendenze nere del Front National – che nella stagione post Jean Marie Le Pen si era proclamato con insistenza de-demonizzato e aveva trovato la complicità dei media nel dipingerlo più accettabile all’interno della cornice repubblicana – hanno avuto una sola funzione: creare il trampolino di lancio per l’unico candidato che secondo la stampa avrebbe potuto arrestare i populismi, tanto di destra, quanto di sinistra: Emmanuel Macron; candidato altrimenti piuttosto impresentabile per un paese scosso dalla rinnovata presenza dei movimenti sociali nati dalle lotte contro la Loi du Travail, sostenuta dal Partito Socialista alla guida del paese

Ora, tutto ciò potrebbe risultare semplicistico poiché riassume la politica di un paese in uno slogan: «Sono i media ad aver fatto vincere Macron per salvare le banche»; ipotesi di per sé non lontana dalla verità ma che non può essere risolta in maniera così facile. Teniamo però queste considerazioni per contestualizzare La Francia in nero e riprendiamo il nostro libro, partendo dall’articolo Destra e populismo miscela antimoderna che gli ha dedicato Antonio Carioti su “La Lettura” del 20 agosto 2017:

Qui emerge anche l’osmosi con le forze antisistema di sinistra: pur odiandosi, spesse volte le due fazioni non solo hanno contribuito insieme a indebolire i regimi rappresentativi, ma hanno condiviso o si sono scambiate motivi ideologici rilevanti. […]

Tale retroterra storico rende meno sconcertante lo scenario delle recenti elezioni presidenziali, con un vincitore Emmanuel Macron, difficilmente classificabile secondo i criteri usuali e una candidata sconfitta, Marine Le Pen, proveniente dall’estrema destra, ma impegnata ad assorbire e riadattare temi di sinistra. […]

È un rimescolamento di carte come altri simili avvenuti nel passato, oppure alla dialettica tra destra e sinistra se ne sta sostituendo un’altra tra i fautori della globalizzazione e i suoi avversari, tra l’establishment cosmopolita e i populisti che si appellano alle radici identitarie dei popoli?”.

Il cuore de La Francia in nero è proprio qui e Carioti lo ha individuato immediatamente e naturalmente se ne compiace. Marco Gervasoni infatti dipana nel corso della sua narrazione il lungo filo rosso – o nero – che attraversa la storia politica francese, caratterizzata da una forte dicotomia fra destra e sinistra, riforma e conservazione, in cui si sono sviluppati dei sotterranei estremismi di destra e di sinistra capaci di esplodere in grandi fiammate di rivolta: rivolta contro lo Stato e contro la democrazia. Su questo terreno, sottolineano l’autore e il suo recensore, un piano d’intesa sono sempre stati in grado di trovarlo. Argomentazione che se non è priva di fondamento, sembra però strizzare molto l’occhio al presente.

Attenzione però: Gervasoni non banalizza le questioni storiografiche e ricostruisce in maniera precisa la storia dell’estrema destra, proponendo anche se con un taglio compilativo, le tappe principali di un percorso politico che da noi è decisamente poco conosciuto, ma i cui echi sono frequenti nell’attualità d’Oltralpe. Il “cuore nero” della Francia inizia a battere all’indomani del crollo dell’Ancien Régime, quando i monarchici e i cattolici iniziano ad organizzarsi, trova il suo mito delle origini più che nell’uccisione del Re nella repressione della Vandea antirivoluzionaria e cristiana, si complica con il bonapartismo e la lunga scia di emulazioni che ebbe nel XIX secolo, su cui – in nome del nazionalismo ampiamente diffuso nella popolazione francese – politicanti di ogni risma si gettarono da destra e da sinistra. Lo stesso cuore continua a pompare sangue nel Novecento assumendo i nomi dei Camelots du Roi, de l’Action Française, de La Croix de feu, de La Cagule che invitò i poliziotti a sparare sul parlamento negli anni Trenta, passando poi nell’Organnisation de l’armée secrète dell’Algeria Francese, finendo poi nell’Ordre Nouveau, negli universitari del Groupe Union Defense (più noti come GUD, ancora attivi, tanto che risultarono coinvolti nell’omicidio dell’antifascista francese Clément Méric nel 2013) e naturalmente nel Front National.

Partiti, organizzazioni, movimenti diversi tra loro, non soltanto per la distanza cronologica che li separa. E allora perché e come metterli assieme? La destra francese, in particolare quella estrema, è stata sempre attraversata da anime lontane fra loro, alle volte addirittura antitetiche. Come far incontrare lontane nostalgie orleaniste e monarchiche con il fascino dell’uomo forte di marca bonapartista che si potrebbe anche trovare in De Gaulle? Difesa a oltranza della patria o alleanza con il nemico introducendo modelli di stato e organizzazione politica potente come nel caso degli amati-odiati nazisti tedeschi o dei fascisti italiani? Come conciliare il tradizionalismo e il nazionalismo con il liberismo sfrenato professato da alcuni ammiratori del modello politico e sociale statunitense (non da ultimo, si può citare il caso contraddittorio, che riprenderemo, del Front National di Jean Marie Le Pen negli anni Ottanta) e l’adesione al Patto Atlantico? Come gestire quella tendenza anticapitalista che potrebbe finire per accomunare la destra, l’ultima custode della Patria, con gli unici veri avversari, i comunisti?

Ogni domanda richiama dilemmi e dibattiti che si ritrovano in gruppi, intellettuali e organizzazioni dell’estrema destra francese che Gervasoni con cura mette in fila, srotolando quel filo nero il cui capo individua nella ricorrente critica al capitalismo e al sistema democratico, costante che quasi tutte le formazioni di estrema destra sembrano esprimere. La ricorrenza di questo filo si spiegherebbe attraverso gli itinerari militanti, con membri di vecchie formazioni che si iscrivono a quelle più nuove e radicali, portandosi dietro un bagaglio ideologico che non viene annullato ma semmai aggiornato: in questo per l’appunto, secondo Gervasoni, è proprio la critica al capitalismo a fungere da collante e a permettere a questi gruppi di essere elemento attrattivo in momenti di crisi politica e sociale per nuovi simpatizzanti, attirando anche i vecchi avversari della sinistra, che vedrebbero nella rinnovata estrema destra anticapitalista una potente macchina antisistema.

Nessuno vuol mettere in dubbio che non sia così: pur per ragioni diverse dall’emancipazione del proletariato, i vari fascismi hanno criticato – almeno a parole – il grande capitale in nome dello statalismo, del corporativismo e della difesa della tradizione contro il cosmopolitismo; ed è altrettanto vero che in anni diversi i movimenti fascisti hanno attirato militanti di sinistra, in particolare comunisti, tanto negli anni Trenta (il caso di Jacques Doriot, dirigente della Jeunesse Communiste, “astro nascente” del Komintern morto poi da collaborazionista nella Germania di Hitler nel 1945 è il più indicativo ma non l’unico) quanto in anni più recenti quando numerosi quadri comunisti virarono verso il Front National, tanto che si parlò all’interno dei movimenti di transmigration.

Leggendo però Francia in nero ci sembra di intuire un procedimento inverso, che va nella direzione di quella lettura che ne ha fatto Antonio Carioti su La Lettura: al fine di cercare dei legami fra fenomeni differenti e lontani della variegata galassia della destra francese, Gervasoni sembra basarsi sull’idea, tutta del nostro presente, che gli estremi, prima o poi finiscano per toccarsi. Si va alla ricerca quindi dei populismi del passato, scambiando lucciole per lanterne. Abbiamo già citato diversi passaggi da sinistra a destra e rilevato la comune critica alla democrazia liberale, ma al fine di legittimare il presente, l’autore tende ad enfatizzare i caratteri anticapitalistici della destra e, usando un lessico più recente, anche rossobruni nella storia del fascismo, del neofascismo francese ed europeo facendone una marca determinante piuttosto che un aspetto fra tanti. Presenza, quella dell’anticapitalismo di destra e del fascino che alcuni movimenti neofascisti provarono nei confronti del bolscevismo o del marxismo-leninismo, che non ha mai oscurato l’aspetto veramente qualificante del fascismo: l’applicazione sistematica della violenza nei confronti degli oppositori politici e del movimento operaio, come invece sembra dimenticare Gervasoni. Rendiamo più chiaro il ragionamento ricorrendo a un esempio evidente: nella Germania dell’ascesa del nazismo ci sarà anche stata una forte presenza – almeno fino al 1934 – del nazionalsocialismo puro, o nazi bolscevismo che dir si voglia, rappresentato da Ernst Rohm e le SA; questo però non ha impedito che militanti comunisti, sindacali e socialisti venissero poi uccisi. Critica al capitalismo comune o meno.

Se proprio si volesse provare a tracciare una linea di continuità che tenga insieme passato e presente dell’estrema destra francese, mettendo in comune tendenze diverse, la si potrebbe individuare soltanto nell’antisemitismo. L’antisemitismo è l’autentica costante della destra estrema francese: sia esso declinato nell’originale odio nei confronti degli ebrei, o in attacco alla plutocrazia e al nuovo ordine mondiale, sia essa xenofobia in nome della diffusa opinione che gli ebrei fossero (o siano?) i primi stranieri di Francia, o sia celata – solo apparentemente – dietro alla più recente islamofobia.

L’anticapitalismo dell’estrema destra francese, e in particolare oggi del Front National, non è quindi che una strategia fra le tante: come si diceva prima, negli anni Ottanta Jean Marie Le Pen si diceva sincero sostenitore del neoliberismo di Ronald Reagan, trasformandosi in difensore della France profonde e delle fasce più deboli della popolazione nel momento in cui crescevano le difficoltà causate dalla deindustrializzazione e dalla ristrutturazione del mercato del lavoro e si poteva puntare con più facilità il dito contro gli immigrati, a suo dire responsabili della crisi che attraversava l’Esagono.

«Quando Jean-Marie Le Pen passò al secondo turno, nel 2002, mi ricordo l’esplosione di gioia di mio padre davanti alla tv, era commosso fino alle lacrime».

Come mai questa passione per il FN?

«Dicevano sempre “in ogni caso destra e sinistra sono la stessa cosa, non fanno niente per noi”, e in quel ”in ogni caso” c’era tutta la delusione per essere stati abbandonati dalla sinistra che si è messa al servizio del mercato. La sinistra ha smesso di difendere i deboli, e si è occupata al massimo di come gestirli all’interno di rapporti di forza ormai accettati».

Invece i Le Pen, padre e figlia, parlano al popolo?

«Per quanto sia paradossale, i miei genitori si sentono considerati da loro. Quando ero piccolo li sentivo dire “sono gli unici che parlano di noi”, e questo è decisivo. I miei volevano esistere agli occhi degli altri, che in fondo è quello che vogliamo tutti. Mio padre e mia madre non potevano godersi il lusso di votare in base a un programma, un’opinione. Quella è una cosa da privilegiati. Per loro il voto è il tentativo di esistere. La differenza tra dominanti e dominati, come diceva Pierre Bourdieu, sta certamente nel denaro, diplomi, cultura, ma soprattutto i primi hanno il diritto di esistere due volte. Vivono come tutti, con il loro corpo, mangiano, bevono, dormono, ma in più hanno una seconda esistenza nel mondo delle rappresentazioni, nella letteratura, nel cinema, alla televisione. Nella mia infanzia noi eravamo il nulla, esistevamo solo al momento delle elezioni, e i miei andavano a votare per Le Pen perché anche loro volevano esistere due volte, almeno il giorno delle elezioni».

Queste parole di Eduard Louis, scrittore che è stato conosciuto in Italia per il romanzo autobiografico Il Caso Eddy Belleguelle edito da Bompiani del 2014, sono tratte da un’intervista che ha rilasciato al “Corriere della Sera” il 30 aprile 2017 (Mio padre operaio per sentirsi vivo sceglieva Le Pen), una settimana prima del ballottaggio delle elezioni presidenziali e rispecchiano in maniera chiara il reale meccanismo che ha permesso al Front National di emergere e di proclamarsi rappresentante delle classi popolari francesi.

Se dovessimo ridurre tutto ad un’equazione quindi, non è tanto il Front National o l’estrema destra ad essersi avvicinato alle classi popolari in nome di un presunto carattere anticapitalistico, quanto il fatto che sono state le masse popolari ad essersi avvicinate a lui. Questo tipo di processo non si è costruito tanto sul terreno – su cui comunque il Front National, applicando una strategia leninista, si è capillarmente diffuso aprendo sedi ed essendo presente in quei luoghi trascurati dalla politica nazionale come le aree piagate da una capillare disoccupazione, come il Nord-Pas-de-Calais delle miniere e delle fabbriche chiuse – quanto irrompendo nei dibattiti mediatici: qui Le Pen padre è riuscito a emergere, spacciando il suo razzismo e la sua xenofobia come «les propos virils d’un homme simple et de bon sens», contro il politically correct dei borghesi benpensanti e di sinistra di Parigi.

Su questa linea del “pane al pane, vino al vino” Le Pen è riuscito a raccogliere il consenso di quelle classi popolari che si sentivano messe da parte dai partiti di sinistra e snobbate dai media che le hanno dipinte come non in grado di fare dei ragionamenti che non fossero di “pancia”, come avvenuto con la Gran Bretagna in cui la vittoria della Brexit è stata spiegata come una scelta sconsiderata dettata dai ragionamenti deboli di gente povera, zotica e ignorante.

Quel che poi potrebbero fare realmente per i lavoratori e le lavoratrici francesi i frontisti al governo e la maniera con cui potrebbero mettere in pratica il loro anticapitalismo è un punto molto fumoso e, per quanto abbiamo detto fino ad ora, decisamente dubbio. Ma del resto, purtroppo, nessuno gliene chiede conto.

]]>
Parole di destra https://www.carmillaonline.com/2017/02/13/parole-di-destra/ Mon, 13 Feb 2017 22:30:56 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=36374 di Armando Lancellotti

ensemble-boltanskiLuc Boltanski, Arnaud Esquerre, Verso l’estremo. Estensione del dominio della destra, Mimesis, Milano – Udine, 2017, pp. 78, € 6,00

A questo libretto o pamphlet dei sociologi Luc Boltanski e Arnaud Esquerre – non «uno studio specialistico appesantito di note, […] né un editoriale politico, […] bensì […] un genere discorsivo trascurato da qualche decennio, ovvero quello dell’analisi impegnata» (p. 17) – si debbono riconoscere almeno tre meriti: innanzi tutto quello di essere profondamente immerso nella materia che tratta, in quanto scritto tra il febbraio e l’aprile del 2014 “sotto [...]]]> di Armando Lancellotti

ensemble-boltanskiLuc Boltanski, Arnaud Esquerre, Verso l’estremo. Estensione del dominio della destra, Mimesis, Milano – Udine, 2017, pp. 78, € 6,00

A questo libretto o pamphlet dei sociologi Luc Boltanski e Arnaud Esquerre – non «uno studio specialistico appesantito di note, […] né un editoriale politico, […] bensì […] un genere discorsivo trascurato da qualche decennio, ovvero quello dell’analisi impegnata» (p. 17) – si debbono riconoscere almeno tre meriti: innanzi tutto quello di essere profondamente immerso nella materia che tratta, in quanto scritto tra il febbraio e l’aprile del 2014 “sotto l’urgenza dei fatti”, da intendersi come il dilagare inarginabile dell’estrema destra francese, di quel Front National, che un paio di mesi più tardi, nelle elezioni europee del 24-25 maggio, si sarebbe affermato come primo partito nazionale con il 25% circa dei consensi. Il secondo merito consiste nel fatto di considerare la spaventosa deriva politica francese ed europea verso l’estrema destra attraverso l’analisi delle parole, dei termini, delle forme linguistiche che esprimono concetti dentro ai quali si addensano grumi di pensiero reazionario e fascista che, qualche anno fa ripescati dalla loro condizione di latenza e riemersi attraverso i percorsi carsici del pensiero politico, ormai imperano, tracotanti e sicuri al punto da essersi trasformati in un nuovo “senso comune”, in un «inquietante spirito del tempo in espansione» (p. 8). Ed infine, non meno importante è l’intento di contribuire al risveglio di una sinistra francese (e poi europea) che disorientata e tramortita non sembra in grado di resistere all’onda montante di questo nuovo “fascismo da terzo millennio”. [Per analoghi temi riguardanti l’estrema destra italiana vedi su Carmilla “Cinghiamattanza”: pensieri, parole ed opere dei “fascisti del terzo millennio”].
«Pertanto» – scrivono gli autori – «se non si vuole vedere la sinistra spegnersi e scomparire dallo spazio politico […] è urgente approfondire l’analisi della sua condizione attuale, elaborando un’autocritica paragonabile a quella che fu necessaria alla fine degli anni Cinquanta con lo stalinismo e che, attraverso i movimenti del maggio 1968 rinnovò la sinistra negli anni Settanta» (p. 16).

E nei poco più di due anni intercorsi tra l’uscita del libro e la sua traduzione italiana la situazione politica francese, europea, occidentale non pare certo essere migliorata, come dimostrano la crescita esponenziale dell’estrema destra in Austria o in Germania (dove nel 2016 gli attacchi di formazioni neofasciste contro i migranti sono raddoppiati, secondo i dati della stessa polizia tedesca) o le politiche intraprese dal governo Orbán in Ungheria o dal governo del PiS (il partito di Kaczyński) in Polonia e in generale dai paesi del gruppo di Visegrád, sempre più arroccati su logiche nazionalistiche e di ostinata e ottusa chiusura ai migranti. L’elezione di Trump alla fine dell’anno completa un quadro fosco che rischia di incupirsi ulteriormente nella prossima primavera con le elezioni presidenziali francesi, che pare abbiano già scontato l’affermazione al primo turno, precedente il ballottaggio, di Marin Le Pen.

L’intento del libro, scrivono i due autori, è «quello di reagire alla diffusione di idee, termini e temi reazionari che l’estrema destra contemporanea spacciava come cose evidenti e neutre, ma che aveva invece riesumato rivisitando le sue tradizioni» (p.7). Il riferimento è «all’Action Française, un movimento che, dalla fine dell’Ottocento fino agli anni Trenta del Novecento e oltre, ha avuto un ruolo centrale nello sviluppo di un nazionalismo aggressivo e xenofobo, pretendendo, come altri fascismi europei, di sposare la causa di una cultura alta, minacciata dalla modernità cosmopolita, e un’idea ancestrale di popolo minacciato dall’immigrazione» (p.7).

Idee e parole vecchie, ma riproposte come nuove e rivoluzionarie in un quadro di disarmante disorientamento politico, che rende possibili operazioni ideologiche quali quelle dell’estrema destra in tutta Europa, che pretende di presentarsi come l’unico attore politico capace di elaborare ed esprimere un pensiero coraggiosamente sconveniente, sprezzantemente sincero e perciò controcorrente ed anticonformista ed incurante delle precauzioni politicamente corrette e delle cautele ipocrite dell’intellighenzia di sinistra erede della presunta “dittatura culturale sessantottina”, ma proprio per tutti questi motivi portatrice di un pensiero schiettamente ed autenticamente “popolare”.

Le parole ed il loro uso efficace sono da sempre straordinari strumenti di lotta politica, soprattutto quando si verificano fenomeni di trasgressione linguistica o di traslazione e deformazione semantiche che culminano nel capovolgimento del significato delle parole. Le trasgressioni linguistiche «rendono […] lecite espressioni fino ad allora ritenute scandalose e provocano la censura o l’autocensura per espressioni fino ad allora ritenute accettabili» (p. 9) e l’imbarbarimento linguistico-politico verificatosi nell’Italia berlusconiana con la Lega di Bossi può costituire per noi italiani un caso paradigmatico di questo fenomeno.

Lo slittamento di concetti e parole dal vocabolario della sinistra a quello della destra non è di per sé una novità degli ultimi tempi e se cent’anni fa, all’inizio del secolo scorso, la decontestualizzazione straniante dei concetti di proletariato e lotta di classe ne permise il riutilizzo ad opera di nazionalismo e fascismo, oggi l’estrema destra ha gioco facile nell’impadronirsi degli argomenti della sinistra critica contro neoliberismo e globalizzazione finanziaria, facendone i propri cavalli di battaglia, dopo averli sovraccaricati di significati di destra, cioè nazionalistici, identitari, xenofobi, in una parola sola, fascisti.

«Ciò vale innanzi tutto per l’uso nel gergo dell’estrema destra di temi presi a prestito da una sinistra critica che – dopo la scomparsa del partito comunista e di fronte alla crisi della socialdemocrazia, segnata sul piano economico dall’attenzione ossessiva al debito e sul piano elettorale dalla sua incapacità a contrastare la crescita dell’astensionismo – ha cercato di ricompattarsi designando il neoliberalismo come nemico principale. Ormai immersa nella configurazione ideologica dell’estrema destra, la critica al neoliberalismo si è caricata di significati nazionalisti. Viene soprattutto rivolta contro l’Europa, accusata di essere il cavallo di Troia della globalizzazione e della finanza internazionale, impoverendo così il “vero popolo di Francia” a vantaggio, da una parte, degli immigrati, dall’altra, delle élite cosmopolite incarnate dai “bobos”, eufemismo designante i lavoratori della cultura, vilipesi per il loro essere aperti al mondo» (pp. 10-11).

Il vizio d’origine che ha consentito il travaso di temi ed argomenti prima appannaggio della sinistra radicale nel bagaglio ideologico della destra consisterebbe, secondo Boltanski ed Esquerre, nell’aver accomunato liberismo e liberalismo con conseguente estensione della critica a neoliberismo economico e globalizzazione finanziaria al liberalismo tout court, alla democrazia e alla socialdemocrazia, prestando così il fianco all’azione di innesto, sul tronco di questa critica politica di sinistra, del comunitarismo identitario nazionalista, antidemocratico, autoritario e presto xenofobo, presentato come correttivo alla globalizzazione imperante. E così la nuova pianta ha inglobato la precedente su cui si è innestata e ha messo rapidamente radici, trovando terreno fertile nella crisi economica generale e nell’immiserimento della classe operaia e dei ceti medi, che stanno rispondendo al richiamo di utopie identitarie antimoderne e antiuniversalistiche, «di tipo vagamente heideggeriano» (p. 13), che ricercano nuove possibilità di “essere nel mondo autentico” anche attraverso la proposta o il recupero di vincoli sociali di tipo affettivo ed emotivo e non più giuridico e razionale, i quali «avevano caratterizzato la rottura storica segnata, nel XVII secolo, dal sorgere del liberalismo» (p. 13).

Secondo Boltanski ed Esquerre, oggi l’iniziativa politica appartiene alla destra che ha saputo sfruttare i pesanti cambiamenti prodottisi, a seguito della crisi economica, sulla realtà quale era venuta strutturandosi dopo la fine della guerra fredda e che prevedeva come attori principali una destra liberale su posizioni economico-sociali liberiste, verso le quali convergeva anche una sinistra socialdemocratica, che lasciava alla sinistra estrema «il compito di criticare il neoliberalismo» (p. 19). La destra estrema, ai margini di questo quadro, manteneva le proprie tradizionali posizioni ostili al liberalismo politico e conseguentemente al parlamentarismo, all’individualismo e alla democrazia, ma dandosi una veste liberista in economia, nel tentativo di attirare il consenso di piccoli imprenditori e classi medie.
La svolta decisiva, intervenuta negli ultimi anni di crisi economica, è consistita invece nel recupero da parte della destra di un cavallo di battaglia del fascismo degli anni successivi alla crisi del ’29, cioè l’antiliberismo «in difesa del popolo e invocante lo Stato», associato «generalmente a un’opposizione tra la buona economia nazionale e il capitalismo cosmopolita» (pp. 21-22).

Nell’interessante quarto capitoletto, Il popolo visto da destra, i due studiosi considerano il modo in cui viene concepito e definito quel “popolo” che l’estrema destra francese intende sottrarre al campo politico della sinistra e difendere dai raggiri del capitale finanziario globale e lo fanno denunciando un altro caso di deformazione e traslazione del campo semantico delle parole.
«L’intelligenza politica d’estrema destra ha […] saputo rimodellare nel corso del tempo il tema classico dello sfruttamento, che era servito di base al movimento operaio e soprattutto ai comunisti, riorientandolo in riferimento a un’altra figura, dall’apparenza meno tinta di marxismo e più “democratica”, quella della rappresentazione. In questa chiave, il popolo non soffre soltanto la disoccupazione e la miseria ma, prima di ogni altra cosa, lamenta un deficit di rappresentazione, un termine usato con un’accezione vaga che va dalla rappresentanza politica in senso stretto alla rappresentazione mediatica nelle forme culturali» (p. 27).

Ne consegue una categorizzazione manichea che contrappone un “popolo buono” da promuovere e salvaguardare ad uno “cattivo”, esattamente come proponeva il fascismo tra le due guerre – ancora un caso di recupero di temi ed argomenti dell’estrema destra primonovecentesca – nel tentativo di ritagliare uno spazio per la propria “terza via” nazionalistica, alternativa al cosmopolitismo del grande capitale finanziario e all’internazionalismo e al collettivismo comunisti. Solo che allora il “popolo buono” si definiva attorno ad un tipo antropologico rurale, tradizionale, antico, che non aveva ancora conosciuto gli effetti corruttori della modernità, dell’urbanizzazione, della massificazione che avevano nel frattempo fagocitato il proletariato «ridotto allo stato di folla gregaria, imbastardito da uno stile di vita depravato e confuso da idee moderniste» (p.28) e socialiste.

Oggi, invece, a seguito dei numerosi passaggi storico-politici intercorsi, delle profonde trasformazioni del modo di produzione capitalistico e della crisi del marxismo e del socialismo, il mondo operaio non ha più la carica di pericolosità di un tempo e – di nuovo un caso di “travaso” da sinistra a destra – può assurgere agli occhi della destra estrema al ruolo di “popolo buono” «a cui appartengono, per esempio, gli “uomini di quarant’anni, bianchi, eterosessuali, sposati, con figli, residenti in regioni in declino, minacciati dalla disoccupazione”, insomma la “gente normale”», da contrapporre al “popolo cattivo”, «fatto di gente che vive di forme d’assistenza sociale: froci, lesbiche, intellettuali precari, arabi, neri, sans-papiers, abitanti delle banlieues, puttane, femministe e donne col velo» (p. 29). Ed è a questi “francesi normali” che va riconsegnata la Francia, come va predicando il Front National della Le Pen.

Altre stelle polari della costellazione ideologica dell’estrema destra europea odierna sono la politica securitaria e l’ossessione identitaria, che tra loro si intrecciano e si rimandano.
Secondo Boltanski ed Esquerre, il tema secutitario è stato messo in relazione con quello di una “moralità popolare” che si ritiene minacciata da attacchi provenienti da più parti ed in particolare dagli stranieri (musulmani delle banlieues degradate su tutti) e dai bobos, inutili intellettuali che chiacchierano dei loro presunti valori di sinistra. Ma il concetto di morale a cui si riferisce il discorso della destra estrema francese è declinato e definito nella forma più povera e banale che si possa concepire e cioè come buon senso popolare, come decenza, buone maniere, buona educazione e rispetto dei valori di un tempo. Questa interpretazione svilente del concetto di moralità ha condotto all’equiparazione o quanto meno alla comparazione tra reati gravi ed inezie (la cosiddetta – scrive Boltanski – “teoria del vetro rotto”), che innanzi tutto «ha consentito […] l’estensione degli atti passibili di sanzione legale e, in questo modo, le misure di controllo fin quasi alla provocazione» (p. 34) ed in secondo luogo ha condotto all’attribuzione indistinta ad un intero gruppo sociale, ad una parte della popolazione o ad una categoria della patente di immoralità, cioè di inciviltà, ora a causa di costumi lassisti e troppo permissivi ed ora per motivi opposti, cioè per la «intransigenza nel trasmettere usi appartenenti ad altre “culture”, intolleranti, violente e maschiliste, quasi per definizione; e quindi, evidentemente, non solo diverse dalla “nostra”, ma anche incompatibili» (p. 34).

Il buon senso morale del “popolo buono” è messo in pericolo non solo dall’inciviltà delle periferie degradate, palestre di criminalità, ma anche «dalla hybris devastatrice dei “bobos” e di altri “liberali
acculturati” che vogliono far passare per ideali di sinistra i loro desideri sfrenati e le loro tendenze bizzarre. Per compiere finalmente una vera Rivoluzione (nazionale) conviene perciò scoprire in noi stessi, insieme (ma senza gli “altri”), ciò a cui teniamo veramente, sollevando il velo che la (falsa) critica – silenziosamente all’opera da un bel pezzo – ha gettato sui nostri (veri) valori, che invece ci permettono di stare in piedi, per nasconderne la necessità e offuscarne la dignità. Insomma, si tratta di stabilire cosa vogliamo conservare» (p. 35-36).

Del bisogno e della difesa di una identità si fa un gran parlare negli ultimi decenni, essendo questo tema uno dei più dibattuti sia sul piano politico sia su quello culturale ed intellettuale, soprattutto da parte di coloro che ne denunciano allarmati la scomparsa: innanzi tutto i nazionalisti e i cattolici, ma – ritengono Boltanski ed Esquerre – anche quelle correnti della sinistra che si richiamano alla tradizione del repubblicanesimo. Questo porta ad un forte addensamento attorno ad uno stesso tema e a rischiosi intrecci tra correnti, movimenti, orientamenti diversi e distinti, ma accomunati da una sorta di “ossessione per l’identità”. Soprattutto il repubblicanesimo, trasformato in una «sorta di mito politico» è riuscito «ad assurgere a incarnazione di un’identità francese allo stesso tempo nazionale e universale, come dovrebbe essere la cultura repubblicana, considerata tanto più universale quanto più è nazionale» (p. 40).

L’attenzione per i temi identitari è oggi particolarmente preoccupante dal momento che ha smascherato il suo lato oscuro, la sua seconda faccia, quella xenofoba che odia stranieri e migranti che pregiudicherebbero «la “povera” identità della Nazione» e sarebbero «veicolo di una “grande sostituzione” che segnerebbe il crollo della “nostra” civiltà sotto i colpi dell’islamismo» (p. 41-42). Anche in questo caso, l’archetipo di tale idea politica è da rintracciarsi nel passato dell’Action Française, con la differenza di un riorientamento soprattutto contro i mussulmani di «un’ostilità che nella prima metà del Novecento colpiva principalmente ebrei ed ebraismo, svolgendo un ruolo centrale nella costruzione di un vero popolo autoctono, schiacciato dai meteci e dagli altri “stranieri interni”» (p. 42).

Se queste ed altre analoghe idee, che i due sociologi francesi esaminano nelle poche pagine di questo breve ma denso saggio, sono ormai divenute “senso comune”, “spirito del tempo odierno”, se hanno già conquistato lo status dell’”ovvio”, del “ciò che va da sé” perché sottinteso dai più, quale ruolo e quale spazio rimangono alla disponibilità delle altre forze politiche francesi e della sinistra critica in particolare? Come quasi sempre accade ed è accaduto in casi di questo genere, la reazione immediata e più semplice, per non dire semplicistica, consiste in un generale slittamento verso destra di tutte le forze politiche, quasi a volere «attutire il colpo accompagnandolo» (p. 61). Ma se questo è più facilmente comprensibile per una destra liberale che per opportunismo elettorale mutua dalla destra estrema alcuni punti programmatici, più difficile da comprendere e giustificare risulta l’analoga operazione compiuta dal Partito socialista francese, tutto intento a «compiere grandi sforzi per occupare il posto, ritenuto vuoto, del centro, o piuttosto del centro-destra, a seguito del declino imbarazzato di una destra “moderata” e “sociale” (che a lungo si è rifatta al gollismo). […] Ne è una dimostrazione l’ultima trovata di un “socialismo” ormai alla frutta, giunto al governo senza altro progetto se non quello di una gestione esemplare, secondo i criteri delle banche, delle agenzie di rating e delle autorità di Bruxelles; ridotto al soccorso di imprese capitaliste – cioè di coloro che le possiedono – invece di occuparsi prioritariamente della riduzione delle diseguaglianze» (p. 62 ).

Ma ancora più preoccupante è – a parere di Boltanski ed Esquerre – quanto accade nel campo dell’estrema sinistra e proprio con le considerazioni allarmate che i due autori propongono sul disorientamento rinunciatario della sinistra radicale concludiamo la presentazione di questo interessante libretto tradotto e pubblicato in Italia dall’editore Mimesis.
«Ma ciò che accade nell’estrema sinistra è ancora più preoccupante. In questo caso gli spostamenti […] dipendono […] da una sorta di sudditanza nei confronti di una base che tende a sfuggirle nel suo progressivo spostarsi quasi impercettibilmente e quasi innocentemente, se non inconsapevolmente, verso destra. […] Ma ciò che colpisce, nell’estrema sinistra attuale, è […] l’assenza quasi totale di ideologia e, allo stesso tempo, non il compimento di azioni dettate da analisi sbagliate, ma l’assenza di analisi e quindi di orientamento consapevole da cui far discendere delle azioni. L’ondata altermondialista di inizio anni Duemila e quella, dieci anni dopo, degli indignati e dei movimenti di occupazione contro l’1% dei più ricchi (ispirati da “Occupy Wall Street”) si sono esaurite senza riuscire a impedire alle società europee di finire in balia di una destra sempre più tirata verso l’estremo. […] Ma perché le posizioni di sinistra possano distinguersi nettamente da quelle dell’estrema destra bisognerebbe almeno che poggiassero su analisi innovative. Da una parte in grado di connettere la situazione politica attuale ai grandi cambiamenti che hanno coinvolto le classi sociali, le forme di proprietà, la distribuzione dei vantaggi e del potere, ossia le forme di dominio nell’Europa occidentale […]. Dall’altra in grado di rinnovare un internazionalismo che, in condizioni non meno difficili di quelle che stiamo conoscendo attualmente, ha rappresentato la forza e il vertice del movimento operaio. Inoltre, non dovrebbero trascurare le trasformazioni ecologiche in corso. Infine, converrebbe riflettere sulle condizioni di estensione della democrazia, anzitutto nelle sue forme elettorali che, a prescindere dalle modalità in cui si svolgono le consultazioni, sono proprie all’esigenza democratica» (pp. 62-64).

]]>