Franco Basaglia – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 30 Apr 2025 21:35:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Senza distogliere lo sguardo https://www.carmillaonline.com/2023/09/21/senza-distogliere-lo-sguardo/ Thu, 21 Sep 2023 20:00:15 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78678 di Gioacchino Toni

Al termine di un decennio che si era aperto con la pubblicazioni di libri come Storia della follia (1961) di Michel Foucault, Asylums (1961) di Erving Goffman, I dannati della terra (1961) di Frantz Fanon, Il mito della malattia mentale (1961) di Thomas Szasz e L’io diviso (1961) di Ronald Laing, fa la sua comparsa il volume curato da Franco Basaglia e Franca Ongaro Morire di classe. La condizione manicomiale fotografata da Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin. Una pubblicazione che sin dalla copertina palesa i suoi intenti di denuncia: “Alla fine di questo processo di disumanizzazione, il [...]]]> di Gioacchino Toni

Al termine di un decennio che si era aperto con la pubblicazioni di libri come Storia della follia (1961) di Michel Foucault, Asylums (1961) di Erving Goffman, I dannati della terra (1961) di Frantz Fanon, Il mito della malattia mentale (1961) di Thomas Szasz e L’io diviso (1961) di Ronald Laing, fa la sua comparsa il volume curato da Franco Basaglia e Franca Ongaro Morire di classe. La condizione manicomiale fotografata da Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin. Una pubblicazione che sin dalla copertina palesa i suoi intenti di denuncia: “Alla fine di questo processo di disumanizzazione, il paziente che era stato affidato all’istituto psichiatrico perché lo curasse, non esiste più: inglobato e incorporato nelle regole che lo determinano. È un caso chiuso. Etichettato in modo irreversibile, non potrà più cancellare il segno che lo ha definito come qualcosa al di là dell’umano, senza possibilità di appello”.

Pubblicato da Einaudi con una copertina rossa come il sangue e il dolore, certo, ma anche come la ribellione, che all’epoca non mancava, privo dei numeri di pagina e di didascalie di attribuzione autoriale delle fotografie, Morire di classe si rivelò un colpo allo stomaco per una società italiana in cui, a quelle date, pur in presenza di bigottismo e conservatorismo diffusi, rivelava inedite e sorprendenti disponibilità a sperimentare cambiamenti.

Ad oltre mezzo secolo di distanza dall’uscita di un libro che, grazie alle fotografie scattate nei manicomi di Colorno, Gorizia e Firenze tra l’aprile e l’ottobre del 1968, aveva portato alla luce, con tutta la loro violenza, le condizioni di detenzione in cui versavano tanti esseri umani sino ad allora pressoché nel disinteresse collettivo, torna in libreria in un’edizione che lo ripropone agli occhi di oggi che sono altri rispetto a quelli che lo osservarono alla sua prima uscita così come è altra la società a cui questo guardo appartiene: Carla Cerati, La classe è morta. Storia di un’evidenza negata, Prefazione di John Foot. A cura di Pietro Barbetta. Postfazione di Silvia Mazzucchelli (Mimesis 2023).

Scrive Foot nella prefazione che a colpire nelle fotografie di quel libro uscito sul finire degli anni Sessanta erano sopratutto le modalità con cui «i corpi e i volti dei pazienti lasciavano trasparire segni della povertà e del ricovero, del tormento, della sofferenza, delle regole e delle imposizioni che vigevano all’interno della struttura» (p. 8). «In Morire di classe, il discorso si concentra in parte sull’“architettura di contenimento”, con scatti di sbarre, chiavi, porte e pazienti legati, e molte immagini di pazienti all’interno dello spazio architettonico di queste istituzioni spesso ritratti in atteggiamenti passivi e succubi» (p. 9).

Al reportage fotografico si aggiungeva uno scritto di Franco Basaglia e Franca Ongaro richiamate gli studi non solo di Foucault e di Goffman sulle istituzioni totali ma anche le riflessioni di Primo Levi da cui si evincono le analogie tra campo concentramento e manicomio e di Fanon che descrive quest’ultimo come un luogo di potere in cui l’internato ricopre il ruolo del “colonizzato”.

La scelta di titolare il libro Morire di classe palesava l’intenzione del gruppo basagliano di guardare agli internati e alle internate nei manicomi come a individui socialmente connotati a cui veniva preclusa la possibilità di opporsi alle violenze dell’istituzione e, più in generale, della società coercitiva.

Difficile dire quale ruolo abbia giocato la pubblicazione di Morire di classe nella lotta che condusse all’apertura delle porte dei manicomi italiani. Storicamente, scrive Foot,

si può comprendere l’approvazione della legge 180 nel 1978 solo inserendola in un quadro di vari fattori, eventi e prodotti culturali che crearono lo spazio politico per la divulgazione della riforma. Fattori che inclusero anche la creazione di un sistema sanitario nazionale italiano, gli oneri finanziari del sistema manicomiale, il ruolo della televisione e una nuova generazione di psichiatri con idee differenti rispetto ai loro predecessori (p. 15).

Quel che è certo, continua Foot, è che tale libro ha

cambiato la fotografia che documenta la realtà in queste strutture e, più in generale, il concetto del ruolo del fotografo in Italia. La fotografia è diventata quindi un modo di capire sia le “istituzioni totali”, operative in tutta Italia per gran parte del Ventesimo secolo, sia i riformisti, i radicali e i rivoluzionari che tentarono di cambiare e distruggere queste istituzioni dai primi anni Sessanta in avanti (p. 16).

Nell’introdurre il volume proposto da Mimesis, il suo curatore Pietro Barbetta spiega come la sostituzione del titolo originario Morire di classe di fine anni Sessanta con La classe è morta della versione ora data alle stampe intenda evidenziare il passaggio da un’epoca in cui il manicomio concentrazionario, con le sue connotazioni classiste, funzionava, insieme ad altre istituzioni, come strumento di messa a morte della classe a un’epoca, l’attuale, in cui quella classe – per come l’abbiamo consciuta – può dirsi ormai scomparsa.

Negli anni Sessanta e Settanta la classe operaia era viva e vegeta, protestava, studiava, produceva giustizia sociale e cultura. La mortificazione accadeva in forma di repressione: scuole, caserme, carceri, manicomi. Chi moriva nel 1969, o veniva portato a decadere fino alla morte, erano soprattutto le donne: operaie, disoccupate, “casalinghe”, folli, dissidenti, emarginate persino dai compagni maschi del sindacato e del partito. Oggi la classe si è estinta. […] Al suo posto c’è, per esempio, un enorme polo multifunzionale estraniante (sto pensando all’area Bicocca di Milano o al Vega, Parco Scientifico Tecnologico di Venezia. Non-luoghi che, da poli di aggregazione sociale, si sono trasformati in poli di disgregazione professionale e disciplinare).
Morire di classe dovrebbe essere re-intitolato La classe è morta. […] Oggi che la classe è morta, che l’operazione di capovolgimento della modernità si è compiuta, nessuno passa più la domenica nel salotto a mangiare pastarelle maledicendo il comunismo. Le casalinghe con il Tavor o con quel goccio di amaro Montenegro sembrano svanire nel nulla. Oggi ingoiano stabilizzatori dell’umore per sopportare la frustrazione e frequentano terapie comportamentali per imparare a “gestire” la loro sottomissione; nessuno va in piazza e fa i picchetti. Le dinamiche della relazione sociale si sono trasformate. Ai muri manicomiali si sono sostituiti i ricoveri coatti, i sovradosaggi e i multipli dosaggi farmacologici, le piccole fasce di contenzione, indistruttibili, tecnologicamente affidabili, impossibili da strappare, minimaliste. Le fascette vanno a sostituire le vecchie apparecchiature in mostra nei musei manicomiali: bluse a righe, spazi malsani, coma insulinici, iniezioni malariche, camicie di forza, docce scozzesi, apparecchi chirurgici, elettrici e altri armamentari che costituivano l’usuale mobilio manicomiale. A quel tempo, però, la protesta era collettiva. Ora esistono solo disturbi maniacali individuali. Là, nei lettini con le fascette “funzionali”, vengono contenute quelle che, al tempo della classe, erano rivendicazioni collettive per ottenere giustizia sociale, cose che si potevano fotografare, disegnare, raccontare. Come fotografare oggi le molecole che stanno nella borsetta o nelle tasche per curare depressioni, psicosi e manie? (p. 38).

Al manicomio, a quella macchina di contenimento, di espropriazione e repressione classista, seppe opporsi un movimento collettivo risoluto nel mettere in discussione le istituzioni coercitive nella loro globalità. Contestualmente al dissolversi della classe, incapace ormai di individuarsi e di agire (conflittualmente) come tale, il manicomio concentrazionario ha assunto la forma del trattamento sanitario obbligatorio nei reparti di diagnosi e cura degli ospedali o si è fatto diffuso, sempre più individuale e in balia dei farmaci.

Forse, di questi tempi, Carla Cerati andrebbe a fotografare i ragazzi che inforcano la bicicletta e il monopattino con lo zaino pieno di pizze a domicilio, oppure i call center pieni di laureati in filosofia, gli stagisti minorenni delle scuole professionali, che si feriscono, si ammalano e muoiono di incidenti sul lavoro, i luoghi d’insediamento dei richiedenti asilo, ma anche, se potesse avere accesso, quei servizi psichiatrici di diagnosi e “cura” e le fascette appese ai lettini.
Perché oggi il capitalismo, tanto contestato, è morto insieme al suo antagonista. Oggi siamo in pieno regime schiavista e il manicomio è territorializzato: centri nomadi, guerre, invasioni, nuovi virus mortali, oligarchi senza dignità, capi di stato sociopatici e la massa – indica Elias Canetti con tono amaro – aderisce sempre all’ideologia del potere: massa e potere sono consustanziali.
Eppure, oggi questa riflessione non ci basta. Di fronte alla morte della classe, dobbiamo chiederci come mai, nel cuore della civilizzazione, riesploda il desiderio di oppressione, il desiderio di ingiustizia a livello di massa. Come mai la massa vuole un capo che la guidi, qualunque cosa dica, purché venga detto con veemenza (p. 39).

La classe quale soggetto collettivo capace di farsi soggetto politico per cambiare il mondo, scrive Barbetta, «è stata sconfitta dalla massa, che nella sua esistenza informe desidera essere oppressa, comandata da chi rappresenta un’ideologia perfetta, mortifera» (p. 39). Oltre alla classe operaia a svanire è anche quella classe borghese efficacemente descritta da letterati e registi del calibro di Pasolini, Antonioni e Bianciardi e di questa sono scomparsi persino i figli ribelli.

La morte della classe ha colpito anche questi ceti. Oggi nessuno produce più rampolli che scrivono romanzi o fondano case editrici; nessuno pensa di creare nuovi centri studi. L’università da luogo di pensiero si è trasformata in luogo di computazione elettronica. Oggi non si può più morire di classe perché la classe è già morta, anche quella dominante e, insieme alla classe, è morta anche la sua coscienza: quella del proletariato – consapevolezza di classe – quella della borghesia – coscienza morale […].
Oggi il titolo da usare potrebbe essere Morire di razza e forse Carla Cerati, come accade alle fotografe che seguono le sue orme, produrrebbe sequenze visive di volti di donne venute in Europa per proteggersi dalle lapidazioni, dai soprusi familiari, dai maltrattamenti e dalle conseguenze della guerra. Viseità altrettanto incredule per quanto accaduto loro prima e durante il viaggio, ma anche per quel che accade nella democratica Europa dei respingimenti, dei maltrattamenti, delle discriminazioni razziali […].
Il rito vudù, le persecuzioni subite in Libia, l’arrivo attraverso i canali della criminalità organizzata, come prostitute cui è stato promesso un lavoro da parrucchiera, oppure, con i figli, navigando sui gommoni, raccolte dalle navi onlus, donne costrette ad affogare con i loro bambini di fronte alla competizione per la sopravvivenza nel Mediterraneo con i maschi, più forti sul piano fisico. Morire di genere, la morte delle madri coi bambini, la verità del darwinismo sociale neoliberista: legge del più forte. Queste donne, quando le incontri nel contesto della cura, mostrano rabbia, non disagio psichico. I nuovi manicomi territoriali, i centri di accoglienza, le istituzioni sanitarie, i giudici, privi di strumenti di lettura del fenomeno antropologico, provvedono alla “protezione del fanciullo” spesso separandolo dalla madre, come accadeva presso i campi, come accaduto durante l’amministrazione Trump alle famiglie messicane che cercavano di varcare il confine (pp. 40-41).

In un’epoca in cui si dedicano fotografie a quanto si è ordinato al ristorante o alle scarpe appena arrivate con il corriere, in cui si producono selfie divertiti mentre si passeggia per Auschwitz come si fosse a Disneyland, le fotografie di Morire di classe possono continuare a colpire chi le osserva. Lo possono fare se solo si ha il coraggio di non distogliere vigliaccamente lo sguardo per evitare di fare i conti con esse, con gli esseri umani che vi compaiono e con la propria coscienza, se si è capaci di guardarle diversamente da come si osservano le pubblicità di profumi e di smartphone, se si è disposti a concedere a quelle fotografie un po’ più di attenzione rispetto a quella che normalmente si dedica alle tante immagini con cui distrattamente si viene a contatto – e si producono – tutti i giorni.

Insomma, come nella teoria degli affetti di Spinoza, l’incontro con l’alterità – nell’immagine fotografica – affeziona l’osservatore e produce variazioni di potenza, cambiamenti di soggettivazione, ma il soggetto necessita di guardare l’abisso. Ognuno di noi si soggettiva a partire da un’impressione che si mostra con un’espressione, ma ciò richiede la nostra responsabilità. Il mondo sarà finito, per l’homo sapiens/demens, non quando la specie si estinguerà sul piano biologico, ma quando tutti distoglieremo lo sguardo. Quando l’espressione, che può essere fotografata, non produrrà nuove impressioni, in un circolo che non finisce mai, come canta Tom Waits. Quel giorno, oltre alla classe, si spegnerà anche la specie (p. 42).

La postfazione a La classe è morta scritta da Silvia Mazzucchelli è dedicata a Carla Cerati, anima inquieta che sul finire degli anni Sessanta non manca di rapportarsi con le ingiustizie del mondo in cui vive. Cerati, scrive Mazzucchelli,

non si pone dentro gli eventi, come fanno Tano D’Amico, Uliano Lucas, Lisetta Carmi, Letizia Battaglia, e tanti altri ancora, interpreti coscienti di una militanza di classe. Per lei il reportage è una scelta di partecipazione politica, e fotografare significa credere al cambiamento sia riguardo alla trasformazione individuale che collettiva. Tuttavia, il suo sguardo si colloca al di fuori, come fosse ai lati della scena. La distanza non è indifferenza, bensì il suo modo di lambire la storia da un punto di vista eccentrico (p. 130).

Venuta a contatto con Franco Basaglia e Franca Ongaro, Cerati entra nei manicomi con la macchina fotografica insieme all’amico Gianni Berengo Gardin per realizzare il reportage fotografico da cui prenderà vita Morire di classe.

Sfogliarne le pagine, osservare le fotografie che compongono questo lungo flusso di corpi e volti senza identità, è cercare di fermare qualcosa che scivola via come una Narrenschiff di carta, un flusso composto di immagini sino allora inimmaginabili, persino per chi era rinchiuso. Come accade a una giovane paziente che si trova all’aperto e guarda all’interno dell’edificio attraverso le sbarre di una finestra. Il suo stare sospesa tra un fuori impossibile e un dentro desolato, rispecchia in parte quello della fotografa. Mai, come nelle foto di Morire di classe, si percepisce una vicinanza che va oltre la semplice solidarietà o la pura indignazione per le condizioni disumanizzanti in cui vivono gli internati (pp. 131-132) .

Forse, è meglio evitare di riportare tra queste righe alcuni di quegli scatti affinché li si possa osservare nel contesto dalle pagine del libro, evitando loro di galleggiare tra le tante immagini che, decontestualizzate, infestano il mare di internet. Sarebbe bene avere tra le mani una copia di questo libro dedicando alle fotografie, e a chi è stato ritratto, il tempo e il contesto che meritano.

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Lassù, nella casa dei matti https://www.carmillaonline.com/2023/08/03/lassu-nella-casa-dei-matti/ Wed, 02 Aug 2023 22:01:25 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78347  

di Maurizio Marrone

Riccardo Tontaro, Silenzio imperfetto, Funambolo edizioni, 2023, pp. 128, € 16,00.

Nina ha trentatré anni, non parla e da tempo immemore è rinchiusa in manicomio. Un agnello sacrificale, tra tanti altri come lei, immolati sull’altare del decoro da una società bigotta e imbrigliata nelle maglie ripugnanti del pregiudizio. Siamo nel 1976 e, dal suo eremo coatto, Nina si racconta nelle pagine di un diario lieve e amaro, ritrovato in un futuro imprecisato dal suo nuovo medico. Un diario scritto in poco più di una settimana, [...]]]>  

di Maurizio Marrone

Riccardo Tontaro, Silenzio imperfetto, Funambolo edizioni, 2023, pp. 128, € 16,00.

Nina ha trentatré anni, non parla e da tempo immemore è rinchiusa in manicomio. Un agnello sacrificale, tra tanti altri come lei, immolati sull’altare del decoro da una società bigotta e imbrigliata nelle maglie ripugnanti del pregiudizio. Siamo nel 1976 e, dal suo eremo coatto, Nina si racconta nelle pagine di un diario lieve e amaro, ritrovato in un futuro imprecisato dal suo nuovo medico. Un diario scritto in poco più di una settimana, nel quale il tempo si contrae e si dilata fino a contenere un’intera esistenza.

Era una bambina intelligente Nina, vivace e curiosa, nata il 4 marzo del 1943 e cresciuta nell’Italia rurale del dopoguerra, un paese mutilato dall’orrore, dove la povertà e la fatica erano norma di vita. La sua infanzia, comunque allegra e spensierata, si incrina quando, ad appena sei anni, il “Barone”, padrone della terra e delle anime che vi lavorano con la schiena incurvata, la reclama come figlia propria. Perché il privilegio è uno stupratore che adora indossare la maschera ipocrita del diritto. Nella casa del padrone Nina ci sta male, le manca la mamma, si sente prigioniera o, nel migliore dei casi, semplicemente tollerata. Per fortuna c’è il nonno, un uomo colto e gentile che vive la presenza di questa nuova nipote come un dono inaspettato. Un uomo che non ha mai barattato l’empatia con il moralismo, cha la ascolta, la capisce e la inizia alla lettura. Perché a Nina piace scrivere e piace leggere. Da adolescente è travolta da un amore proibito per una sua coetanea; un amore impossibile che nel paese in cui vive si trasforma presto in ludibrio, disprezzo e stigma d’infamia. Lesbica, invertita, degenerata. Il nonno lo sa e lascia, nonostante tutto, che quell’amore sia. Poi, quando Nina ha quindici anni, il nonno muore e tutto deflagra. Sotto un diluvio che è presagio del collasso che sarà, Nina si getta nel fango della tomba ancora aperta e strepita il suo rifiuto di accettare il tempo che si porta via la vita. Non ci saranno più strepiti né parole per lei e, di lì a qualche mese, viene internata lassù, nella casa dei matti dove, dopo più di diciotto anni, ancora si consuma la sua ribellione afona. Sullo sfondo si intravedono letti di contenzione, elettroshock, violenza gratuita e la figura lucente e ribelle del suo nuovo dottore; un bel giovane di nome Franco, che le chiede di accompagnarla al mare, chiama “maledetti” gli infermieri che la legano, le regala dei libri e consegna al lettore le pagine del suo diario. Impossibile non riconoscere nella figura del medico rivoluzionario un omaggio a Franco Basaglia che, ovviamente, nel 1976 non era né giovane né alle prime armi ma che, al contrario, era già uno psichiatra di fama mondiale e che, di lì a due anni, con l’approvazione della legge 180, avrebbe messo per sempre la parola fine all’inferno in terra dei manicomi di stato.
Di Nina, altro non è dato sapere. Forse è scappata o forse è tornata alla parola e alla vita, tratta in superficie da un ricordo mai sopito.

Questo quanto al passato. Ma nel diario di Nina il tempo imperfetto dei ricordi si intreccia con il tempo presente del suo vissuto quotidiano, fatto di fughe e ritorni ma, soprattutto, di un denso monologo interiore che è il vero cuore pulsante del libro.
Nina è vittima due volte: del mondo, che ha preso il suo dolore e lo ha gettato come un panno sporco nel miasma dannato e irredento del manicomio, e della sua ribellione che, rifiutando il mondo, ha consegnato al silenzio il suo futuro. Il suo disagio è frutto di questo intreccio perverso e indissolubile che la paralizza e la tiene incatenata a un tempo immobile. Eppure, dall’osservatorio coatto della sua prigione muta, è come se Nina fosse sempre davanti allo specchio. Si scruta, sonda il suo sguardo sul mondo, pone domande e, senza alcuna clemenza, viviseziona pagina dopo pagina la genealogia di uno spaesamento antico che è il semplice non poter dar conto dell’esserci, qui e ora.

Questa radice, inzuppata d’acqua e d‘esistenza, è soffocata tra i sanpietrini ma, ciononostante, resistente. Se solo qualche giorno fa qualcuno m’avesse chiesto che cosa è l’esistenza, avrei risposto che non è nulla, che è qualcosa di immaginario che si connette alle cose senza modificare il loro essere. Invece ora la percepisco chiara questa esistenza: è qui, tutt’altro che astratta. È qui come dovunque, anche in questa radice, impastata insieme all’acqua e alla terra. Ogni cosa, ogni essere animato e inanimato, si lascia andare all’esistenza. Io no, in mezzo a tutta questa indebolita moltitudine, no, mi sento in eccedenza, di troppo.1

Il non lasciarsi andare all’esistenza avvertendone l’eccedenza non è altro che la Nausea di Sartre declinata in altra forma. Non è difficile, infatti, ritrovare alle spalle di Nina la sagoma sfuocata, ma riconoscibile, di Roquentin che annuisce con un sorriso appena abbozzato. Perché le domande che Tontaro innesta nel suo personaggio, che lo paralizzano e lo inchiodano davanti allo specchio della sua mente inquieta, sono le domande fondanti della riflessione esistenzialista sulla natura del tempo e della morte.

Cosa palesa il crescere, se non rimandare, appassire, vedere morire? Che il tempo sgattaiola, frattanto, disertandosi da solo, inesorabile.2

E a nulla vale il tentativo di sfuggire a questa ineluttabilità attraverso il potere taumaturgico del racconto. Nina lo sa ma è incapace si evadere dalla prigione che le sue stesse domande le hanno eretto intorno.

Un’idea, come fosse un brutto gattaccio arruffato, rannicchiato sopra un cumulo di lische in un angolo buio qui dentro, sembra dirmi qualcosa…
Ma è davvero questo quello che vuoi? Racconti, non vivi. Stai solo ingannando te stessa. Nessuno può volere indietro ciò che racconta: se si ha qualcosa è solo ciò che si vive ora. Che già ora, capiscilo, quell’ora è già finito.
Hai ragione.
Cerco di vivere la mia vita come se la raccontassi.3

Silenzio Imperfetto di Tontaro si inscrive nel perimetro dei molti libri, usciti nel recente passato, dedicati al disagio psichico. Dal celebrato – e forse sopravvalutato – Tutto chiede salvezza di Daniele Mencarelli,4 al meno celebrato – ma sicuramente più interessante – Beati gli inquieti di Stefano Redaelli5. E lo fa in punta di piedi, con una scrittura leggera ma ben calibrata e, a tratti, misuratamente evocativa, grazie alla quale, la ricomposizione quasi pudica del passato si fonde con la brutale monotonia allucinata dell’internamento. Ma oltre a questo, che comunque fa del Silenzio Imperfetto un libro che merita di essere letto, c’è qualcosa di più profondo e inquietante: perché alla parsimonia del racconto, a tutto ciò che è suggerito ma non detto, fa da controcanto una riflessione, quasi urlata, nella quale la voce nitida e perentoria di Nina, pur muta, ci sbatte in faccia, senza filtri, il disagio primigenio dell’esser gettati nell’esistenza.
Non so se, come fa Cormac McCarthy nel Passeggero,6 dobbiamo domandarci se il senso autentico della carità umana sia quello di salvaguardare i matti. McCarthy, si sa, è un esploratore del limite e un acrobata dell’iperbole. Tuttavia, in un mondo nel quale il consumo nell’effimero ha soppiantato il tempo lento del pensiero, fermarci con Nina a riflettere sul senso del nostro non sentirci a casa può essere un buon modo per prenderci cura dei frammenti dispersi di ciò che siamo.

Allora metto in salvo le mie cose, a una a una, prima che il nubifragio le affoghi: il taccuino del nonno, la penna per scrivere i miei pensieri, i bei libri da leggere, la buona musica da ascoltare, i piedi dell’andata e del ritorno e tutte le scuse per le parole che non ho più da dire. L’essenziale è la circostanza, è come l’esistenza, e essere qui, ora, senza sentire il bisogno di nessuna necessità.7


  1. Riccardo Tontaro, Silenzio imperfetto, Funambolo edizioni, 2023, p. 113. 

  2. Ivi, p. 119. 

  3. Ivi, p. 73. 

  4. Cfr. Daniele Mencarelli, Tutto chiede salvezza, Mondadori, Milano, 2022. 

  5. Cfr. Stefano Redaelli, Beati gli inquieti, Neo Edizioni, 2021. 

  6. Cfr. Cormac McCarthy, Il passeggero, Einaudi, 2023. 

  7. Riccardo Tontaro, cit., p. 119. 

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Controstoria della psichiatria dal manicomio alla psichedelia https://www.carmillaonline.com/2023/07/07/controstoria-della-psichiatria-dal-manicomio-alla-psichedelia/ Fri, 07 Jul 2023 20:00:44 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78034 di Gioachino Toni

Piero Cipriano, Vita breve della psichiatria dal manicomio alla psichedelia. Storia di internamenti e antipsichiatria, pillole tristi e piante magiche, Luca Sossella Editore, 2023, pp. 206, € 12.00

Quella proposta da Piero Cipriano – «psichiatra, ovvero terapeuta moderno occidentale e scientifico, per così dire, almeno nel senso con cui si intende la scienza galileianamente», anarchico e basagliano –, è indubbiamente una storia della psichiatria singolare, una storia che, oltre a far dar di spalle ai suoi ambienti più reazionari, farà storcere il naso anche a qualche onesto basagliano che fatica [...]]]> di Gioachino Toni

Piero Cipriano, Vita breve della psichiatria dal manicomio alla psichedelia. Storia di internamenti e antipsichiatria, pillole tristi e piante magiche, Luca Sossella Editore, 2023, pp. 206, € 12.00

Quella proposta da Piero Cipriano – «psichiatra, ovvero terapeuta moderno occidentale e scientifico, per così dire, almeno nel senso con cui si intende la scienza galileianamente», anarchico e basagliano –, è indubbiamente una storia della psichiatria singolare, una storia che, oltre a far dar di spalle ai suoi ambienti più reazionari, farà storcere il naso anche a qualche onesto basagliano che fatica a fare i conti con la metamorfosi chimica che ha subito il manicomio e, soprattutto, con le potenzialità di quelle sostanze che possono espandere le coscienze anziché restringerle.

Al pantheon della psichiatria appartengono sicuramente Philippe Pinel, che inaugura il manicomio fisico, e Franco Basaglia, che lo chiude, ma Cipriano vi inserisce anche Timothy Leary che, pur non essendo psichiatra, ha di fatto lavorato ai presupposti per porre fine all’epopea della psichiatria. Questo ultimo inserimento basta a trasformare la storia della psichiatria proposta dall’autore in controstoria e un posto in questa spetterà, sostiene Cipriano, a chi saprà darle fine ricorrendo al pharmakon psichedelico.

La vita del manicomio concentrazionario prende il via, un secolo dopo l’editto francese che nel Seicento aveva concentrato presso il Grand Hôpital Géneral parigino tutti i devianti, con la distinzione e la separazione operata da Philippe Pinel tra fuorilegge, destinati al carcere, e folli, concentrati nell’ospedale psichiatrico. Tale epopea concentrazionaria si chiude con Basaglia che riesce a chiudere il manicomio di mura e sbarre separato dal resto della società.

Nel corso degli anni Sessanta – in un clima culturale segnato dalla pubblicazioni di opere come Storia della follia (1961) di Michel Foucault, Asylums (1961) di Erving Goffman, I dannati della terra (1961) di Frantz Fanon, Il mito della malattia mentale (1961) di Thomas Szasz; L’io diviso (1961) di Ronald Laing – Basaglia trova la forza per fare quello che né i padri nobili della psichiatria psicodinamica (Freud, Joung, Adler e Janet) né i fenomenologi (Jaspers, Minkowski, Binswanger ecc.) hanno mai fatto. Convintosi che una società civile debba saper accettare i diversi stati di coscienza, ordinari o extra ordinari che siano, giunge alla conclusione che le persone internate nei manicomi debbano essere al più presto restituite al mondo comune.

A partire dalla fine degli anni Sessanta Basaglia matura la convinzione che però non basta mettere in discussione i soggetti che compongono il manicomio (medico, infermiere e paziente): occorre cambiare la società che li ha rinchiusi affinché possa riaccoglierli a tutti gli effetti. Mosse dal convincimento che le cure (volontarie) debbano restare nelle società civile e non in luoghi separati, le battaglie portate avanti da Basaglia nel corso del decennio successivo ottengono la chiusura per legge del manicomio fisico ma palesano anche come, una volta riammessi in società, gli ex reclusi siano drammaticamente costretti a fare i conti con i bisogni primari comuni a ogni essere umano: relazioni, affetti, abitazione e autonomia economica. Pur percepita dal gruppo di Basaglia come un compromesso, la Legge 180 del 1978 rappresenta probabilmente il massimo ottenibile all’interno di quel contesto storico-culturale; per una riforma più radicale sarebbe servita una società più avanzata.

Al manicomio di mura e sbarre1 si è via via sostituito il manicomio chimico2 somministrato al paziente attraverso psicofarmaci grazie al sostegno di una “macchina diagnostica” che ha la sua bibbia nel Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders3.

Mentre la comunità medica già nella prima metà degli anni Cinquanta dispone di antibiotici, anestetici, antistaminici, antidiabetici, antiepilettici, sedativi ecc., gli psichiatri si sentono disarmati nell’affrontare la sofferenza mentale. È dalla frustrazione provata a causa dell’incapacità di ottenere terapie efficaci, dal desiderio di disporre di medicinali efficaci al pari del resto della comunità medica che prende il via l’era della psichiatria chimica.

La rimonta della psichiatria prende il via nel 1949, quando Hanri Laborir, dopo aver somministrato ai sui pazienti la prometazina (un antistaminico), nota la sua efficacia nell’alleviare il dolore. Ben presto viene sintetizzata la clorpromazina che, essendo capace di rallentare il sistema nervoso centrale, a partire dai primi anni Cinquanta, viene somministrata nei manicomi ai pazienti psicotici rendendoli atarassici. Nel giro di un decennio la psichiatria si è trovata a poter disporre di tre farmaci capaci di fronteggiare altrettante importanti dimensioni psicopatologiche: la clorpromazina, destinata ai malati aggressivi, maniacali e psicotici; il clordiazepossido, per gli ansiosi; l’iproniazide, per i depressi.

Il successo commerciale della clorpromazina ha accelerato la ricerca tanto che nel giro di poco tempo sono state sintetizzate le principali classi di neurolettici di prima generazione, poi sostituiti, negli anni Novanta, dai neurolettici di seconda generazione, gli antipsicotici atipici. I risultati della rivoluzione chimica dovrebbero però far riflettere sulla sua efficacia: a fronte dei 267.000 pazienti ricoverati nei manicomi statunitensi con diagnosi di schizofrenia nel 1955, agli albori dell’epopea psicofarmacologica, si è passati a 2.500.000 casi nel 2010. Il bacino a cui si sono indirizzati gli psicofarmaci si è allargato a dismisura dal momento che la macchina diagnostica si è fatta prendere dall’urgenza burocratica ed economica di considerare malattia qualunque disagio psichico con conseguente prescrizione farmacologica.

Mentre procedeva questa storia della psichiatria, passata dalle mura del manicomio fisico agli psicofarmaci neurolettici imposti dalla riscrittura farmaco-orientata dei manuali diagnostici, si è sviluppata anche un’altra storia, quella della psichedelia occidentale che può essere riassunta nella successione di tre fasi principali. Una “pionieristica”, che ha preso il via sin dai primi anni Quaranta, scandita dalle ricerche di personalità come Albert Hoffmann, Aldous Huxley e Timothy Leary, a cui la psichiatria dell’epoca ha, per un certo periodo, guardato con interesse. Un “medioevo”, derivato dalla messa al bando negli anni Settanta delle molecole psichedeliche, segnato dalla pratica clandestina di personaggi come Leo Zeff e dall’ostinata controinformazione portata avanti da Terence McKenna. Un “rinascimento” che, sull’onda delle ricerche di Rick Strassman, ha preso il via attorno al cambio di millennio grazie agli studi scientifici di Ronald Griffiths della Johns Hopkins University, David Nutt e Robin Carhart-Harris dell’Imperial College London, Stephen Ross, direttore dello Psychedelic Research Group alla New York University, e Charles Grob dell’Harbor-UCLA Medical Center in California4.

Humphry Osmond, Aldous Huxley e Stanislav Grof sono stati tra i primi occidentali a comprendere la valenza tanatodelica di certe molecole, cioè a capire che «far morire l’ego (non il corpo) è terapeutico». Un ruolo fondamentale nel far conoscere ad Hoffmann i funghi magici, da cui estrarrà il principio attivo alcaloide psilocibina, spetta alla sabia María Sabina che ha saputo anche denunciare quanto possano essere sbagliate e dannose le modalità con cui gli occidentali si rapportano con le “piante sacre”, o “maestre”. Lo stesso gruppo di ricercatori guidato da Griffiths, in apertura del nuovo millennio, facendo sobbalzare la comunità scientifica, ha sostenuto la centralità dell’elemento mistico nel processo di guarigione. Più cautamente l’equipe diretta da David Nutt e Robin Carhart-Harris, ha preferito parlare di «temporanea disattivazione di una rete neuronale detta DMN».

Delle potenzialità trasformative degli psichedelici per il genere umano erano convinti Osmond, Huxley, Grof e Leary, ma mentre i primi tre si muovono con una certa cautela, l’ultimo, incapace di mediazioni, ritiene si debba procedere a una diffusione repentina e generalizzata delle sostanze psichedeliche in modo che tutti ne possano beneficiare. Che le posizioni radicali di Leary abbiano inciso sulla messa al bando delle sostanze psichedeliche è più che probabile ma, più di lui, ricorda Cipriano, poté l’establishment statunitense intenzionato, sin dagli anni Cinquanta, a utilizzare la LSD come “arma chimica”.

Mentre negli anni Settanta le molecole psichedeliche sono costrette a inabissarsi – e le strade vengono letteralmente inondate di eroina e, poco dopo, di cocaina –, Basaglia «libera i corpi dalle gabbie murarie». Curiosamente nello stesso decennio vengono messi fuori legge tanto il «manicomio prigione dell’estasi», quanto le «molecole che agevolano l’estasi». «La casa (il manicomio) della psichiatria è distrutta: occorre riedificarne una nuova e la nuova casa della psichiatria si edificherà sui farmaci che – essendo più semplici, funzionali al controllo e antidoto della trascendenza – vinceranno la partita. E così la nuova casa della psichiatria si edifica su centinaia di casematte diagnostiche, caselle nosografiche, costruzioni nosologiche».

Alla fine della stagione psichedelica si aggiunge, con la morte di Basaglia nel 1980, la fine della della rivoluzione portata dalla psichiatria antistituzionale e ad occupare la scena ci pensa l’American Psychiatric Association con il suo sofisticato manicomio nosografico e molecolare fondato sul manuale diagnostico DSM e sugli psicofarmaci.

I “rinascimentali della psichedelia”, sostiene Cipriano, sembrano intenzionati a trattare con la terapia psichedelica i depressi, gli ossessivi, i traumatizzati, «insomma coloro che devono tornare al lavoro», abbandonando agli antipsicotici depot, oggi detti LAI, gli schizofrenici, i deliranti, i maniaci, cioè gli irrecuperabili.

Cipriano intreccia abilmente le diverse linee narrative evidenziando come in alcuni casi le storie procedano parallelamente e come, se si fossero incontrate, o se alcune di queste non fossero state interrotte, si sarebbe arrivati molto prima ove si potrebbe a breve arrivare: all’incontro di Franco Basaglia con Timothy Leary.

Nel caso in cui la psichedelia riesca a compiere la sua «rivoluzione scientifica e sgomini la psichiatria» indirizzando verso l’espansione della coscienza, anziché la sua restrizione, operando per il dissolvimento dell’ego, sostiene Cipriano, «non ci saranno più psichiatri distributori di pillole che impasticcano le persone con farmaci che loro non hanno assunto, fidandosi dei bugiardini delle case farmaceutiche; il nuovo terapeuta sarà più simile allo sciamano che non a Freud o a qualunque dei duecentomila psichiatri di oggi».

È probabile che la psichiatria, per non morire, faccia di tutto per espellere la medicina psichedelica da sé, costringendola alla clandestinità, a restare esoterica, misterica e fuori legge, ma, conclude Cipriano, forse è meglio che la psichedelia, sull’esempio di Leo Zeff, continui ancora per qualche tempo a operare fuori dai riflettori preparando le condizioni affinché la psichiatria muoia permettendo una cura di sé capace al contempo di curare il mondo.


  1. Cfr. Piero Cipriano, La fabbrica della cura mentale. Diario di uno psichiatra riluttante, elèuthera, Milano, 2013 [su Carmilla]

  2. Cfr. Piero Cipriano, Il manicomio chimico. Cronache di uno psichiatra riluttante, elèuthera, Milano, 2015 [su Carmilla]

  3. Cfr. Piero Cipriano, La società dei devianti. Depressi, schizoidi, suicidi, hikikomori, nichilisti, rom, migranti, cristi in croce e anormali d’ogni sorta (altre storie di psichiatria riluttante), elèuthera, Milano, 2016 [su Carmilla]

  4. Cfr. Piero Cipriano, Ayahuasca e Cura del Mondo, Politi Seganfreddo edizioni, Milano, 2023 [su Carmilla]

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Da Franco Basaglia a Cecco Bellosi. Inventare comunità radicali https://www.carmillaonline.com/2022/11/14/da-franco-basaglia-a-cecco-bellosi-inventare-comunita-radicali/ Mon, 14 Nov 2022 21:00:22 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=74720 di Piero Cipriano

L’orlo del bosco. La cura delle dipendenze tra catene e libertà (DeriveApprodi 2022) è la storia di un’impresa comunitaria radicale.

Iniziando a scrivere la prefazione, mi sono chiesto che c’è di affine tra Cecco Bellosi e me. Che c’è in comune tra un marxista rivoluzionario che ha trascorso diversi anni in carcere e un anarchico (ormai possiamo dirlo) pacifista tolstojano che ha trascorso molti anni dentro i succedanei dei manicomi. Di sicuro entrambi ci siamo ritrovati, rispecchiati, nelle parole di Franco Basaglia, in particolare queste: «Noi vogliamo essere psichiatri, ma [...]]]> di Piero Cipriano

L’orlo del bosco. La cura delle dipendenze tra catene e libertà (DeriveApprodi 2022) è la storia di un’impresa comunitaria radicale.

Iniziando a scrivere la prefazione, mi sono chiesto che c’è di affine tra Cecco Bellosi e me. Che c’è in comune tra un marxista rivoluzionario che ha trascorso diversi anni in carcere e un anarchico (ormai possiamo dirlo) pacifista tolstojano che ha trascorso molti anni dentro i succedanei dei manicomi. Di sicuro entrambi ci siamo ritrovati, rispecchiati, nelle parole di Franco Basaglia, in particolare queste: «Noi vogliamo essere psichiatri, ma vogliamo essere soprattutto persone impegnate, dei militanti. O meglio, vogliamo trasformare, cambiare il mondo attraverso la miseria dei nostri pazienti che sono parte della miseria del mondo. Quando diciamo no al manicomio diciamo no alla miseria del mondo». Ecco, diciamo che ci siamo fatti carico, in modi diversi, di una parte della miseria del mondo. Questo ci accomuna. Scorro i capitoli del libro una seconda volta dopo averlo letto una prima volta. Secondo capitolo. Non legare nessuno, mai. Terzo capitolo. Catene da spezzare. Cecco mi cita spesso. Dice Cipriano sostiene che se qualcuno con il camice bianco lo legasse a un letto di contenzione, si scolpirebbe in testa la sua faccia e, una volta tornato in libertà, lo andrebbe a cercare. Rileggendo questa cosa che ho scritto una decina di anni fa in “La fabbrica della cura mentale”, e che avevo dimenticato di aver scritto, ho ripensato all’odioso libro di Milone, questo psichiatra genovese ormai in pensione che ha pubblicato un libro miserabile sull’arte di legare le persone, pensavo a questo psichiatra, che rappresenta nel mondo della psichiatria forse l’archetipo opposto al mio, e ho iniziato a canticchiare la canzone di Franco Battiato: «E ti vengo a cercare, con la scusa di vederti o parlare…». E sì, se fossi stato legato al letto da uno come Milone sarei di sicuro andato a cercarlo.

È così: non sopporto chi lega le persone, anche se non sono mai stato legato. Cecco pure non sopporta chi lega, però lui l’ha provata sulla sua persona, la cosiddetta contenzione meccanica. Era il 1984, i detenuti politici erano soffocati dalle restrizioni delle carceri speciali, l’articolo 90 dell’ordinamento penitenziario rendeva la loro prigionia ancora più dura. Il primo marzo del 1984 alcuni detenuti dei bracci di massima sicurezza di alcune carceri italiane iniziano uno sciopero della fame. In pochi giorni diventano un migliaio i prigionieri scioperanti. Dopo un mese, Cecco ha trenta chili di meno. Viene ricoverato al San Camillo di Roma, ammanettato al letto, con la minaccia di essere alimentato forzatamente. La contenzione, sia meccanica (come si dice quando sei immobilizzato al letto), sia ambientale (come si dice quando sei in un posto da cui non puoi uscire), la conosce. Dunque, lo sa di cosa si parla.

Quando esce dal carcere, evidentemente gli viene naturale occuparsi di tutti quei miserabili che finiscono in prigione o in manicomio. Michel Foucault, d’altra parte, insegna che prigione e manicomio sono quasi la stessa cosa, stessa matrice, che prima dell’invenzione del manicomio (in Francia) c’era il Gran Hospital General di Parigi che accoglieva tutti i devianti. Ecco, se andiamo a leggere l’editto francese del 1676, l’elenco dei devianti che bisognava ammassare nel gran contenitore indifferenziato della devianza, i non produttivi, quelli che per la nascente borghesia erano inutili (“Alcolizzati, libertini, donne facili di costumi, senza dimora, mentecatti, vagabondi, nullatenenti, disoccupati, sfaccendati, delinquenti, individui politicamente sospetti, eretici, ovviamente i pazzi, gli idioti, gli stravaganti, e le mogli odiate e le figlie disonorate e gli sperperatori dei patrimoni…”), troviamo la rassegna degli esseri umani di cui il Gabbiano si è preso cura e fatto carico, negli ultimi trent’anni.

Affinità e divergenze tra il compagno Cecco e me, mi viene da dire, a questo punto, parafrasando una canzone dei CCCP. Vorrei procedere, in questa prefazione, un po’ così, un po’ come lui ha scritto questo libro, in modo non metodico. Il nostro stile di scrittura, d’altra parte, è simile, entrambi adoperiamo la forma del saggio (molto) narrativo, con continui inserti diaristici, o di autofiction, come si dice.

Vari tipi di naufraghi approdano alle comunità del Gabbiano. Vari naufragi esistenziali trovano porto in queste isole del Gabbiano. Persone senza dimora, escluse, per lo più fuoriuscite dalle prigioni, che non trovano una casa o una famiglia ad attenderle. Sofferenti mentali e tossicomani, soprattutto eroinomani o alcolisti. Ma anche i cocainomani che, d’altra parte, nemmeno si considerano tossici, persone dall’io ipertrofico. E i malati di AIDS. E gli internati degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari oggi diventati REMS. Al Gabbiano nessuna delle figurine della devianza manca. Vuoi un rom c’è, un transgender c’è, un fascistello c’è, un domatore di leoni c’è, un comico fallito pure, sembra quasi il tendone del circo di Freaks Out, il film visionario di Gabriele Mainetti.

Perché – mi domando adesso – Cecco si dedica, tra i vari devianti, in particolare ai tossicomani? Lo dice, a un certo punto del libro, che le droghe lui non le ha mai frequentate, perché era persuaso che fossero «un’arma di distruzione di massa del movimento di rivolta che scuoteva il mondo», negli anni Settanta. Movimento di cui lui è stato parte molto attiva. L’idea che l’inondazione di eroina fosse stata programmata – scrive – «non era solo paranoia». L’introduzione nelle piazze dell’eroina, la grande distruttrice di cervelli e di corpi e di vite umane, è stata un’arma per distruggere il movimento. «Il grande anestetico contro una generazione insopportabilmente sovversiva», la sua. L’operazione, ripercorrendo rapidamente la storia delle droghe degli anni Settanta, è chiarissima. Si chiude il rubinetto per le molecole psichedeliche, considerate le droghe che bruciano il cervello (sono droghe che espandono la coscienza, se mai, tant’è che in questi anni, con quaranta di ritardo, sono ricominciate le ricerche e le terapie psichedeliche) e si apre il rubinetto per le droghe, l’eroina e la cocaina, esse sì dello spegnimento psichico e dell’euforia senza scopo. Anche la cannabis – scrive Cecco – vissuta come «non ostile al movimento», lui non la digeriva, e “faceva di ogni erba un fascio” e perciò caccia via i compagni dalla sede di Potere Operaio comasca solo perché “si facevano le canne”.

Invece ora al Gabbiano – che contrappasso! – gli ospiti lavorano la cannabis legale, quella contenente il solo cannabidiolo, senza Thc. Rilassante, non euforizzante. Alcuni mesi fa ero lì a supervisionare la variegata umanità che trova approdo in quelle comunità, il mandato, ricevuto dal Gabbiano, coerentemente con la nostra guerra al manicomio chimico, era di alleggerire il carico di psicofarmaci a ognuno di loro. Sentivo un odore di cannabis salire dal piano di sotto. Mi portano giù a vedere. Il laboratorio dove gli ospiti lavorano le infiorescenze delle piante. Evidentemente Cecco non fa più di ogni erba un fascio.
Sono contento.

Ma torniamo ai naufraghi del Gabbiano. Perché Cecco ha questo rispetto, questa gentilezza verso i matti e i carcerati? Mentre scrivo è l’11 marzo 2022. Basaglia fa 98 anni. Scrivo “fa”, non “avrebbe fatto”, perché in realtà è morto ma è ancora molto vivo, sono 98 anni, i suoi, portati benissimo, le sue idee, la sua prassi da cui nascono le sue idee (non il contrario), non sono invecchiate per niente, anzi. Riflettendoci, rispetto ai due poli concentrazionari foucaultiani carcere-manicomio, sembra che Cecco Bellosi abbia compiuto un percorso inverso rispetto a quello di Franco Basaglia. Basaglia a vent’anni, nel 1944, si fa alcuni mesi di carcere per attività partigiana, lì conosce l’odore di urina e merda dei buglioli, lo stesso odore lo incontra qualche anno dopo, il 16 novembre 1961, quando entra, a trentasette anni, per la prima volta in un manicomio, quello di Gorizia, come direttore. Lo stesso odore. Seguiamo l’odore. Follow the smell. Nello stesso anno, stesso giorno probabilmente (dobbiamo forzare le sincronicità immaginifiche, se no che gusto c’è) Cecco va a trovare suo zio internato al San Martino di Como. Ha tredici anni, mettiamo, e sente la stessa puzza di urina e merda che, quattrocento chilometri a est, al confine con la Jugoslavia, nello stesso momento, assale l’olfatto dello psichiatra bombarolo. Che in nemmeno venti anni avrebbe deflagrato i manicomi. Basaglia prova prima il carcere e dopo il manicomio, sente prima la puzza di urina e merda che proviene dal carcere e si rende conto che è la stessa del manicomio, Cecco Bellosi la prova prima in manicomio e dopo in carcere.

Basaglia fa fuori il manicomio quello classico, foucaultiano concentrazionario, per capirci, ma i manicomi, che sono proteiformi, si ricreano in migliaia di caravanserragli più piccoli e in altre entità, talmente piccole che se non sei uno psichiatra critico nemmeno le riconosci: gli psicofarmaci. Gli psicofarmaci, quando assunti copiosamente e per sempre, sono una trappola chimica, quintessenza del manicomio. E Cecco, quel manicomio, chimico, appunto, se l’è ritrovato nelle comunità del Gabbiano: i fuoriusciti dal carcere ormai sono tutti sotto psicofarmaci, il carcere è un micidiale luogo di innesco di dipendenze psicofarmacologiche. Gli OPG/REMS, uguale. Il Gabbiano è, dunque, anche il luogo dove provare a rompere, tra gli altri manicomi, quello più subdolo: il manicomio chimico.

Ci sarebbe anche la parcellizzazione infinita della sofferenza mentale nosografata dall’ossessivissimo DSM-5 di provenienza statunitense (redatto ogni tot anni dall’American Psychiatric Association). Di questo manicomio, pure, racconta Cecco che, in barba alle centinaia di diagnosi del manuale ossessivissimo americano, preferisce dividere il consorzio dei suoi naufraghi in base al – direbbe Eugène Minkowski – gefül, al sentimento: «Ci sono quelli che senti e quelli che non riesci a sentire», «con i primi puoi sempre dialogare, anche nel delirio; con gli altri, quelli in cui non riesci a penetrare la nebbia, è maledettamente difficile».

Ma torniamo ai tossici. Nel senso di eroinomani o cocainomani pesanti, quelli che fumano il crack per capirci. Costoro fanno uno strano percorso di autoesclusione dal consorzio umano, civile. Escono dal mondo comune e come fanno, per altre strade (senza sostanze esogene, intendo), gli schizofrenici, si infilano in un mondo proprio. Dal koinos kosmos all’idios kosmos. Senza ritorno. A Rogoredo c’è un bosco. Il bosco-selva di questi sciamani falliti e senza speranza, i tossici. Ora: i servizi sia di salute mentale che per tossicodipendenti, sia pubblici che privati, possono essere di due tipi: quelli che aspettano al varco e quelli che vanno incontro.

Per esempio: in moltissimi luoghi, a sud Italia, nel centro, nel nord, isole, i Centri di Salute Mentale, o i SerD, aspettano. Non fanno domiciliari quasi mai. Non hanno le risorse, le energie, la voglia. Aspettano. In pochi luoghi, Trieste in testa, il servizio, nella persona dell’operatore di salute mentale, sia esso psichiatra psicologo infermiere riabilitatore educatore eccetera, va verso il naufrago. Non aspetta, al porto, che il naufrago arrivi, alla deriva, vivo o morto. Ma va in mare aperto, a cercarlo.

Quelli del Gabbiano, a un certo punto, sono entrati nel bosco di Rogoredo. Hanno perfino organizzato alcuni eventi del festival letterario Book Pride nel bosco della droga. Controintuitivo, no? Altro che erigere un muro, come proponeva il presidente del Municipio. Meglio un ponte. Hanno cominciato, gli operatori del Gabbiano, insieme ad altri, a entrare nel bosco della droga a portare, tre volte a settimane, il cibo al popolo del bosco della droga. Esserci. Presenza. Siamo qui. Nel 2019 duecento persone hanno chiesto di uscire dal bosco. Alcuni sono rientrati nel bosco altri mai più. Alcuni sono passati dal bosco alla comunità. Se Maometto (il tossico del bosco) non va alla Montagna (il servizio) è la Montagna (il Gabbiano in questo caso) che va nel bosco.

È così va a finire che Cecco, il marxista Cecco, si guadagna perfino l’appellativo di Don Cecco. Non poteva – pensavano – che essere un prete, uno così. Un prete singolare, come Don Gallo, certo.
Divertente.

Una ricerca suddivide le comunità terapeutiche in tre categorie. La prima è quella che si basa sul padre carismatico. Il modello di questo tipo è San Patrignano. Muccioli è il guru. Ripenso alla docufiction di Netflix “SanPa”, su San Patrignano. Faccio una digressione, a questo punto, perché l’impressione è che davvero le comunità del Gabbiano siano collocate, in tutti i sensi, al polo opposto del modello San Patrignano. Anche Muccioli e Bellosi sono opposti archetipi. Muccioli è uno che sembra, all’inizio, senza arte né parte, scarso a scuola, si interessa di parapsicologia, si inventa le stimmate. Sente di avere una capacità medianica, l’imponenza, lo sguardo. Prima, su quel colle vicino a Rimini, ingabbia cani e galline. Dopo, passa agli umani. Gli ultimi degli umani. Quelli più prossimi ai cani e alle galline. Quelli che sono già con un piede fuori dal consorzio umano. I maniaci dell’eroina. Comincia in sordina. Va a istinto. Sa che c’è la dipendenza dalla roba e sa che c’è l’astinenza dalla roba che lui, allo stesso modo dei tossici, chiama rota. Sa che i Sert sanno sostituire una dipendenza da oppiaceo per buco (eroina) con una dipendenza da oppiaceo per bocca (metadone), di modo che il danno si riduce ma sempre tossico l’eroinomane rimane. E lui non è per le mezze misure, non è per la riduzione del danno, come si dirà. Lui è per la maniera dura e repentina. Piuttosto che uno scalaggio graduale, che talvolta non vede mai fine, preferisce pochi giorni di astinenza selvaggia. Dopodiché il tossico è fuori. Non si avvale di terapeuti, di cui non si fida e non ha bisogno. Non dico un medico o uno psicologo, ma neppure un infermiere. Un medium, o un guru (cioè lui) è più di un medico, si capisce. La piccionaia è la sua clinica. Uno sgabuzzino dove, legato come un cane, appollaiato come una gallina, il tossico patisce la sua morte e dopo la sua rinascita. Lui non lo sa oppure lo sa, non so se i suoi studi esoterici occultistici parapsicologici lo hanno edotto oppure improvvisa per istinto, ma quella esperienza a cui sottopone il tossico è una specie di iniziazione sciamanica. Lo sciamano se ne va nella grotta o nella selva o nell’igloo, al freddo al buio senza cibo, lì sconfina nei territori della morte, e dopo ritorna, e quando torna è un uomo nuovo, rinato, coi poteri, perfino. Questa è la tecnica di divezzamento che adopera Vincenzo Muccioli. Il quale – scrive Cecco – «è stato il primo a identificarsi nell’antidoto alla dipendenza da eroina, trasferendola su di sé». La sua utopia diventa una sorta di istituzione totale. Questa utopia, forse, poteva avere un senso, seppure nel solco del paternalismo e dell’autoritarismo e del culto del patriarca, finché era piccola, una comunità di vita, perché cento persone le puoi, tu che sei il gran capo, conoscere una per una, ma quando diventano migliaia devi delegare ai fedeli. Che diventano kapo. E la comunità diventa gulag. Molte comunità assumono a modello San Patrignano e Muccioli. Un secondo modello, invece, è quello della comunità-clinica, dove il potere non è del padre ma del tecnico, sia esso medico o psicoterapeuta. Terzo modello, infine, è la comunità come servizio tra servizi. Ovvero: siccome ogni servizio si occupa del suo specifico (i Centri di Salute Mentale dei disturbi psichici, i SerD delle dipendenze, i servizi sociali di fare i documenti eccetera) serve una comunità che sappia mettere in relazione questi servizi che sovente confliggono. Comunità che fanno un po’ di tutto: accoglienza, terapia, reinserimento.

E il Gabbiano cos’è, che tipo di comunità è? Nessuna di queste – scrive Cecco – perché è “una comunità nella comunità”.

L’esempio più estremo? Più radicale? La comunità a bassa soglia di Tirano. Che vuol dire bassa soglia? Vuol dire il massimo dell’accessibilità. «Una sperimentazione al limite». Svuotare le piazze e «accogliere tutti quelli che bussano alla porta». «Quelli che nessuno vuole». Una roba – davvero – da matti. Se penso ad alcuni Centri di Salute Mentale, anche a Roma, dove lavoro, che a una persona di origine africana, affetta da una psicosi cronica, che chiede una prima visita a gennaio, viene dato appuntamento a maggio. Questa è una soglia altissima, impossibile da superare. Quella persona non arriverà mai a ricevere quella prima visita. Troverà prima una crisi, un pronto soccorso, un ricovero in SPDC. Da dove vengono, dunque, «quelli che nessuno vuole», come arrivano alla comunità a bassa soglia di Tirano? Dal carcere, metà. Un terzo, dalla strada. Chi sono gli enti invianti? Vicini di casa, associazioni di quartiere, perfino un farmacista di Ponte Lambro che di fronte a un tossico che tenta di rapinarlo lo convince ad andare in comunità. Scrive Cecco: «Con la bassa soglia abbiamo asciugato la piazza di Como». Aggiunge: «Per poterli ospitare tutti siamo andati sopra la cifra consentita, ovviamente ospitando gratis gli overbooking». Ricevendo per questo anche la visita dei NAS, che hanno terminato l’ispezione con un giudizio del tutto positivo.

Metà degli ospiti della bassa soglia provengono dal carcere, dicevamo. Il trattamento penitenziario è classista. I senza casa, gli stranieri, i sofferenti psichici, a fine pena, se fuori non hanno niente, rientrano in galera. Le leggi Bossi-Fini (perfetta per imprigionare immigrati) e Fini-Giovanardi (perfetta per imprigionare chi fa uso personale di qualche droga) sono leggi carcerogene che hanno moltiplicato la popolazione delle carceri. Nel 1990 trentamila persone in carcere (e cinquemila in pena alternativa), nel 2019 sessantamila in carcere (e ottantamila in pena sostitutiva).

È chiaro che la comunità radicale di Cecco Bellosi ci ricorda l’utopia della città che cura di cui scrive Franco Rotelli, quella città/comunità accogliente capace di fare a meno delle tecniche e degli specialismi e degli psicanalismi e degli psicofarmaci, perché sa attingere a quella capacità di koinos kosmos che c’è tra gli uomini. I basagliani di Trieste la realizzarono – scrive Peppe Dell’Acqua – istituendo quel luogo chiamato Centro di Salute Mentale (che sostituisce il Centro di Igiene Mentale, che cosa orribile, l’igiene mentale), luogo che deve stare aperto sempre. Calato dentro la città e non fuori. Nel territorio cosiddetto. Un luogo che non sia un non-luogo e che sia sempre pronto, e sempre aperto. Franco Basaglia e gli eredi della sua impresa sono stati operatori di salute mentale radicali, capaci di mettere in discussione non solo il “sistema manicomio” ma, a partire da questo, “il sistema società”. Capaci di spostare il progetto di cura dai luoghi separati, dai dispositivi della tecnica, al mondo al territorio alla città. «Violentare la società» (frase di Basaglia) fu necessario all’inizio, per convincere la città a riprendersi l’escluso, per includerlo, operazione non di vomito/evacuazione (per dirla con Levi-Strauss) ma di fagocitosi/incorporazione. “Restituire cittadinanza al cittadino escluso”, al tempo stesso restituire l’escluso alla città.

E non ha fatto questo Cecco Bellosi? Il terapeuta Cecco Bellosi, sì, terapeuta – Basaglia, a chi gli chiedeva, durante le sue conferenze in Brasile, «Che cos’è terapia?», rispondeva: «E’ lotta contro la miseria» – perché combattere la miseria è la forma più radicale di terapia, e Cecco Bellosi è un terapeuta radicale perché si è occupato di miseria e di miserabili, a cui ha dato casa lavoro relazioni, e l’ha fatto fuori dalla psichiatria ma a stretto contatto anche con la psichiatria, un’operazione di comunità radicale, quella di tenere aperta la porta. Ed ecco perché Cecco Bellosi il carbonaro (direbbe De André) da qualcuno viene perfino creduto un prete, perché le comunità radicali del Gabbiano sembrano aver adottato la prassi dei primi cristiani di cui dice Ivan Illich: «Era d’abitudine, in una casa cristiana, avere un materasso in più, un pezzo di candela e un po’ di pane secco in caso il Signore Gesù avesse bussato alla porta, vale a dire qualcuno senza il tetto sopra la testa fosse arrivato».

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Chiamate telefoniche – 8 https://www.carmillaonline.com/2020/06/03/chiamate-telefoniche-8/ Wed, 03 Jun 2020 21:00:18 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=60612 di Piero Cipriano

In fin dei conti era chiaro che il virus aveva contagiato, ma in un altro modo. Le persone otto su dieci non volevano credere che non esistesse più. Non solo che fosse scomparso, ma neppure che si era indebolito erano disposti a credere. Non bastava che Tarro o Montagnier ormai squalificati dalla scienza avessero sin dal principio profetato la sua scomparsa estiva, ora anche i medici integrati alla scienza, come il medico a cui Berlusconi aveva consegnato la sua longevità lo diceva, che il virus aveva concluso il suo mandato, aveva rassegnato le dimissioni, ma ecco che il [...]]]> di Piero Cipriano

In fin dei conti era chiaro che il virus aveva contagiato, ma in un altro modo. Le persone otto su dieci non volevano credere che non esistesse più. Non solo che fosse scomparso, ma neppure che si era indebolito erano disposti a credere. Non bastava che Tarro o Montagnier ormai squalificati dalla scienza avessero sin dal principio profetato la sua scomparsa estiva, ora anche i medici integrati alla scienza, come il medico a cui Berlusconi aveva consegnato la sua longevità lo diceva, che il virus aveva concluso il suo mandato, aveva rassegnato le dimissioni, ma ecco che il ministro (senza) Speranza in persona, quel nano politico che il virus aveva trasformato in gigante e che giustamente temeva il rapido ritorno alla sua reale statura, repente lo smentisce dice è sbagliato affermare che il mio amato virus non esiste più, il popolo italiano si sa è un bambino quello poi si confonde e si leva la maschera di bocca sei un terrorista, Zangrillo, già eri sospetto perché volevi far vivere a tutti i costi oltremisura il nemico pubblico numero uno, ora invece lo vuoi far morire a tutti i costi il nemico pubblico numero uno ma chi ti capisce.

Insomma, ora vengono allo scoperto, a difesa della longevità del virus, tutti quei politici che sono stati dal virus trasformati da normali amministratori in piccoli despoti, potendo abusare di una inconcepibile sospensione della nostra amata Costituzione, la più bella del mondo, tanti capi di stato, feudatari, governatori, reucci, ducetti, viceré, ogni comune un sindaco che all’improvviso si è sentito plenipotenziario, la massima autorità sanitaria locale capace di minacciare TSO a chi non voleva farsi tamponare la gola, o di bloccare i confini in entrata e in uscita, eravamo ritornati all’epoca dei comuni. Gli esperti. Da Colao a scendere. Quelli, poi, hanno ognuno il suo interesse che l’emergenza duri il più a lungo possibile. I cittadini. I più. E non gli pare vero avere un alibi per non uscire non toccare non sorridere stare sottoterra come le talpe.

La situazione era questa, e io me ne stavo su una panchina nel parco dell’ospedale, avevo lavorato gli ultimi mesi marzo e aprile quelli in cui anche nel centro sud dell’Italia attendevamo la discesa del virus che chissà perché aveva deciso di rimanere solo in Lombardia, avevo lavorato ben diciotto ore in più, non solo, a volte, smontando dal turno, invece di mettermi in macchina a superare i posti di blocco spiegare al poliziotto che davvero ero un medico eroico e epico e abnegato nonostante i capelli sempre più lunghi da hippie perché non li taglio? sono forse aperti i barbieri? Aprano i barbieri invece delle librerie e io mi taglio i capelli, invece così con questi capelli lunghi da indiano al massimo vado a comprarmi un libro che libro?

Adottavo insomma questa tecnica, uscire dal nosocomio ma non uscire, stare un po’ sulle panchine dell’ospedale e poi andare nel vicino (qualche centinaio di metri) parco dell’ex manicomio di Roma Santa Maria della Pietà a telefonare ai morti, l’aria di Monte Mario d’altra parte è la migliore di Roma, è un po’ vicino all’ospedale mi si dirà, potrebbe essere ancora infestata dai vibrioni, ma da qualche anno mi era scomparsa inesorabilmente l’ipocondria, la compagna di una vita, che mi ero custodito per quarant’anni almeno nei miei complura viscera quae sunt in hypocondris ora, senza neppure un saluto un arrivederci o un addio, se n’era andata. Mi faceva comodo, mi avrebbe fatto comodo ora come ora un briciolo di ipocondria, non dico la maior almeno la minor invece niente non dico quella cum materia almeno quella sine materia invece niente, pare che di morire, da un anno a questa parte, non mi freghi quasi più niente, tutti si tappano ancora la bocca con maschere su maschere (c’è chi mette una sopra l’altra quella altruista con quella egoista credendo di fare la maschera intelligente invece fa solo fame d’aria) io niente, tergiversavo intorno al nosocomio, sembravo in servizio ma non ero a servizio, ero dentro ma ero fuori, ero stimbrato ma ragionavo come fossi timbrato.

Avevo una serie di morti che da un po’ volevo chiamare. Quale migliore occasione, se non ora che tutti avevano paura di diventare morti. I vivi d’altra parte dice quel morto di Kafka sono dei morti non ancora entrati in funzione. Infatti i morti che volevo chiamare erano gli scrittori, gli scrittori che avevo sempre considerato esseri superiori, una specie di telepati, provvisti di un cervello capace di scrutare il futuro, in questi mesi gli scrittori vivi li avevo indovinati quasi tutti (non posso dire tutti, ma i più) spaventati, avvolti nelle loro mascherine da scrittore, la mano da scrittore picchiettava stancamente, atterrita, sui tasti del computer, attraverso un guanto blu, lo scrittore in guanto blu era diventato un fumetto, un puffo, dove si erano nascosti gli scrittori vivi che temevano di morire e mettere fine alla propria carriera di scrittore?

Sandro Veronesi forse? Che nonostante tutto continuava a fare la psicanalisi dalla psicanalista lacaniana (se cade il mondo l’ora psicanalitica mica si ferma) e il giorno prima siccome sa che il giorno dopo è giorno di ora psicanalitica sogna e chi sogna? Un cenacolo, in cui non possono essere più di sei se no il settimo muore e la psicanalista esperta polisemica (mica per niente è lacaniana) gli fa notare che sei non è solo numero ma è verbo essere, essere morto, lo scrittore vivo che teme di essere morto, oppure Francesco Piccolo che raccoglie il testimone di Veronesi per questo scritto su Lettura e, fobico intabarrato, fa il giro dell’isolato non un metro di più dei duecento previsti dal decreto. O Emanuele Trevi che pure lui scrive cose davvero notevoli però ora non me ne ricordo nemmeno una forse non me le ricordo perché mi ricordo che pure lui è un adoratore del dio Prozac e una volta disse, correggendo Jung, non è vero che gli dei sono diventati malattie, gli dei sono diventati psicofarmaci, ma questo purtroppo è un vizio degli scrittori dal più grande (DFW) al più minuscolo, quello di affidarsi non più al mistero eleusino ma al doping di Big Pharma, ma da molto tempo ormai eh?

Mi ricordo di Patrizia Cavalli, che ora si becca il Campiello (ancora fanno il Campiello gli industriali del Veneto?) ma che tempo fa campeggiava una sua foto degli anni Ottanta, dove convengo che era proprio figa, dice ha avuto il cancro, è guarita ma si è depressa. Però coi farmaci ha sempre avuto un bon rapporto. Una sua poesia pare fosse Deniban, calmante maggiore. Dice che le medicine che le piacevano erano le anfetamine. Quelle, quando si trovavano, erano una meraviglia. “Quali altre medicine ci sono, se no, per scrivere poesie?” Elsa Morante, che nel 1968 l’accolse, e la fece poeta, evidentemente le passò pure il trucco di poetare meglio con le anfetamine. Ah cazzo, come faccio a togliere le pasticche al mondo se gli scrittori sono la migliore pubblicità per il manicomio chimico? Poi ci sono quelli come la Murgia che sono sempre su di giri di natura e lo capisci da lontano che gli antidepressivi non se li prendono e ciononostante pure straparlano lo stesso come quando, in una crisi di presenza, insulta Battiato lo insulta solo perché Battiato ha previsto anzitempo la fine e si è ritirato dal mondo a viaggiare in spazi cosmici con navi interstellari. Gli scrittori vivi erano diventati tutti, in queste settimane dove la morte era nell’aria, pressoché inutili, inservibili, perché tutti (anche quelli mezzi morti già da prima, come Houellebecq) erano stati ammutoliti dal virus. Balbettavano. Incespicavano. Il virus come gli avesse detto: scrittori vivi, non l’avete capito che voi siete scrittori morti non ancora entrati in funzione?

La prima chiamata, proprio come uno sciamano che sa stare sia nel mondo dei vivi sia nel mondo dei morti ma soprattutto sulla linea di confine, la faccio al cileno. D’altra parte, queste chiamate telepatiche sono una sua invenzione. Me le ha suggerite lui. L’ultima sua cosa che ho ri-letto proprio ieri, la parte finale di 2666, dove l’editore Bubis arruola Benno von Arcimboldi e lo interroga sul suo nome de plume, che è ovvio sia inventato, e gli chiede Benno sta per Benito Mussolini? E lui no, sta per Benito Juarez, e Arcimboldi sta per Giuseppe Arcimboldo ma perché von? Per dimostrare la tua germanicità? Al che Arcimboldi si alza e dice ridammi il manoscritto che me ne vado ma lui fa vai nell’altra stanza da mia moglie, a firmare il contratto. Guardo una foto a caso di Bolaño, prendo il telefono lo chiamo gli domando perché è morto. Morto presto, voglio dire. Avevi il Nobel da riscuotere. Trenta libri ancora, da scrivere dai cinquanta agli ottanta, e arrotondo per difetto, farmi compagnia, ogni tanto guardo la tua foto e penso che non sei morto, sarai di sicuro tornato in Cile a vivere senza fegato, senza fegato non si può più scrivere, non sei morto, magari ti sei semplicemente scordato come si scrive. Ma sento che con lui la chiamata sarebbe molto lunga e potrebbe non finire mai, ci sarebbe bisogno di un libro intero di 2666 pagine solo per una chiamata telefonica con Bolaño allora attacco, tanto lui non se la prende, lo sa come vanno queste cose.

Passo senza indugio a David Foster Wallace, DFW era un depresso. Io sono uno psichiatra. Che coppia saremmo stati, David. Voglio dire. Avrei saputo rimpinzarti ben bene di farmaci sì da non indurti al suicidio. Almeno credo. Tu in cambio mi avresti dato dei consigli di scrittura, consigli che io avrei fatto finta di ascoltare ma poi avrei dimenticato. Sicuramente non messo in pratica. Ci mancherebbe. Che io mi facessi contaminare da uno che si dopava con gli antidepressivi. Non dici niente eh? Ci credo, voglio proprio vedere come mi contraddici.

Ciao Philip (Philip Roth). Dicono che ti scopavi le fan. Magari è per questo che non ti hanno dato il Nobel per la letteratura. Invidia. E’ tutta invidia, senti a me. Sai, pure io ho qualche chance. Di non averlo, voglio dire, il Nobel. Io potrei non averlo per la medicina, intendo. Se pensi, d’altra parte, che l’unico Nobel dato a uno psichiatra l’ha preso Moniz, il lobotomizzatore, ne avrò più merito io, o no?

Giuseppe Berto. Peppino! Era da un po’ che te lo volevo dire. Mi sa che eri il più ganzo dei romanzieri italiani. Volevo solo salutarti. E scusarmi con te che per colpa del pregiudizio che avessi fatto un romanzo psicanalitico (sai io ce l’ho un po’ su con gli psicanalisti, dei montati di testa) non ho letto Il male oscuro, assoluto capolavoro, fino a due anni fa. Assurdo. Devo ringraziare Nicoletta Bidoia, la poetessa trevigiana della scena muta, se ti ho letto.

Devo trattenermi a questo punto dal chiamare Mario Tobino per dirgli in faccia che era senz’altro uno psichiatra che sapeva scrivere ma non sapeva fare lo psichiatra, non come lo intendo io, almeno, stava lì, un parassita del manicomio di Maggiano, a scrivere le povere donne, le povere donne, gne gne, invece di liberarle. Un pessimo esempio di uno psichiatra scrittore. Tutto ciò che uno psichiatra scrittore non deve essere. Infatti, non lo chiamo, non voglio trattarlo male. E’ pure morto, povero Tobino.

Invece, Franco Basaglia non era uno scrittore, ma era uno psichiatra che scriveva, stilisticamente male, perché se ne fregava del Nobel per la letteratura (poi gli piaceva Sartre, figurarsi il modello di scrittura) voleva distruggere il suo incubo, il suo incubo era il manicomio, il manicomio in cui mica lo sapeva dove si andava a cacciare, l’inferno in terra era e lui aveva fatto tredici: aveva vinto il posto di direttore dell’inferno. Non chiamo nemmeno Basaglia. Sarà lui a chiamare me, un giorno di questi. Vuoi vedere, che mi ha chiamato perfino Semmelweis e lui, proprio lui, non si fa vivo. Per così dire.

Chi c’è alla B dopo Berto e Basaglia che varrebbe proprio la pena di chiamare adesso come adesso? Un anarchico, chi c’è di scrittore anarchico? Non se ne trovano di scrittori anarchici manco a pagarli. Ah ma c’è Luciano Bianciardi, come ho fatto a non pensarci prima, la sua vita agra, lascia la provincia grossetana, si ficca in una stanza d’appartamento di Milano con Maria Jatosti che non era la moglie bensì l’amante, lui dettava lei batteva (a macchina, si capisce), poi arriva un giorno la moglie, e si divorziano, poi finisce a Rapallo, al sole, ma il freddo di Milano gli si è accumulato nelle ossa, ormai, e quello il freddo quando si ficca nelle ossa è difficile poi smuoverlo, come un inquilino rognoso che non vuol più lasciare la tua casa, e il vino nel fegato, e le sigarette, a milioni nei polmoni. E muore. Come tutti, d’altra parte. Non ti è riuscito, eh Luciano? di non morire. Eppure, Luciano, scommetto che a vent’anni mica ci pensavi, che saresti morto. Pensavi di mettere una bomba al torracchione, pensavi. Altro che morire. Ah si potesse tornare indietro, nella vita. Ma non è detto, sai Luciano? Secondo i teologi di Borges il tempo è circolare, magari a un certo punto si ricomincia tutti a girare. E tu ti ritroverai lì, col torracchione davanti e prima o poi ce la fai a fare il gran botto.

Borges lo chiamo un’altra volta, ora pure a lui non saprei che dire, troppo impegnativo, con lui come parli sbagli. Dopo la B viene la C, Canetti è troppo impegnativo quasi come Borges, e Calvino non mi pare il caso, passo alla D. Dice che Dante, il nostro poeta nazionale, è il punto più alto della poesia europea, delle due americhe, e di tutto il mondo. Che non c’è n’è per nessun altro, che sarebbe impossibile per chiunque aggiungerci qualcosa, ma non perché non lo sappiamo fare ma perché non c’è né movente né scopo. E fa l’esempio del fabbricatore di sedie, in un mondo pieno di sedie eterne, che fa? Le fabbrica comunque, giacché questo sa fare e gli piace farlo e non sa far altro, però siccome quelle sono indistruttibili e per di più inarrivabili comincia a farle a tre piedi poi senza piedi poi sgabelli senza schienale infine prende un pezzo di legna e lo chiama sedia. E dunque a maggior ragione le genti si servirebbero delle sedie vere, indistruttibili, eterne. Rodolfo Wilcock ha questa capacità di farti passare la voglia di fare sedie. Il problema è che Piccolo o gli scrittori afoni che il virus ha sgamato non leggono Wilcock e si ostinano a continuare a scrivere. Questo è il problema. Che siamo pieni di sedie senza piedi senza schienale senza seduta e senza paglia e senza legno e li chiamiamo i libri degli scrittori italiani che sono (ancora) vivi. Ecco cosa. A chi chiamo adesso a Dante o Wilcock?

Chiamo a Cechov. Si torna alla C. La C è una signora lettera. Cechov Céline e Cipriano, tre medici scrittori. Che differenza c’è tra loro tre? Vediamo chi indovina. Ma che io sono vivo e loro morti, questa l’unica differenza. Cechov disse che magari il nostro universo è la carie di un dente di un gigante. Un gigante che vive su un pianeta gigantesco e sovrappopolato di giganti. Giganti per di più abbastanza evoluti da aver inventato i dentisti. Un dentista gigante tra poco gli caverà il dente marcio, e la carie che c’è dentro, che corrisponde al nostro universo, collasserà. Questo sarà il contrario del big bang. E di Cechov, e pure di Wilcock (secondo cui un narratore non è un narratore vero se non conosce pure la teoria della relatività, oltre alla psicologia delle api, naturalmente, e alla psicopatologia dei virus, aggiungo io, che in questo campo sono un maestro, con modestia), per non dire di me stesso, non resterà nemmeno il ricordo.

Voglio restare un po’ su Wilcock, perché penso che Wilcock sia uno scrittore morto ma che essendo ancora vivo (come Bolaño, naturalmente) anzi più vivo di scrittori vivi biologicamente (ammesso di saperlo cosa significa, di sicuro gli scrittori vivi non lo sanno) ma morti in tutti gli altri sensi, sì, insomma, ne vedremo delle belle, ancora, con Wilcock, basta solo ricordarsi che Wilcock esiste. E stare lì ad ascoltarlo.
Lo stesso non riuscirò mai a dirlo per Gombrowicz. Lo so Bolaño che ci resti male, ma Witold è assurdo, e io non li resuscito mica gli assurdi. Ancora ti maledico, poeta cileno, per avermi istigato a comprare Ferdydurke e, non bastasse, vedi a che punto mi fidavo di te, pure le sette lezioni e mezza di filosofia ho comprato. Anzi no, Corso di filosofia in sei ore e un quarto. Ovviamente mi sono guardato bene dal leggerle. Maledetto Bolaño. Assurdo Gombrowicz.

Ovviamente il quarto d’ora finale (stavo scrivendo d’ira) del suo corso di filosofia fatto apposta alla moglie e a un amico per sopportare l’agonia degli ultimi mesi visto che i due si ostinavano a non volergli procurare né pistola né veleno, era dedicato a Marx. Che ridere. C’è ancora gente al mondo che cita Marx. Non sto dicendo Kropotkin. Ma Marx. Va be’. Probabilmente non ci ho capito niente di Ferdydurke, e del Gingio, questo Peter Pan che saremmo noialtri l’uomo moderno incapace di crescere e di prendersi le sue responsabilità, la responsabilità di stare nel mondo come dei morti non ancora entrati in funzione, e devo rileggere assolutamente Gombrowicz il paladino dell’anti-forma per capire entro che forma intesa come maschera comportamento stile sono come tutti gli altri del mio tempo condannato a recitare. Witold: a noi due!

Primo Levi vince il concorso letterario più idiota dell’anno. Lo indice un giornale la Repubblica che continuavo a comprare quasi tutti i giorni ma a tutto c’è un limite. Il limite è il concorso più idiota dell’anno. Un concorso dove possono accedere (senza avergli chiesto il consenso) solo i morti. Perché Primo Levi è morto. L’11 aprile 1987 Primo Levi si getta dalla tromba delle scale non perché non tollerava la vergogna d’essere sopravvissuto al campo di sterminio, figuriamoci, mi dice qui in questo manicomio al telefono uno dei pochi (gentilissimo) che mi ha risposto, per mia fortuna fui deportato ad Auschwitz solo nel 1944, sottolineo solo, sottolineo fortuna, perché Auschwitz è stato il dono, il lager è stato la cosa da scrivere. La fortuna, si dirà, è cieca. L’11 aprile 1987, dico a Primo Levi che (gentilissimo) mi ascolta dal suo mondo dei suicidi, correvo per la tromba delle scale di casa mia per andare al liceo, ultimo anno, l’anno dopo mi iscriverò a medicina, e dopo a psichiatria, e dopo, cioè ora, lo so che nel 1987 gli antidepressivi in commercio (siccome gli SSRI non sono ancora usciti) sono i triciclici che danno stipsi e disuria e se uno come Levi ha fatto l’intervento alla prostata li deve interrompere se no troppi i fastidi e se interrompi ex abrupto gli antidepressivi poi ti getti dalla tromba delle scale. Stesso motivo di David Foster Wallace. La sospensione dell’antidepressivo. La fortuna si dirà, è cieca.

Pensavo che la telefonata fosse finita ma lui aggiunge: il successo di uno scrittore è stocastico. Se non avessi avuto la fortuna di essere deportato ad Auschwitz solo nel 1944. Se nel 1954 non fosse stato pubblicato il Diario di Anna Franck. La fortuna, si dirà, è cieca.

Invece Basaglia andò non da prigioniero, in quel lager al confine tra est e ovest, attraversato dalla cortina di ferro, ma da direttore dello sterminio. La sua fu giocoforza una scrittura pragmatica, narrazione al servizio della rivoluzione. Niente riletture e riscrittura. Buona la prima, al massimo la seconda. Franca Ongaro ripassava, aggiustava la forma, le idee disordinate, e via. Il successo di uno psichiatra è stocastico. Se non avesse avuto la fortuna di essere deportato a Gorizia solo nel 1961. Ora avremmo un lager per ogni provincia d’Italia, ancora. E io non starei in questo ex manicomio a telefonare ai morti ma a internare i vivi. La fortuna, si dirà, è cieca.

A questo punto non so perché ma ho avuto la tentazione di telefonare a Carrère e chiedergli di Io sono vivo e voi siete morti, poi mi sono ricordato che non è ancora morto, Limonov sì ma lui no e non volevo certo portargli sfiga, lo chiamerò quando sarà trapassato, magari. Potrei chiamare a Philip K. Dick, ma non ora.

Quando aveva sedici anni Bolaño non andava a scuola, puntava delle librerie e rubava libri, questa è stata la sua scuola, maledizione, poter avere ancora sedici anni e non andare in quell’inutile liceo altirpino, e andare in libreria, e rubare libri, e diventare non medico non psichiatra ma subito poeta, ah. Purtroppo, sarebbe stato impossibile. Non c’erano librerie in quel paese. Ancora adesso non c’è una libreria. Ma vedi il vantaggio, che non essendoci una libreria, in queste settimane che le librerie sono state chiuse per lokdown la libreria del mio paese non ha potuto chiudere, perché non può chiudere una libreria che non c’è mai stata. Comunque, il miglior libro, o meglio il libro che lo tirò fuori dall’inferno e poi ce lo gettò di nuovo (a Bolaño intendo) fu La caduta, di Camus. Dopo aver saputo questa cosa ho letto anch’io La caduta, di Camus, però a me non mi ha gettato nell’inferno. Sarà che io dall’inferno non mi sono mai mosso.

Mentre pensavo a Camus credo di essermi appisolato su questa panchina di manicomio. Credo di aver sognato (ma non sono sicuro). Mi sono svegliato dal breve pisolino e ecco che mi sovviene il più grande romanziere di questa città, di questo grandissimo bordello che in queste settimane s’è fatta mettere nel sacco dal virus, Aurelio Picca, una specie di Pasolini e Busi ma non omosessuale, che non scrive male, ma nemmeno bene, è un non scrivere bene, il suo, che diventa molto bene, è autobiografico senza rompere le palle, se leggi Arsenale di Roma distrutta per prima cosa ti viene voglia di andare come Maria per Roma, per seconda cosa ti viene voglia di scrivere di quello che combinavi a vent’anni a Roma, con chi scopavi o meglio con tutte quelle che non scopavi per timore di quel maledettissimo virus Hiv che poi tutti se ne sono dimenticati si sono dimenticati che ha fatto trentacinque milioni di morti e hanno ripreso a scopare senza timori finché è arrivato un virus molto più fesso ma che invece che dal sangue o dallo sperma invece che dai liquidi penetra per mezzo dell’aria, e tutti barricati in casa oddio oddio, nun t’avvicinare mettite la mascherina stamme a tre metri mò chiamo a Aurelio Picca e se pure lui mi dice che va in giro colla mascherina come Piccolo… ma diamine, non lo posso chiamare… perché manco lui è ancora morto.

Allora chiamo a Houellebecq. A lui sì. Houellebecq pare vivo ma è morto quindi si può fare. Adesso l’ha letto pure mia moglie, penso che dopo L’estensione del dominio della lotta non ne voglia più sapere del morto francese che cammina, e che scrive, e che fuma, e che perde i denti, e che perde i capelli, insomma una morte pezzo per pezzo, la sua, come cantava Gaber, è lo scrittore che muore a pezzi. Le ho detto (a mia moglie) leggiti L’avversario, di Carrére, almeno resti in tema di morti. L’ha letto, ha detto ora per un po’ basta co’ ‘sti due.

Kurt Vonnegut. E se fosse lui il prossimo autore morto da leggere? Dio la benedica, Dottor Kevorkian è un libretto dove s’è inventato una specie di interviste a uomini morti che incontra in un corridoio terreno franco prima dell’al di là, intervista Hitler, per dire. Ma non Napoleone. Napoleone è un altro che non ti viene voglia di intervistare. Ero andato alla Feltrinelli proprio il giorno prima che iniziasse il lokdown e è capitato un fatto strano davvero, su una colonna di libri basagliani c’erano ben tre diversi libri miei, e in tutta la libreria nemmeno un Vonnegut, qualcosa non quadrava, perché io sono vivo e lui è morto, dovrebbe essere il contrario, a quel punto, constatato ciò, sono rimasto un dieci minuti lì dentro come fossi un fantasma, avrei voluto dire a qualcuno che io ero l’autore morto di quei tre libri, che mi acquistassero, prima che andassero a ruba, e io poi non ne scrivo mica più.

Dopo però ho comprato Perle ai porci. In libreria vado alla V dello scaffale della Narrativa e al posto dove doveva esserci l’opera omnia di Vonnegut c’erano inopinatamente Volo e Veltroni. Chiedo al libraio come mai tra i Narratori trovo Volo e Veltroni ma non Vonnegut, lui fa una ricerca sul pc e dice perché lo abbiamo messo nello scaffale Fantasy. Ma è fantastico! Vonnegut scrittore di fantascienza e Volo e Veltroni narratori tout court, ma fantastico dico al libraio. E lui: perché i lettori comprano Volo e Veltroni, ecco perché li mettiamo lì. E aggiunge: perciò questo paese va come sta andando. Di lì a poco il virus millantatore, quello che si spacciava per angelo sterminatore, ha chiuso le librerie i premi letterari i festival le presentazioni le uscite di miliardi di libri destinati al macero o a non essere aperti dalle persone a cui vengono regalati o spediti in omaggio.

Ma basta parlare di libri parliamo adesso di morti, anzi di letteratura argentina dove sono tutti morti. Sono ancora nell’ex manicomio d’altronde. Bolaño divide la letteratura argentina, o meglio i morti della letteratura argentina, in tre correnti. La prima capeggiata dal romanziere minore Osvaldo Soriano. Che però vendeva. La seconda ha come frontman Roberto Artl, una specie di autodidatta che si ciba di robaccia mal tradotta scrive conseguente e muore presto intorno ai quaranta. Di lui non avremmo saputo niente se il suo San Paolo (così lo chiama Bolaño), ovvero Ricardo Piglia, non lo avesse resuscitato, in qualche modo. Segnalo che non ho letto mai né Soriano né Arlt e neppure Piglia, anche se ho in libreria un paio di libri di Arlt. Ma Bolaño accidenti mi ha fatto passare la voglia di leggerlo. Il terzo è, udite udite: Lamborghini, che doveva fare il killer o il becchino ma giammai il romanziere. Eppure, i suoi epigoni sono tutti suoi plagiatori, tutti, fuor che Cesar Aira. Di lui ho sul tavolino dello studio (mai aperto) Il pittore fulminato. Anche se bisognerebbe, esorta Bolaño, lasciarli perdere tutti e passare il tempo a rileggere (o a leggere) Borges. Quel reazionario anarchico. Fosse per Bolaño dovremmo leggere solo Borges. E Cortàzar, ovviamente.

Era dai tempi che lessi Jung che non mi scrivevo i sogni. Era il 1999, più o meno. Per scriverli te li devi ricordare. Per ricordarli li devi scrivere subito, appena sveglio. Se possibile mentre ancora dormi. Se riuscissi a mantenerti dormiente, sognante, prendere penna e scrivere, sarebbe l’ideale. Così ho fatto poco fa, dopo il secondo risveglio dal sonnellino sulla panchina del manicomio, ex manicomio di Roma. Ero a La Cruces, Cile, e don Nicanor Parra, ultracentenario, non era ancora morto. Siccome lo sapevo che non rilascia più interviste e a chi va a fargli la posta manda la sua serva (quella che peraltro lo tratta pure male) o esce lui stesso e dice di essere il maggiordomo di don Nicanor (che è occupato o non ha voglia) allora mi invento uno stratagemma. Non serve vino non serve pan de pascua, poi è vecchio, mi figuro che manco se lo può bere o mangiare. Allora mi metto a recitare a voce stentorea una poesia di Neruda, ma non lo chiamo Neruda, che lo sanno tutti essere uno pseudonimo, lo chiamo col suo nome anagrafico, lo chiamo Neftalì Reyes. Insomma sono lì davanti al cancello del più grande poeta di sempre del manicomio latino-americano (Nicanor Parra intendo, non Neruda) e dico: signori, ecco a voi la poesia del grande Reyes, il più grande, il tacchino, il più grande tacchino che mai abbia scritto poesie su questo continente perduto. Perché nel sogno so delle cose la prima è che Neruda lascia una figlia idrocefala morire, muore questa sua figlia di cui non ha voluto più interessarsi mi pare a nove anni basterebbe questo per squalificarlo ma nel sogno non voglio intristirmi e mi interesso di un’altra querelle più futile, perché so che quel furbone di don Nicanor aveva rotto i coglioni in tutti i modi a don Pablo, perfino prendendosi il suo nome anagrafico con cui ci voleva fare il suo pseudonimo, che sagoma, non s’è mai vista una cosa del genere. Come se Peppino Di Capri o Nicola Di Bari che si sono disfatti dei loro nomi si trovassero di fronte casa un matto che sguaiato canta Champagne o Stringi questa mano zingara dicendo di chiamarsi Giuseppe Faiella o Michele Scommegna, che detto tra noi sono molto meglio degli pseudonimi, così come sempre succede, così come Neftalì Reyes era molto ma molto ma molto meglio di Pablo Neruda. E giustamente quando Neruda a Parra gli ruppe i coglioni, perché Parra in America si era andato a prendere un tè con la moglie di Nixon (e bene fece, l’avrei fatto pure io, e quando ti ricapita un’occasione del genere) perché don Pablo era il poeta col mitra in mano e non poteva andare a merenda con il capitale, coi sovietici e i loro gulag sì, coi yenkee no, sia mai, don Nicanor gli disse, al petto di tacchino, sai che fa adesso questa zampa di gallo? Fa che siccome sono l’unico poeta del Cile senza pseudonimo, e siccome sono un antipoeta e non mi posso abbassare come voialtri che siete poeti a trovarmi uno pseudonimo, e siccome c’è un nome che prima era occupato poi è stato lasciato libero, ebbene lo occupo io: da adesso non sono più Nicanor Parra ma chiamatemi Neftalì Reyes. Neftalì Reyes, grido io (nel sogno), ascoltate (gli do del voi, alla maniera meridionale, non lo so perché, cose che succedono nei sogni) la poesia superba, magnifica, comunistissima, del più grande poeta di Las Cruces, e inizio a declamare una poesia di Neruda. Per tanto amore la mia vita si tinse di viola… Ha. Così impara. Infatti, eccolo che esce, testa leonina, quanti caspita di capelli, blancos, che tiene ancora addosso a quel cranio, d’altra parte ha scritto o non ha scritto Poesie contro la calvizie, il furbastro? Esce e dice niente pan de pascua tu? Niente vinello? No, don Nicanor, gli dico, lei non può bere (passo dal voi al lei, nel sogno, non so perché, forse perché prendo confidenza), se no il vino le tinge i capelli. Ascolti queste poesie comuniste fino al basso ventre. Due amanti felici fanno un solo pane, una sola goccia di luna nell’erba… Che mi dice? E’ o non è, il signor Neftalì Reyes il più grande poeta del Cile? E lui: il più grande non lo so. Sicuramente uno dei più grandi. Chi erano i quattro più grandi, don Nicanor, gli faccio io nel sogno, ben sapendo di tirargli un assist di cui mi sarà grato, e lui: erano tre. Fa una pausa: uno è Alonso de Ercilla e l’altro Rubén Darìo. Poi mi guarda, ride, e aggiunge: ora però sono rimasto solo io. E mi recita, mentre entriamo in casa, una poesia del più grande poeta col mitra in mano del sud America: Toglimi il pane se vuoi, toglimi l’aria, ma non togliermi il tuo sorriso. Un tacchino, un tacchino grasso. E giù a ridere. A quel punto sono di casa e passo al tu.

Devo assolutamente trovare il quaderno dove mi appuntai il sogno che feci quando leggevo Jung. Era il 1999, circa, l’anno prima avevo fatto il servizio civile in ricusazione del militare. Un centro diurno psichiatrico di Montevarchi. Jung mi aveva quasi convinto. Era meglio di Freud. Non c’era partita. Dei quattro grandi indagatori dell’inconscio tra Ottocento e Novecento, tutti erano meglio di Freud. Pure Adler, poi saccheggiato da Nietzsche (o era lui ad aver saccheggiato Nietzsche? Devo controllare). Pure Janet, saccheggiato da altri. Ma il più pazzo era Jung. I quattro grandi esploratori dell’inconscio erano tre: Adler e Janet. Jung era il più pazzo, però.
La scrittura, ho detto poco fa a mia moglie, dopo essere tornato dal manicomio (non le ho detto che ho fatto telefonate, alcune anonime, a un sacco di morti) è una forma di esilio. Non c’è bisogno, a noialtri, che ci facciano il lockdown. Io protesto, faccio finta di protestare, rivendico il diritto di correre, passeggiare, bicicletta, ma lo faccio per gli altri, a me in realtà non mi frega niente. Mi fanno solo un favore, a me, se non mi fanno uscire per il resto della vita. E mi sono ficcato nello studio, al buio, senza aria condizionata, mentre lei è in salone ha le luci tutte accese e pure l’aria condizionata (abbiamo appena pulito i filtri). Pure la follia è un esilio. Dovrei smettere di lavorare. Di fare lo psichiatra. E andarmene per sempre in esilio.


P.S.
Con questa si concludono le chiamate telefoniche, ringrazio Valerio Evangelisti e Gioacchino Toni per avermi generosamente ospitato per otto volte su Carmilla.
Aggiungo che tutto quanto è stato scritto in queste otto chiamate, salvo due o tre cose, è fiction, tutto inventato signori, come la pandemia di cui narra, d’altra parte, pure lei è stata fiction, salvo due o tre cose.

Tutte le chiamate telefoniche

 

 

 

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Un libro di denuncia e di battaglia contro il manicomio diffuso contemporaneo https://www.carmillaonline.com/2018/05/21/un-libro-di-denuncia-e-di-battaglia-contro-il-manicomio-diffuso-contemporaneo/ Sun, 20 May 2018 22:01:56 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=45554 di Gioacchino Toni

Piero Cipriano, Basaglia e le metamorfosi della psichiatria, Elèuthera, Milano, 2018, pp. 328, € 18,00

«E se credente ora / che tutto sia come prima / perché avete votato ancora / la sicurezza, la disciplina, / convinti di allontanare / la paura di cambiare / verremo ancora alle vostre porte / e grideremo ancora più forte / per quanto voi vi crediate assolti / siete per sempre coinvolti, / per quanto voi vi crediate assolti / siete per sempre coinvolti» (Fabrizio De André)

«Quando noi diciamo no al manicomio, diciamo [...]]]> di Gioacchino Toni

Piero Cipriano, Basaglia e le metamorfosi della psichiatria, Elèuthera, Milano, 2018, pp. 328, € 18,00

«E se credente ora / che tutto sia come prima / perché avete votato ancora / la sicurezza, la disciplina, / convinti di allontanare / la paura di cambiare / verremo ancora alle vostre porte / e grideremo ancora più forte / per quanto voi vi crediate assolti / siete per sempre coinvolti, / per quanto voi vi crediate assolti / siete per sempre coinvolti» (Fabrizio De André)

«Quando noi diciamo no al manicomio, diciamo no alla miseria del mondo» (Franco Basaglia)

Come fa notare Pier Aldo Rovatti nella prefazione, “libertà”, “rivoluzionario”, “radicale” e “iatrogeno” sono le parole chiave attorno alle quali ruota l’intero discorso portato avanti da Cipriano nel suo ultimo libro “di denuncia” e “di battaglia”, ricorrendo nuovamente alle parole di Rovatti.

Tanto per essere chiari sin dall’inizio: nel suo nuovo libro Cipriano non si limita, in odor di ricorrenze, a rendere il giusto merito a Franco Basaglia per quel che ha saputo fare ma intende anche denunciare quel che è successo dopo-Basaglia e, soprattutto, portare avanti una battaglia di libertà qui ed ora. Non è tipo da semplici e comode commemorazioni il nostro “psichiatra riluttante”.

Fatta questa premessa veniamo al libro, anzi, a dire il vero si tratta di due libri in uno. La prima parte del volume è dedicata a una breve storia della follia e dell’anti-follia, cioè di quella che da poco più di due secoli si chiama psichiatria. Si badi bene, precisa Cipriano sin da subito, riprendendo Basaglia, che quando si parla di storia della psichiatria si parla sostanzialmente di psichiatri, di diagnosi, di terapie e di repressione e non delle storie di chi l’ha subita. La seconda parte del volume concede invece la parola ad alcuni compagni di viaggio con cui costruire un immaginario e pratiche capaci di portare ad una “nuova 180”.

In apertura la ricostruzione della storia della follia e dell’anti-follia prende il via, come suggerito dalla Storia della follia scritta da Michel Foucault, da un editto francese del Seicento che prescrive l’ammasso presso il Grand Hôpital Géneral parigino di tutti i devianti: «Dai mentecatti ai libertini, alle donne di facili costumi, agli alcolizzati». Un secolo dopo Philippe Pinel «separa i fuori di testa dai fuori di legge». Da una parte i rei, dall’altra i folli. Chi deve scontare una pena da una parte, chi deve sostenere una cura dall’altra. Il carcere per gli uni, l’ospedale psichiatrico per gli altri. Poi si cimenteranno sui folli gli asportatori di brandelli di cervello, gli inoculatori di malaria e i dispensatori di scariche elettriche sino all’arrivo degli spacciatori di psicofarmaci e dei prestigiatori semantici: gli psichiatri. È lungo questo percorso che si arriva ad incastrare a vita una persona: attraverso una diagnosi e una molecola.

Eccoci allora a Basaglia, cioè a colui che negli anni Sessanta del Novecento trova la forza, il coraggio e l’umanità per fare quello che né i padri nobili della psichiatria psicodinamica (Freud, Joung, Adler e Janet), né i fenomenologi (Jaspers, Minkowski, Binswanger ecc.) hanno mai fatto: «mettere in discussione il mezzo con cui la psichiatria opera: il manicomio, ovvero la malattia istituzionale, la iatrogenesi di cui lo psichiatra è responsabile» (p. 20). Ed è proprio a Basaglia che è dedicato il secondo capitolo del libro, ossia a colui che può essere considerato sia politicamente che scientificamente un rivoluzionario. È grazie a persone come lui che viene messo in crisi il paradigma scientifico secondo cui il manicomio è terapeutico. In realtà la distruzione del manicomio è la condizione necessaria affinché si possano porre le basi per una psichiatria terapeutica e non repressiva.

Rispetto ad altre pratiche alternative, secondo Cipriano, l’originalità dell’esperienza goriziana consisterebbe nell’inversione di ruoli: «il vero direttore è diventato il malato». In una relazione del 1964 passata alla storia, così Basaglia stesso riassume le tappe della sua rivoluzione copernicana: 1. Introduzione dei farmaci, grazie ai quali è possibile eliminare le contenzioni; 2. Rieducazione umana del personale; 3. Riannodamento dei legami con l’esterno; 4. Abbattimento delle barriere fisiche: reti e grate; 5. Apertura delle porte; 6. Creazione di un ospedale diurno; 7. Organizzare la vita dell’ospedale secondo lo stile di una comunità terapeutica. Insomma una guerra aperta tra «il principio di libertà» e il «principio di autorità». In concreto, sottolinea Cipriano, nel settimo punto basagliano occorre leggere la necessità che la vita comunitaria diventi assembleare.

Ad inizio anni Sessanta escono diversi libri poi rivelatisi importanti punti di rifermento per il gruppo basagliano nella battaglia contro i manicomi: Storia della follia (1961) di Michel Foucault, Asylums (1961) di Erving Goffman, I dannati della terra (1961) di Frantz Fanon, Il mito della malattia mentale (1961) di Thomas Szasz; L’io diviso (1961) di Ronald Laing.
Con l’intento di far conoscere quanto si sta sperimentando a Gorizia, sul finire del decennio viene fatto uscire il libro corale L’istituzione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico (1968) nel quale Basaglia pubblica un contributo intitolato Le istituzioni della violenza in cui sostanzialmente muove una critica a trecentosessanta gradi nei confronti di tutte le istituzioni fondate sulla rigida distinzione di piani: famiglia, carcere, ospedale, università, fabbrica, scuola… Già in questo suo intervento, sostiene Cipriano, emerge

la figura dell’intellettuale non più universale – quello che restandosene fuori dal mondo non solo engagé, à la Sartre, non solo organico, à la Gramsci, ma l’intellettuale tecnico di un sapere pratico che si immerge nelle istituzioni per cambiarle, o per distruggerle: quello che Rovatti definisce intellettuale riluttante. Ecco, Basaglia e i goriziani sono stati gli antesignani di questo nuovo tipo di intellettuale calato nelle istituzioni (p. 62).

Il 13 maggio 1978 viene approvata la Legge 180. Quella che ancora oggi, tanto dai detrattori, quanto dagli entusiasti, viene indicata come una svolta radicale in senso libertario a proposito di sofferenza mentale, all’epoca viene percepita dal gruppo di Basaglia come un compromesso se non, in qualche modo, una sconfitta. In particolare a suscitare perplessità sono il Trattamento Sanitario Obbligatorio e l’apertura di piccoli reparti psichiatrici negli ospedali. È pur vero che quella Legge 180 (successivamente assorbita all’interno della Legge 833 istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale), o legge Basaglia (anche se nei fatti non è di certo sua la stesura), scrive Cipriano, forse rappresenta il massimo ammesso da quel contesto storico-culturale; una riforma più radicale avrebbe necessitato di una società più avanzata rispetto a quella dell’epoca.
Nel volume ci si sofferma anche su Le conferenze brasiliane da cui, secondo Cipriano, emerge quanto

Basaglia non sia stato rivoluzionario perché ha fatto la comunità terapeutica a Gorizia, che pure è stata una bomba che poi ha portato a Trieste e che gli altri goriziani esodati hanno portato in altri manicomi per deflagrarli, e neppure sia stato un rivoluzionario perché ha ispirato la scrittura della legge che li ha messi fuori legge, questi luoghi atavici, la sensazione è che davvero rivoluzionario Basaglia lo sia diventato da quel momento in poi. Come Che Guevara che cerca la Bolivia perché non si accontenta di ciò che ha fatto, come un Fanon che cerca la rivoluzione fuori dal manicomio, lui pure sembra cercare un terreno rivoluzionario e va in Brasile a coinvolgere i tecnici psi, e non solo, l’intero popolo brasiliano. (p. 82)

Basaglia, continua Cipriano, era un rivoluzionario anche sul piano politico «apolide e apartitco, probabilmente a suo modo anarchico. Inviso al PCI per la sua troppa carica libertaria […] Inviso all’Università, all’establishment, ai direttori di manicomio e ai manicomiali a cui toglie il potere dalle mani. Inviso per per la sua capacità pragmatica di portare fino in fondo questo suo impegno di uccidere il manicomio» (p. 85). Inviso pure, si badi bene, anche a tutti quegli “antipsichatri” che amavano scagliarsi contro il manicomio più a parole che con i fatti.
Anche sul farmaco la posizione di Basaglia è chiara. Non si tratta tanto di dirsi a sfavore di tutti i farmaci sempre e comunque; si tratta di vedere l’utilizzo che ne viene fatto e la finalità con cui li si somministra:

Noi dobbiamo dire che usiamo i farmaci, Ma cosa significa usarli? Normalizzare mentre stiamo facendo un discorso di liberazione? A me pare che dobbiamo riconoscere che la scoperta di alcune sostanze i grado di diminuire l’aggressività di una persona sia un fatto di lotta contro la natura, e questo discorso non mi scandalizza, perché questi prodotti offrono, ad alcune persone, una possibilità alternativa di esistenza, una contrattualità con l’altro, la possibilità di un rapporto. In realtà il farmaco ha una doppia faccia: terapeutica da un lato, e quindi strumento di liberazione, cronicizzante dall’altra, e quindi elemento di repressione. (Basaglia, Conferenze brasiliane – riportato a p. 86)

Nel terzo capitolo viene ricostruito il dopo Basaglia e qua Cipriano ripercorre lo sviluppo della cura mentale degli ultimi decenni riprendendo quanto approfondito nei suoi saggi precedenti: La fabbrica della cura mentale (2013), Il manicomio chimico (2015) e La società dei devianti (2016). Se aprire i manicomi e liberare i reclusi è stata una lunga e dura battaglia, molto più ardua pare la battaglia per aprire i “nuovi manicomi”:

Aprire il DSM, inteso come Manuale Diagnostico e Statistico, e liberare le persone dalle etichette diagnostiche e del farmaco che pressoché inevitabilmente consegue all’etichetta […] Le due cose, i due manicomi moderni, se così vogliamo definirli, etichette e farmaci, che ne creano uno davvero difficile da aggredire, sono a tal punto embricati che è, e sarà sempre più difficile, distinguere la follia dal suo doppio, il disturbo psichico essenziale dal suo doppio, da tutto ciò che sembra disagio psichico e invece è iatrogenia (p. 119).

Nel libro vengono dunque ricostruite le tappe che hanno portato alla deriva farmacologica della psichiatria ed il ruolo assunto dalla diagnosi, ormai piegata totalmente a una logica che considera malattia qualsiasi disagio psichico. Tutti noi possiamo divenire pazienti psichiatrici: basta manifestare uno stato emotivo forte per vedersi prescritto uno psicofarmaco che, non di rado, diviene responsabile di un nuovo disagio che a sua volta richiede nuovi psicofarmaci in una spirale totalmente illogica se non per le industrie farmaceutiche che si assicurano così un paziente-cliente per lungo tempo, se non a vita.

Il quarto capitolo è dedicato alla necessità di una nuova 180 e al panottico digitale che sembra ormai fare capolino. Sul finire del 2017 i senatori Nerina Dirindin e Luigi Manconi hanno presentato un disegno di legge dal titolo Disposizioni in materia di tutela della salute mentale volte all’attuazione e allo sviluppo dei principi di cui alla legge 13 maggio 1978, n. 180. Si tratta, sostiene Cipriano, di una sorta di 180 bis e se la 180 è derivata dalla battaglia di Basaglia, gli ispiratori di questa 180 bis si possono individuare in Franco Rotelli e Peppe Dell’Acqua. Tale proposta di legge intende intervenire su alcuni aspetti su cui la 180, in quanto legge quadro, non ha dato indicazioni attuative. Si tratta di una «legge-che-ribadisce», che intende far applicare una legge stesa sul finire degli anni ’70 e restata in parte inapplicata. Nel frattempo, però, l’istituzione manicomiale ha assunto nuove e molteplici forme che necessitano di essere messe in discussione.

Viviamo in una società caratterizzata da un nuovo panottico: il web in cui quotidianamente immettiamo informazioni su noi stessi, offriamo la nostra identità permettendo, se non chiedendo, ad altri di “tenerci d’occhio”, di “valutarci” e noi stessi finiamo a nostra volta, sentendoci gratificati da questo, per essere controllori e valutatori. Si tratta di un nuovo manicomio, un manicomio di tipo digitale che però si intreccia facilmente con quello concentrazionario, con quello chimico e quello diagnostico.

Un esempio del manicomio che ci aspetta Cipriano lo individua nell’inquietante progetto Proteus Digital Health a cui sta lavorando la Food and Drug Administration americana.

Il farmaco che deve essere immesso nel corpo di chi ne ha bisogno è l’antipsicotico ora più in auge, l’ultima molecola ritenuta antidoto alla psicosi: l’aripiprazolo commercializzato come Abilify. Tra i più costosi, si capisce. Proteus sarebbe in grado di inserire un sensore attaccato alla compressa, un sensore ingeribile quindi, che comunica con un altro sensore posto su un cerotto computerizzato indossato dal paziente o inserito sottopelle, di modo che il medico prescrittore dal suo tablet possa controllare l’intero percorso de farmaco, dall’ingestione all’assorbimento. Questo perché? Per contrastare la riluttanza delle persone con disturbo psichico ad assumere gli antipsicotici – scarsa compliance, viene definita – o l’assunzione a dosaggi inferiori alla prescrizione. Questo partendo dall’assunto – non provato – che non prendere antipsicotici inevitabilmente porti a ricadute (p. 166)

Per prospettare dove ci potrebbero portare sperimentazioni come Proteus, Cipriano prende spunto da un episodio della serie Balck Mirror intitolato Arkangel in cui si narra dell’impianto di un microchip nel cervello di una bambina in modo che la madre possa monitorarla costantemente intervenendo a distanza, attraverso un un tablet, per censurare agli occhi della figlia tutto ciò che potrebbe urtare la sua serenità. Così la figlia finisce per vivere in una sorta di realtà virtuale pilotata dal genitore attraverso il microchip Arkangel.

Arkangel è ciò che Protus potrebbe fare tra qualche anno. Un meccanismo per cui tutto accade per via digitale. Lo psichiatra fa la diagnosi. Prescrive. Il chip controlla. Il paziente non può più trasgredire. Questo è un mondo futuro, dove il cittadino modello è una sorta di androide, l’androide descritto immaginato narrato da Philip K. Dick, il cittadino modello dei regimi totalitari. Vivremo in una democrazia in ci tuttavia, come scrive Han, “la libertà sarà stata un episodio”. Una democrazia neoliberale sotto il segno del like. Si immagini un collegamento tra il sistema Proteus che monitora l’assunzione del farmaco e il profilo Facebook […] della persona stessa. Prendere il farmaco premiato dal like, non prenderlo sanzionato dal dislike. Essere puntuali nell’assunzione premiato da decine di love, o haha, o wow, disattendere l’assunzione sanzionato da sigh o peggio da grr […] sembra un po’ ridicolo a scriverlo, tutto ciò, eppure lo stiamo già facendo […] una semplificazione lessicale ed emotiva che rassomiglia alla neolingua immaginata da Orwell in 1984, la semplificata neolinuga […] funzionale a semplificare il pensiero (pp. 169-170)

Eccoci di fronte ad un immenso panottico che determina una sorveglianza reciproca. Occorre forse iniziare a pensare davvero a come uscire da questa manicomio diffuso entro cui ormai siamo tutti rinchiusi. E qua si entra nella seconda parte del volume. Una volta tratteggiata la storia della psichiatria, ora l’autore tenta di rispondere ad alcuni interrogativi:

ma chi sono, oggi, i nuovi operatori della salute mentale, gli intellettuali riluttanti, gli inventori di nuove pratiche di salute mentale? E che cosa pensano? Cosa ne pensano, soprattutto, di questa storia della psichiatria e cosa pensano del fatto che con gli studi e i diplomi e le patenti che hanno conseguito hanno scelto di calarsi, di sono calati, si stanno calando, stanno entrando in questa sotiria? Cosa pensano di fare? Come pensano di cambiarlo il corso di questa storia della psichiatria? (pp. 198-199)

Dunque il libro si apre alla coralità, la parola viene in qualche modo lasciata alle tante voci che possono contribuire alla messa in discussione delle vecchie e nuove forme manicomiali e ad un ripensamento delle modalità con cui affrontare la sofferenza mentale. Qua inizia un lungo viaggio in cui ci si imbatte in quelli che l’autore definisce rispettivamente gli “inventori”, gli “impazienti” e i “narratori”. A loro viene data la parola.

Tra coloro che cercano nuove strade per affrontare il disagio mentale, tra gli inventori di nuove pratiche di salute mentale, ci imbattiamo: in uno psicologo che allo studio preferisce l’orto ove lavora con migranti e disabili psichici; in una filosofa che ha operato in un day-hospital senza essere né medico né psicologo scoprendo che i tecnici, con le loro pratiche, si rivelano per lo più incapaci di relazionarsi con le persone; in un infermiere testardamente contrario alle fasce ed all’elettrochoc e in diversi altri operatori non convenzionali.

Poi, dopo gli inventori, la parola passa agli impazienti, agli esigenti, a quelli

dall’altra parte del muro di vetro che divide i sani di testa dai disturbati di testa, quelli che chiamano i pazienti, ma sono sempre meno pazienti, si sono fatti esigenti ed è giusto giustissimo che siano esigenti, c’è chi li chiama ancora utenti, ma non mi piace utente, malato mi piace ancora meno […] c’è chi li chiama ancora matti, chi folli, folle per esempio è bello, teste pieno di vento e di sogni, è un modo romantico ancora di raccontare la sragione, oppure chi li chiama semplicemente vittime della psichiatrica. E quanti di loro vogliono un soccorso. Un rapporto. E non gli piace di essere trattati così, oggettificati cosificati reificati, un numero, io sono una storia non un numero (p. 198)

Infine, nello spazio di mezzo, tra chi non è né malato né terapeuta, Cipriano ci porta tra narratori come Paolo Virzì, Nicola Lagioia, Silvano Agosti e Pierpaolo Capovilla, tra

quelli della società che suole dirsi civile, che sono capaci di pensare e di raccontare, con la propria arte, il mondo della follia e dell’anti-follia, quelli che sono artisti, sono narratori, sono registi, sono poeti, sono attori, sono musicisti, sono cantanti (p. 198)

Ed a proposito di narratori, il volume si conclude con un’intervista impossibile, con Basaglia che incontra Bolaño e con Cipriano che, di nascosto, prende nota.

Terminata la lettura di questo libro “di denuncia” e “di battaglia” ci rende conto come all’interno del manicomio diffuso contemporaneo si passi con estrema facilità dal ruolo di vittime a quello di carnefici.  Quella che continua a portare avanti testardamente Cipriano è una battaglia di libertà che ci tocca davvero tutti e tutte.


A proposito del libro Basaglia e le metamorfosi della psichiatria (2018) si veda su Carmilla: Il libro delle metamorfosi – Intervista a Piero Cipriano

 

 

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Il libro delle metamorfosi – Intervista a Piero Cipriano https://www.carmillaonline.com/2018/05/06/libro-delle-metamorfosi-intervista-piero-cipriano/ Sat, 05 May 2018 22:01:00 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=45116 di Gioacchino Toni

Dopo aver pubblicato La fabbrica della cura mentale (2013), Il manicomio chimico (2015) e La società dei devianti (2016), in occasione dell’imminente uscita del suo nuovo libro, Piero Cipriano anticipa in questa intervista alcune questioni trattate nella pubblicazione edita, come le precedenti, da Elèuthera.

[ght] Nel tuo nuovo libro che esce a quarant’anni dall’entrata in vigore della Legge 180 che sanciva la chiusura dei manicomi,  oltre a ricostruire le lotte che portarono a quel risultato, tratteggi le trasformazioni del dispositivo manicomiale fino al “manicomio digitale” prossimo venturo, dove la rete sembrerebbe essere il panottico perfetto da cui non [...]]]> di Gioacchino Toni

Dopo aver pubblicato La fabbrica della cura mentale (2013), Il manicomio chimico (2015) e La società dei devianti (2016), in occasione dell’imminente uscita del suo nuovo libro, Piero Cipriano anticipa in questa intervista alcune questioni trattate nella pubblicazione edita, come le precedenti, da Elèuthera.

[ght] Nel tuo nuovo libro che esce a quarant’anni dall’entrata in vigore della Legge 180 che sanciva la chiusura dei manicomi,  oltre a ricostruire le lotte che portarono a quel risultato, tratteggi le trasformazioni del dispositivo manicomiale fino al “manicomio digitale” prossimo venturo, dove la rete sembrerebbe essere il panottico perfetto da cui non è possibile sfuggire. In attesa dell’uscita del libro ti chiediamo di anticiparci brevemente qualcosa a tal proposito.

[pc] I quarant’anni di una legge straordinaria ma tutto sommato per lo più tradita offrono l’occasione per fare il punto. Quella legge era fatta a misura del manicomio classico, quello che siamo abituati a pensare essere il manicomio, l’unico manicomio, il manicomio inventato da Pinel nel 1794, il manicomio lager che serviva per segregare i devianti affetti da un qualche elemento di follia, non per curarli e restituirli alla società ma per separarli per sempre da essa. Un luogo dove si compiva un’eutanasia sociale prossima a quella dei lager nazisti. Il luogo della definitiva sparizione degli esseri umani diversamente ragionanti. Diciamo che con la legge 180 si decretava, in Italia almeno, la fine di questi dispositivi di annientamento. Ma, è quel che sostengo in questo libro, il manicomio è un Proteo, è cangiante, e la psichiatria ha saputo sempre declinarsi in un manicomio; posto fuori legge il manicomio concentrazionario ecco ascendere, proprio a partire dal 1980, un manicomio fatto di etichette diagnostiche e psicofarmaci conseguenti, a vita, quel manicomio che ho definito chimico, il 2.0, diciamo. Ma questo manicomio invisibile si embrica con un ulteriore manicomio, trasparente, emanazione di questa società della trasparenza, la società digitale del web, della rete, dei social network, dove ognuno si denuda e mette in piazza la sua esistenza, dove il controllo è totale, come in un panottico dove, a differenza di quello benthamiano, i controllori sono gli stessi controllati, un controllo reciproco a 360 gradi, perfetto. Dirai ok, ma come questo si interseca con il manicomio chimico e quello concentrazionario? Ti faccio un esempio. La Food and Drug americana sta sperimentando un sistema detto Proteus (non per caso ispirato al Proteo mostro cangiante della mitologia) per rendere l’assunzione dei nuovi antipsicotici sicura, certa, assoluta. Il malato psichico del prossimo futuro digitale ingoia la pasticca, dotata di un sensore ingeribile che comunica con un sensore posto sulla pelle che a sua volta comunica col tablet dello psichiatra, il quale alla prima trasgressione provvederà al ricovero obbligatorio, in un reparto chiuso. Ecco che il manicomio chimico si embrica con quello digitale e con quello concentrazionario. L’uno non esclude l’altro ma si combinano. Poi mi sono perfino immaginato un povero paziente psichico digitale la cui assunzione o meno del farmaco con sensore sarà premiata con un like o biasimata con un dislike da parte dei suoi cosiddetti amici social-virtuali. E così via. Non ti racconto tutto…

[ght] Nel libro, ricostruendo la lunga lotta condotta da Basaglia contro il manicomio concentrazionario e il significato assunto dalla Legge 180 da essa derivata, insisti sulla necessità di una nuova rivoluzione anti-manicomiale. Ti chiediamo di fornirci qualche elemento utile a motivare l’urgenza di una nuova rivoluzione nell’ambito del disagio mentale.

[pc] La Legge 180 è stata una legge straordinaria, meglio di così non si poteva fare. Però è stata applicata solo in pochi luoghi, che peraltro dimostrano proprio il contrario di ciò che sostengono i detrattori, ovvero che sapendola attuare è una legge che fa quel che deve fare, ovvero elimina la manicomialità, e permette la cura delle persone nei luoghi di vita e non nelle cliniche, nei letti, nei luoghi a parte, nei tanti manicomietti e caravanserragli sparsi per il paese, che si chiamino SPDC che si chiamino casa di cura che si chiamino comunità terapeutica che si chiamino REMS. Una rivoluzione politica e scientifica che, come spesso succede, è stata in parte riassorbita, se non vanificata. La vicenda del suo ispiratore, Franco Basaglia, sulla cui figura imposto questo libro, assomiglia a quella del ginecologo viennese della metà dell’Ottocento, Filippo Ignazio Semmelweis. Il quale aveva intuito che la sepsi puerperale delle donne gravide dipendeva dalle mani dei medici, che non lavate, le infettavano a morte. Bastava lavarsi le mani, suggerì Semmelweis. Grandissima intuizione, politica e scientifica. Ebbene, fu necessario mezzo secolo perché Pasteur dimostrasse, con le scoperte microbiche, che Semmelweis aveva ragione. Nel frattempo i medici avevano ottusamente continuato a non lavarsi le mani. Nel nostro specifico sembra sia accaduta la stessa cosa. Basaglia come Semmelweis dice sono gli psichiatri che con i loro dispositivi internanti ovvero i manicomi uccidono, socialmente e fisicamente, le persone. Ancora una volta il motivo della malattia è iatrogeno. Lavatevi le mani. Eliminate i manicomi. Be’, siamo anche noi in attesa di un Pasteur della psichiatria che confermi l’intuizione di Basaglia e dica: i manicomi ammalano, non curano.

[ght] Nel libro concedi spazio ad autori come Paolo Virzì, Silvano Agosti, Nicola Lagioia e Pierpaolo Capovilla, accomunati dall’avere raccontato al grande pubblico il mondo della sofferenza mentale. Mi sembra sia importante raggiungere un pubblico diffuso perché quella rivoluzione anti-manicomiale di cui parli richiede una rivoluzione dell’immaginario collettivo e il ruolo del cinema, della musica, della narrativa e di altre forme di comunicazione è probabilmente fondamentale per il raggiungimento di questo scopo.

[pc] In effetti non l’ho detto ma lo dico ora: sono due libri, appunto. Nel primo libro, che rappresenta la prima parte, faccio una contro-storia della follia e dell’anti-follia ovvero la psichiatria, da Pinel a oggi, dove il fulcro è Basaglia. C’è insomma, io penso, nella storia della psichiatria, un prima e un dopo Basaglia. Un po’ come quell’altro, che non nomino. Nel secondo libro, appunto per capire con chi farla questa rivoluzione se di rivoluzione vogliamo parlare, oppure questa nuova 180 di cui c’è bisogno, do la parola ai nuovi tecnici, operatori, esperti della salute mentale. Capire da loro cos’hanno in testa. Cosa pensano di fare. Purtroppo erano tanti a cui ho dato la parola, e siccome il libro è fatto di pagine e di carta, ad alcuni di loro a malincuore ho dovuto toglierla, nel senso che troveranno spazio nella versione e-book, ma non nella forma cartacea, in cui saranno presenti solo cinque: uno psicologo che fa lo psicologo non nello studiolo dorato ma in un orto, una filosofa che fa le consulenze filosofiche, un giovane psichiatra che come me a trent’anni si sente un cane in chiesa, un’infermiera poco più che ventenne che vede le fasce come il fumo negli occhi, e un’economista nonché esperta di jazz che non ha neppure uno straccio di attestato che la abiliti alla cura eppure ha delle splendide idee di come una società dovrebbe prendersi cura di sé invece di ricorrere agli esperti.
Prima di arrivare a quelli famosi di cui mi chiedi, devo dirti che ho dato la parola anche agli esigenti, ovvero impazienti che hanno delle idee molto chiare su cosa vogliono e cosa non, hanno avuto un inciampo psichico ma non gli piace di essere maltrattati da operatori poco gentili. Sono una filosofa una poetessa e un narratore. Sono stupendi. Infine questi quattro grandi autori. Perché? Quando Basaglia prese la direzione del manicomio di Gorizia prima e di Trieste poi cosa fece? Per prima cosa li aprì, e dopo li distrusse. Per distruggerli però li dovette prima aprire. Aprire alla cittadinanza. Da lager diventarono nel giro di pochi anni luoghi di vita: concerti, spettacoli, teatro. Entrarono Dario Fo, De Gregori, gli Area, Battiato, molti altri. Nel momento in cui erano stati aperti, fu facile abolirli, a quel punto non avevano più senso come luoghi di internamento.
Per i nostri manicomi succedanei direi che è un po’ la stessa cosa. Abbiamo bisogno di farli conoscere. Ho individuato alcuni artisti che per un verso si sono già occupati a fondo di questi temi, per altri versi sono dei potenti amplificatori. Virzì veniva fuori dal film La pazza gioia dove racconta benissimo le contraddizioni della psichiatria italiana di questi anni. Mi venne a cercare nell’ospedale dove lavoro dopo aver letto Il manicomio chimico, a quei tempi era voracissimo di tutto ciò che ineriva il tema, sapeva tutto, ed era appassionato e direi decisamente schierato. Era con noi, con Basaglia, con Marco Cavallo, nel film denunciava le contenzioni, l’elettrochoc, la follia dei manicomi giudiziari, le pasticche facili, insomma, il suo film l’ho trovato molto più potente e immediato di molti saggi o documentari. Direi che è stato, per questo tema, ciò che negli anni Settanta era stato Silvano Agosti, autore di Matti da slegare e del documentario Il volo con cui filmava Basaglia e duecento internati in gita aerea su Venezia. Perciò ho voluto intervistare pure Agosti, testimone di quella rivoluzione. Nicola Lagioia, invece, apparentemente è il meno dentro alla questione manicomi, però è esperto di quel tipo di manicomio che sono le sostanze o gli psicofarmaci. In che senso. Nel senso che con lui i mediatori sono stati due narratori su cui lui è ferratissimo, e che, secondo me, sono stati i massimi esperti dei due manicomi di cui scrivo: Roberto Bolaño dei grandi manicomi concentrazionari dell’America latina, di cui parla nei Detective selvaggi e in 2666, e David Foster Wallace del manicomio chimico, essendo un dichiarato dipendente da antidepressivi, i nuovi psico-cosmetici che alimentano questa nostra contemporanea società della prestazione. Infine Pierpaolo Capovilla, è stato divertente intervistare un cantautore rock di cui, essendone diventato amico, pensavo di sapere già molte cose. Invece viene fuori ancora il fuoco, la passione civile che lo divora, e che ha messo a disposizione della causa dei perdenti. Dei soccombenti, voglio dire, in questa lotta cartesiana tra chi ha la ragione e chi no.


[Su Carmilla:Conversazione con Piero Cipriano, psichiatra riluttante” – P. Cipriano, “Le psichiatrie al lavoro” – P. Cipriano, “Il manicomio che non vuole morire” – P. Cipriano, “Lo specialista pericoloso” – P. Cipriano, “Metapsicologia dell’inanalizzabile” – P. Cipriano, “Il selvaggio Abrahams: tra Bolaño e Basaglia” – Volumi di Piero Cipriano recensiti: P. Cipriano, La fabbrica della cura mentale (2013) – P. Cipriano, Il manicomio chimico (2015) – P. Cipriano, La società dei devianti (2016)]

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La fabbrica della cura mentale. Storie di banalità del male in tempo di pace https://www.carmillaonline.com/2017/08/04/39424/ Thu, 03 Aug 2017 22:01:11 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=39424 di Gioacchino Toni

Piero Cipriano, La fabbrica della cura mentale. Diario di uno psichiatra riluttante, Elèuthera, Milano, 2013, 176 pagine, € 14,00

«C’è una frase di De André che sempre mi accompagna nei momenti di maggior conflitto con il mio mestiere: “Chi va dicendo in giro che amo il mio lavoro non sa con quanto amore mi dedico al tritolo…”. Credo che essere basagliano trent’anni dopo la 180, voler continuare a deistituzionalizzare, a negare l’istituzione del male mentale e dei manicomi, significhi essere un po’ bombarolo. Bombarolo come Basaglia» (Piero Cipriano, p. 56).

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di Gioacchino Toni

Piero Cipriano, La fabbrica della cura mentale. Diario di uno psichiatra riluttante, Elèuthera, Milano, 2013, 176 pagine, € 14,00

«C’è una frase di De André che sempre mi accompagna nei momenti di maggior conflitto con il mio mestiere: “Chi va dicendo in giro che amo il mio lavoro non sa con quanto amore mi dedico al tritolo…”. Credo che essere basagliano trent’anni dopo la 180, voler continuare a deistituzionalizzare, a negare l’istituzione del male mentale e dei manicomi, significhi essere un po’ bombarolo. Bombarolo come Basaglia» (Piero Cipriano, p. 56).

Tra il 2013 ed il 2016 Piero Cipriano ha dato alle stampe tre testi importanti a proposito della gestione coercitiva istituzionale di chi è afflitto da sofferenza mentale. Di due dei tre testi che compongono la trilogia ci siamo già occupati in passato: Il manicomio chimico (Elèuthera, 2015) [su Carmilla], che ricostruisce l’avvento dell’era della psichiatria chimica e La società dei devianti (Elèuthera, 2016) [su Carmilla], ove l’aspetto diagnostico è indicato come meccanismo di conferimento di identità e destino all’individuo. Non resta che presentare La fabbrica della cura mentale (Elèuthera, 2013), primo volume della trilogia dello psichiatra riluttante, come ama definirsi Cipriano.

Anche ne La fabbrica della cura mentale, come negli altri libri, l’autore alterna racconti di esperienze vissute in prima persona come essere umano, ancor prima che come psichiatra, all’interno dei Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura, a riflessioni derivate dalla partecipazione a convegni e da letture di saggi e romanzi. Dunque, il testo alterna dati scientifici, esperienze tra i pazienti e storie d’invenzione.

«Se il SPDC [Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura] non è un manicomio io direi che assomiglia a una catena di montaggio. Il manicomio ricordava un campo di concentramento, il SPDC ricorda una fabbrica. Il che è un passo avanti […] Il SPDC è meglio del manicomio. Però guardiamo da vicino, trent’anni dopo la 180, come viene ricoverato nella gran parte dei SPDC d’Italia, un malato con crisi mentale acuta. Come inizia la sua carriera di malato di mente. Come, anche se il manicomio non c’è più, il malato viene ugualmente ridotto a cosa, a un corpo rotto» (p. 31). Al malato che giunge in un SPDC particolarmente agitato, trattenuto da più persone (agenti, infermieri, medici…), viene praticata una terapia sedativa prima di essere ricoverato. Se il malato manifesta (o ha fama) di essere “problematico”, viene legato al letto così, quando si risveglia, rimbambito dai farmaci, si ritrova bloccato da quattro fasce e capisce che è meglio “non disturbare”, che conviene adeguarsi alle regole del reparto, ai suoi orari ed ai suoi rituali. Una volta data prova di sottomissione, il paziente (paziente per forza), accompagnato, può uscire dalla porta del reparto costantemente chiusa ma se non si è “normalizzato a sufficienza”, anche nel caso si sia presentato in reparto volontariamente, il ricovero si trasforma praticamente in TSO.

Una volta dimesso, nel caso il paziente si dimostri ancora “grave e pericoloso”, «va in una Casa di cura Convenzionata, a far ricchi gli imprenditori della follia. Lì passa uno, due o tre mesi con l’autorizzazione del medico del Centro di Salute Mentale (CSM), così nel frattempo respira […] Prima o poi, però, esce anche dalla Casa di Cura e deve essere ripreso in carico dal CSM. Purtroppo, tranne eccezioni virtuose, è il paziente che deve raggiungere il CSM, dato che gli operatori non si possono muovere per andare al suo domicilio perché sono pochi o non ci sono le macchine o per altri motivi […] Per cui, dopo un po’, il paziente addomesticato si inselvatichisce di nuovo e si dà alla macchia […] dopo qualche settimana o mese, quello ritorna in crisi acuta in SPDC, perché i parenti o i vicini hanno chiamato il CSM […] e ricomincia il gioco della porta che gira» (pp. 32-33).

È terrificante. Ma è così che funziona la fabbrica della cura mentale. «Il SPDC è una fabbrica. Il primario è il direttore della fabbrica. Che ha una catena di montaggio a cui badare. Uno Psichiatra è un tecnico specializzato addetto a questa specie di catena di montaggio umana, dove il malato è la macchina biologica rotta, che deve essere aggiustata non con la parola, con la relazione o con un po’ d’umanità, ma con il farmaco» (p. 33).

Già, la psichiatria chimica si sostituisce alle parole perché queste, continua Cipriano, gli psichiatri le conservano «per il pomeriggio, per lo studio privato, per i pazienti più danarosi, meno gravi, meno malati, meno sporchi, più colti, quelli più piacevoli da vedere (della stessa classe sociale del terapeuta, si sarebbe detto in altri tempi). In SPDC basta il farmaco. E se non basta ci sono le fasce» (p. 33). Ma se farmaco e fasce non bastano, ecco che «il paziente viene inviato di soppiatto, senza dirlo troppo in giro, in qualche casa sicura attrezzata per la terapia elettrica, terapia che […] se non altro toglie la memoria e la consapevolezza di sé» (p. 33). Grazie l’elettrochoc il malato viene internato per qualche mese ed il medico può rifiatare in attesa di ritrovarselo alle porte del reparto.

Cipriano dedica qualche pagina al lessico adottato dai medici; un linguaggio incomprensibile ai più che contribuisce a mantene i camici bianchi unici depositari del “segreto della salute e della malattia” ed intanto ai tirocinanti viene insegnato a riconoscere i sintomi, così da poter collocare il caso in un quadro clinico al fine di formulare una diagnosi, quella diagnosi che, come ottimamente spiegato dal Nostro psichiatra riluttante nel volume La società dei devianti, conferisce identità e destino all’individuo.

Tornando ai Dipartimenti di Salute Mentale italiani, sostiene Cipriano, la Legge 180 del 1978 è male applicata in buona parte di essi, visto che, in molti casi, non viene messa in discussione la centralità del ricovero, il primato della clinica rispetto ai luoghi della vita delle persone. Roberto Mezzina, psichiatra del DSM triestino, denuncia questa logica sottolineando come non vi sia alcuna necessità scientifica di confinare l’individuo in un luogo se non lo si concepisce come “corpo da custodire” affinché questo venga controllato e “riparato” prima di restituirlo al corpo sociale. Dunque, aggiunge Cipriano, si tratta di un’operazione di controllo e «per far sì che la questione del controllo sociale dell’emergenza urbana non si concluda inevitabilmente con l’arrivo nel luogo magico del pronto soccorso, e con il passaggio ultimo e definitivo nel SPDC, è necessario ripensare i servizi territoriali, i cosiddetti Centri di Salute Mentale, spesso ridotti a meri ambulatori dove si prescrivono psicofarmaci» (p. 38).

Cipriano indica alcuni esempi alternativi di trattamento dei malati; tra questi i CSM aperti ventiquattro ore al giorno triestini, che ospitano i pazienti in luoghi aperti basati sulla relazione e non sull’internamento coatto, e il modello di cura alternativo Soteria, ideato dallo psichiatra americano Loren Mosher, basato su un’abitazione ospitante un numero ridotto di individui affetti da primi episodi di psicosi in cui non si ricorre ad alcuna etichetta nosografica e, soprattutto, si selezionano gli operatori in base alle loro caratteristiche di empatia e disponibilità. Tra i motivi della scarsa diffusione di tali modalità di cura alternative, Cipriano indica come secondo alcuni psichiatri critici «il vero motivo del dogma della farmacologizzazione precoce delle psicosi è la forte collusione [degli operatori e delle istituzioni] con le multinazionali dei farmaci e le università, grazie alla quale si è mantenuta, in cinquant’anni di psicofarmacologia, la stessa approssimazione degli anni Sessanta» (p. 40). È talmente strutturata l’idea che terapia psichiatrica significhi somministrazione di psicofarmaci che lo psichiatra che anche solo diminuisce la terapia farmacologica ad un paziente, rischia di essere condannato da un tribunale. «Basaglia sosteneva che gli psicofarmaci servono a sedare, più che il malato, l’ansia dello psichiatra» (p. 42).

Nel volume ci si sofferma anche sulla pratica del legare i pazienti con disturbi psichici. Pratica che, nonostante non sia menzionata dai libri di psichiatria, continua ad essere diffusamente praticata. Il ricorso alle fasce di contenzione, secondo Cipriano, è diffuso anche a causa di carenze legislative ma questo non basta a spiegare il fenomeno. Nemmeno la motivazione economica (legare costa meno che aumentare le risorse umane nei reparti), secondo lo psichiatra riluttante è sufficiente a spiegare il diffuso ricorso a tale pratica. Probabilmente si tratta di «una questione di etica e di cultura» (p. 53). Occorrerebbe cambiare la testa degli operatori.

«Quando un matto agitato viene catturato dalle forze dell’ordine, ammanettato e portato nel pronto soccorso di un ospedale, e lo psichiatra non fa altro che sostituire le manette con le sue fasce, ecco, in quel caso non ha fatto lo psichiatra, ma ha fatto il poliziotto, si è adeguato alla misura poliziesca, ha fatto l’antipsichiatra, insomma. Per cui io ribalterei la vecchia dicotomia degli anni Settanta tra psichiatria e antipsichiatria. Il vero antipsichiatra per me non è colui che ricusa le fasce, ma è colui che lega; viceversa, il vero psichiatra non è colui che lega, ma colui che non accetta di adoperare le fasce» (p. 54).

Riflettendo sul ricorso alla contenzione da parte di tanti operatori, Cipriano riprende le riflessioni di Hannah Arendt circa la banalità del male; in effetti, sostiene, questi operatori che ricorrono alle fasce non sono sadici torturatori, eppure lo fanno. Riprendendo e parafrasando brillantemente l’incipit di Anna Karenina di Lev Tolstoj – “Tutte le famiglie felici si assomigliano, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo” – Cipriano giunge alla conclusione che «ogni psichiatra che non lega si assomiglia; e non lega per un motivo molto semplice, perché ha compreso che non è giusto, non è terapeutico, anzi è antiterapeutico, è una tortura, è un crimine. E per questo è felice […] uno psichiatra che non lega è felice. Viceversa, ogni psichiatra che ritiene giusto, utile, terapeutico legare un altro uomo “è infelice a modo suo”» (p. 55). In tale varietà di “infelici” c’è chi lega per paura, chi perché è autoritario, chi perché semplicemente lo ha sempre fatto senza chiedersi nulla, chi perché di notte in reparto vuole dormire, chi perché non conosce bene i farmaci e via dicendo. Gli infelici legano per tanti diversi motivi. «Gli psichiatri felici, invece non legano. E non legano per un solo motivo» (p. 55).

La tortura è ovviamente qualcosa di diverso da un ricovero psichiatrico ma, afferma Cipriano, il rapporto che lega torturato e torturatore a volte non è poi così diverso dal rapporto tra il ricoverato in un SPDC e lo psichiatra che lo lega al letto. A tal proposito l’autore de La fabbrica della cura mentale riprende alcune considerazioni sulla tortura di Françoise Sironi (Persecutori e vittime) provando a confrontarle con la psichiatria coercitiva. Ecco allora che la domanda “Come si può curare chi è stato vittima di torture?”, pensando ad un paziente ricoverato in maniera coatta, magari legato e sedato, può diventare: “Come può la psichiatria curare una vittima della psichiatria?”. Oppure, se a proposito della tortura Sironi mette in luce il suo essere un’esperienza incomunicabile, avvolta dal silenzio sia da parte di chi la pratica che di chi la subisce, di cui si può, eventualmente, avere informazioni soltanto dalle testimonianze delle vittime, non molto diversa è la situazione dei ricoveri psichiatrici; chi è stato legato al letto ripetutamente per giorni e giorni, difficilmente può essere testimone dell’accaduto anche a causa della poca credibilità che gli viene concessa. In tal caso la coltre di silenzio può essere infranta solo da qualche operatore dissenziente. Altro esempio di analogie è dato dal fatto che nelle pratiche della tortura non di rado si ricorre al terrore generato dal costringere i torturati ad assistere alla tortura di altri prigionieri. Ebbene, continua Cipriano, nei reparti psichiatrici i pazienti si trovano ad assistere al bloccaggio ed alla contenzione di altri ricoverati e tutto questo non può che generare in essi il terrore che ciò possa accadere anche a loro se non si comportano secondo le regole del reparto. Oppure, ancora, nelle prigioni spesso si alternano carcerieri buoni a carcerieri cattivi esattamente come accade nei reparti psichiatrici. Nelle galere è prevista la medicazione non terapeutica a scopo punitivo, pratica diffusa anche nei reparti psichiatrici e così via…

Sul finire del libro, Cipriano, riprendendo il triste caso dell’anarchico Franco Mastrogiovanni – a cui l’autore ha fatto riferimento anche nel suo scritto “Lo specialista pericoloso” [su Carmilla] -, riflette amaramente sul ruolo che lo psichiatra si trova a ricoprire di questi tempi. «Siamo meri esecutori dei crimini in tempo di pace. Perché fuori facciamo i comunisti, i progressisti, ci iscriviamo ad Amnesty International, votiamo Sinistra, Ecologia e Libertà o Partito Democratico, compriamo “La Repubblica”, “il manifesto”, “L’Unità” o “Il fatto quotidiano”, siamo contro i leghisti che vogliono gli stranieri fora da le bal. Ma quando siamo in camice, dentro al nostro ospedale, dentro al nostro reparto psichiatrico, diventiamo carnefici come il potere ci vuole. E leghiamo la gente. E la chiudiamo dentro. E la sorvegliamo e la puniamo. Fora da le bal allo strano, al diverso, all’alienato. Nella nostra pratica professionale non siamo più comunisti, progressisti, democratici, tolleranti, ma perfetti fascisti» (p. 158).

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Il selvaggio Abrahams: tra Bolaño e Basaglia https://www.carmillaonline.com/2017/07/12/selvaggio-abrahams-bolano-basaglia/ Tue, 11 Jul 2017 22:05:39 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=39417 di Piero Cipriano

Giacomo Conserva, Pietro Barbetta e Enrico Valtellina (Introduzione e cura di), Un singolare gatto selvatico. Jean-Jacques Abrahams, l’uomo col magnetofono, Ombre Corte, Verona, 2017, pp. 152, € 14,00

Un singolare gatto selvatico, sottotitolo Jean-Jacques Abrahams, l’uomo col magnetofono, libro a cura di Giacomo Conserva, Pietro Barbetta e Enrico Valtellina, edito da Ombre Corte, è un libro che mi ha incuriosito molto, ma non certo perché ho a cuore le sorti della psicanalisi, di cui non mi importa granché, ma perché sapevo che entrambi i miei demoni, il demone della letteratura [...]]]> di Piero Cipriano

Giacomo Conserva, Pietro Barbetta e Enrico Valtellina (Introduzione e cura di), Un singolare gatto selvatico. Jean-Jacques Abrahams, l’uomo col magnetofono, Ombre Corte, Verona, 2017, pp. 152, € 14,00

Un singolare gatto selvatico, sottotitolo Jean-Jacques Abrahams, l’uomo col magnetofono, libro a cura di Giacomo Conserva, Pietro Barbetta e Enrico Valtellina, edito da Ombre Corte, è un libro che mi ha incuriosito molto, ma non certo perché ho a cuore le sorti della psicanalisi, di cui non mi importa granché, ma perché sapevo che entrambi i miei demoni, il demone della letteratura selvaggia Roberto Bolaño e il demone della psichiatria critica e antistituzionale Franco Basaglia, in qualche modo, si erano occupati di Abrahams.

Abrahams

Chi è Abrahams? Riassumo la sua storia assurda.

Nasce nel 1935 da una più che agiata famiglia ebrea, figlio di un importante avvocato. Durante la guerra fuggono negli USA, studia in inglese, studente brillante, maturità a sedici anni, vuol diventare pilota ma i genitori lo inducono a scegliere giurisprudenza. Si laurea ciononostante a soli ventun anni, il più giovane avvocato del Belgio, lavora con il padre, da cui non viene pagato. Eppure il suo primo caso giudiziario è un successo, potrebbe diventare più bravo del padre. Invece a trentun anni, 1966, l’anno prima di brandire il magnetofono contro il suo ex analista, interrompe l’attività di avvocato. E perché andava da un analista? Chi lo sa. Suo padre, a quattordici anni, lo obbliga. Non sappiamo perché, sappiamo che Abrahams vive questa imposizione come un “assalto alla sua giovinezza”. Per quindici anni, dai quattordici ai ventinove, dal 1949 al 1964, si reca due tre volte a settimana in analisi. Io avrei vissuto questa imposizione come una tortura, un TSO, o meglio, un Trattamento Psicanalitico Obbligatorio, dove il proponente è stato il padre e il convalidante l’analista.

Nel dicembre del 1967, a 32 anni, Abrahams diventa il paziente selvaggio, o il gatto selvaggio, per dirla con gli autori di questo libro, e irrompe col magnetofono nello studio del suo ridicolo analista.

Il dialogo psicanalitico, come lo chiama Abrahams, è eloquente, e fa bene Sartre a pubblicarlo.

Una settimana dopo, il ridicolo analista lo fa internare in manicomio. Con la collaborazione del padre (ancora lui) e del fratellastro di Abrahams (scherzo della sorte, anch’egli psicanalista) (per cui a questo punto sono tre i soggetti che internano Abrahams). Dopo una settimana Jean-Jacques fugge, ma verrà ricoverato altre tre volte.

Dopo inizia una nuova vita da poeta/drammaturgo/vendicatore/utopista selvaggio bolañiano. L’anno dopo il gesto del magnetofono e tre ricoveri, nel 68, scrive una lettera alla rivista di Sartre, Les Temps Modernes, racconta la sua rocambolesca fuga dal terzo piano del manicomio con frattura di una mano, gli propone di pubblicare la trascrizione della registrazione al magnetofono, a cui dà il titolo provocatorio Il dialogo psicanalitico. In seguito scriverà di teatro, dove trasferisce la sua utopia di democratizzare il rapporto tra analista e paziente: anche qui ambisce alla scomparsa di ogni differenza tra vita e teatro, tra attori e spettatori, che scompaiano i rapporti di potere. In uno spettacolo dal titolo Rappresentazione critica dell’Edipo re si rivolge al pubblico, per aiutarlo a scoprire la verità sul mito di Edipo, metterlo in guardia rispetto a questa storia, la più terrificante di sempre, e lo fa deridendo ancora una volta il discorso psicanalitico, promette di svelarne i segreti, di rivelare ciò che c’è da sapere su castrazione identificazioni catarsi sublimazione eccetera. Il messaggio è: non c’è stato nessun parricidio, non c’era bisogno di farne una tragedia. D’altra parte, la sua vita dimostrava che se c’era stato un tentativo di far fuori qualcuno, era di figlicidio che si doveva parlare, il figlicidio di suo padre nei suoi confronti, non il contrario.

Abrahams ha un problema con la paternità ma ama sua madre, al punto che quando muore la disseppellisce (per imbalsamarla) e per giorni guida per Bruxelles con la salma. Qui sembra un folle conclamato, o un perfetto personaggio bolañiano. E’ talmente convinto che i rapporti tradizionali nella famiglia debbano cambiare, che quando nasce suo figlio lo chiama Yahveh (padre di tutti gli esseri umani).

La sua attività artistica si conclude nei primi anni 80, in seguito a un avvelenamento da monossido di carbonio. Un suicidio mancato?

Bolaño

Sì ma che c’entra Bolaño? Bolaño cita Sophie Podolski, amica di Abrahams, che a sua volta ha vissuto e ha lavorato nel centro di ricerca di Montfaucon, sorta di comunità hippy, e la cita in Anversa, che non è un libro qualsiasi ma un libro assurdo, al limite dell’illeggibile, peraltro il primo libro narrativo scritto da Bolaño, lo scrive nel 1980, quando lui, ventisette anni, migra dal Messico alla Spagna, migrazione che segna pure il suo passaggio dalla poesia alla narrativa. Infatti Anversa è un ibrido, non si capisce molto, non capisci neppure perché il titolo sia Anversa, se non nel capitolo intitolato Anversa, dove Bolaño descrive un incidente, tra un camion carico di maiali e un’auto, in cui muoiono sia l’autista che alcuni suini. In questo libro più volte Bolaño nomina questa giovane poetessa di un solo libro, che somiglia maledettamente ai poeti messicani protagonisti de I detective selvaggi, libro che lui pubblicherà qualche anno dopo e che è, probabilmente, il suo capolavoro (insieme a 2666). Sophie Podolski kaput, scrive. Ma allora cosa c’entrano Podolski e Abrahams con Bolaño? C’entrano che entrambi avrebbero potuto entrare, a pieno titolo, tra i personaggi bolañiani, far parte di quegli assurdi poeti messicani che si autonominarono infrarealisti (ne I detective selvaggi li chiama visceralisti). L’infrarealismo era la terza via, tra la poesia del cileno Pablo Neruda, che consideravano una squallida poesia politica comunista marxista, e la poesia del messicano Octavio Paz, una asettica poesia nascosta in una torre d’avorio, loro inseguivamo Nicanor Parra. Loro scopo era mettere in discussione l’autorità del poeta padre, Paz e Neruda, la Poesia mainstream latinoamericana che visceralmente contestavano, e pure loro come Abrahams cercavano, forse, la madre: la poetessa Cesària Tinajero. E come questi poeti l’ex analizzando Abrahams, l’ex brillante avvocato diventato teatrante, prova a mettere in discussione l’autorità del padre, il suo psicanalista, e l’intera Psicanalisi ortodossa, quella pratica claustrofilica che ama restare chiusa nella sua chiesa, nel suo confessionale.

Dunque, Abrahams e Sophie Podolwski suscitano l’interesse di Bolaño perché somigliano molto ai suoi poeti selvaggi messicani, poeti che piuttosto che scrivere poesia vivono da poeti, la cui esistenza selvaggia è una continua e costante performance, e non scrivono quasi per niente poesia, e non pubblicano quasi niente. Abrahams è uno di loro. Scrive per stralci, dà i propri scritti a qualche editore, dice fatene ciò che volete.

Basaglia

Dunque gli autori di questo libro tirano dentro Bolaño, che c’entra poco e niente, diciamolo, e non si occupano affatto del punto di contatto tra Abrahams e Basaglia, almeno una citazione. Zero. Eppure Sartre lo suggerisce, nel testo con cui perora Il dialogo psicanalitico sulla sua rivista Les Temps Modernes, quando afferma che, soprattutto in Italia Abrahams troverebbe validi interlocutori, giacché è qui che “una nuova generazione di psichiatri” (e a chi può mai riferirsi, se non a Basaglia?) “cerca di stabilire con le persone che cura un legame di reciprocità… psichiatri che rispettano prima di tutto in ogni malato il soggetto, la libertà deviata di agire”.

Basaglia cita Abrahams ne Le conferenze brasiliane. Quando dice: dal punto di vista del sapere lo psichiatra è il medico più ignorante: non sa niente ma compensa questa carenza con il potere. Nel manicomio questo è evidente. Ci sono poi i vari psicanalisti, psicoterapeuti, psichiatri ecc. ognuno tenta di dare una risposta a quello che è la malattia mentale, ma se noi parlassimo con ciascuno separatamente ci sentiremmo dire che non sanno cos’è la follia, e ciascuno ammetterà anche che la relazione con il paziente è una relazione di potere. L’esempio dello psicoanalista è il più tipico. Su questo problema del dominio dello psicanalista sullo psicanalizzato Abrahams discute in L’uomo col magnetofono. Un giorno un paziente va dallo psicanalista con il registratore e dice: questa volta chi fa la psicoanalisi sono io, lei è il paziente e io lo psicanalista. Lo psicanalista resta sorpreso, cerca di dissuaderlo, ci convincerlo a riprendere il suo posto, siccome il paziente si rifiutava, lo psicanalista prese il telefono e chiamò la polizia.

L’utilizzo che Basaglia fa di Abrahams, per dimostrare che la psicanalisi, non meno della psichiatria (da cui non si distingue così tanto, in termini di potere) è una pratica oppressiva, lo trovo molto interessante. A me questo bizzarro uomo col magnetofono non interessa tanto per il contributo che vuol portare alla critica della psicanalisi, o al miglioramento della psicanalisi. E a questo proposito, trovo interessante ciò che scrive, in questo libro, Antonello Sciacchitano. L’analisi, ci ricorda Sciacchitano, tendenzialmente produce paranoia, e (come la performance di Abrahams dimostra) ciò accade non solo nell’analizzato, ma anche nell’analista. E’ proprio la lunga formazione psicanalitica che induce, nella personalità dell’analista, elementi di rigidità paranoica. Sono, le “sovrastrutture ideologiche, scafandri che le istituzioni psicanalitiche smerciano come formazione psicanalitica e che lo psicanalista adotta per addomesticare la realtà selvaggia della clinica” (i complessi edipici freudiani gli archetipi junghiani i significanti lacaniani e così via). Il punto dolente del freudismo, continua Sciacchitano, è che resta un’analisi che tende a rinforzare l’Io di fronte alle pulsioni dell’Es e ai dettami cervellotici del Super-Io: ma ciò spinge l’Io verso la paranoia. E’ frequente, infatti, che le analisi freudiane finiscano in paranoia: l’Io debole dell’analizzato, dopo l’analisi si sente così forte da analizzare l’analista: è Abrahams questo.

Dunque personalmente mi ritengo fortunato per non aver risposto alle sirene di questa disciplina, tanto superba quanto sopravvalutata, ho sempre contestato gli psicanalisti, claustrofilicamente chiusi nei loro studi d’avorio, staccati dalla vera sofferenza, dalla miseria, dalla merda, dalla feccia umana. Dai manicomi insomma, d’ogni sorta. Dalla sofferenza hard. Dalla miseria esistenziale di “chi non ha non è” (diceva Basaglia).

Sembrano anacronistiche ma le ritengo ancora valide certe affermazioni di Basaglia nel corso delle sue straordinarie conferenze in Brasile, a proposito del mondo della psicanalisi. Eccone alcune.

“Io non voglio offendere nessuno, ma qual è la differenza tra una prostituta che vende il suo corpo e il medico che si prostituisce nel suo ambulatorio, quando dovrebbe dare il massimo della sua attività alle istituzioni pubbliche?” “Gli psicanalisti”, aggiunge, “hanno sempre una gran lista di attesa, come gli aeroplani”. Perché? Perché gli psicanalisti rispondono ai problemi di quella parte della popolazione che ha i mezzi per difendersi, e non certo ai bisogni dei miserabili, perché “chi non ha non è”, chi non ha il danaro non se la può pagare la terapia psicanalitica. Perché la psicanalisi è “terapia di classe”, “cosa ha fatto la psicanalisi per il malato mentale del manicomio nel corso di questo secolo?”

Affermazioni forti, apparentemente datate, ma non tanto. E’ a margine di queste affermazioni e di questa critica della psicanalisi che, nelle conferenze in Brasile, Basaglia cita Abrahams. E lo cita come esempio del potere e della repressione non solo psichiatrica ma perfino psicanalitica.

Ma perché questo dialogo affascina Basaglia, così come affascina Sartre? Perché capovolge i rapporti tra analista e analizzando, capovolge il rapporto di potere tra i due, e la violenza, che c’è, perché c’è, passa dall’altra parte. Lo psicanalista ridicolo, incapace di gestire l’irruzione nel suo studio del paziente col magnetofono, grida “Violenza fisica! Violenza fisica! Non sono abituato alla violenza fisica!”, così grida. A quella psicologica invece evidentemente ci è abituato, quella per cui obbligare per anni a stare steso sopra un lettino girato di spalle senza poter guardare l’espressione del volto del cosiddetto analista, depositario del segreto, della verità, del tempo della guarigione. Alla violenza dell’interminabile asimmetrica relazione psicanalitica a quella ci è abituato.

Dice Abrahams, nella sua registrazione: “Non si può guarire là sopra – al divano intende – e lei stesso non è guarito perché ha passato anni là sopra. Lei non osa guardare la gente in faccia. Lei mi ha obbligato a voltar le spalle e non è così che si può guarire la gente. Vivere con gli altri significa saperli guardare in faccia”.

Continua: “Sono venuto da lei per molti anni due o tre volte a settimana e cosa ne ho ricavato? Lei ora sta raccogliendo quello che ha seminato con la sua ingannevole teoria”.

Ancora: “Lei è un privilegiato, è venuto dopo di Freud, le hanno pagato gli studi, ed è riuscito a mettere una targa sulla porta! E adesso rompe le palle a un sacco di persone con il diritto di farlo. Lei è un fallito e non farà altro nella vita che rifilare i suoi problemi alle persone…”.

Ecco: uno psicanalista che a queste affermazioni riesce a balbettare solo: “Violenza fisica! Violenza fisica!” conferma di essere davvero un fallito.

Ma a cosa somiglia questa violenza, istituzionale, dello psicanalista e della psicanalisi che Abrahams contesta? Ce lo racconta Basaglia. Somiglia, in scala ridotta, in versione soft, edulcorata, alla violenza che riceve l’internato in manicomio (o, ancora oggi, del ricoverato in molti SPDC o in altri luoghi della psichiatria).

Scrive Basaglia, ne L’istituzione negata, che nel manicomio entra un corpo malato, già messo a dura prova dalla follia, già indebolito. Ma quando inizia questa sua carriera di malato mentale, e varca la soglia dell’istituzione, del manicomio, e penetra in quel luogo dove “prima di uscire sono state controllate serrature e malati”, là dove il corpo malato dell’internato è un suppellettile che ha lo stesso valore di una serratura, il corpo del malato diventa oggetto e (per dirla con le parole di Husserl) smette di essere leib, corpo vissuto, corpo soggetto, corpo che sono, e diventa körper, corpo non più vissuto, corpo oggetto, corpo che ho. E quale possibilità ha l’internato del manicomio, per riprendersi quel poco di soggettività, riprendersi il suo corpo vissuto, il corpo proprio, se non agire, agitarsi, reagendo, con la sua violenza (una violenza apparentemente immotivata, ingiustificata, inopinata, come sempre viene considerata la violenza del folle), alla violenza dell’istituzione manicomiale che ha oggettivato il suo corpo?

Eccoli, allora, questi corpi obbligati dei malati, vengono depositati con violenza ancora oggi dentro la maggior parte dei SPDC, che per riprendersi un po’ di quella soggettività che gli viene estorta dall’istituzione, e tornare a essere leib e non körper, s’incazzano, si insubordinano, diventano agitati, aggressivi, e quasi sempre la risposta dell’istituzione, del SPDC bunker, del servizio forte, blindato, è un rilancio, un’escalation della violenza iniziale, per cui ecco l’uso del farmaco a scopo non terapeutico (sedare) e ecco l’uso delle fasce.

Ma lo scriveva chiaro Franca Ongaro: la medicina è la scienza del corpo morto, scienza che ha cercato di comprendere, nelle aule di anatomia patologica, l’uomo vivo, il malato, attraverso il corpo morto del cadavere. E pure l’ospedale, il luogo di cura per definizione, riproduce il corpo morto dissezionato del cadavere, coi suoi reparti per lo scheletro, per l’apparato digerente, respiratorio, cardiovascolare, eccetera. E in ospedale l’uomo vivo è gradito sempre allettato, clinofilo, perché la clinica è corpo morto, e pure nel reparto psichiatrico, deputato alla cura della psiche malata, il corpo è quasi sempre orizzontale, cadaverico, grazie al ruolo clinofilo di farmaci e fasce.

Allora non solo la psichiatria paga il debito con la medicina e l’anatomia patologica ponendo in posizione cadaverica il paziente (allettandolo con farmaci e fasce quando si agita, quando vuol essere per forza soggetto), ma anche la psicanalisi (con più classe, con più garbo, certo) fa la stessa cosa, data la sua derivazione medica (ce lo ricorda sempre Sciacchitano in questo libro, che la psicanalisi deriva dall’ipnosi, ipnosi che Freud non fu mai abile a fare, e perciò dovette inventarsi un altro modo), altro non ha fatto, la psicanalisi, se non tenere a corpo morto un soggetto, per anni, rendendolo, a volte (sostiene provocatoriamente ma non tanto il maggior etnopsicologo vivente: Tobie Nathan) uno zombie, un morto vivente, qualcuno ormai posseduto dalla teoria del suo analista.

Per cui la violenza di Abrahams per forza mi ricorda, in forma soft, la violenza dell’internato, anzi, ne è preludio, visto che è da quel momento in poi che il selvaggio Abrahams farà un salto di livello, di carriera, passando dalla carriera di portatore di piccola psichiatria alla carriera di malato grave di manicomio, di ricoverato in manicomio, di rocambolesco evasore dal manicomio.

E la piccola violenza di Abrahams, pure questa è un modo per riprendersi il proprio corpo, e riportarlo dalla posizione clinica, psicanalitica, cadaverica e paranoicizzante che non vede mai gli occhi e i pensieri dell’analista, a quella eretta, vitale, di uomo che guarda negli occhi, di uomo in rivolta, potremmo quasi dire (per dirla con Camus).

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Manicomi. Immagini di violenza istituzionalizzata https://www.carmillaonline.com/2017/04/09/manicomi-immagini-violenza-istituzionalizzata/ Sat, 08 Apr 2017 22:01:43 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=33401 di Gioacchino Toni

berengo_manicomi_coverGianni Berengo Gardin, Manicomi. Psichiatria e antipsichiatria nelle immagini degli anni settanta, Contrasto, Roma, 2015, pp. 168, € 32,00

«quello che noi mostriamo non è il volto dell’internato o della sua follia, ma ciò che resta di un uomo dopo che l’istituzione, deputata alla sua cura, lo ha sistematicamente distrutto e annientato. Questi volti esprimono soltanto la violenza istituzionalizzata di cui sono stati oggetto e ciò che diventa l’uomo, che sia diventato cosa agli occhi dell’uomo» (dall’Introduzione ad una mostra fotografica tenuta a Venezia negli anni ’70).

Il volume pubblicato dall’editore Contrasto raccoglie lo storico reportage realizzato da [...]]]> di Gioacchino Toni

berengo_manicomi_coverGianni Berengo Gardin, Manicomi. Psichiatria e antipsichiatria nelle immagini degli anni settanta, Contrasto, Roma, 2015, pp. 168, € 32,00

«quello che noi mostriamo non è il volto dell’internato o della sua follia, ma ciò che resta di un uomo dopo che l’istituzione, deputata alla sua cura, lo ha sistematicamente distrutto e annientato. Questi volti esprimono soltanto la violenza istituzionalizzata di cui sono stati oggetto e ciò che diventa l’uomo, che sia diventato cosa agli occhi dell’uomo» (dall’Introduzione ad una mostra fotografica tenuta a Venezia negli anni ’70).

Il volume pubblicato dall’editore Contrasto raccoglie lo storico reportage realizzato da Gianni Berengo Gardin tra il 1968 ed il 1969 all’interno di alcuni istituti psichiatrici italiani. Recentemente Carmilla si è occupata della gestione/costruzione della salute mentale grazie a Piero Cipriano che ha affrontato il manicomio fisico, la psichiatria chimica e la macchina diagnostica in grado di conferire identità e destino all’individuo.

Questo libro ci riporta al sistema concentrazionario manicomiale precedente la svolta basagliana. Si pensi che fino alla legge 180 del 1978 il criterio che determinava l’internamento in manicomio era sostanzialmente ancora quello dettato dalla legge 36 del 1904 che prevedeva il ricovero coatto del paziente in quanto “pericoloso per sé e per gli altri o di pubblico scandalo”. Non è difficile immaginare quanto arbitrio potesse contenere anche solo l’idea di “pubblico scandalo”.

Le lotte contro i manicomi portate avanti nell’Italia degli anni ’60 e ’70 da personalità come quella di Franco Basaglia non possono essere scorporate da quell’insorgenza diffusa che per un ventennio ha portato tanti e tante a smettere di chinare la testa di fronte al potere politico, economico e culturale osando pensare e praticare forme di libertà. È in tale contesto che (anche) le recinzioni dei manicomi sono state aperte.

Firenze © Gianni Berengo Gardin/Contrasto

Firenze © Gianni Berengo Gardin/Contrasto

È importante ricordare quel che è stato e lo è soprattutto in un’epoca come questa in cui il disagio mentale viene dato in pasto all’opinione pubblica dai media soltanto quando si ritiene possibile imputare ad esso episodi di violenza, in un momento storico in cui non mancano dichiarazioni, più o meno esplicite, di nostalgia per quelle istituzioni totali capaci di “togliere il problema dalla strada”.

Ricordare cosa sono stati i manicomi può essere utile affinché chi pensa di cavarsela invocando soluzioni precedenti la legge 180 si prenda le sue responsabilità. A tale scopo la documentazione fotografica non può che svolgere un ruolo importante ed il reportage di Gianni Berengo Gardin riprodotto dal libro risulta prezioso. Questa documentazione, realizzata insieme a Carla Cerati sul finire degli anni ’60, e confluita nel volume Morire di classe. La condizione manicomiale (Einaudi, 1969) insieme a testi scritti da Basaglia, si è rivelata fondamentale al fine di far conoscere all’Italia di fine anni ’60 – inizio anni ’70 la condizione dei reclusi in manicomio.

Firenze © Gianni Berengo Gardin/Contrasto

Firenze © Gianni Berengo Gardin/Contrasto

Nel volume, oltre al reportage fotografico di Gianni Berengo Gardin realizzato tra il 1968 ed il 1969 all’interno di alcuni istituti psichiatrici italiani, sono presenti uno scritto di Franco Basaglia, tratto dal libro da lui curato Che cos’è la psichiatria? (1967), un intervento di Peppe Dell’Acqua e Silvia D’Autilia ed una ricostruzione cronologica delle principali tappe che dalla nascita delle istituzioni manicomiali nell’Europa di fine ’700 portano, in Italia, alla legge 180 del 1978.


Immagini pubblicate con il consenso dell’editore

Il volume fotografico – 21×18,8 cm – contiene 100 foto in bianco e nero non corrette, modificate o inventate al computer

 

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