Francia – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 16 Dec 2025 21:05:43 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 La rivoluzione come una bella avventura / 8 – Os Cangaceiros: storia di vite in fuga, sabotaggi, carte false e rock’n’roll https://www.carmillaonline.com/2025/12/14/la-rivoluzione-come-una-bella-avventura-8-os-cangaceiros-storia-di-vite-in-fuga-sabotaggi-carte-false-e-rocknroll/ Sun, 14 Dec 2025 21:00:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91792 di Sandro Moiso

Alèssi Dell’Umbria, Fuori la grana o vi ammazziamo!, Edizioni TABOR, Valsusa 2025, pp. 184, 10 euro

Posso assicurare che nessuna delle persone che hanno vissuto questa avventura, dal 1984 al 1992, ha mai rinnegato se stessa – mentre abbiamo visto tanti di quei militanti che volevano illuminare le masse arrivare a occupare posti di responsabilità nell’amministrazione del disastro in corso. Tutti, ciascuno a modo suo, siamo rimasti afferrati dalla rivolta e dall’inquietudine che un tempo dimoravano in noi. (Alèssi Dell’Umbria)

Occorre iniziare dalle ultime righe e dall’ultima pagina di Fuori la grana o vi ammazziamo!, titolo letteralmente [...]]]> di Sandro Moiso

Alèssi Dell’Umbria, Fuori la grana o vi ammazziamo!, Edizioni TABOR, Valsusa 2025, pp. 184, 10 euro

Posso assicurare che nessuna delle persone che hanno vissuto questa avventura, dal 1984 al 1992, ha mai rinnegato se stessa – mentre abbiamo visto tanti di quei militanti che volevano illuminare le masse arrivare a occupare posti di responsabilità nell’amministrazione del disastro in corso. Tutti, ciascuno a modo suo, siamo rimasti afferrati dalla rivolta e dall’inquietudine che un tempo dimoravano in noi. (Alèssi Dell’Umbria)

Occorre iniziare dalle ultime righe e dall’ultima pagina di Fuori la grana o vi ammazziamo!, titolo letteralmente rubato ad una scritta comparsa su un muro di Marsiglia agli inizi degli anni ’80, per comprendere appieno il significato di un testo straordinario, provocatorio, irridente e unico come l’esperienza di cui traccia il percorso e la storia, sia collettiva che individuale. Un’autentica, e spesso esilarante, storia di vite fuggiasche per scelta e di rivolte sociali spontanee e imprevedibili.

Storie in cui la tradizione millenarista si sposa con uno sguardo disincantato, maturo e attualissimo sulle contraddizioni del capitalismo degli ultimi decenni del XX secolo e del contemporaneo disfacimento della classe operaia europea, delle sue ultime lotte e delle sue sconfitte. Lotte e sconfitte, come nel caso di quelle dei minatori inglesi in epoca tatcheriana, che mescolavano tra loro forti tradizioni identitarie frammiste ad una fiducia nel ruolo dei sindacati che avrebbe contribuito a bruciarle. Sia sul fronte del lavoro che su quello politico.

Una storia, quella del collettivo francese Os Cangaceiros, di cui l’autore è stato a lungo uno degli esponenti, in cui la scelta della fuga è dettata, ancor prima che dalle finali indagini poliziesche, da una voglia di vivere tesa a superare tutti gli ostacoli che gli attuali rapporti di produzione sociali ed economici frappongono alla realizzazione di un’esistenza libera, totale e felice.

In questa scelta si è manifestata apertamente una passione politica non dettata dall’ideologia e dai racket politici e sindacali che se ne sono fatti portavoce, ma da una necessità autenticamente biologica e collettiva che il termine fin troppo abusato di biopolitica non è sufficiente per riassumerne tutte le sue implicazioni sociali, culturali, economiche e, soprattutto, di vita, lotta e rivolta.

Una necessità di allontanamento dalle leggi del Capitale e dei suoi servi, anche quando apparentemente schierati su “posizioni di classe”, che si manifesta non in comportamenti codificati una volta per tutte, come le regole dell’”impegno politico” vorrebbero imporre attraverso il “racket partito” o le sue emanazioni aspiranti marxiste, ma in esplosioni improvvise, individuali e collettive, con un’energia che per decenni ha trovato la sua pubblica e più facilmente identificabile manifestazione nel rock’n’roll e nella musica che affonda le sue radici nel delta del Mississippi: il blues.

«Abbiamo sempre vissuto più o meno in fuga», afferma Alessi mentre racconta le disavventure e le indagini poliziesche che sul finire degli anni Ottanta pesarono sui membri attivi del gruppo. Ma rifiutando le logiche utilitaristiche, spesso messe in atto dai latitanti delle organizzazioni armate, che finivano, pur «mantenendo tutte le dovute proporzioni, nella logica puramente militare di una truppa che vive a spese del paese e dei suoi abitanti», Os Cangaceiros scelsero una particolare forma di fuga che:

invece, deve essere pensata in una prospettiva rivoluzionaria, non in una prospettiva utilitarista che rischia di farci diventare sordi nei confronti del mondo. Il che presuppone anche che la fuga non sia vissuta come un dato contingente (una volta nel mirino degli sbirri, bisogna scappare in fretta e furia e trovare un rifugio costi quel che costi), ma come l’elemento stesso in cui ci si muove, come un rapporto al mondo che si costruisce con pazienza e ostinazione. Allora la fuga non viene vissuta come una conseguenza fastidiosa, ma come l’essenza stessa del proprio agire. Hegel ha detto che essere liberi significa muoversi nel proprio elemento. La fuga era il nostro elemento1.

Una fuga che, anche se rivisitata nelle pagine finali del testo di Dell’Umbria, non faceva altro che sottolineare come per il capitale e i suoi servi, di ogni colore politico, sia proprio la libertà collettiva di coloro che dovrebbero invece solo e sempre adeguarsi alle loro leggi a costituire il crimine fondamentale, cosa che fa sì che siano la repressione e la carcerazione gli unici strumenti con cui lo Stato risponde a tale innata necessità della specie2. Strumenti che Os Cangaceiros, nel periodo intercorso tra la formazione del gruppo nel 1984 e la scelta di sciogliersi nei primi anni Novanta, sempre denunciarono e contribuirono a sabotare con mezzi alla portata di tutti.

Una scelta che, nonostante il tentativo dello Stato francese e dei suoi governi di accomunarli alle formazioni armate, fece in modo che i suoi appartenenti, spesso nomadi per scelta o per necessità, rifiutassero sempre non tanto la logica delle armi quanto piuttosto le logiche politiche imposte dall’uso delle armi alle formazioni clandestine militarizzate.

Puntare un’arma può effettivamente semplificare una situazione, ma al prezzo di altre complicazioni molto spesso più pesanti da assumere… In ogni caso, negli anni Settanta abbiamo visto troppe sbandate finite nel sangue per non sapere che dal momento in cui si prendono le armi, l’improvvisazione e il dilettantismo si pagano sempre cari. I combattenti dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN), che uscivano allo scoperto all’inizio del 1994, si erano invece preparati metodicamente per anni prima di fare irruzione armati nelle città del Chiapas. Ma di queste armi, hanno sempre cercato di farne un uso strategico, ovvero meditato.
Non avevamo una posizione di principio riguardo il ricorso alle armi. Ciò che rifiutavamo in modo assoluto, era l’avanguardismo militante delle organizzazioni impegnate nella lotta armata. Se gente così diversa, – come per esempio Jacques Mesrine, i tre di Nantes, e più tardi l’EZLN, – ha fatto ricorso alle armi, tutti agivano a proprio nome e non a nome degli altri. Visto che alcune azioni contro la costruzione dei 13.000 avrebbero potuto richiedere l’uso delle armi, a causa soprattutto della presenza di vigilanti, avevamo affrontato la questione in occasione di una riunione nel 1989. Ma è bastata una mezz’ora di discussione affinché prevalesse l’unanimità: una decisione favorevole ci avrebbe trascinati rapidamente in una spirale impossibile da controllare, soprattutto in un contesto in cui gli sbirri non aspettavano altro. Nella nostra posizione, avevamo altre possibilità per agire. Appropriarsi di competenze e abilità in diversi campi ci sembrava molto più cruciale. Perché le questioni cosiddette “tecniche” ponevano anche questioni sociali e politiche3.

Il riferimento all’Esercito Zapatista di Liberazione non è affatto casuale, poiché proprio quell’esperienza agli occhi dei Cangaceiros francesi mostrava come l’azione politica, e militare, non fosse possibile lontana dalle radici su cui si appoggiava e, allo stesso tempo, dimostrava come le rivolte un tempo ritenute millenaristiche, arretrate e comunitarie, alle quali alcuni membri del gruppo avevano già dedicato nel 1987 una vastissima ricerca4, siano sempre state sottovalutate e sottostimate nella loro reale portata dagli “oggettivisti” della tradizione marxista e leninista.

Era il controfuoco che avevamo voluto accendere prima della celebrazione del bicentenario della Rivoluzione francese. Così, risalendo il tempo delle rivolte e delle insurrezioni schiacciate, ma non squalificate, andavamo controcorrente rispetto all’evoluzionismo storico. Alcuni di noi avevano letto anche il libro di Friedrich Engels, La guerra dei contadini in Germania. Il problema era che quella stessa visione progressiva della storia che aveva impedito a Engels e a Marx di cogliere il cuore razionale della rivolta luddista, aveva impedito loro di cogliere anche quello del millenarismo, che restava ai loro occhi una forma di rivolta arcaica. Era d’altronde la vulgata che riprendeva Eric Hobsbawm ne I ribelli. Forme primitive di rivolta sociale. In pratica, tutte queste rivolte che nel sud della Spagna, così come in Italia, assumevano carattere di imminenza radicale, venivano considerate come delle forme immature, fatalmente condannate dall’evoluzione generale della società verso la modernità. Tale visione, che si ritrova anche nel suo libro I banditi. Il banditismo sociale nell’età moderna, aveva la capacità di farci innervosire ancora di più visto che millenarismo e messianismo vi si ritrovavano oltraggiati in nome del partito staliniano, che agli occhi di Hobsbawm era la realizzazione della Ragione e dei Lumi. Solo il libro di Ernst Bloch, Thomas Münzer, teologo della rivoluzione, scoperto mentre redigevamo L’incendio millenarista, metteva in primo piano lo spirito rivoluzionario millenarista della guerra dei contadini in Germania.
Si trattava, in fondo, di rendere giustizia a tutta una serie di movimenti e di sedizioni che avevano attraversato l’Europa per un periodo di cinque secoli… Attraverso il gesto di tornare a prima della Rivoluzione francese, intendevamo proiettarci oltre quest’ultima, oltre quell’orizzonte insuperabile di cui gli stalinisti così rispettosi delle istituzioni repubblicane e i socialdemocratici convertiti al liberalismo si apprestavano a cantare le lodi. Ma le rivolte millenariste esprimevano esigenze anti-borghesi totali, immediate e senza compromessi, laddove invece la Rivoluzione francese consacrava il regno della borghesia5.

Non solo, poiché di quelle rivolte spesso la ricerca storica, anche di parte, ha sottolineato solo le contraddizioni e le aspirazioni apparentemente utopiche e/o religiose, senza peraltro considerare che proprio la soltanto apparente utopia della libertà e dell’autogestione comunitaria delle terra, del lavoro e dei suoi frutti costituiva la più radicale e intransigente rivendicazione materiale del bisogno di comunismo.
Non nella teoria di qualche gruppo o racket politico che si pretende in grado di dirigere le “masse”, ma nell’azione diretta e collettiva delle comunità in rivolta che finivano con l’andare ben oltre i temi sventolati inizialmente dai loro capi e promotori. Così come afferma Marco Natalizi in un suo studio sulla rivolta di Pugačëv nella Russia governata dall’imperatrice Caterina II nel XVIII secolo:

Di per sé, rilevare che le decisioni prese dalle guide di un movimento sono spesso foriere di conseguenze inattese non è certo una scoperta; ma il punto da evidenziare qui è che i ribelli incaricati di redigere i primi proclami […] non erano affatto consapevoli di introdurre novità sostanziali sul piano “politico” e che furono piuttosto l’impossibilità di gestire la rivolta come una scorreria e la necessità dell’assedio e della guerra di posizione a far sì che la loro azione si trasformasse in un esperimento di ingegneria sociale in cui le diverse istanze politiche e culturali confluirono, in un dialogo tra culture, sino a dar vita alla “visione” dei ribelli. E ciò per dire di una “folla” di uomini – costretta a fermarsi, a darsi un’organizzazione, a motivare i nuovi venuti – le cui credenze, sotto la spinta delle circostanze, vennero a poco a poco trasformandosi, nei diversi proclami e manifesti, in un’autonoma e peculiare concezione – secondo il punto di vista popolare – esercizio del potere: la storia di uomini che per sopravvivere e combattere dovettero pensare un’organizzazione […] e nel farlo, ripensarsi6.

Ma ancora non basta, poiché per Os Cangaceiros riscoprire il millenarismo oppure la novità costituita dalle rivolte e rivoluzioni indigene, come quella delle popolazioni del Chiapas, significava anche ricollegare il presente e l’attualità ad una storia spesso rimossa che diventava anche rimozione del tempo con cui occorreva ricollegarsi proprio per vivere pienamente e non essere poi costretti a scrivere come Roman Jakobson nel 1930:

Noi ci siamo gettati con troppa foga e avidità verso il futuro perché ci potesse restare un passato. S’è spezzato il legame dei tempi. Abbiamo vissuto troppo del futuro, pensato troppo ad esso, in esso troppo creduto, e per noi non c’è un’attualità autosufficiente: abbiamo perso il senso del presente [motivo per cui] secondo una splendida iperbole del primo Majakovskij, l’altra gamba corre ancora nella via accanto7.

Questa visione è quella che ha fatto sempre in modo che i Cangaceiros, ribaldi ancor prima che rebeldes, di cui ci parla Alessi Dell’Umbria in questo testo a metà strada tra saggio e autobiografia collettiva, prendessero parte a molte delle rivolte e delle manifestazioni, spesso violente, che agitarono le due sponde della Manica negli anni Ottanta, senza però mai aver la pretesa di dare loro ulteriori contenuti o di spingerle oltre i limiti che gli stessi partecipanti si davano di volta in volta. E senza mai dimenticare che la vita deve essere vissuta in ogni suo momento, molto al di là o al di qua delle parole d’ordine politiche.

Non volevano esse avanguardie i compagni e le compagne dell’autore, ma nel vivere una vita libera dalla schiavitù salariale ebbero modo di riflettere sui danni che quelle stesse rischiavano di mettere in moto ogni qualvolta cercavano di mettersi alla testa delle proteste oppure sull’opera di imbonimento che i vari partiti e sindacati di Sinistra svolsero nei confronti delle richieste e delle intenzioni reali che stavano alla base di quei movimenti, spesso inizialmente spontanei.

Tutte azioni e scelte, quelle dei racket estremisti, sindacali o socialdemocratici, che non potevano far altro che portare a cocenti sconfitte e delusioni che, insieme al lento e inesorabile trionfo dello spettacolo della merce e delle illusioni proprietarie, avrebbero finito col far transitare il soggetto un tempo proletario, operaio e ribelle europeo nelle file della destra razzista e nazionalista.

Creando così, allo stesso tempo, un immaginario scontro istituzionalizzato tra Destra e Sinistra con cui lo sviluppo di movimenti come Podemos oppure France Insoumise non hanno fatto altro che sottolineare la debolezza e la mancanza, oggi, di un reale e condiviso movimento antagonista radicale oppure la sostanziale sottomissione alle esigenze della Nazione e della sua Economia dei gruppi che vorrebbero esserne i rappresentanti formali.

Sono 183 le pagine che compongono questo agile e denso manuale di sovversione e liberazione della vita sociale. Pagine in cui i suggerimenti sul come truffare, un tempo, le banche per vivere senza bisogno di lavorare in maniera coatta si mescolano a quelle per i sabotaggi a ferrovie e cantieri per aiutare i reclusi in lotta oppure a riflessioni fulminanti e importanti sulla composizione di classe, le culture di strada e sul rifiuto delle cariche istituzionali e universitarie così come di un’istruzione classista e di quasi tutta la ricerca prodotta nelle sedi del potere ad essa riconducibili.

Così le impressioni successive agli scontri dei minatori inglesi sotto la Tatcher si mescolano a quelle relative alle rivolte dei giovani immigrati e punk di Brixton, oppure agli scontri degli hooligans con la polizia in ogni angolo d’Europa o dei giovani che si oppongono alla chiusura oraria di un pub o all’apertura di un nuovo e devastante cantiere per una grande e velenosa opera desinata a distruggere vita umana e ambiente. Magari scientificamente motivata dal “progresso”.

Ma ci sono molte altre considerazioni che qui non possono essere tutte affrontate insieme, mentre il Jim Morrison di «We wanti the world and we want it now!» rimane lì come un faro ad illuminare la via tra gioie, sconfitte, amarezza e speranza che nessun progetto carcerario o politico istituzionale potrà mai contribuire a cancellare del tutto perché, come si afferma ancora nel testo, la memoria, per esser davvero tale, è sempre rivolta al futuro.

Note a margine
Per approfondire i temi affrontati in questo libro, si consiglia la visione della video-intervista ad Alèssi Dell’Umbria, realizzata nel marzo 2025 al bar de la Plaine a Marsiglia, dal titolo: L’histoire d’Os Cangaceiros. Banditisme, sabotages et théorie révolutionnaire, disponibile online sul sito lundi.am.

Dello stesso autore oltre al già citato Incendio Millenarista è stato pubblicato in Italia anche Il rogo della vanità, autoproduzioni fenix, Marsiglia Torino Parigi, primavera 2009 (Edizione originale francese: C’est de la racaille? Eh bien j‘en suis!, edizioni L’echappée, Marsiglia, maggio 2006).


  1. A. Dell’Umbria, Fuori la grana o vi ammazziamo!, Edizioni TABOR, Valsusa 2025, pp. 120-121.  

  2. Si veda in proposito l’opuscolo: Un crimine chiamato libertà, edito in Italia nel 2003 dalle edizioni l’arrembaggio e NN, in cui sono raccolti alcuni testi pubblicati sul secondo numero della rivista «Os Cangaceiros» nel novembre 1985, dedicato alle rivolte dei detenuti francesi del maggio 1985, insieme ad altri sempre prodotti dall’omonimo collettivo francese  

  3. A. Dell’Umbria, op. cit., pp. 169-170.  

  4. Yves Delhoysie – George Lapierre, L’incendio millenarista. Tra apocalisse e rivoluzione, Malamente – Tabor, Urbino – Valsusa, 2024.  

  5. A. Dell’Umbria, op. cit., pp. 97–98. 

  6. M. Natalizi, La rivolta degli orfani. La vicenda del ribelle Pugačëv, Donzelli Editore, Roma 2011, p. 97.  

  7. R. Jakobson, Una generazione che ha dissipato i suoi poeti. Il problema Majakovskij, Giulio Einaudi editore, Torino 1975, p. 42.  

]]>
Elogio dell’eccesso / 10 – Straniero in terra straniera: Curzio Malaparte https://www.carmillaonline.com/2025/12/03/elogio-delleccesso-10-straniero-in-terra-straniera-curzio-malaparte/ Wed, 03 Dec 2025 21:00:56 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91605 di Sandro Moiso

Curzio Malaparte, Giornale di uno straniero a Parigi, a cura di Michelangelo Fagotti e Monica Zanardo, Adelphi Edizioni, Milano 2025, pp. 425, 25 euro

Se è esistito in Italia un letterato scomodo ed eccessivo nelle sue manifestazioni va sicuramente individuato in Curzio Malaparte (1898-1957). Il suo essere stato, nel corso di una vita durata appena 59 anni, poeta, saggista, romanziere, giornalista, militare, diplomatico, agente segreto e regista cinematografico lo avvicina per certi versi ad un altro intellettuale scomodo dell’Italia del’900: Pier Paolo Pasolini. Anche se il paragone tra i due deve fermarsi quasi immediatamente, poiché la sfera [...]]]> di Sandro Moiso

Curzio Malaparte, Giornale di uno straniero a Parigi, a cura di Michelangelo Fagotti e Monica Zanardo, Adelphi Edizioni, Milano 2025, pp. 425, 25 euro

Se è esistito in Italia un letterato scomodo ed eccessivo nelle sue manifestazioni va sicuramente individuato in Curzio Malaparte (1898-1957). Il suo essere stato, nel corso di una vita durata appena 59 anni, poeta, saggista, romanziere, giornalista, militare, diplomatico, agente segreto e regista cinematografico lo avvicina per certi versi ad un altro intellettuale scomodo dell’Italia del’900: Pier Paolo Pasolini. Anche se il paragone tra i due deve fermarsi quasi immediatamente, poiché la sfera di riferimento culturale e letterario del primo, più che a quella dello scrittore friulano, era vicina alle esperienze di altri due autori e uomini di cultura europei quali Ernst Jünger (1895-1998) e André Malraux (1901-1976). Intellettuali colti e raffinati che, però, avevano tutti nascosto, sotto un tappeto di intuizioni spesso geniali e una patina di anticonformismo elitario, una contraddittorietà in materia politico-culturale talvolta disorientante e talaltra indisponente non solo per i semplici lettori, ma anche per i loro estimatori.

Interventista dalle radici anarco-nietzschiane nella Prima guerra mondiale e fascista della prima ora l’italiano che, però, alla fine della sua vita, dopo un soggiorno nella Cina di Mao, lasciò in eredità alla Repubblica Popolare la sua villa di Capri; giovanissimo volontario nella Legione straniera, autentico esteta e aedo della guerra che osservò e descrisse con lo sguardo di un entomologo, il tedesco, spesso avvicinato (forse a torto) al nazismo; avventuriero e ladro di tesori nelle colonie francesi dell’Estremo Oriente, poi militante anti-colonialista e comunista in Cina, combattente repubblicano in Spagna e, per finire, ammiratore e seguace di De Gaulle, fino a diventare Ministro della Cultura nel suo governo, il francese. Vite al limite si potrebbe dire, condotte da abili funamboli tutti attenti a non perdere mai la presa su una corda tesa nel vuoto, al di sopra delle catastrofi politiche e militari del XX secolo.

Nessuno dei tre poteva vantare le nobili origini che forse tutti avrebbero voluto poter rivendicare. Il più fortunato, dal punto di vista famigliare, fu forse Jünger, figlio di un imprenditore e chimico tedesco, mentre Malraux non avrebbe mai parlato con nessuno o avrebbe diffuso notizie inesatte su un’ infanzia passata in provincia con la madre e la nonna. Cosa cui avrebbe cercato di provvedere sposandosi nel 1921 con una ricca ereditiera di una famiglia ebraica di origini tedesche, la cui fortuna fu però rapidamente dilapidata da errati investimenti in borsa.

Erich Suckert, vero nome di Curzio Malaparte che aveva rinnegato in età adulta il cognome paterno, nacque invece a Prato da Edda Perelli e dal tintore sassone Erwin Suckert. Come terzogenito di sette fratelli, poco dopo la nascita fu affidato a balia alla famiglia dell’operaio tessile Milziade Baldi e di sua moglie, che lui avrebbe poi considerato come i suoi autentici genitori, mentre i pessimi rapporti con il padre tedesco avrebbero influenzato per tutta la sua vita una particolare antipatia verso la nazione e la cultura germaniche. Spingendolo così tra le braccia di quella francese. Un amore poi deluso, come dimostra il diario appena pubblicato da Adelphi, ma che lo spinse fin dalla dichiarazione di guerra del 1914 ad arruolarsi ancora sedicenne nelle fila, anch’egli, della Legione straniera.

Se queste sono, per così dire le origini del viaggio di Malaparte attraverso la Storia del ‘900. il Giornale di uno straniero a Parigi trasmette al lettore le impressioni dell’autore successive alla fine del secondo conflitto mondiale, al ritorno da un soggiorno in Francia tra l’estate del 1947 e la fine del 1949. Ma come lo stesso Malaparte ci avverte nel suo Abbozzo di una prefazione:

Ogni “giornale” è ritratto, cronaca, racconto, ricordo, storia. Delle note prese giorno per giorno non sono un giornale: sono momenti presi a caso nello scorrere del tempo, nel fiume del giorno, che passa. Un “giornale” è un racconto: il racconto di una tranche de vie (definizione di romanzo di una famosa scuola), di un periodo, un anno, più anni, della nostra vita. E poiché la vita segue la logica di un racconto, ha un inizio, uno sviluppo, una conclusione (una vita umana è una serie di inizi, di sviluppi, di conclusioni, all’interno del cerchio chiuso dell’inizio, dello sviluppo, della conclusione della vita, nel cerchio della vita). Non è vero che un “giornale” comincia a caso, si sviluppa a caso, non si conclude, se non con la fine della vita. Un giornale, come ogni racconto, comporta un inizio, un intreccio, uno scioglimento. L’argomento del Giornale di uno straniero a Parigi è il mio ritorno a Parigi dopo quattordici anni d’assenza, è la scoperta di una Francia nuova, di un popolo francese nuovo, è il ritratto di un momento, nella storia della nazione francese, della civiltà francese, che coincide con un momento particolare della mia vita, della storia della mia vita. Non pretendo di rinnovare il genere del “giornale”. Suggerisco soltanto che un giornale è un racconto, come è un racconto il teatro. E qui tocco il punto importante: un “giornale” è un’opera teatrale portata sulla scena della pagina. È il punto in cui il racconto si avvicina di più al teatro. Tutto vi tende a un fine, a una conclusione, secondo le leggi classiche dell’unità, ma attorno al personaggio che si chiama « io »1.

Le poche righe appena citate non servono soltanto come viatico per la comprensione del “diario” parigino di Malaparte, ma anche per quella di tutta la sua opera che, per quanto suddivisa tra articoli di giornale, cronache, diari, “romanzi”, sempre avrebbe rappresentato una sorta di palcoscenico sul quale intrecciare le vicende drammatiche oppure mondane comprese tra il primo conflitto mondiale e gli anni ‘50 del XX secolo con la vita dell’autore e le sue personali opinioni.

Si potrebbe, infatti, dire che se nell’opera di Ernst Jünger ogni evento ed osservazione si trasforma in distaccato giornale di osservazioni di carattere entomologico2, in Malraux ogni evento doveva per forza essere “romanzato”. Tanto da far rimettere spesso in discussione, da parte della critica o dei suoi avversari “politici”, molti aspetti delle sua presunta o autentica partecipazione agli eventi narrati con estrema dovizia di particolare (battaglie, massacri, insurrezioni, eroismi nelle guerre nell’aria e per terra). Una reinvenzione letteraria dell’esperienza personale che avrebbe spinto lo scrittore francese ad intitolare Antimemorie la sua autobiografia, pubblicata nel 1967, un abile e spregiudicato gioco letterario in cui la vita, gli incontri e le vicende di Malraux sono spesso nascosti o distorti ad arte, mascherati sotto l’immagine che di se stesso voleva dare al pubblico3.

Il testo di Malaparte, oggi edito da Adelphi, era invece rimasto tra le sue carte e fu pubblicato postumo nel 1966, a cura di Enrico Falqui, da Vallecchi nelle «Opere complete». Come afferma Monica Zanardo, in quella che può essere considerata come una postfazione all’edizione attuale, il Journal:

offre un sottile e disincantato spaccato della Francia del dopoguerra, dove l’autore aveva soggiornato tra il giugno del 1947 e la fine del 1949. Pensato per essere pubblicato in Francia e scritto per lo più in francese, il ‘diario’ malapartiano si ricostruisce cucendo una serie di fogli sciolti che denunciano stadi diversi di elaborazione [..]. È difficile dunque stabilire con certezza con quali tempi e modi Malaparte si sia dedicato alla composizione di questa sua opera, ma possiamo rilevare che, a dispetto del titolo, non ci troviamo di fronte a un journal in senso stretto.
Siamo ad esempio molto lontani da quel Giornale segreto dove, tra l’aprile del 1941 e l’ottobre del 1944, aveva registrato dialoghi e fatti di cui era stato testimone come corrispondente di guerra e che poi, opportunamente finzionalizzati, avevano nutrito la stesura di Kaputt.
[…] I materiali relativi al Giornale di uno straniero a Parigi, invece, non hanno nulla dell’annotazione cursoria ed estemporanea: le varie entrate si depositano in forma dattiloscritta a un livello di rielaborazione già avanzato, con un notevole scarto rispetto alla registrazione del dato puramente evenemenziale. Non si tratta per Malaparte – né mai è così per questo autore – di offrire un mero referto testimoniale o un affondo introspettivo: luoghi, date, persone e fatti sono per lui la materia grezza che solo l’arte del romanziere può rendere a tutti gli effetti viva e parlante; come già ricordava Falqui, nel Giornale parigino non v’è dunque « nulla di affidato unicamente alla trascrizione o rievocazione, cronachistica e basta, dell’episodio: incontro, invito, visita, conversazione, spettacolo o incidente che sia stato ». È del resto lo stesso Malaparte a sottolinearlo nella prefazione: « Un “giornale” è un racconto » dichiara, e del racconto assume di conseguenza tutti gli elementi di costruzione e narrativizzazione4.

Il tema conduttore del testo rimasto incompiuto è quello dell’estraneità vissuta dall’autore in quella che riteneva la sua seconda se non autentica patria, la Francia, dopo i cambiamenti intervenuti successivamente alla seconda guerra mondiale. Guerra che, comunque, lo avevano reso meno interessante per quelli che credeva essere gli “amici francesi”. E anche se non tutti lo avrebbero rifiutato, spesso nei suoi confronti avrebbero dimostrato la freddezza che si manifesta nei confronti di un nemico o ex-amico, proprio a causa della guerra scatenata nel giugno del 1940 dal regime fascista nei confronti del paese d’oltralpe, già sotto attacco da parte delle forze armate tedesche.

Così un Malaparte che, nonostante la partecipazione alla marcia su Roma e la firma apposta sul manifesto degli intellettuali fascisti, era sempre rimasto un elemento scomodo per il regime, come egli stesso afferma nel Journal – «Sono stato arrestato undici volte in vent’anni, non posso dormire tranquillo da nessuna parte, in Italia»5 – si ritrova apolide, lontano da quelle sponde che sperava volessero ancora accoglierlo e allo stesso tempo rifiutato da quell’Italia che, prima in armi poi sotto le bandiere mussoliniane e infine al servizio degli occupanti anglo-americani6, egli aveva sempre creduto di servire.

Un opportunista, certo e in maniera evidente, ma che per le sue idee era stato allontanato dal quotidiano «La Stampa» di cui era stato direttore, espulso del Partito Nazionale Fascista e condannato a cinque anni di confino all’isola di Lipari, anche se già nel 1934 il confino era stato commutato in soggiorno obbligato a Forte dei Marmi.

In particolare a disturbare, per così dire, il regime era stata, oltre che la sua vicinanza al fascismo cosiddetto di sinistra e a Giuseppe Bottai, la pubblicazione in Francia nel 1931 di un testo che in Italia sarebbe stato tradotto soltanto nel 1948: Technique du Coup d’État (Tecnica del colpo di Stato), sostanzialmente un manuale per la conquista del potere attraverso il rovesciamento dello Stato.

Nel libro, bruciato sulla pubblica piazza per volontà di Hitler ma che giunse a ventisette edizioni in Francia e fu tradotto anche in inglese, spagnolo, polacco e cecoslovacco, si analizza e critica sia l’ascesa al potere del Partito bolscevico in Unione Sovietica che di quello nazionalsocialista in Germania. Come ebbe modo di affermare lo stesso autore nel Memoriale scritto nel 1946:

Nel 1930, mentre ero direttore della «Stampa» […] invece di scrivere per il giornale articoli laudativi e cortigianeschi, dedicai il poco tempo che mi rimaneva libero a scrivere la Technique du Coup d’État per l’editore francese Bernard Grasset. […] Quando lasciai la «Stampa» nel gennaio del 1931, il libro era pronto ad andare in stampa e, conoscendo, la natura del libro, decisi di recarmi in Francia perché la sua pubblicazione non mi sorprendesse in Italia. […] L’edizione italiana fu proibita da Mussolini sia per il tono del libro, sia per il capitolo su Hitler e il nazismo. Esso è il primo libro apparso in Europa contro Hitler. Il successo del libro mi portò di colpo alla ribalta di celebrità internazionale. Furono pubblicati su di me centinaia di articoli, concesse centinaia e centinaia di interviste, ebbi inviti per conferenze, per collaborazioni, offerte per contratti editoriali, molte università, fra cui l’Università americana di Yale, mi invitarono a tenere corsi di lezioni sulla letteratura moderna europea. In Italia i giornali fascisti attaccarono il mio libro e io fui accusato di fuoruscitismo. Non sto a ridire le ingiurie di cui fui coperto7.

Affermazioni in cui si può riscontrare l’attitudine del Malaparte a mettersi al “centro del mondo”, in un senso molto prossimo a Malraux, ma anche la volontà di rimarcare le distanze “prese per tempo” dal regime. Come sottolinea ancora Giorgio Luti nella medesima introduzione:

Sta di fatto che l’opera nelle sue linee generali era già stata progettata prima della improvvisa «defenestrazione» dalla «Stampa» dovuta sicuramente all’atteggiamento di fiancheggiamento che Malaparte aveva assunto nei confronti delle rivendicazioni operaie in tutta l’Europa (si pensi alle corrispondenze dall’estero sullo scottante argomento a cui il giornale torinese concedeva larga ospitalità) e in particolare nella città sede della FIAT, cioè dell’industria i cui proprietari finanziavano il giornale8.

Quest’ultima osservazione induce a rilevare la complessità di una figura e di un percorso politico e intellettuale in cui, comunque, hanno sempre avuto un ruolo di rilievo i comportamenti contraddittori che spesso hanno caratterizzato molte personalità della cultura del ‘900, ma non solo. Motivo per cui occorre ancora ricordare come Enrico Falqui, in occasione della pubblicazione per Vallecchi, nel 1971, dell’allora ancora inedito Ballo del Cremlino dello stesso Malaparte9, si augurasse:

che finalmente fosse scaduto per lo scrittore pratese il tempo del «purgatorio» in cui lo aveva ingiustamente relegato la cultura italiana dell’epoca ormai lontana della repentina scomparsa nel luglio del 1957. Era tempo che nascesse – scriveva Falqui – l’occasione di impostare su altre basi un incontro che per troppo tempo e non certo per colpa di Malaparte, era stato rimandato sotto la spinta di equivoci e risentimenti che poco avevano a che fare con la cultura, con la letterartura e con l’arte. Cose che del resto capitano quando ci si incontra con uno scrittore che prima di tutto è stato un personaggio pubblico, un protagonista di primo piano della vita politica italiana del ventennio fascista e nei primi anni del dopoguerra: un intellettuale inquieto sempre in bilico tra «rosso» e «nero»10.

La riproposta delle opere di Malaparte, il cui elenco si potrebbe definire sterminato, intrapresa da diversi anni dalle Edizioni Adelphi forse risponde a questa necessità di riscoperta auspicata da Falqui ed è, come spesso accade per questo editore, sicuramente meritoria11. Tipica comunque di una casa editrice il cui principale artefice, Roberto Calasso (1941-2021), si era rivelato spesso altrettanto scomodo per la bigotteria culturale italiana, sia di destra che di sinistra.

Poiché quasi tutte le opere di Malaparte richiederebbero un’analisi ben più lunga di quello che lo spazio di una recensione come questa potrebbe loro dedicare, è necessario ritornare in chiusura al diario parigino del 1947-1949. Senza però dimenticare di ricordare che, tra i tanti passaggi di fronte che caratterizzarono sempre la vita dello scrittore, negli anni successivi al conflitto non poté mancare, come per tanti altri transfughi del fascismo di sinistra o del fascismo tout court, un tentativo di avvicinamento dello stesso al Partito comunista.

Con cui, per sollecitazione dello stesso Togliatti, avrebbe dovuto collaborare attraverso le pagine della rivista settimanale «Vie Nuove», cui inviò gli appunti redatti nel 1957, in occasione di un viaggio nella Cina comunista, dove, osservando la vita nelle città e soprattutto nel campagne, era rimasto affascinato dai fermenti rivoluzionari in atto e aveva avuto anche modo di intervistare Mao Zedong. Appunti che, però, non vennero pubblicati a causa dell’opposizione di Calvino, Moravia, e altri intellettuali, che avevano sottoscritto una petizione affinché “il fascista Malaparte” non potesse pubblicare su una ”rivista comunista”12.

Il diario francese è sicuramente di altro tenore e riporta immediatamente il lettore in quel mondo intellettuale, e spesso salottiero, che da sempre e non soltanto in Francia, aveva attratto lo scrittore per le storie infinite che ne potevano derivare. Come, ad esempio, quelle narrate dall’ambasciatore italiano in Francia, Quaroni, ma un tempo Ministro d’Italia in Afghanistan di cui conservava, come si trattasse di un viaggiatore del XVIII secolo, memorie straordinarie.

[Quaroni] mescola l’erudizione allo spirito della scoperta, la meraviglia dell’esploratore al diplomatico dotato di uno spirito d’osservazione nutrito di letture e di esperienze. Mi parla dei cavalli e dei cani del re dell’Afghanistan, della caccia reale, dei ricordi, ancora vividi, che Alessandro Magno ha lasciato in quelle contrade misteriose. Mi parla della straordinaria popolarità del poeta persiano ****, che ogni contadino afgano conosce a memoria. Ama l’Afghanistan, e quando gli dico che c’è una sola contrada al mondo che eccita la mia immaginazione, che c’è una sola contrada che vorrei visitare, dove vorrei vivere, ed è l’Asia centrale, l’altopiano dell’Altai, e le immense solitudini delle steppe persiane e afgane, del Turkmenistan, donde si vede all’orizzonte la linea di matita azzurra dell’Himalaya, sorride, deliziato. Amo i diplomatici, amo la loro compagnia, la loro conversazione. Solo i diplomatici, ai giorni nostri, possono prendere nella società il posto dei dotti gesuiti del XVII secolo, che tornavano dall’Oriente, dall’Africa, dall’America centrale, e che portavano con sé tutto un tesoro di conoscenza, la cui fragilità, la cui delicatezza, davano alle loro parole, quando parlavano di una montagna o di un fiume immenso, o di un deserto, o di un forte, o di un castello, l’impressione che parlassero di minuscoli, fragili, trasparenti oggetti di porcellana13.

Un giornale in cui alle intuizioni fulminanti, «Il cinema è la patria degli stranieri» (a proposito del cinema di Roberto Rossellini, p. 14), si accompagnano ricordi che riportano al clima successivo al primo grande macello imperialista di cui Malaparte fu attento cronista e magnifico cantore in un’opera, che nel 1921 costituì anche il suo battesimo letterario e che si spera le Edizioni Adelphi, in tempi di guerra come quelli che stiamo vivendo, vogliano al più presto riproporre al pubblico: Viva Caporetto! La rivolta dei santi maledetti14.

La prima opera a prendere una posizione decisamente opposta alla leggenda militarista e perbenista fondata sulla presunta viltà dei soldati italiani al fronte e che in realtà, come lo stesso Malaparte sottolinea facendone un’apologia, diedero vita ad una enorme ribellione disfattista che soltanto l’assenza di un partito volto al rovesciamento dell’ordine monarchico e borghese impedì che si trasformasse in autentica rivoluzione, così come era invece accaduto sul fronte russo nell’inverno tra il 1916 e il 1917. Un tema, quello dei patimenti dei militari al fronte e successivi alla guerra, che viene ripreso, come s’è detto poc’anzi, nelle pagine del Giornale là dove viene ricordato un episodio successivo alla fine della guerra, nel 1919.

Voglio bene a questi uomini, a questi Francesi: sono della mia stessa razza. Anch’io sono un uomo del 1914. Ma mi si stringe il cuore, al ricordo di come li vidi tornare a casa, dopo la guerra, dopo la vittoria, nel 1919. Tutte le volte che incontro di questi uomini, non posso difendermi dal ricordare quell’episodio. Era il primo maggio 1919, un grande comizio di protesta per la vita cara, per non so che, era stato organizzato in Piazza della Concordia. Da tutte le parti dell’immensa città, giungevano colonne e colonne di uomini ancora in uniforme bleu horizon, migliaia e migliaia di mutilati sorretti dai compagni, e folle enormi di anciens combattants, tutti in uniforme terrosa, stinta, sgualcita delle trincee. Nelle prime ore del pomeriggio, la Place de la Concorde era occupata da un immenso esercito di antichi soldati, da migliaia e migliaia di soldati fra i più valorosi del mondo. […] Erano i migliori soldati del mondo, i più tenaci, i più duri, i più ostinati, i più coraggiosi. Cantavano i loro canti di guerra, […] qua e là, sventolavano su quell’esercito bandiere rosse; i mutilati, ammassati sotto l’Hotel Crillon, agitavano le loro grucce, i loro bastoni. Era un esercito di veterani, pronto alla lotta, invincibile e vittorioso. Dalla terrazza dell’Hotel Crillon, mescolato alla piccola folla di spettatori delle delegazioni straniere per la pace, io contemplavo quell’immenso esercito, col quale avevo sofferto, combattuto. Erano i miei compagni di guerra, ero fiero di loro. A un tratto, dal giardino delle Tuileries, dalla Rue Boissy-d’Anglas, dalla Rue de Rivoli, dai Champs-Élysées, dal ponte, sbucarono folti gruppi di agenti, armati di sfollagente, che si gettarono su quell’invincibile esercito di veterani, li massacrarono, li bastonarono, li dispersero, li inseguirono a calci nel sedere. Quell’immenso, invincibile esercito di veterani fuggì, si disperse, sul pavé della sterminata Piazza rimasero abbandonati, tristi e lugubri, berretti, grucce, bandiere. Addossato a una colonna, io frenavo a stento le lacrime. Fu quel giorno che io sentii oscuramente che la mia generazione aveva perso la guerra15.

Ma se l’autore sentiva ancora di essere vicino a quei francesi con cui aveva combattuto in passato, una fascia consistente di (ex-) amici e conoscenti non provava invece più lo stesso sentimento nei suoi confronti.

A sorprendermi un po’, e a turbarmi, è l’aria con cui mi guarda François Mauriac. Con uno sguardo di rimprovero, dall’alto, come se, dal nostro ultimo incontro, fossero accadute delle cose che mi si possano rimproverare. Faccio un rapido esame di coscienza. Non ho fatto niente di male, niente che mi si possa rimproverare, niente contro la Francia e i francesi, niente contro l’onore, la giustizia, la verità, la libertà, niente contro François Mauriac. In tutti questi anni, ho sofferto come tutti, ho passato diversi anni in carcere, come molti. Per me, François Mauriac è rimasto lo stesso. Perché io non sono lo stesso per François Mauriac? Ah, sono italiano. Il mio paese ha dichiarato guerra alla Francia, i soldati del mio paese hanno occupato dei territori francesi. Ecco. Ma quando ero nel carcere di Regina Coeli, quando ero a Lipari, quanti francesi salivano la scalinata di Palazzo Venezia e andavano a rendere omaggio a Mussolini. Politici, scrittori, francesi di ogni sorta. Comunque sia, non serbo loro rancore, erano nel loro diritto16.

Come il personaggio di un romanzo di Robert Heinlein, Malaparte, pur ispirato da buoni propositi e nostalgici sentimenti si sente “straniero in terra straniera”, ormai sia in Italia che in Francia17. Un destino che lo accomuna a molti profughi e superstiti della catastrofe del ‘900 europeo che determinò la fine del predominio delle culture e delle economie europee sul resto del mondo, nonostante lo sforzo di estenderlo e difenderlo con una seconda guerra mondiale che, però, finì soltanto col determinare la fine del colonialismo europeo; mentre la successiva lunga pausa illusoria di pace e prosperità globale, almeno dall’inizio del XXI secolo, sembra essersi fatta sempre più labile e incerta.

Per comprendere molti aspetti di un presente dalle radici molto profonde e sparse la lettura di molte opere di Malaparte, tra cui quest’ultima, si rivela illuminante e necessaria, nonostante lo stigma che, come per Céline, non a caso lo colpì, come si è già detto, negli anni del secondo dopoguerra.

Céline e Malaparte furono scrittori emblematici per la singolarità delle loro esistenze e il carattere peculiare della loro letteratura che si situa al centro dei dibattiti socio-ideologici della loro epoca; scrivere è un modo per definirsi attraverso il rifiuto e la solitudine, è il desiderio di un io che rigetta la società e vuole esprimere la propria denuncia attraverso la letteratura. Gli autori riusciranno quindi con questa loro pretesa di verità, di critica continua espressa senza alcuna moderazione, a farsi criticare, censurare e addirittura esiliare. Il pensiero di Malaparte e Céline si basa su un’osservazione critica e attenta della società in cui vivono, osservazione che i due scrittori riescono a rendere attraverso una scrittura molto elaborata e personale. La loro critica va alla storia scritta dai potenti, nel tentativo di mettere in scena la tragedia della povertà e della sottomissione ai poteri invisibili, lasciando spazio a chi nella storia non ha nessuna autorità, buttando giù le false verità e la facile retorica. I due autori, di cui non è immediato trovare la chiave di interpretazione, propongono quindi una riflessione sul rapporto tra gli uomini, sulla relazione tra l’individuo e il potere politico-economico, sempre mostrando una coscienza della lingua e del loro ruolo di scrittori che li rende estremamente interessanti nel contesto letterario del primo Novecento e che non ha smesso di affascinare i critici sino ai giorni nostri. Céline e Malaparte, come molti romanzieri loro contemporanei, esprimono il rifiuto del mondo, coscienti dell’impossibilità di salvarsi dal disastro che la guerra ha lasciato: l’uomo ha mostrato la sua crudeltà, si è denudato ed ogni forma di coesione e di unione è crollata. In tale contesto disastrato i due letterati si mostrano solitari, individualisti nelle loro scelte, avversari di ogni chiesa e partito. La loro è anche scrittura di immersione nel marcio della società, tra gli sventurati, attraverso uno stile singolare ed un lessico aspro e dirompente18.

Una poetica che, per quanto riguarda lo scrittore italiano, si manifestò violentemente e visionariamente nelle sue due opere più celebri: Kaputt (1944) e La pelle (1949). La prima delle quali fu definita dallo stesso Malaparte come «un libro crudele. La [cui] crudeltà è la più straordinaria esperienza che io abbia tratto dallo spettacolo dell’Europa in questi anni di guerra».

Maria Antonietta Macciocchi, iniziale destinataria degli appunti sulla Cina cui si è accennato più sopra e che gli fu vicina negli ultimi momenti della vita, ha ricordato in un convegno tenutosi a Prato nel 1987, a trent’anni dalla scomparsa dello scrittore, che almeno in Francia l’«anno malapartiano» aveva ricevute cospicue e convinte adesioni da parte di molti intellettuali e tre intere pagine dedicate allo stesso dal quotidiano «Le Monde», tutte tese a rompere il silenzio ufficiale intorno all’«infame Malaparte»19.

La Macciocchi può avere ragione nell’estendere a tutti o quasi gli intellettuali italiani il cliché di fascisti pentiti dopo il colpo di bacchetta magica del 25 luglio, e pentiti senza esami di coscienza, ma con opportunistici colpi di spugna, che escludevano per l’intelligenza italiana esiti tragici come quelli di Drieu de la Rochelle, di Brasillach o di Céline, donde il «regolamento di conti» della società dei colti ai danni di un suo adepto, che «rompeva tutti gli schemi del vecchi provincialismo, e si ricollegava a grandi momenti complessi del pensiero e della vita, talora contraddittori, fatti di abiure e di speranze, di negazione della fede e di fede, vale a dire di un uomo che riassumeva in sé la fantastica razionalità dell’europeo e l’irrazionalità del «maledetto toscano». In altre parole Malaparte amplificava in modi addirittura spettacolari il percorso […] che era stato di molti, quasi di tutti, «oberato in patria di tutti i “vizi” della sua generazione, e dell’intero ceto intellettuale italiano», e si attirava perciò i fulmini dalla corporazione delle lettere e delle scritture20.

Con buona pace di Alberto Moravia che con il suo “stile” velenoso lo aveva invece definito scrittore strumentale perché lo scrivere libri «gli consentiva di brillare con le donne nei salotti», mettendosi «in smoking»21.


  1. C. Malaparte, Giornale di uno straniero a Parigi, a cura di Michelangelo Fagotti e Monica Zanardo, Adelphi Edizioni, Milano 2025, pp. 9-10.  

  2. L’entomologia fu una grande passione dello scrittore tedesco che alle osservazioni degli insetti dedicò numerose pagine e momenti della sua vita “privata”. Nel testo Cacce sottili (Guanda, 2022) è riassunta la storia di questa passione cui Jünger non cesserà di dedicarsi per tutta la vita: negli anni della guerra come nel corso di viaggi in Italia, nel Medio Oriente, in Asia. Gli insetti offrirono sempre allo scrittore occasione di riflessione sul tempo e sul mutare del volto della natura, sui desideri umani, sulla ricerca inesausta, infaticabile, del sapere e del piacere. Il mondo sottile degli insetti, scenario di bellezza e crudeltà, diventava così una metafora del cosmo. E dei suoi drammi.  

  3. A. Malraux, Antimemorie, Bompiani, Milano 2022.  

  4. M. Zanardo, Straniero in due patrie: Curzio Malaparte a Parigi, in C. Malaparte, Giornale di uno straniero a Parigi, op. cit., pp. 415-416.  

  5. C. Malaparte, op. cit., p. 14.  

  6. Dopo aver rifiutato nel settembre del 1943 l’adesione alla RSI, nel novembre dello stesso anno era stato arrestato dal Counter Intelligence Corps (CIC), il controspionaggio alleato, per le sue attività diplomatiche e da allora aveva iniziato a collaborare col CIC.  

  7. Cit. in G. Luti, Il cronista dell’Europa «catilinaria», Introduzione a C. Malaparte, Tecnica del colpo di stato, Vallecchi Editore, Firenze 1994, pp. 22-23.  

  8. G. Luti, op. cit., p. 23.  

  9. C. Malaparte, Il ballo al Kremlino (Materiale per un romanzo), Adelphi Edizioni, Milano 2012.  

  10. G. Luti, op. cit., p. 19.  

  11. Di Curzio Malaparte fino ad oggi le Edizioni Adelphi hanno ripubblicato, oltre al già citato Ballo al Kremlino: Il buonuomo Lenin (2018), Maledetti toscani (2017), La pelle (2015), Kaputt (2014), Tecnica del colpo di Stato (2011) e Coppi e Bartali (2009).  

  12. In realtà le note dei viaggi in Russia e in Cina di Malaparte, furono pubblicate, a cura di Giancarlo Vigorelli, l’anno successivo alla sua morte da Vallecchi Editore: C. Malaparte, Io, in Russia e in Cina, Firenze 1958.  

  13. C. Malaparte, Giornale di uno straniero a Parigi, pp. 17-18.  

  14. C. Malaparte, Viva Caporetto! La rivolta dei santi maledetti (secondo il testo della prima edizione del 1921),Vallecchi Editore, Firenze 1995.  

  15. C. Malaparte, Giornale, op. cit., pp. 38-39.  

  16. Ivi, pp. 22-23.  

  17. R. Heinlein, Straniero in terra straniera (titolo originale Stranger in a Strange Land, prima edizione 1961), Fanucci, Roma 2025.  

  18. L. Libeccio, Céline, Malaparte. Malaparte, Céline: una poetica del disincanto, «Cahiers d’études italiennes», 24/2017.  

  19. M. A. Macciocchi, Ricordo di Malaparte scrittore europeo, in Malaparte scrittore d’Europa. Atti del convegno (Prato 1987) e altri contributi, Marzorati Editore- Comune di Prato, 1991. 

  20. M. Biondi, I giorni dell’ira: «Viva Caporetto!» Apologia di una disfatta, Inroduzione a C. Malaparte, Viva Caporetto!, op. cit., pp. 10-11.  

  21. Cit. in G. Grana, Il «camaleonte» e il sistema letterario italiano, in Malaparte scrittore d’Europa, op. cit., p. 2.  

]]>
E’ uno sporco lavoro /4: Il primo vertice antiterrorismo internazionale – Roma 1898 https://www.carmillaonline.com/2025/11/19/e-uno-sporco-lavoro-4-il-primo-vertice-antiterrorismo-della-storia-e-la-continuita-repressiva-dello-stato-italiano-e-dei-suoi-molteplici-governi/ Wed, 19 Nov 2025 21:00:14 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=91213 di Sandro Moiso

Giulio Saletti (a cura di), I verbali segreti della conferenza antianarchica. Il primo vertice internazionale contro il terrorismo (Roma, 1898), Edizioni Malamente, Urbino 2025, pp. 450, 25 euro

A ben guardare, lo spettro che si aggira per l’Europa a partire dalla fine del XIX secolo più che quello del comunismo è quello dell’anarchismo. Soprattutto nelle redazioni dei giornali, nelle veline delle questure, nelle inchieste dei servizi “segreti”, nell’immaginario politico e securitario prodotto dalla borghesia e dai suoi servitori in divisa o con la penna in mano (ieri) oppure seduti davanti ad una tastiera (oggi), ma forse ancora [...]]]> di Sandro Moiso

Giulio Saletti (a cura di), I verbali segreti della conferenza antianarchica. Il primo vertice internazionale contro il terrorismo (Roma, 1898), Edizioni Malamente, Urbino 2025, pp. 450, 25 euro

A ben guardare, lo spettro che si aggira per l’Europa a partire dalla fine del XIX secolo più che quello del comunismo è quello dell’anarchismo. Soprattutto nelle redazioni dei giornali, nelle veline delle questure, nelle inchieste dei servizi “segreti”, nell’immaginario politico e securitario prodotto dalla borghesia e dai suoi servitori in divisa o con la penna in mano (ieri) oppure seduti davanti ad una tastiera (oggi), ma forse ancora per poco considerato lo sviluppo quasi autonomo dei social e dell’AI.

A confermarcelo, con dovizia di documenti e dettagli, è il corposo volume edito da Malamente e curato da Giulio Saletti, giornalista, cronista, ghostwriter e portavoce di cariche istituzionali. Un testo in cui, per la prima volta in Italia, vengono riportati integralmente i documenti prodotti a seguito della «Conferenza internazionale per la difesa sociale contro gli anarchici», tenutasi a Roma dal 24 novembre al 21 dicembre 1898 a seguito dell’assassinio dell’imperatrice Elisabetta d’Austria, avvenuto il 10 settembre di quello stesso anno a Ginevra.

Probabilmente, però, a preoccupare il governo italiano, promotore della conferenza, più che l’attentato alla principessa di Baviera “Sissi”, in seguito santificata e glorificata in una serie infinita di biografie romanzate, film e serie televisive, erano stati i moti e le insorgenze che da Bari a Foggia, dalla Puglia, dove sarebbe stato inviato il generale Pelloux che dopo la caduta del governo Rudinì nel giugno del 1898 fu incaricato dal re Umberto I di formare un gabinetto in cui assunse anche il dicastero dell’interno facendosi promotore della conferenza anti-anarchica, alla Sicilia e a Napoli, in occasione del 1° maggio 1898 avevano visto passare la popolazione meridionale dalla sollevazione alla rivolta. E poiché dappertutto le classi dominanti mostrarono di voler curare la fame con le fucilate, a partire dal 2 maggio la rivolta si era estesa alla Romagna, alle Marche, all’Emilia, alla Toscana e alle regioni industriali del nord1.

Proprio a Milano, dal 6 al 9 maggio, si ebbe la sollevazione più sanguinosa, durante la quale la classe operaia milanese fu presa a cannonate dal generale Bava Beccaris, dando vita ad un periodo di repressione che permise al governo di mettere fuori legge il Partito Socialista, costituitosi a Genova nel 1892, ma che allo stesso tempo diede inizio ad un nuovo periodo di attentati di cui la vittima più illustre sarebbe stato proprio il re d’Italia Umberto I, caduto sotto i colpi di pistola di Gaetano Bresci a Monza, il 20 luglio del 1900.

E’ in questo contesto, quindi, che va collocata una conferenza che avrebbe costituito il primo esempio di vertice antiterrorismo a livello europeo e che, anche se destinata a dare scarsi risultati immediati, avrebbe contribuito, come afferma il curatore, alla «conversione marcatamente politica dell’ordine pubblico in ordine “governativo o di maggioranza”, che è passaggio non trascurabile nel processo generale di State building e di organizzazione degli spazi di rappresentanza e partecipazione alla vita pubblica»2.

Un evento spesso trascurato dalla storiografia italiana, anche da quella che si è occupata del movimento operaio e delle sue lotte, ma che obbliga a riflettere su una serie di nodi ancora tutti da sciogliere nell’ambito della storiografia dei movimenti di classe e delle contromisure messe in atto nei loro confronti dallo Stato e dai suoi rappresentanti istituzionali e militari.

Uno dei motivi di tale trascuratezza, se non addirittura di disinteresse, nei confronti di un evento destinato a rifondare l’immaginario politico del ‘900, non solo italiano, va rintracciato, secondo Saletti, in una certa abitudine ad una «velata resistenza culturale a riconoscere ruolo e specificità dell’anarchismo nella genesi e nello sviluppo dei movimenti di massa e dell’antagonismo di classe tardo-ottocentesco»3, che ha fatto sì che gli studi sull’anarchismo scontino ancora una certa marginalità all’interno dello studio dei movimenti socialisti ed operai europei, nonostante la ripresa dell’interesse nei suoi confronti sviluppatosi nel corso degli ultimi decenni.

Una rimozione e sottovalutazione che se giustificata dal punto di vista “borghese” e istituzionale, non può esserlo altrettanto quando ad occuparsi della storia delle esperienze di lotta, insorgenza e organizzazione proletaria siano studiosi di formazione socialista o marxista. Eppure, eppure… proprio quest’ultima osservazione ci permette di sviluppare alcune considerazioni che, pur travalicando i limiti specifici dello studio di Saletti e dei documenti annessi, possono essere d’aiuto per una nuova storiografia dei movimenti di classe in tutte le loro manifestazioni.

Manifestazioni spesso disordinate, disorganizzate, violente, improvvisate ma sempre originate da un radicale rifiuto delle condizioni di esistenza proposte dal modo di produzione capitalistico, dalle sue leggi di mercato e dai suoi istituti proprietari e finanziari, contro cui le moltitudini dei diseredati sembrano battersi fin dall’avvento della società mercantile a cavallo tra XIII e XIV secolo, se non già da prima per il tramite delle prime eresie medievali.

Il termine eresia deve, però, essere inteso al di là dello specifico contesto religioso per trascendere, come suggeriva lo scomparso Emilio Quadrelli, l’intero pensiero politico, anche nelle sue manifestazioni classiste e antagoniste4. Considerato che, affinché possa esistere un’eresia, deve per forza sussistere anche un’ortodossia che possa essere trascesa e criticata.

In questo caso la netta separazione tra storia dell’anarchismo e del movimento operaio socialista risponde ad una necessità tutta di ordine ideologico, messa in campo sia da una che dall’altra parte fin dai tempi di Marx e Bakunin, che vede però, proprio nella componente marxista e socialista, una consistente resistenza ad accettare il movimento anarchico come parte integrante del movimento storico per il ribaltamento dell’ordine sociale dettato dagli interessi d’impresa e del capitale.

Per questo motivo si rende sempre più necessario, almeno dal punto di vista storiografico, il superamento di un’impasse che da troppo tempo limita e divide in comparti stagni la comprensione di movimenti che hanno comportamenti e radici materiali comuni. E che nella spontaneità delle insorgenze e nella loro rapida caducità hanno un comune denominatore.

Spontaneità o spontaneismo di cui l’interpretazione anarchica delle contraddizioni sociali e della loro risoluzione radicale sembra fare il vettore principale di, quasi, ogni iniziativa politica e organizzativa. Caducità che spinge, dal lato del marxismo o del socialismo ortodosso, alla ricerca di formule organizzative (partito, cellule, centralizzazione direttiva) capaci di impedire lo sfaldamento delle esperienze, sia dopo la loro riuscita che a seguito di una sconfitta.

Due interpretazioni dello scontro e delle sue forme che spesso non possono fare altro che ostacolarsi l’una con l’altra. Soprattutto da parte di quelle interpretazioni marxiste più rigide che pur di salvaguardare organizzazione e prospettive politiche definite in linea teorica “una volta per tutte”, rinunciano a partecipare allo scontro e alle sue manifestazioni concrete, adducendo problemi di “arretratezza” sociale oppure di inadeguatezza politica, giungendo troppo spesso a tacciarle di avventurismo se non addirittura accusarle di esser null’altro che il prodotto di agenti provocatori.

Una storia rintracciabile, almeno qui in Italia, nell’atteggiamento di Turati nei confronti della Settimana rossa del 1914, quando sull’alba del primo conflitto imperialista le manifestazioni antimilitariste furono violentemente represse a partire da Ancona oppure nelle riserve che lo stesso Partito socialista ebbe nei confronti ancora dell’insurrezione torinese del 1917 o nell’abbandono a se stessi dei manifestanti proprio in occasione delle giornate del maggio 1898 a Milano5.

Anche il Partito comunista italiano, il PCI, prima adeguandosi al volere del Comintern e del Cominform e in seguito memore dall’atteggiamento staliniano nei confronti di ogni opposizione alle direttive di partito, non esitò mai, fino alla fine dei suoi giorni, nel condannare qualsiasi iniziativa spontanea della classe nei confronti del comando capitalista. Fascisti, provocatori e traditori, a seconda dei periodi, furono sempre definiti i giovani, gli operai, le donne che dal secondo dopoguerra in poi, passando per piazza Statuto a Torino nel luglio del 1962 fino alle lotte autonome degli anni Settanta insorsero spontaneamente e, spesso, violentemente contro la dittatura del lavoro salariato.

Questo, però, non poteva far altro che avvantaggiare il nemico di classe nella sua azione sia divisa che repressiva nei confronti della classe operaia o degli strati sociali marginali della società, nei confronti dei quali la definizione spesso utilizzata di lumpenproletariato, più che attenersi a quella marxiana di proletariato marginale oppure momentaneamente escluso dal lavoro, si trasformò in autentico stigma, tradotto come sottoproletariato ovvero la classe più degradata, non solo dal punto di vista economico ma anche, e forse soprattutto, morale, priva di alcuna forma di coscienza di classe, o almeno di ciò che il partito ritiene tale, e non organizzata nei sindacati ufficiali.

Una classe, secondo questa diminutiva e offensiva interpretazione del termine, i cui componenti oltre ad essere accusati di trarre il loro reddito da occupazioni vicine all’illegalità (furto, prostituzione, imbrogli di vario genere), proprio per la loro miseria culturale e politica potrebbero facilmente essere preda delle idee più retrograde e reazionarie.

Però, pur essendo vero che porzioni immiserite della società e della classe lavoratrice esclusa dal lavoro possono esser facilmente preda delle rivendicazioni reazionarie e fasciste, è altresì vero che anche porzioni significative di classe operaia, quella un tempo definibile come aristocrazia operaia e oggi inquadrata nel cosiddetto ceto medio produttivo, hanno spesso aderito e ancora aderiscono a tali rivendicazioni di stampo razzista, nazionalista e sessista. Come l’elettorato di Trump può ben dimostrare oggi.

Tutti fattori che nella criminalizzazione di ogni dissenso, non allineato con il discorso ordinativo di carattere socialista e socialdemocratico un tempo e liberal-democratico oggi, trovano lo strumento ideologico più adatto sia per il controllo sociale da parte dello Stato che di quello politico e sindacale da parte di tutti quei partiti, istituzionali e non, che della conservazione o della riforma dell’esistente in nome del progresso hanno fatto il loro, anche se spesso non dichiarato, fine ultimo.

Ma per tornare ai tempi di cui tratta la ricerca di Saletti, occorre ricordare come, almeno per l’Italia, fu lo stesso Engels, in qualità di segretario per l’Italia dell’Alleanza internazionale dei lavoratori, a tracciare una linea distintiva tra socialisti e rivoluzionari autentici, ovvero coloro che aderivano alle idee e ai programmi del socialismo cosiddetto poi autoritario e coloro che, aderendo ancora all’Internazionale bakuninista o antiautoritaria, tradivano la causa del proletariato e della sua emancipazione. Un giudizio spesso greve che allontanò dal socialismo marxiano Carlo Cafiero, che pur era stato il primo a divulgare in Italia un compendio del Capitale di Karl Marx da lui stesso tradotto, per trasformarlo sostanzialmente in uno dei primi e più importanti esponenti dall’anarchismo italiano.

Un giudizio negativo espresso da Engels, soprattutto sul socialismo meridionale6 che sembrava dimenticare che non solo a Napoli, il 31 gennaio 1869, era stata fondata da una società operaia partenopea, la Società operaia di Napoli come fu in seguito designata, la prima sezione italiana dell’Internazionale «che aderì pienamente agli statuti dell’Associazione e si costituì in Comitato centrale per tutta l’Italia»7, ma anche che proprio nella parte meridionale del Regno d’Italia per dieci anni si era svolta quella che in tempi recenti lo storico Gianni Oliva ha definito la Prima guerra civile italiana, ovvero quella che per decenni, se non per più di secolo, è stata troppo spesso, superficialmente oppure opportunisticamente, accomunata al brigantaggio8.

E qui, per ricollegare il tutto al tema del testo edito da Malamente, va ricordato che la resistenza contadina e sociale del Sud, pur con tutte le sue inevitabili contraddizioni, aveva anche rappresentato la prima guerra civile “europea” dopo la fine della Restaurazione, prima ancora della Comune di Parigi che si sarebbe rivoltata contro lo stato francese e Napoleone III soltanto nel 1871. Una guerra civile, quella nel Sud dell’Italia, che aveva anche richiesto da parte dello stato unitario l’emanazione di una prima legge speciale, la legge Pica del 1863, che di fatto per la prima volta definiva una legislazione eccezionale destinata a contenere, reprimere e punire pesantemente i disordino sociali e i loro protagonisti.

Una legge, che nell’iniziale fase di stesura, nell’ambito dei provvedimenti eccezionali da prendere prevedeva la deportazione dei condannati per i fatti di resistenza che avevano iniziato manifestarsi fin dal 1861, e di cui la rivolta di Bronte dell’agosto 1860 in Sicilia, aveva già rappresentato un significativo esempio.

Sin dall’inizio della campagna di Vittorio Emanuele II nel Sud, il governo di Torino ha trasferito i soldati borbonici prigionieri di guerra nelle isole del Tirreno o in zone remote dell’Italia settentrionale, e a mano a mano ha affiancato loro gli «sbandati» e i «camorristi». Nel 1861 il governo Ricasoli ha cominciato a pensare ad un progetto organico di deportazione di «briganti e manutengoli» in luoghi lontani dall’Italia, sull’esempio di quanto ha sempre fatto la Francia nella Guyana e in Madagascar; il successivo governo Rattazzi ha proseguito su quella strada, facendo sondaggi con i diplomatici portoghesi sulla possibilità di impiantare stabilimenti penali in Mozambico o nelle colonie portoghesi del Pacifico (Timor, Macao, Goa) e ha cercato di definire forme di compartecipazione italiana alla sovranità su territori non ancora completamente assoggettati da Lisbona; appena insediato, il governo Minghetti ha apprestato una fregata della Regia marina destinata a partire per i mari dell’Australia e studiare la praticabilità degli stabilimenti di deportazione, ma ha dovuto fermarsi per l’intervento di Napoleone III e dell’Inghilterra, preoccupati che l’istituzione di colonie penali fosse la copertura di un’ambizione espansionistica dell’Italia 9.

Cosa di cui questi ultimi due governi si intendevano assai, considerate sia la deportazione in Algeria dei rivoltosi del 1848 francese, proprio da parte di Napoleone III, che quella dei sottoproletari, ribelli irlandesi e donne di “malaffare” portate avanti dal Regno Unito verso l’Australia a partire dal progetto di colonizzazione inglese di quel continente iniziato nel 178710. Elemento che obbliga ancora una volta a riflettere come nei progetti legislativi e repressivi dei governi statali moderni repressione del dissenso, rimozione degli indesiderati e colonialismo siano portati costantemente avanti in parallelo. Fino agli attuali centri di detenzione per immigrati in Albania previsti dall’attuale governo Meloni che oltre ad allontanare gli stranieri indesiderati dal territorio nazionale rilancia virtualmente anche il progetto, in auge fin dalla Prima guerra mondiale e mai abbandonato del tutto, di controllare l’altra sponda del mare Adriatico proprio là dove questo si restringe maggiormente. Senza dimenticare come la legislazione anti-mafia sia sempre stata utilizzata anche al di fuori dei suoi presunti confini per colpire la dissidenza politica, con l’uso dell’articolo 41bis oppure, come si è tentato recentemente a Torino, di dichiarare comportamento mafioso il saluto portato da un corteo di militanti Pro-Pal ad una compagna detenuta agli arresti domiciliari (qui).

Queste le radici su cui poggiava i piedi la convocazione del primo congresso internazionale contro il terrorismo “anarchico” in uno Stato che della repressione popolare e della dissidenza armata aveva già fatto lunga esperienza, sia politico-legale che penale e militare, e a cui la ricca e dettagliata documentazione compresa nel saggio di Giuio Saletti porta un più che significativo contributo per la comprensione non soltanto della repressione della dissidenza anarchica e classista in tutte le sue forme politiche e organizzative, ma anche dei successivi passi intrapresi in direzione della repressione delle lotte sociali durante tutta la storia dello stato italiano fin dalla sua fondazione, passando per le leggi speciali del Fascismo e quelle antiterrorismo della prima repubblica insieme all’uso del 41bis, fino all’attualità politico-governativa odierna. Che con la Legge 9/6/2025 n.80, meglio nota come Decreto sicurezza, non ha fatto altro che continuare una tradizione repressiva che ha preceduto ed è continuata ben oltre il Fascismo storico.

Una continuità della percezione del pericolo, per l’ordine borghese, rappresentato dall’anarchismo e dalla lotta di classe che farà sì che intorno allo stesso o a ciò che si intende per esso, fin dal congresso del dicembre 1898, si vada:

concentrando, ritagliando e raffinando una ‘giurisdizione penale del nemico’ attraverso l’invenzione del delitto sociale (in realtà coincidente con il “delitto anarchico”) quale stabile e organico stato di eccezione che ingloba e va oltre il ‘duplice livello di legalità’– norme del fatto e della colpevolezza/norme del sospetto e della pericolosità – alla base degli ordinamenti penali sul finire del diciannovesimo secolo.
In questo quadro la conferenza di palazzo Corsini, generando una koinè giuridica continentale attraverso la certificazione dell’impoliticità del delitto anarchico, è appunto il tentativo, in una prospettiva nitida (seppure ancora ideale) di ‘universalismo penale’, di imporre su scala europea strumenti normativi e repressivi omogenei e comuni e istituzionalizzare una prima forma di cooperazione tra le polizie contro una minaccia percepita e pervicacemente agitata dalla borghesia d’ordine come il tangibile “danger international permanent” di quegli anni.
[Cosicché] Nel corso della seconda seduta plenaria all’unanimità passa la proposizione di principio, suggerita dall’ambasciatore russo, che «l’anarchisme n’a rien de commun avec la politique» e che pertanto non sarebbe stato trattato, in sede di conferenza, come una dottrina politica. Una decisione in qualche modo scontata, e tuttavia giuridicamente incisiva perché imprime esiti obbligati alla discussione decretando da subito che quello anarchico è delitto impolitico, assimilabile al reato comune e in quanto tale sottratto al favor rei (specie per ciò che riguarda il divieto di estradizione) riconosciuto dagli ordinamenti liberali ai reati politici. E dunque, quando a metà dicembre in seno alla sottocommissione si affronterà l’argomento, sarà agevole stabilire che l’atto anarchico sarebbe stato passibile d’estradizione se giudicato reato nel paese richiedente e in quello richiesto; che estradabili sarebbero stati anche i reati ‘satellite’ (quali la preparazione dell’atto anarchico e la fabbricazione di esplosivi, l’associazione organizzata, l’istigazione e l’apologia dell’atto anarchico); e che l’atto anarchico, per l’appunto, non sarebbe stato considerato delitto politico ai fini dell’estradizione11.

La conferenza di Roma sembra così porre le basi, almeno dal punto di vista teorico, di tutta la giurisdizione penale d’eccezione a livello internazionale fino ai nostri giorni e se precedentemente si è parlato della netta separazione avvenuta tra socialismo e anarchismo occorre qui ricordare che era di pochi anni prima la pubblicazione da parte del socialista positivista Cesare Lombroso del testo Gli anarchici (1894), in cui dall’iniziale collegamento tra dati antropometrici e pulsione alla violenza dei criminali comuni lo studioso aveva tratto indicazioni per studiare gli stessi effetti sui comportamenti dei militanti anarchici12. Contribuendo, anche solo indirettamente, a far sì che:

Il terreno sul quale la conferenza raggiunge intese significative è comunque quello delle misure amministrative e dell’attività di polizia, sul piano ad esempio del metodo antropometrico di identificazione dei criminali, al punto che si ritiene – non senza fondamento – che l’International Criminal Police Organization (ossia l’Interpol) «in several ways can be considered a descendant or at least a step-child of the Rome Conference». Su iniziativa tedesca, i delegati approveranno all’unanimità la proposta di istituire in ogni paese una ‘agenzia centrale’ alla quale affidare il compito di controllare in segreto gli anarchici agevolando lo scambio diretto di segnalazioni e informazioni13.

E anche se il testo finale della conferenza fu approvato ad referendum escludendo così impegni vincolanti per gli stati che vi avevano preso parte lasciando alla valutazione discrezionale di ciascun governo se e a quali proposte dare attuazione, la cosa non avrebbe impedito all’ammiraglio Canevaro di affermare, nel congedare i delegati: «Che anche se tutti gli scopi che alcuni di noi si erano prefissi non sono stati pienamente raggiunti, possiamo tuttavia ritenere che i nostri coscienziosi sforzi per il raggiungimento di un più adeguato ordinamento giuridico sono lontani dall’esser rimasti sterili»14,


  1. Per il clima politico generale in cui si svolse la conferenza si veda: U. Levra, Il colpo di stato della borghesia. La crisi politica di fine secolo in Italia 1896/1900, Feltrinelli, Milano 1977.  

  2. G. Saletti, Gli anarchici, la conferenza di Roma e il delitto sociale, introduzione a I verbali segreti della conferenza antianarchica. Il primo vertice internazionale contro il terrorismo (Roma, 1898), Edizioni Malamente, Urbino 2025, p. 17.  

  3. Ivi, p. 17.  

  4. Si veda in proposito: E. Quadrelli, György Lukács, un’eresia ortodossa introduzione a G. Lukács, Lenin, DeriveApprodi, Bologna 2025.  

  5. Come possiamo ricostruire a partire da una testimonianza inaspettata, quella di Camillo Olivetti, futuro fondatore dell’omonima industria eporediese, in una lettera alla moglie Luisa Revel di qualche anno successiva ai fatti: «Nel maggio ’98 andai a Milano con la ferma intenzione di prendere parte ad una rivoluzione. Stando a Ivrea avevo preveduto, molto meglio che gli uomini che eran sul sito, che qualche cosa doveva succedere. Io credevo che Turati, Rondoni e tanti altri, che per così dire eran a capo del partito, avrebbero saputo condurre le masse e instaurare un nuovo regime. […] A Milano non accadde nulla di quanto io prevedevo, almeno per parte dei capi che non capirono nulla e non seppero né frenare né comandare il movimento. Il risultato furono 500 ammazzati e migliaia di anni di galera distribuiti. Quella volta io la scampai bella! Visto che a Milano non vi era nulla da fare, me ne andai a Torino, ed ero tanto esaltato in quei giorni che se avessi potuto trovare un duecento uomini ben armati avrei cercato di suscitare una rivoluzione […] Dopo questa disillusione a poco a poco mi ritirai dalla vita politica» (C. Olivetti, Lettere Americane, Fondazione Adriano Olivetti, 1999).  

  6. Si veda in proposito: P. C. Masini, Eresie dell’Ottocento. Alle sorgenti laiche , umaniste e libertarie della democrazia italiana, Editoriale Nuova, Milano 1978.  

  7. G. de Martino, V. Simeoli, La polveriera d’Italia. Le origini del socialismo anarchico nel Regno di Napoli (1799-1877), Liguori editore, Napoli 2004, p.131.  

  8. G. Oliva, La prima guerra civile. Rivolte e repressioni nel Mezzogiorno dopo l’Unità, Mondadori Libri S.p.a., Milano 20255.  

  9. G. Oliva, La prima guerra civile, Mondadori, Milano 2025, pp. 33-34.  

  10. Si veda in proposito: R. Hughes, La riva fatale. L’epopea della fondazione dell’Australia, Adelphi Edizioni, Milano 1990.  

  11. G. Saletti, op.cit., pp.18-24.  

  12. Si veda in proposito: M. Bucciantini, Addio Lugano bella. Storie di ribelli, anarchici e lombrosiani, Giulio Einaudi Editore, Torino 2020.  

  13. G. Saletti, op. cit., p.25.  

  14. Cit. in G. Saletti, op. cit., p. 27 – traduzione a cura del recensore.  

]]>
E’ uno sporco lavoro / 3: Hiroshima Nagasaki Russian Roulette https://www.carmillaonline.com/2025/08/06/e-uno-sporco-lavoro-3-hiroshima-nagasaki-russian-roulette/ Wed, 06 Aug 2025 20:00:33 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=89590 di Sandro Moiso

Sganciarono la bomba nel 45 per far terminare la guerra mondiale Nessuno aveva mai visto niente di così terribile, prima il mondo guardava con gli occhi spalancati per vedere come sarebbe andata a finire Gli uomini del potere eludevano l’argomento era un momento da ricordare, non dimenticheremo mai Stavano giocando alla roulette russa con Hiroshima e Nagasaki (Jim Page – Hiroshima Nagasaki Russian Roulette, 1974-77)

Sono ancora una volta delle parole, in parte esplicite e in parte giustificatorie, quelle da cui partire per una riflessione sul presente e sul passato di un modo di produzione e [...]]]> di Sandro Moiso

Sganciarono la bomba nel 45 per far terminare la guerra mondiale
Nessuno aveva mai visto niente di così terribile, prima
il mondo guardava con gli occhi spalancati per vedere come sarebbe andata a finire
Gli uomini del potere eludevano l’argomento
era un momento da ricordare, non dimenticheremo mai
Stavano giocando alla roulette russa con Hiroshima e Nagasaki

(Jim Page – Hiroshima Nagasaki Russian Roulette, 1974-77)

Sono ancora una volta delle parole, in parte esplicite e in parte giustificatorie, quelle da cui partire per una riflessione sul presente e sul passato di un modo di produzione e della sua espressione politico-militare. Ciò di cui qui si parla prende infatti avvio dalla affermazione fatta da Donald Trump, dopo il bombardamento dei siti nucleari iraniani, secondo il quale: «I raid sull’Iran, come Hiroshima e Nagasaki, hanno chiuso la guerra». Secondo tale narrazione, infatti, i bombardamenti delle due città giapponesi avvenuti rispettivamente il 6 e il 9 agosto 1945 avrebbero costituito l’ultima ratio per risparmiare la vita di un numero di soldati americani che andato crescendo nel tempo da 500 000 a un milione. Ma nel corso di questo articolo si vedrà se è stato davvero così. Per adesso, quel che si può dire è che il riferimento ha suscitato l’indignazione degli “hibakusha”, i sopravvissuti giapponesi alle bombe, poiché:

Guardati con le lenti del diritto contemporaneo, gli attacchi di Hiroshima e Nagasaki si configurano come crimini di guerra plateali, e verosimilmente come due immensi attacchi terroristici. Usarli come esempio di una soluzione rapida e pulita, come Trump ha fatto, non è solo una falsificazione storica ma un ritorno inquietante alla lettura di quegli eventi che una parte di occidente si era fabbricata subito per giustificarli, e che nel tempo abbiamo superato. [Ma] il paragone ignominioso di Trump ha tuttavia almeno un merito: ci ricorda, se ce ne fosse bisogno, che a ottant’anni da Hiroshima siamo ancora immersi nell’era atomica, che non ne intravediamo la fine, perché forse fine non ci sarà. Di tutte le aberrazioni che l’umanità ha prodotto, la bomba atomica resta ancora la peggiore. E non è affatto, come ci siamo a lungo convinti e come si auguravano i fisici pentiti di Los Alamos, la miglior garanzia di pace possibile»1.

Eppure, eppure…
Come si è rilevato su queste pagine nel recente passato, anche qui in Europa si è scatenata, con la scusa del riarmo giustificato dalla minaccia russa, una nuova corsa all’armamento nucleare in cui, tra Francia e Regno Unito che già lo detengono, si vuole inserire anche la Germania del cancelliere Merz. Pretesa che sta alla base, certo più che la difesa dell’Ucraina, dell’accelerazione data al coordinamento tra Francia e Regno Unito con la Dichiarazione di Northwood, in vista di un uso non più impossibile dell’arma nucleare per rispondere a «minacce estreme» contro l’intera Europa.

Un modo come un altro per mettere alle dipendenze dai due paesi divisi dalla Manica l’intero sistema di difesa europeo che, comunque, per adesso ancora non esiste. Compresa l’improbabile deterrenza che potrebbe essere rappresentata dall’arsenale di circa 500 testate nucleari detenute complessivamente dalle due potenze “straccione”2 a fronte delle quasi seimila detenute dalla Russia3. In un contesto in cui molti governi hanno già scelto la Bomba come arma di pronto impiego.

Le atomiche tornano [così] ad essere quel che furono ottant’anni fa, a Hiroshima e a Nagasaki: estremo rimedio per finire il nemico. Ma in un contesto drasticamente diverso. La guerra dei dodici giorni fra Israele e Iran con la partecipazione straordinaria degli Stati Uniti non sarà ricordata per i suoi modesti esiti tattici ma per lo sconvolgimento che ha innestato su scala globale. Perché ha sancito la fine della deterrenza nucleare basata sulla mutua distruzione assicurata. Gli arsenali nucleari effettivi e latenti non assicurano più la vita di chi li possiede, per esempio Israele, o potrebbe presto dotarsene, come l’Iran. […] Il regime di non proliferazione formalizzato dal trattato voluto nel 1968 dai detentori della Bomba per impedire che altri se ne dotassero è saltato da tempo. Siamo a quota nove potenze nucleari, con l’Iran sulla soglia e otto variamente latenti […] I furbetti della latenza sono ormai smascherati. Giappone su tutti, poi Germania, Corea del Sud, Canada, Paesi bassi, Brasile, Argentina, Taiwan. Presto anche Turchia e Arabia Saudita. persino in Italia potrebbero riaffiorare sepolte velleità nucleari, espresse nel programma segreto franco-germanico-italiano del 1957, bloccato dagli americani (poi da De Gaulle)4.

Aggiungendo poi ancora il fatto che, molto probabilmente ad usare le testate nucleari sarà lo schieramento o il paese più a corto di soldati. Cosa niente affatto impossibile, considerata l’attuale scarsa propensione alla guerra e all’arruolamento riscontrabile soprattutto nei paesi europei. Ancora una volta, insomma, un modo per “risparmiare soldati”, ma certo non i civili.

Non solo, ma mentre si parla di guerra nucleare sul continente europeo, e nel resto del mondo, le forze politiche ed economiche legate al settore energetico e a quello industriale continuano platealmente a blaterare della necessità di costruire nuove centrali nucleari nei paesi europei. Italia compresa e, forse, in testa.

Si presentarono come salvatori della moderna razza umana
con aureole radioattive intorno alla faccia
con la chiave per la cura sicura, il trattamento per le nostre malattie
Una radiazione al cobalto ed una tasca piena di pillole
Parlando sempre del nemico in agguato al di là dell’oceano
Mentre loro si insinuavano tra di noi come malattie infettive.

L’uso dell’energia nucleare, per bocca dei suoi apprendisti stregoni, è giustificato da un autentico delirio di onnipotenza, visto che permetterebbe di assicurare ai suoi detentori sia un controllo illimitato sugli uomini che sulla Natura. Una fonte di energia che da un lato sembra promettere uno sviluppo infinito del progresso energivoro di cui il modo di produzione determinato dalle leggi del capitale è la perfetta manifestazione così come il superamento dei limiti della specie nei confronti del mondo materiale con cui deve fare i conti fin dal suo primo apparire sul pianeta, mentre dall’altro può far sventolare la promessa della massima distruttività applicata a coloro che si oppongano ai suoi detentori sia sul piano tecnologico e scientifico che militare. Quest’ultima accompagnata, però, da quella ipocrita del risparmio di vite umane derivante dal suo impiego.

Un argomento, insieme a quello del progresso, con cui gli scienziati del settore, spesso tutt’altro che neutrali e disinteressati come dimostra la storia del Progetto Manhattan e non sempre animati da nobili propositi o scientifiche certezze, hanno spesso giustificato il loro “sporco lavoro”. Come, ad esempio, lo stesso Robert Oppenheimer che, a differenza di quello portato sui grandi schermi con lo sguardo limpido e triste di Cillian Murphy, non aveva difficoltà ad ipotizzare che le vittime dell’uso della bomba su una città giapponese sarebbe stata di almeno ventimila5, pur di soddisfare la richiesta dell’esercito americano, proveniente dallo stesso presidente Roosevelt, di avere a disposizione un’arma che potesse porre fine alla guerra senza concedere al nemico alcuna forma di trattativa di pace.

Una storia che, per quanto riguardava la guerra con il Giappone, era iniziata molti anni prima. Nel 1923 addirittura, quando secondo il Plan Orange stabilito dalle forze armate e dalla marina militare statunitensi, la Fase III avrebbe dovuto prevedere: «Una campagna volta all’isolamento del Giappone attraverso il controllo di tutte le acque che lo circondano, nonché tramite l’equivalente delle operazioni di embargo e la cattura e l’occupazione di tutte le isole giapponesi periferiche, oltre che con incursioni aeree sul territorio nipponico»6.

Che nel novembre del 1941, prima dell’attacco giapponese a Pearl Harbour, il generale Marshall aveva anticipato nella sua opera di distruzione, affermando in una conferenza stampa che: «Se si dovesse arrivare a una guerra contro i giapponesi, combatteremo senza pietà. Le Flying Fortress7 saranno prontamente impiegate per mettere a ferro e fuoco le città di carta del Giappone. Non esiteremo a bombardare anche i civili: sarà un’azione a oltranza»8.

Al di là del fatto che questa ultima affermazione riveli sia il carattere razzista contenuto nella guerra con il riferimento alle “città di carta” tipiche dell’architettura tradizionale giapponese, che l’ipocrisia della giustificazione a posteriori dei bombardamenti sul territorio giapponese e le sue città, va qui ricordato che all’epoca l’aviazione militare statunitense, che costituiva ancora una branca dell’esercito, non aveva ancora a disposizione degli aerei a lungo raggio in grado di raggiunger il territorio giapponese dalle basi americane dislocate nel Pacifico o altrove.

Per raggiungere questo obiettivo si dovette utilizzare sia le basi militari inglesi in India che quelle messe a disposizione dalla Cina del governo di unità nazionale retto da Chiang Kai-shek e, soprattutto, dare inizio ad un nuovo progetto per un bombardiere a lungo raggio affidato alla Boeing: il B-29. Bombardiere i cui motori Wright R3350 costituirono sempre un problema non indifferente poiché prendevano regolarmente fuoco, tanto da aver contribuito alla morte del capo pilota collaudatore della Boeing durante il secondo volo del prototipo dello stesso B-29.

Non è per pignoleria che qui si segnala ai lettori che gli incendi di tali motori delle fortezze volanti, nel periodo finale della guerra, assommassero complessivamente a 6247 contribuendo così, ben più delle scarse difese antiaeree nemiche, oltre che le avverse condizioni metereologiche, alla perdita di novantasei bombardieri sui centoventicinque persi complessivamente nel corso della campagna di bombardamenti9.

Un fattore legato anche alla volontà dello stesso presidente Roosevelt di avere a disposizione uno strumento di distruzione a distanza, ben prima che fossero risolti tutti i problemi tecnici inerenti alla sua realizzazione. Sì, perché il presidente democratico per eccellenza, che aveva condannato a parole i bombardamenti sui civili indifesi ancora nel settembre del 1939, a partire dal dicembre 1941 aveva approvato un programma di ricerca americano per la possibile creazione di una bomba atomica e nel gennaio del 1943, dopo la conferenza anglo-americana di Casablanca, aveva annunciato che i tre Stati dell’Asse (Italia, Germania e Giappone) avrebbero dovuto arrendersi senza condizioni10.

Una guerra, pertanto, senza quartiere di cui i civili avrebbero costituito le vittime principali considerato che le aree produttive e urbane avrebbero costituito gli obiettivi principali, secondo la dottrina inaugurata dallo stratega italiano Giulio Douhet fin dal 1921 con il suo libro Il dominio dell’aria. Una sorta di ventre molle su cui operare e colpire, sia per indebolire le capacità produttive ed economiche dell’avversario che il morale della popolazione, inizialmente con l’uso di gas venefici e bombe incendiarie. Come avvenne, per esempio, con i bombardamenti di Dresda (13 e 15 febbraio 1945) e Tokyo (più volte bombardata dal 1942 fino all’estate del 1945).

In particolare il comando dell’aviazione americana aveva individuato nel Giappone, fin da prima dell’inizio del conflitto, un paese nemico particolarmente vulnerabile, «un obiettivo ideale per l’attacco aereo». Cosa che fece sì che lo schema della futura campagna di bombardamenti contro il paese del Sol Levante fosse «già stato sviluppato molto prima che ci fosse l’effettiva possibilità di realizzarlo»11. Ancora Roosevelt sostenne con regolarità e fermezza lo sviluppo della capacità di bombardamento delle forze aeree statunitensi, chiedendo già nel gennaio del 1939 (prima ancora dell’ipocrita difesa dei “civili indifesi”) che venisse avviato un programma di sviluppo e produzione di bombardieri pesanti.

Cosa che sarebbe valsa alla Boeing la fabbricazione di 3760 B-29, per un costo complessivo di quasi quattro miliardi di dollari, nonostante il fatto che durante l’addestramento negli Stati Uniti fossero morti 461 aviatori con la perdita di 272 velivoli a causa di incidenti, mentre complessivamente 2822 membri di equipaggi sarebbero rimasti uccisi o dispersi nella perdita di 493 velivoli totali nel corso delle operazioni di attacco condotte dal comando aereo americano. Cifre comunque insignificanti rispetto alle vittime civili causate da una strategia pianificata dal maggio del 1943, quando:

la sezione di intelligence delle forze aeree statunitensi chiese un rapporto sull’infiammabilità delle città giapponesi. L’Office of Stategic Service (OSS) preparò le mappe di venti città, suddivise in zone che indicavano il grado di vulnerabilità al fuoco. Tra queste figurava la voce «Tokyo: aree infiammabili», che era già stat tracciata nel novembre del 1942.
[…] Per testare la capacità degli ordigni incendiari disponibili di distruggere le abitazioni giapponesi furono costruiti dei modelli di «quartieri operai» presso il Dugway Proving Ground nello Utah, vicino a Salt Lake City. […] A Dugway, ogni casa giapponese, realizzata con un misto di legno si abete di Douglas e abete rosso, presentava due piani arredati nel tipico stile nipponico con stuoie dui paglia di riso «tatami», paraventi di legno, cuscini e pochi mobili. I test condotti a Dugway tra il maggio e il giugno 1943, quando il modello di villaggio giapponese fu bombardato per ventisette volte, dimostrarono che gli attacchi aerei incendiari potevano essere giustificati dal fatto che consentivano di appiccare un numero sufficiente di incendi non controllati (ovvero quelli che necessitavano di un intervento antincendio)12.

Una pianificazione anti-civili che con il bombardamento di Tokyo del 9 marzo 1945 raggiunse, come a Dresda in Germania, i suoi massimi sfarzi. L’operazione Meetinghouse, come venne definita, vide impiegati 334 aerei, il maggior numero fino ad allora nella guerra contro il Giappone, di cui 279 raggiunsero la capitale, su cui sganciarono 1665 tonnellate di esplosivo.

In breve tempo vennero appiccati centinaia di piccoli incendi che rapidamente andarono fuori controllo fino a trasformarsi in un’unica enorme conflagrazione. Le casette di legno non disponevano di alcuna protezione e il fuoco si propagò da un tetto all’altro, senza spazi o muri tagliafuoco che rallentassero le fiamme. Con un vento che presto raggiunse la velocità di 90 chilometri all’ora […] Sebbene spesso si parli di tempesta di fuoco, l’incendio fu una conflagrazione caratteristica, che si muoveva sottovento vicino al suolo, formando una colonna e bruciando tutto ciò che di combustibile trovava lungo il proprio percorso,in modo più turbolento di una tempesta di fuoco, con più calore e fiamme e meno fumo. In sei ore, lungo il proprio percorso la conflagrazione aveva bruciato quasi il cento per cento dell’area, compresi gli interni di edifici commerciali e pubblici più solidi, dove i pavimenti, le scale e le imposte di legno ardevano a causa della temperatura elevata.
[…] Nel calore intenso, le scintille riempivano l’aria, incendiando i vestiti e i capelli delle persone fino a trasformarle in un ulteriore oggetto combustibile. Le donne in fuga con i bambini legati alla schiena non facevano in tempo a rendersi conto che i piccoli morivano bruciati […] Negli edifici in cui la gente si affollava, compreso il grande teatro Mijiza nel quartiere centrale di Chūō, gli occupanti erano cotti a vapore, arrostiti, asfissiati e infine ridotti a uno spesso strato di cenere […] Il raid di Tokyo fu solo l’inizio di una campagna di massiccia distruzione urbana. Oltre ai 25,4 chilometri quadrati incendiati a Tokyo il 9 e il 10 marzo, furono devastati altri 260 chilometri quadrati in sessantasei aree urbane, uccidendo, secondo le cifre ufficiali, un totale di 269 187 persone in poco più di cinque mesi di incursioni aeree. Di tutti quegli attacchi, il «Grande raid incendiario di Kantō», come venne chiamato in Giappone il bombardamento di Tokyo, fu il più eccezionale. La quantità di morti al centro della pianura del Kantō rappresentò il magior numero di civili uccisi in un sol giorno di tutte le guerre del XX secolo13.

Dilungarsi oltre sulla distruzione successiva di Hiroshima e Nagasaki, il 6 e il 9 agosto 1945, sarebbe soltanto opera di pornografia della morte e del dolore, anche perché entrambe non costituirono altro che il corollario di una volontà di devastazione, di rappresaglia e trionfo anglo-americano che il conflitto portava con sé. Con il vantaggio, però, di non dover essere poi giudicato nel processo di Norimberga. Dal quale, non a caso, anche i devastanti bombardamenti nazisti sulle città inglesi ed europee furono esclusi dai crimini di guerra analizzati in quella sede.

Il cantautore americano Jim Page, da non confondere con il chitarrista inglese Jimmy Page dei Led Zeppelin, in un’intervista rilasciata a Robert Allen avrebbe dichiarato che: «Stavo avendo un’accesa discussione sull’uso dell’energia nucleare con un mio amico quando mi è venuto in mente che se vieni esposto a troppe radiazioni probabilmente ti ammalerai di cancro e che poi ti avrebbero trattato con le radiazioni. E che tutte queste centrali, instabili e mal costruite come sono, erano incidenti in attesa di accadere. Era come giocare alla roulette russa, quello strano gioco in cui si passa una pistola con un solo proiettile e tutti la puntano alla testa, si scommette e il fortunato vincitore perde. Solo che questa era una versione nucleare. Questa era la roulette russa Hiroshima-Nagasaki. Ho scritto la canzone quella sera (nel 1974)».

Giù nei bunker di cemento armato e piombo
Discepoli di Einstein lavorano a pieno ritmo
Creando centrali al metallo pesante per accendere le luci della città
Tutto ciò che puoi udire nel sottosuolo è un rumore cupo che dura tutta la notte
E le barriere della sicurezza tutt’intorno
Mentre producono il loro veleno e lo seppelliscono

Dentro a buchi, in baie nascoste, testate nucleari e sottomarini
attendono di poter fare il loro gioco
I cervelli militari migliorano la loro strategia
I soldati si drogano e camminano in fila incespicando
Mentre le schegge nei fiumi vengono trasportate via dalla marea
Loro la chiamano sicurezza ma noi non siamo soddisfatti

I nostri statisti e leader politici hanno grande interesse
per la mano che li nutre e stanno attenti a quello che dicono
Chiamano esperti per rassicurarci, per agitare la bacchetta magica
Questo è il potere del futuro e il futuro avanza
E rivogliono indietro tutti i loro favori, tutti i loro guadagni politici
Mentre le scorie riempiono i fiumi e si posano sulle pianure

Hanno provocato milioni di vittime, questo è il loro affare
Saranno colpiti dalla pioggia radioattiva che hanno creato
Hanno firmato il loro inevitabile destino ed esso senz’altro verrà
Nemmeno le lune dei Giove saranno abbastanza lontane per scappare
Quando questa terra che hanno colpito inizierà a girare vorticosamente
e l’inevitabile gravità li risucchierà verso il terreno

Conosco le menti dietro di loro, sono setacci pieni di buchi
non sono degni di fiducia con le loro mani sui controlli
Il loro sguardo è attraversato dalla gloria delle loro carriere
Il falso apprezzamento della lusinga è musica per le loro orecchie
Ascoltarli parlare su cosa non è ancora successo
è come giocare alla roulette russa con Hiroshima e Nagasaki.

La canzone pubblicata per la prima volta sulla rivista americana «Broadside» (# 134), che in ogni numero era accompagnata da un disco a 45 giri flessibile con una canzone di carattere politico o sociale, nel 1977, fu poi portata al successo internazionale dal gruppo musicale irlandese Moving Hearts di Christy Moore nel 1979 (qui).

Oggi, ad ottant’anni esatti dal bombardamento di Hiroshima e Nagasaki, rimane forse altro da dire?


  1. P. Giordano, Trump, le bombe atomiche e le parole sbagliate sull’Iran, «Corriere della sera», 28 giugno 2025.  

  2. Come Domenico Quirico ebbe a definire, tempo addietro sulle pagine del quotidiano «La Stampa», la politica inglese nei confronti dell’Ucraina.  

  3. Dati tratti da L. Ippolito, Arsenali coordinati ma indipendenti. Come funziona l’ombrello atomico, «Corriere della sera», 12 luglio 2025.  

  4. Quando non ci sei non capisco dove mi trovo, «Limes», n° 6/2025, pp. 7-8.  

  5. Si veda: R. Overy, Pioggia di distruzione. Tokyo, Hiroshima e la bomba, Giulio Einaudi editore, Torino 2025, p. 65.  

  6. R. Overy, op. cit., p. 3.  

  7. Fortezze volanti era il soprannome per i bombardieri a lungo raggio americani.  

  8. R. Overy, op. cit., p. IX.  

  9. R. Overy, pp. 9-16.  

  10. R. Overy, pp. 1011.  

  11. R. Overy, p. 7.  

  12. R. Overy, p. 25.  

  13. R. Overy, pp. 31-34.  

]]>
Il nuovo disordine mondiale / 27 – Crisi europea, guerra, riformismo nazionalista e critica radicale dell’utopia capitale https://www.carmillaonline.com/2025/01/02/il-nuovo-disordine-mondiale-27-crisi-del-capitale-guerra-riformismo-nazionalista-e-critica-radicale-dellesistente/ Thu, 02 Jan 2025 21:00:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86178 di Sandro Moiso

“Vorrei solo riuscire a comprendere come mai tanti uomini, tanti villaggi e città, tante nazioni a volte sopportano un tiranno che non ha alcuna forza se non quella che gli viene data” (Etienne De La Boétie. Discorso sulla servitù volontaria, 1548-1552)

E’ davvero straordinario come l’attenzione alle trasformazioni reali del mondo e dei rapporti economici e sociali che le sottendono finisca col nascondere troppo spesso il fatto che anche il capitalismo non è altro che il frutto di un’utopia. Dimenticando così che, come tutte le utopie, anche quella attualmente ancora predominante può essere negata e rovesciata [...]]]> di Sandro Moiso

“Vorrei solo riuscire a comprendere come mai tanti uomini, tanti villaggi e città, tante nazioni a volte sopportano un tiranno che non ha alcuna forza se non quella che gli viene data” (Etienne De La Boétie. Discorso sulla servitù volontaria, 1548-1552)

E’ davvero straordinario come l’attenzione alle trasformazioni reali del mondo e dei rapporti economici e sociali che le sottendono finisca col nascondere troppo spesso il fatto che anche il capitalismo non è altro che il frutto di un’utopia. Dimenticando così che, come tutte le utopie, anche quella attualmente ancora predominante può essere negata e rovesciata nel suo contrario.

Un’utopia che, per quanto “concreta” e già interagente nella Storia, ha, come qualsiasi altra, la necessità di delineare dei piani e delle prospettive di perfezionamento e realizzazione del proprio sogno di un mondo ideale. In cui, però, la perfezione corrisponde alla massimizzazione dei profitti e dello sfruttamento della forza lavoro a favore dell’appropriazione privata della ricchezza socialmente prodotta da parte di pochi.

Per questo motivo, per giungere alla critica radicale di quella che Giorgio Cesarano1 definiva l’”Utopia capitale”, è sempre utile leggere e interpretare le voci dei suoi difensori, motivo per cui può rendersi necessaria la lettura di un articolo di Matthew Karnitschnig, Europe’s Economic Apocalypse, pubblicato su «Politico» a fine dicembre.

Karnitschnig è un giornalista che ha lavorato come redattore per Bloomberg, Reuters e Business Week, per poi trasferirsi al «Wall Street Journal» e diventare in seguito capo dell’ufficio tedesco dello stesso quotidiano finanziario, con sede a Berlino. Con il lancio della filiale europea del portale statunitense «Politico» con il gruppo Axel Springer nel 2015, è diventato capo dell’ufficio tedesco di Politico.eu. Per precisione è qui giusto ricordare che «Politico» è un quotidiano on line fondato negli Stati Uniti nel 2007, diventato in breve tempo uno dei media più importanti della politica di Washington e successivamente acquisito nel 2021 dalla Axel Springer Verlag.

In tale articolo Matthew Karnitschnig si accontenta, per così dire, di tracciare il ritratto di una crisi economica europea che definisce giustamente come apocalittica e che in gran parte dipende dalle differenti scelte fatte dall’economia americana rispetto a quella europea nel corso degli ultimi decenni.

Prima di iniziarne la lettura è però sempre meglio ricordare che già Marx ed Engels, nel Manifesto del Partito comunista (1848), avevano colto nel capitalismo la sua capacità fondamentale di unificare il mercato mondiale. Ciò che allora era ancora un fenomeno destinato a concentrare nelle mani del capitale europeo, inglese soprattutto, una parte considerevole della ricchezza mondiale, oggi è diventato normale, coinvolgendo un maggior numero di attori nella competizione per l’accaparramento dei mercati e della ricchezza planetaria. Così, mentre tutti si affannano ancora a disquisire sulla fine o meno della globalizzazione, occorre ricordare che Engels in un suo testo tardivo aveva individuato nello sviluppo capitalistico cinese il momento culminante nella marcia espansiva del capitalismo e Rosa Luxemburg, proprio nel suo testo L’accumulazione del capitale (1913), aveva colto i precisi limiti del mercato mondiale e la necessità dell’imperialismo come fase della concorrenza spietata tra i differenti capitalismi nazionali, obbligati proprio da questa ad abbattere ogni confine di carattere nazionale sia fuori che dentro casa.

L’uso intensivo del termine globalizzazione, purtroppo, ha nascosto da qualche decennio a questa parte queste semplici scoperte vecchie più di un secolo, per dipingere una situazione di novità che di tal fatta non porta con sé proprio nulla. Compreso l’uso smoderato degli strumenti finanziari per compensare le difficoltà e i ritardi di un’accumulazione contesa ormai fra troppi player.

Se negli anni Novanta, infatti, la globalizzazione era sembrata lo strumento più avanzato del controllo del capitalismo occidentale sul resto del mondo, appare ora chiaro che, come aveva affermato Giulio Tremonti sulla rivista «Aspenia» già allora, la miseria delle buste paga dell’Oriente non soltanto europeo ha finito col rientrare nelle buste paga dell’Occidente. Ovvero il basso costo del lavoro in tanta parte del mondo, e soprattutto in alcuni dei paesi più industrializzati posti al di là dei confini dell’Occidente (Cina e India per esempio), ha finito col rendersi necessario anche là dove per una breve occasione storica, la seconda metà del XX secolo, la classe operaia e i lavoratori in genere avevano potuto usufruire di alti salari e notevoli garanzie di carattere sociale.

Alla fine del secondo conflitto mondiale erano stati proprio gli Stati Uniti a premere sull’Europa affinché fosse realizzato un sistema di welfare utile a stabilizzare i rapporti tra le classi per abbassare la conflittualità sociale e aumentare i consumi interni, in un momento in cui prima della ripresa europea e italo-tedesca in particolare a seguito delle ricostruzioni post-belliche, gli Stati Uniti rappresentavano, con i loro stabilimenti intonsi, la fabbrica del mondo, sia per quanto riguardava i consumi materiali che per quelli immateriali (cinema, spettacolo, musica, etc.).

Sfuggivano a questo schema, certo, i paesi dell’Europa orientale o del cosiddetto «socialismo reale» in cui però le garanzie sociali erano accompagnate da una produttività lavorativa bassa e rivolta più alla produzione di beni legati alla produzione di beni e a quella dell’industria pesante, che non alla produzione e al consumo di massa, strumenti invece indispensabili per la costruzione di una comunità basata sui principi dell'”utopia capitale” (qui). Il tutto aggravato da una spesa militare molto elevata per poter mantenere paritari i rapporti di forza con l’Occidente all’interno della Guerra Fredda o presunta tale.

Sono quelli che gli storici dell’economia chiamano i «Trenta ruggenti», gli anni che vanno dal 1945 al 1975 e che vedono il capitale occidentale, europeo e nordamericano, dominare la scena economica mondiale. Anni in cui la protesta operaia e le lotte sociali, per quanto combattive, potevano ancora essere accontentate nelle loro richieste di fondo. Sia che si trattasse di miglioramenti sul piano lavorativo e salariale che su quello, formale, dei diritti.

Anni in cui i partiti di sinistra, almeno in Occidente e in Europa in particolare, poterono immaginare di governare il corso degli eventi socio-economici e politici insieme a quelli di centro e centro-destra, spingendo per soluzioni socialdemocratiche condivise con i partiti centristi e di carattere repressivo nei confronti dell’estremismo di sinistra. Il tutto con il corollario di un’estrema destra che tornava svolgere il ruolo di arma di riserva per mantenere al loro posto le spinte più estreme in direzione del rinnovamento.

Questo quadro, qui estremamente semplificato per ragioni di spazio e tempo, si incrinò a partire dalla metà degli anni Settanta, quando le vittorie delle lotte anticoloniali iniziarono a ridurre non tanto l’influenza dell’imperialismo occidentale sul resto del mondo quanto, piuttosto, le entrate e i sovrapprofitti di cui anche la classe operaia occidentale aveva potuto usufruire grazie al basso costo delle materie prime e del plusvalore massicciamente estorto in altre parti del globo o in paesi ancora non del tutto autonomi nel loro rapporto con il centro dell’accumulazione mondiale.

Primo momento in cui, come adesso2, gli Stati Uniti iniziarono ad approfittare di una crisi energetica, allora principalmente petrolifera, di cui a fare le spese fu, ancora una volta come ai nostri giorni, l’Europa occidentale nel suo insieme, sprovvista com’era di materie prime come gas e petrolio. Materie intorno alle quali lo scontro tra i teorici di un’autonomia energetica europea e dipendenti e rappresentanti delle Sette sorelle si era fatto particolarmente virulento e non soltanto sotterraneo se si pensa all’eliminazione dell’italiano Enrico Mattei. Fondatore dell’ENI e promotore di accordi con l’Algeria, appena giunta all’indipendenza, per il suo gas e il suo petrolio.

Sette sorelle fu una definizione coniata proprio da Enrico Mattei, per indicare le compagnie petrolifere che formavano il Consorzio per l’Iran e che dominarono la produzione petrolifera mondiale dagli anni 1940 sino alla cosiddetta crisi del 1973. La nascita delle Sette sorelle può essere fatta risalire alla firma degli accordi di Achnacarry siglati nel 1928 fra i rappresentanti delle compagnie petrolifere Royal Dutch Shell, Standard Oil of New Jersey (poi Exxon) e la Anglo-Persian Oil Company (APOC, diventata poi British Petroleum), cui si aggiunsero in seguito: Mobil, Chevron, Gulf e Texaco. E fu proprio questo l’accordo che Mattei osò sfidare, pagandone le conseguenze il 27 ottobre 1962, in un incidente aereo dalle modalità mai sufficientemente chiarite, ma in cui furono probabilmente coinvolti servizi segreti francesi e anglo-americani.

A far precipitare la situazione era stata la decisione dell’Eni di riconoscere ai paesi produttori di petrolio del Nord Africa e del Vicino Oriente il 75 % anziché il 50 % delle royalty. Oltre a intaccare i profitti delle Sette sorelle, l’iniziativa configurava una politica estera italiana conflittuale col Paese guida dell’Occidente e cogli stessi equilibri determinati dalla seconda guerra mondiale. Nei progetti dell’imprenditore l’Italia, povera di materie prime e privata delle colonie, avrebbe dovuto ricostituire una propria zona d’influenza nel bacino del Mediterraneo, cioè in un’area che Usa, Gran Bretagna e Francia consideravano di loro esclusiva pertinenza. Mentre, a partire dal 1958, Mattei aveva proceduto all’acquisto di ingenti quantitativi di petrolio sovietico.

Tutte scelte rispetto alle quali il Dipartimento di Stato USA aveva risposto bollando la politica energetica dell’Eni come neutralista, terzomondista e incubatrice di sentimenti anticoloniali e anti occidentali. A far precipitare la situazione concorsero, da ultimo, l’appoggio accordato da Mattei a un progetto di lega fra alcuni paesi arabi del Nord Africa, un suo possibile incontro con esponenti libici interessati a detronizzare re Idris e a concedere all’Eni i diritti di ricerca petrolifera detenuti da società americane, e un incontro coi governanti algerini in calendario per i primi di novembre[ del 1962. In particolare quest’ultimo era visto con particolare preoccupazione dalla Francia che, con gli accordi di Evian del 18 marzo 1962, riteneva di essersi assicurata l’esclusiva degli idrocarburi algerini.

Chiuso, a solo titolo di esempio degli scontri inter-imperialistici per il controllo delle materie prime, il capitolo Mattei, occorre ritornare a quello che è il motivo di fondo di questa riflessione ovvero l’analisi della situazione economico-politica attuale e le sue possibili conseguenze di classe. In America e in Europa. Europa che, come ai tempi di Mattei, non ha visto diminuire affatto le sue divisioni e dispute nazionali e imperiali, ma che comunque ha perso molte chance di rendersi indipendente dall’azione statunitense.

Due destini interni, prima di tutto, all’Occidente, che come stringhe di un DNA politico ed economico si avvolgono l’una all’altra senza soluzione di continuità e senza altra soluzione che un collasso di una delle due parti o dell’Occidente intero. Da qui le differenti analisi, per impostazione politica e scopi, che ne scaturiscono. Spesso accomunate, però, dal sentore di una crisi cui l’unica uscita sembra essere quella di una guerra allargata (su scala mondiale).

Una prospettiva, quest’ultima, che prevede il coinvolgimento delle classi meno abbienti, di quella media impoverita e di quella operaia, nel nazionalismo guerriero, che si promette unico capace di difenderne gli interessi, in un mondo di cui l’Occidente ha contribuito ad abbattere i confini. Così da spingere, con le differenti forme di populismo nazionalista a ristabilire i privilegi perduti. Sia che si tratti della classe operaia che ha votato per Trump, sia delle simpatie di un parte della stessa nei confronti dei populismi e dei partiti di destra in Europa. Dove, occorre ricordarlo sempre, il semplice coinvolgimento della stessa classe negli ideali del nazionalismo populista o fascista, non significa che questi siano rivendicabili anche a sinistra oppure interpretabili come manifestazioni politiche di ripresa della lotta di classe. Come sintomi del disagio, sia negli USA che in Europa, sicuramente ma non come base per possibili future alleanze.

Da questo punto di vista l’articolo di Matthew Karnitschnig è efficace nel rivelare il piano del capitale, in tutta la sua possibile spietatezza, e vedremo subito il perché, tralasciando le minacce dell’amministrazione Trump, che pure aprono l’articolo di Karnitschnig, e concentrando l’attenzione su ciò che l’analista espone con ferrea lucidità.

Sfortunatamente, Trump è solo un sintomo di problemi molto più profondi. Anche se l’UE è concentrata su Trump e su ciò che potrebbe fare in futuro, quando si tratta dell’economia europea, non è lui il vero problema. In definitiva, tutto ciò che sta facendo con le sue persistenti minacce tariffarie e la sua ampollosità sta alzando il sipario sul traballante modello economico europeo. Se l’Europa avesse una base economica più solida e fosse più competitiva con gli Stati Uniti, Trump avrebbe poca influenza sul continente.
Il grado in cui l’Europa ha perso terreno rispetto agli Stati Uniti in termini di competitività economica dall’inizio del secolo è mozzafiato. Il divario nel PIL pro capite, ad esempio, è raddoppiato oppure, secondo altri parametri, è aumentato del 30%, principalmente a causa della minore crescita della produttività nell’UE. In parole povere, gli europei non lavorano abbastanza. Un dipendente tedesco medio, ad esempio, lavora più del 20% in meno rispetto ai suoi colleghi americani.
Un’ulteriore causa del calo della produttività in Europa è l’incapacità delle imprese di innovare.
Secondo il Fondo Monetario Internazionale (FMI), le aziende tecnologiche statunitensi, ad esempio, spendono più del doppio di quanto spendono le aziende tecnologiche europee in ricerca e sviluppo. Mentre le aziende statunitensi hanno registrato un aumento della produttività del 40% dal 2005, la produttività della tecnologia europea è rimasta stagnante. […] “L’Europa è in ritardo nelle tecnologie emergenti che guideranno la crescita futura”, ha detto Christine Lagarde nel suo discorso a Parigi. È un eufemismo. L’Europa non è solo in ritardo, non è nemmeno in gara. [poiché] è rimasta molto indietro rispetto agli Stati Uniti e alla Cina. L’Europa non ha mai raggiunto il suo obiettivo di spendere il 3% del PIL in ricerca e sviluppo, il principale motore dell’innovazione economica. In effetti, la spesa per tale ricerca da parte delle aziende europee e del settore pubblico rimane ancorata a circa il 2%, più o meno dove era nel 2000. [Così] gli investimenti dell’Europa in ricerca e sviluppo “non sono solo troppo pochi, ma una quantità considerevole sta fluendo nelle aree sbagliate”3.

Alcuni lettori potrebbero a questo punto storcere il naso di fronte a quello che lo scomparso Emilio Quadrelli avrebbe definito come una sorta di “determinismo economico”, ma è soltanto a partire dal piano del capitale che è possibile comprendere quale sarà il terreno di scontro per la classe nell’immediato futuro e quali le possibili iniziative da prendere e le parole d’ordine con cui accompagnarle. Senza l’illusione di trovarle già belle pronte nella minestra riscaldata della democrazia compartecipativa o, peggio ancora, della destra cosiddetta sociale e populista. Ma continuiamo con la lettura di Karnitschnig.

È qui che entra in gioco la Germania. Il piccolo sporco segreto della spesa europea in R&S è che la metà di essa proviene dalla Germania. E la maggior parte di questi investimenti confluisce in un settore: l’automotive.
[…] Se non altro, l’Europa è stata abbastanza coerente. Nel 2003, i principali investitori aziendali in ricerca e sviluppo nell’UE erano Mercedes, VW e Siemens, il gigante tedesco dell’ingegneria. Nel 2022 erano Mercedes, VW e Bosch, il produttore tedesco di componenti per auto. […] Sebbene l’Europa rappresenti oltre il 40% della spesa globale in ricerca e sviluppo nel settore automobilistico, le decantate case automobilistiche tedesche sono riuscite in qualche modo a perdere il treno dei veicoli elettrici. Questo fallimento è al centro del malessere economico della Germania, come dimostra il recente annuncio di VW che avrebbe chiuso alcuni stabilimenti tedeschi per la prima volta nella sua storia. Il settore automobilistico tedesco, che impiega circa 800.000 persone a livello nazionale, è stato la linfa vitale della sua economia per decenni, contribuendo più di qualsiasi altro settore alla crescita del paese. […] La crisi del mondo automobilistico tedesco è solo la punta dell’iceberg. Il paese sta lottando per far fronte a una serie di altre sfide complicate che stanno minando il suo potenziale economico. Il più grande: un uno-due tra una società che invecchia rapidamente e una carenza di lavoratori altamente qualificati. […] Detto questo, al ritmo con cui le aziende industriali tedesche stanno licenziando i lavoratori, la carenza di manodopera potrebbe presto risolversi, anche se non in senso positivo. Solo nelle ultime settimane, aziende del calibro di VW, Ford e il produttore di acciaio ThyssenKrupp, solo per citarne alcuni, hanno annunciato decine di migliaia di licenziamenti4. Di fronte ad alcuni dei costi energetici più alti del mondo, al costo della manodopera e alla regolamentazione onerosa, molte grandi aziende tedesche stanno semplicemente alzando la posta in gioco e delocalizzando in altre regioni. Quasi il 40 per cento delle aziende industriali tedesche sta prendendo in considerazione una mossa del genere, secondo un recente sondaggio5.

All’interno di un quadro del genere è chiaro che le minacce di Trump potrebbero avere conseguenze disastrose come sottolinea l’articolo pubblicato su «Repubblica» il 20 dicembre e già precedentemente citato.

Le possibili nuove restrizioni sulle importazioni di auto europee negli USA potrebbero costare 25 mila posti alle case automobilistiche. È quanto riporta lo Spiegel riportando i risultati di un’analisi della società di consulenza manageriale Kearney. Secondo il rapporto, fino a 25 mila posti di lavoro sarebbero a rischio presso Volkswagen, Mercedes-Benz, Bmw e Stellantis che hanno un business particolarmente grande negli Stati Uniti, così come i 1.000 maggiori fornitori europei, anche se alcuni dei produttori producono negli stabilimenti statunitensi.
“Ogni anno vengono esportati circa 640.000 Veicoli dall’Europa agli Stati Uniti: a seconda dello scenario, i dazi potrebbero portare a perdite di fatturato comprese tra 3,2 e 9,8 miliardi di dollari a livello di produttore, il che a sua volta avrebbe un impatto sui fornitori” spiega Nils Kuhlwein, partner di Kearney. In un primo scenario, le tariffe saranno trasferite integralmente ai clienti statunitensi. Il calcolo mostra che con tariffe del 10, 15 o 20 per cento, la domanda di veicoli importati potrebbe diminuire di 60.000 a 185.000 unità. Ciò significherebbe perdite di vendite per i produttori a prezzi di vendita di fabbrica fino a 9,8 miliardi di dollari, per i fornitori fino a 7,3 miliardi di dollari. Se le case automobilistiche trasferissero invece le tariffe ai loro fornitori, i loro risultati potrebbero diminuire fino a 3,1 miliardi di euro se venissero trasferiti i costi aggiuntivi del 60%, il che metterebbe in pericolo 25 mila posti di lavoro6.

A questo punto conviene esporre le ultime considerazioni di Karnitschnig sulla gravità e le ragioni di fondo della “crisi europea” per poi poter tirare le fila di quale potrebbe essere il futuro che ci aspetta in quanto europei e le contraddizioni su cui far conto per un’eventuale, ma per ora scarsamente visibile, ripresa della lotta di classe.

Essendo la più grande economia dell’UE, le disgrazie economiche della Germania si stanno ripercuotendo in tutto il blocco. Ciò è particolarmente vero nell’Europa centrale e orientale, che negli ultimi decenni le case automobilistiche e i macchinari tedeschi hanno trasformato nella loro fabbrica de facto. Che tu acquisti una Mercedes, una BMW o una VW, ci sono buone probabilità che il motore o il telaio dell’auto siano stati forgiati in Ungheria, Slovacchia o Polonia.
Ciò che rende la crisi dell’industria automobilistica tedesca così intrattabile per l’Europa è che il continente non ha nient’altro su cui contare. Anche qui, il contrasto con gli Stati Uniti è netto.
Nel 2003, le aziende che hanno investito di più in ricerca e sviluppo negli Stati Uniti sono state Ford, Pfizer e General Motors. Due decenni dopo, è la volta di Amazon, Alphabet (Google) e Meta (Facebook). Dato il livello dominante di questi attori e del resto della Silicon Valley nel mondo della tecnologia, è difficile vedere come la tecnologia europea possa mai giocare nella stessa lega, tanto meno recuperare.
Uno dei motivi è il denaro. Le startup statunitensi sono generalmente finanziate attraverso il capitale di rischio. Ma il bacino di capitale di rischio in Europa è una frazione di quello che è negli Stati Uniti. Solo nell’ultimo decennio, le società di venture capital statunitensi hanno raccolto 800 miliardi di dollari in più rispetto ai loro concorrenti europei, secondo il FMI.
Invece di investire i loro soldi nel futuro, gli europei preferiscono lasciarli in contanti in banca, dove circa 14 trilioni di euro di risparmi europei vengono lentamente divorati dall’inflazione.
[…] Quindi, se le auto e l’IT sono fuori, l’UE potrebbe semplicemente appoggiarsi alle tecnologie del 19° secolo in cui ha sempre eccelso come le macchine e i treni, giusto? Sfortunatamente, è qui che entrano in gioco i cinesi. Secondo una recente analisi della BCE, il numero di settori in cui le imprese cinesi competono direttamente con le aziende dell’eurozona, molte delle quali sono produttrici di macchinari, è salito da circa un quarto nel 2002 ai due quinti di oggi.
Con l’Europa che si trova ad affrontare una crescita stagnante, una competitività in calo e le tensioni con Washington – per citare solo alcuni punti critici – ci si potrebbe aspettare un robusto dibattito pubblico su un ampio programma di riforme.
Magari. Il rapporto di Draghi ha avuto circa un giorno di copertura nei principali media del continente e poi è stato rapidamente dimenticato. Allo stesso modo, il suono perpetuo dei campanelli d’allarme da parte del FMI e della BCE cade nel vuoto.[…] Ciò è probabilmente dovuto al fatto che gli europei non stanno davvero provando alcun dolore, almeno non ancora.
Sebbene l’UE rappresenti una quota sempre più ridotta del PIL mondiale, è in testa a tutte le classifiche globali per quanto riguarda la generosità dei sistemi di protezione sociale dei suoi membri. Con il peggioramento delle prospettive economiche della regione, tuttavia, gli europei si trovano di fronte a un brusco risveglio. [Mentre] paesi come la Francia, […] avranno difficoltà a mantenere un generoso stato sociale. Parigi spende attualmente più del 30% del PIL per la spesa sociale, tra le le più alte al mondo. Molti altri paesi dell’UE non sono molto indietro.
Se le fortune economiche dell’Europa non si invertiranno presto, questi paesi dovranno affrontare alcune decisioni difficili [Così] Il risultato probabile è una radicalizzazione della politica […] Il cui successo è tanto più inquietante se si considera che il peggio delle sofferenze economiche deve probabilmente ancora venire7.

Potrebbero bastare queste righe di Karnitschnig a delineare il quadro di quanto sta avvenendo in Europa, intorno a noi. Ma chi scrive, per amor del vero e non soltanto per rigirare, per così dire, il coltello nella piaga politica, intende sfruttare il quadro illustrato dal giornalista tedesco-americano per sottolineare come questo esprima un punto di vista preciso, quello del capitale e della sua utopia e, ancor più, di quello europeo se vorrà risollevarsi dalla situazione di scarsa competitività in cui si trova attualmente. Un quadro pienamente allineato con quello già esposto da Mario Draghi alcune settimane or sono e in cui la ricostruzione delle catene del valore è già pienamente evidente di per sé. Un quadro che ci mostra come lo stesso capitalismo sia oggi sempre più deciso a non concedere alcunché alla spesa sociale o al miglioramento e protezione delle condizioni di lavoro e dei diritti collettivi reali. Come dire: non c’è più trippa per i gatti, non illudiamoci.

Qualsiasi illusoria alleanza o ammucchiata elettorale, in un contesto in cui non è più possibile aspirare per via parlamentare alle conquiste ottenute nel corso dei fatidici “Trenta ruggenti“, non farà altro che dare fiato ai movimenti nazionalisti e populisti di destra o rosso-bruni che della fasulla promessa della difesa del risparmio europeo, degli interessi nazionali (facendo finta che questi davvero corrispondano a quelli delle classi sociali meno abbienti) e dei confini giuridici e politici che li racchiudono hanno fatto la loro bandiera. Bandiera che non può assolutamente essere fatta propria da chi ancora voglia rovesciare l’ordine economico e sociale esistente.

Non possono più esistere interessi comuni in Europa tra borghesia e proletariato, tra capitale e lavoro. Fin dai tempi della Comune di Parigi del 1871 che chiuse, almeno in questo continente, definitivamente la porta a qualsiasi ipotesi di collaborazione tra interessi contrapposti come quelli di classi storicamente nemiche giurate. Furono il fascismo, il nazismo e la pratica poltica dell’Internazionale ex-comunista stalinizzata a riproporre, purtroppo con successo, quell’ipotesi negli anni Venti e Trenta e con i processi resistenziali a prolungarla ancora oltre il secondo dopoguerra. Ma il trionfo di quell’ipotesi di collaborazione tra le classi significò, esattamente come nel caso del Primo macello imperialista ad opera delle socialdemocrazie, la partecipazione e il coinvolgimento in una guerra per la spartizione del mercato mondiale tra le più atroci e devastanti della Storia trascorsa fino ad allora. Sempre in nome, sostanzialmente, di un’utopia già condannata a morte dalle sue stesse insanabili contraddizioni.

Difendere l’interesse nazionale come alcuni, a sinistra e a destra, ancora fanno non significa altro che preparare una guerra in cui i cittadini e i lavoratori dovrebbero accettare qualsiasi sacrificio, pur di difendere i loro meschini e sempre irraggiungibili interessi individuali. Una rivendicazione che in qualche modo già sta alla base di tanto razzismo e di tanta xenofobia, utili soltanto a dividere un proletariato sempre più variegato, impoverito e in costante ricomposizione, sia sul piano internazionale che su quello interno ad ogni singolo paese.

In un contesto in cui l’utopia capitale, che per alcuni era giunta a un tal punto di sviluppo da far parlare della “fine della Storia“, un’idea che rispecchiava l’ottimismo culturale appartenente all’epoca del suo trionfo apparente8, quando sembrava che stesse per aprirsi un’era di prosperità globale, garantita dai valori liberal-democratici, ha rivelato l’errore insito nel sogno che ciò fosse possibile e nell’illusione «che il modello si sarebbe auto-perpetuato come un eterno punto di riferimento per l’umanità»9.

Una situazione foriera di sempre più devastanti guerre imperialiste e, dal punto di vista del rovesciamento dell’attuale modo di produzione o della sua difesa ad oltranza, di guerre civili inevitabili. In cui soltanto l’audacia della rivendicazione dell’internazionalismo al di sopra di ogni confine, del rifiuto della guerra e dei compromessi in nome degli interessi nazionali e la negazione radicale dei principi su cui si basa la forza dell’utopia capitale, fondendo insieme nella prassi rivoluzionaria la soggettività barbara della lotta di classe e l’oggettività delle condizioni date, potrà contribuire al superamento definitivo di tutto ciò che ancora opprime la maggioranza delle donne, dei lavoratori e dei giovani, migranti e non, al di qua e al di là dell’Oceano Atlantico.


  1. Giorgio Cesarano (1928-1975) rimane una delle figure centrali, ma anche una delle più rimosse, dell’attività politico-culturale italiana del secondo dopoguerra. Poeta, autore teatrale e televisivo, traduttore e soprattutto, a partire dal 1968, critico del capitalismo e militante dell’ala più radicale espressa dal movimento di contestazione dell’ordine esistente costituitosi in Italia proprio tra il ’68 e il ’77.  

  2. Si vedano in proposito le minacce di Trump sui dazi e sull’obbligo di acquisto di gas e petrolio americano da parte dei paesi europei: Trump minaccia l’Europa: “Dazi senza fine se non aumenteranno gli acquisti di gas e petrolio da noi”, «la Repubblica», Affari & Finanza -20 dicembre 2024. Minaccia comunque già anticipata nelle dichiarazioni di Ursula von der Leyen che ha dichiarato a novembre, con una più che evidente menzogna sui costi, che l’Ue prenderà in considerazione la possibilità di acquistare più gas dagli Stati Uniti: «Riceviamo ancora molto Gnl dalla Russia e perché non sostituirlo con quello americano, che è più economico per noi e fa scendere i prezzi dell’energia», «Corriere della sera», 20 dicembre 2024. In un contesto in cui gli Stati Uniti sono già il principale fornitore di Gnl e petrolio dell’Ue. Nella prima metà del 2024, hanno fornito circa il 48% delle importazioni di Gnl del blocco, rispetto al 16% della Russia.  

  3. M. Karnitschnig, Europe’s Economic Apocalypse, «Politico», dicembre 2024.  

  4. Nel corso delle ultime settimane è stato però annunciato un accordo sindacale sulla base del quale alcune dcine di migliaia di lavoratori lasceranno il lavoro su base volontaria mentre la chiusura degli stabilimenti è momentaneamente rimandata. Accordo giunto in seguito alla crisi del governo semaforo di Sholz che anticipa elezioni politiche che di qui a qualche mese potrebbero stravolgere ilquadro poltico tedesco.  

  5. M. Karnitschnig, cit.  

  6. Trump minaccia l’Europa: “Dazi senza fine se non aumenteranno gli acquisti di gas e petrolio da noi”, cit.  

  7. M. Karnitschnig, cit.  

  8. F. Fukuyama, La fine della Storia e l’ultimo uomo, 1992.  

  9. G. Segre, Perché siamo alla fine della fine della storia, «La Stampa», 27 dicembre 2024.  

]]>
Africa nera, rossa e “bianca” https://www.carmillaonline.com/2024/12/11/africa-nera-rossa-e-bianca/ Wed, 11 Dec 2024 21:00:24 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85662 di Sandro Moiso

Kevin Ochieng Okoth, Red Africa. Questione coloniale e politiche rivoluzionarie, con una Postfazione di Carlo Formenti. Meltemi Editore, Milano 2024, pp. 170, 16,00 euro.

“Mi sono convinta che la nostra comune condizione di neri è attraversata dagli effetti delle specifiche condizioni nazionali, di classe e di genere. Schiavismo e colonialismo forniscono il terreno storico sul quale razza, genere e nazionalità hanno scritto diverse versioni di soggettività nera. […] Questa qualità intrinsecamente multipla della soggettività nera richiede attenzione rispetto agli specifici sviluppi storici e discorsivi che hanno generato strategie sociali di subordinazione razziale”. (Denise Ferreira da Silva, “Facts [...]]]> di Sandro Moiso

Kevin Ochieng Okoth, Red Africa. Questione coloniale e politiche rivoluzionarie, con una Postfazione di Carlo Formenti. Meltemi Editore, Milano 2024, pp. 170, 16,00 euro.

“Mi sono convinta che la nostra comune condizione di neri è attraversata dagli effetti delle specifiche condizioni nazionali, di classe e di genere. Schiavismo e colonialismo forniscono il terreno storico sul quale razza, genere e nazionalità hanno scritto diverse versioni di soggettività nera. […] Questa qualità intrinsecamente multipla della soggettività nera richiede attenzione rispetto agli specifici sviluppi storici e discorsivi che hanno generato strategie sociali di subordinazione razziale”. (Denise Ferreira da Silva, “Facts of Blackness. Brazil is Not Quite the United States… And Racial Politics in Brazil?”, marzo 1998 )

Il testo, appena pubblicato nella collana «Visioni eretiche» della casa editrice Meltemi, ha sicuramente diversi meriti, ma mostra anche alcuni limiti di carattere politico, anche se, per iniziarne la lettura, conviene sicuramente illustrare i primi e presentare l’autore.

Kevin Ochieng Okoth è uno scrittore e ricercatore afro-inglese, fino ad ora mai pubblicato in Italia. Fa parte del Salvage Editorial Collective e collabora con il «London Review of Books». Ha conseguito un PhD in Teoria politica presso l’Università di Oxford e partecipa a conferenze, intervenendo su temi legati all’antimperialismo e ai movimenti anticoloniali del ventesimo secolo. Oltre a ciò, è uno dei fondatori di «Nommo Magazine» e, come si può intendere, fin dalle prime pagine del testo uscito il 22 novembre, il suo intento è principalmente quello di riportare il dibattito e la riflessione sulla moderna “tradizione” dei Black Studies e la Blackness, non soltanto afro-americana, sui binari della lotta di classe, dell’anti-imperialismo e dell’interpretazione marxista delle medesime, enormi e per troppo tempo sottostimate contraddizioni derivanti dalla differenziazione razziale insita nella società capitalistica fin dalle sue origini.

Per raggiungere il suo scopo, l’autore inizia dal “tramonto” dello “spirito di Bandung” – la conferenza tenutasi sull’isola di Giava nell’aprile del 1955, che mirava a costruire un fronte unito dei popoli africani, asiatici e latinoamericani per l’emancipazione dall’oppressione e dallo sfruttamento capitalistici – e dalle susseguenti illusioni create dalla decolonizzazione e i danni provocati dal dominio postcoloniale, per capire se resta oggi ancora una cultura rivoluzionaria nei paesi africani e delle condizioni di un suo possibile rilancio. Anche in un Occidente in cui un certo afro-pessimismo, di origine intellettuale e cattedratica, sembra voler negare qualsiasi possibile risoluzione dei problemi creati da una società profondamente razzializzata.

Infatti, a giudizio di chi qui scrive, è proprio la parte riguardante la critica di certi studi accademici condotti da universitari afro-americani e della concezione ontologica della blackness a costituire il contributo migliore dello studioso afro-inglese tra quelli contenuti nel testo, costituendone la parte forse più ampia. In cui viene sottolineata l’originaria idea di negritudine che ebbe origine tra gli intellettuali africani e antillani o caraibici di lingua francese, emigrati in Francia intorno alla metà del XIX secolo, come base della successiva riflessione sulla condizione “nera”.

Ispirati inizialmente dall’esistenzialismo e amati dagli intellettuali “bianchi” francesi, quasi tutti, dai surrealisti come i coniugi Cesaire fino a Frantz Fanon, dovettero fare i conti con una società che, pur nata sulle basi della Grande Rivoluzione, li trattava o li vedeva ancora e di fatto come ex-schiavi o rappresentanti di una società altra e primitiva, forse ancora pericolosa.

Da quelle annotazioni, che attraversano l’esperienza e la produzione dei teorici dell’iniziale negritudine, uscirono parole di odio e rivolta contro l’ordine “bianco” di cui si erano inizialmente, almeno intellettualmente, fidati. Ma, tutto sommato, escluso forse il caso di Fanon, non la rivolta materiale che toccò sempre, come fin dai tempi della rivoluzione haitiana condotta da Toussaint Loverture contro i dominatori francesi in epoca rivoluzionaria, alle masse sottomesse e sfruttate, uomini e donne che in quanto sauvages per l’ordine costituito riuscivano mettere in crisi l’ordine del discorso dei savants, sviluppatosi a partire dall’illuminismo.

Ed è proprio questo il filo rosso che, dalle origini del colonialismo bianco ed europeo fino agli anni Sessanta e Settanta del Novecento e ancora fino ad oggi, si dipana attraverso le tesi di Kevin Ochieng Okoth, distinguendo lo sforzo di rovesciare materialmente il mondo che ha creato e usato la differenziazione razziale per il proprio ineguale sviluppo da certi pruriti intellettuali, lungamente elencati e le cui tesi sono dettagliatamente illustrate, che vedono nella condizione Nera e nella contraddizione Nero/Bianco un elemento di irreparabile condizione schiavile del popolo africano e delle sue diaspore nei vari continenti in cui fu inizialmente e brutalmente deportato.

Finendo nella maggioranza dei casi col far sì che la protesta intellettuale finisca di rinchiudersi in quello che l’autore definisce come un nuovo afro-pessimismo (AP2.0) oppure di riscoprire in sé una nostalgia per un’Africa idealizzata e mai realmente esistita. Entrambe concezioni a-storiche che non sanno e, forse, non vogliono fare i conti con la Storia e con lo sfruttamento di classe, razza e genere che nella stessa affonda le sue radici.

Il rischio attuale, per l’autore, è infatti costituto dal fatto che il rimuginio di frange consistenti dell’intellettualità accademica, soprattutto afro-americana, sulle proprie condizioni all’interno delle istituzioni e sulle radici schiavistiche del proprio essere sociale e storico, assolutizzate una volta per tutte, finisca col rimuovere, più o meno coscientemente, qualsiasi ipotesi di rovesciamento dell’esistente in nome di una condizione, di fatto, monumentalizzata e resa astratta.

Una posizione lontana sia dall’esperienza del Black Panther Party che da quelle dei movimenti anticoloniali e antimperialisti che tra gli anni Sessanta e Settanta, soprattutto, misero fino al dominio coloniale europeo in Africa e diedero inizio a esperimenti, solo e sempre presuntamente, socialisti all’interno dei nuovi stati sorti da quelle feroci battaglie, politiche e militari, per il raggiungimento dell’indipendenza “nazionale”. L’esperienza, insomma, di tutte quelle iniziative rivoluzionarie che da Kevin Ochieng Okoth sono raccolte sotto la definizione di Red Africa.

Ed è in questa seconda parte del discorso che l’autore mostra una debolezza, propria, nella promozione di una concezione nazionalistica del socialismo “possibile”, che sorge, purtroppo, proprio dalle esperienze e analisi politiche di quel periodo, ancora fortemente influenzato dalla esperienza dei due blocchi, dalla Guerra Fredda e dalla persistente influenza dell’URSS e della Cina su un marxismo che si definì, sull’onda di Stalin degli anni Trenta, marxismo-leninismo e affezionato ancora all’idea del “socialismo in un paese solo”.

Esperienza che servì a travestire delle malferme rivoluzioni borghesi e nazionali da esperimenti socialisti, ma che, nei fatti, deluse e tradì le aspirazioni di liberazione collettiva e uguaglianza economica che avevano spinto gli appartenenti alle classi sociali e ai gruppi etnici meno favoriti ad una lotta che richiese, troppo spesso, grandi sacrifici e contributi di sangue.

Una sorta di illusione che non è possibile attribuire del tutto ad un marxismo originario, non marxista-leninista, che era rimasto troppo spesso all’interno di un’ottica eurocentrica non avendo fatto abbastanza i conti con la condizione coloniale dei popoli sfruttati dall’imperialismo e colonialismo occidentale, poiché sia per Marx, soprattutto, ma anche per altri rappresentanti del pensiero rivoluzionario materialista, la questione era stata tutt’altro che secondaria1.

Certo, come notano oggi gli studiosi, la rigida interpretazione del susseguirsi dei modi di produzione aveva spinto spesso il marxismo verso una concezione unilineare della Storia in cui un’autentica teleologia dello sviluppo e del progresso aveva spinto nel dimenticatoio le forme di produzione, sociali ed economiche, che contro quel modello di sviluppo si erano battute, talvolta con un certo successo. Ma, in fin dei conti, proprio in quella concezione affondavano le loro radici le rivoluzioni degli anni delle grandi lotte anticoloniali, facendo rientrare dalla finestra (lo sviluppo nazionale del mercato e delle attività economiche) ciò che era uscito dalla porta (attraverso la promessa di un’economia più egualitaria basata sulle tradizioni locali).

Kevin Ochieng Okoth fa molto bene a rimarcare più volte come ogni tratto culturale, sociale ed economico-politico, compreso quello delle differenti forme di schiavitù e delle loro conseguenze in ambiti diversi, siano state e siano tutt’ora conseguenza di diversi fattori storici e sociali, ma finire col rinchiudere tale giusta prospettiva in una sorta di rimpianto per il periodo dei paesi non allineati successivo alla conferenza di Bandung, cui si accennava all’inizio, e far ricader ogni responsabilità per i tradimenti delle rivoluzioni sulla pervasività dell’imperialismo americano e occidentale significa chiudere gli occhi su elementi altrettanto importanti per comprendere le successive sconfitte di quei progetti.

Intanto Bandung fu una conferenza di fatto a guida indonesiana e di un Sukarno che giusto dieci anni dopo, nel 1965, avrebbe dato vita ad uno dei più feroci massacri di civili e militanti comunisti dell’intero continente asiatico, certo con l’aiuto americano ma anche per sfrenato interesse nel mantenere il potere proprio e della borghesia indonesiana2.

Inoltre l’autore non fa cenno al fatto che gran parte delle rivoluzioni nazionali africane avvennero nei limiti dei confini geografici imposti fin dalla conferenza di Berlino del 1884/1885 che di fatto regolò la spartizione dei poteri e dei commerci occidentali nell’Africa Sub-sahariana. Confini che non tenevano conto delle divisioni tra lingue, culture ed etnie che caratterizzavano il continente e su cui spesso, ancora negli ultimi decenni gli interessi imperialistici occidentali, ma non solo, hanno potuto giocare.

L’unico rivoluzionario a cercare, forse, di superare tali limiti in un paese, il Congo belga, che prima di raggiungere l’indipendenza nel 1960 e denominarsi Repubblica democratica del Congo, copriva una superficie di 2.344.858 km quadrati pari o superiore a quella dell’Europa occidentale dal Portogallo alla Germani e dalla Gran Bretagna all’Italia, fu Patrice Lumumba con la sua idea di indipendenza e di unità africana che fu brutalmente soppressa, insieme a lui nel 1961 quando era primo ministro, liberamente eletto, di un paese di cui i belgi non volevano certo la piena indipendenza, vista anche l’enorme quantità di materie prime, minerali e metalli preziosi di cui era, e rimane, depositario.

Era toccato a Lumumba, il 30 giugno 1960, pronunciare lo storico “discorso dell’indipendenza” per un paese in cui una buona parte dell’amministrazione e i quadri dell’esercito restavano belgi, ma sfidò l’ex potenza coloniale decretando l’africanizzazione dell’esercito. Il Belgio rispose inviando truppe in Katanga (la regione mineraria) e sostenendo la secessione di questa regione. A settembre il presidente Joseph Kasa-Vubu revocò Lumumba e gli altri ministri nazionalisti. Lumumba dichiarò che sarebbe rimasto in carica e su sua richiesta il parlamento, acquisito alla sua causa, revocò il presidente Kasa-Vubu. La politica di Lumumba era antisecessionista, anticolonialista, antimperialista, filocomunista e mirava a diminuire il potere e l’influenza delle tribù ed a una maggiore giustizia sociale e autonomia del paese. In dicembre il generale Mobutu, succeduto a Kasa-Vubu, con un colpo di Stato fece arrestare Lumumba che il 17 gennaio1961 insieme a due suoi fedeli (Maurice Mpolo, ministro degli Interni, e Joseph Okito, presidente del Senato) fu giustiziato la sera stessa alla presenza di tutti i dirigenti del Katanga secessionista, mentre a partire dall’indomani molti dei suoi sostenitori furono eliminati con l’aiuto dei mercenari belgi3.

L’autore delle presenti righe si scusa per essersi dilungato su una vicenda che nell’economia del libro occupa poco spazio ed è narrata soltanto attraverso la testimonianza negativa della femminista anticoloniale Andrée Blouin, che svolse un importante lavoro come guida di organizzazioni femminili e come collaboratrice di vari governi del continente, tra cui quello di Lumumba, diventando una figura chiave nel movimento indipendentista congolese come stretta consigliera dello stesso Lumumba.

Verso la fine della sua autobiografia, ripercorre gli eventi che rappresentano il climax della sua vita politica: la crisi congolese, in particolare l’assassinio di Lumumba nel gennaio del 1961, che pose fine alle speranze di liberazione nazionale del paese. Blouin è al centro dell’azione mentre tenta di superare i dissidi fra le diverse fazioni per aiutarle a collaborare alla realizzazione di obiettivi comuni. Ma presto si rende conto che “i nostri fratelli lavoravano per il tradimento dell’Africa”: il rivale di Lumumba, il centrista filo-occidentale Joseph Kasavubu, che era strettamente legato agli Stati Uniti, ignora il mandato di Lumumba per formare il governo, tentando invece di formarne uno guidato da lui.

[…] Questo è, in qualche modo, un racconto scontato del tramonto della liberazione nazionale. Ma ciò che è interessante nell’analisi di Blouin sulla crisi congolese è il duro giudizio su Lumumba, che descrive spesso come troppo accomodante, timido e talvolta ingenuo. Il suo ritratto di Lumumba lo fa apparire sotto una nuova luce. Descrive vividamente il momento in cui Lumumba si costituisce dopo l’arresto della moglie – un momento drammatico non solo per la sua famiglia ma per i neri radicali del mondo intero. Per Blouin, la sua incapacità di mettere le esigenze della nazione al di sopra di quelle famigliari, come lei aveva spesso fatto, rappresenta niente di meno che un tradimento della liberazione nazionale. Blouin trasmette decisamente la sensazione che la rivoluzione africana, per usare una frase di Fanon, sarebbe stata più radicale se le donne che l’avevano innescata avessero trovato spazio nei governi post-coloniali, o se fossero state più intimamente coinvolte nel processo formale di decolonizzazione4.

Ma al di là di queste interessanti considerazioni sul ruolo che le donne avrebbero potuto avere nel processo di liberazione africana che il tentativo di Lumumba di limitare il potere delle tribù in un contesto, quello africano, in cui sono presenti almeno ottocento lingue diverse di cui soltanto due scritte (il copto e lo swahili), lasciando libero spazio alle lingue dei dominatori (inglese, francese, portoghese, spagnolo e arabo moderno), considerate lingue di lavoro, avrebbe sicuramente contribuito ad aumentare e definire con più forza dal punto di vista dell’autonomia politico-culturale e che invece l’esaltazione della “tradizione” contribuì a limitare.

Una politica che i differenti leader delle varie rivoluzioni africane quasi mai perseguirono pienamente, rivendicando invece tradizioni nazionali spesso in conflitto tra di loro e delle cui divisioni approfittarono non soltanto l’imperialismo occidentale ma anche le politiche espansive dei rivali russi e cinesi, come ancora oggi si può rilevare in tutta l’Africa Sub-shariana. Politiche che in alcuni casi, come nelle colonie portoghesi e soprattutto in Angola, misero a dura prova l’esistenza dei neonati governi a causa delle rivalità tra russi e cinesi. Alla faccia della comune causa marxista -leninista.

Una confusione per cui, ancora oggi, una volta dimenticato il semplice fatto che sono le contraddizioni di classe ad essere trasversali sia alle questioni di “razza” che di nazione e genere, i paesi dei Brics, potenzialmente antagonisti economico-politici e militari dell’imperialismo occidentale, possono essere scambiati per non allineati e “socialisti”, negando nei fatti la storia degli ultimi settant’anni e le contraddizioni che ne sono conseguite.


  1. Si vedano in proposito gli scritti antropologici di Marx e sul colonialismo in India e in Cina oltre che sulla guerra civile americana, così come quelli sicuramente più tardivi di Amadeo Bordiga, pubblicati su «Prometeo» e «Battaglia comunista» e, dopo la scissione del Partito comunista internazionalista nel 1952, su «Il programma comunista» sulle questioni, come si diceva allora, “di razza e nazione” (qui).  

  2. Si veda: V. Bevins, Il metodo Giacarta, Giulio Einaudi Editore, Torino 2021.  

  3. Sulla figura e sulle idee di Patrice Lumumba si vedano: A. Aruffo, Lumumba e il panafricanismo, Erre emme edizioni, Roma 1991; D. Van Reybrouck, Congo, Feltrinelli Editore, Milano 2014 e G. F. Venè, Uccidete Lumumba, Fratelli Fabbri Editori, Milano 1973.  

  4. K. Ochieng Okoth, Red Africa. Questione coloniale e politiche rivoluzionarie, Meltemi Editore, Milano 2024, pp. 135-137.  

]]>
Le parole di una sollevazione terrestre: L’abbecedario dei Soulèvements de la Terre https://www.carmillaonline.com/2024/10/18/le-parole-di-una-sollevazione-terrestre-labbecedario-dei-soulevements-de-la-terre/ Thu, 17 Oct 2024 22:36:05 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84981 Di Jack Orlando

Abbecedario dei Soulèvements de la Terre. Comporre la resistenza per un mondo comune; Ortothes Edizioni; Napoli 2024; 193 pp. 18€

Il cordone di gendarmi, bardati come robocop o stormtroopers, è schierato davanti a un mostruoso macchinario, gigantesco, vorace, che sbuca da uno strato più basso del terreno. È Luzerath, Germania, una protesta di massa contro l’estrazione mineraria. Ma potrebbe tranquillamente essere un capitolo di Star Wars. Francia: un monaco dal volto coperto dal cappuccio brandisce un manganello sottratto ai poliziotti che arrancano nel fango. Gli ultimi bagliori della ZAD di Notre Dame de Landes. Figure umane [...]]]> Di Jack Orlando

Abbecedario dei Soulèvements de la Terre. Comporre la resistenza per un mondo comune; Ortothes Edizioni; Napoli 2024; 193 pp. 18€

Il cordone di gendarmi, bardati come robocop o stormtroopers, è schierato davanti a un mostruoso macchinario, gigantesco, vorace, che sbuca da uno strato più basso del terreno.
È Luzerath, Germania, una protesta di massa contro l’estrazione mineraria. Ma potrebbe tranquillamente essere un capitolo di Star Wars.
Francia: un monaco dal volto coperto dal cappuccio brandisce un manganello sottratto ai poliziotti che arrancano nel fango. Gli ultimi bagliori della ZAD di Notre Dame de Landes.
Figure umane saltano da un albero all’altro, si rintanano dentro bizzarri rifugi costruiti tra gli alberi, dal terreno sottostante di nuovo gli uomini con caschi e scudi. Li bersagliano con proiettili di gomma e gas lacrimogeni, provano ad ancorare scale ai tronchi per raggiungere i rifugi.
Può essere una scena del secondo episodio di Planet of apes, e invece è l’occupazione contro la Cop City di Atalanta, o ancora di uno dei mille parchi che si vuole sottrare al cemento.
Andando a ritroso nel tempo e nell’infinito archivio di internet si può trovare, con un po’ di fortuna, un vecchio e ormai quasi introvabile frame video in cui figure scure fanno a pezzi una ruspa dentro un bosco, fumo e caos intorno. È un tre di luglio tra le montagne della Val di Susa.

Le immagini, a prescindere dalla loro capacità di farsi icona al tempo dei social media, ci parlano di una potenza delle lotte che si manifesta nel loro aprire scenari impensabili solo un momento prima, squarci di mondi possibili che precipitano in piccole parentesi del tempo presente.
Il fatto che possano essere montate dentro una pellicola fantascientifica o post-apocalittica, oltre all’immediato senso di straniamento, dovrebbe aprire a una riflessione su quale sia la posta in gioco su quei campi di battaglia.

Parliamo di potenza perché è questa che si dispiega e diventa visibile nel momento in cui una forza collettiva confligge con un nervo scoperto del suo mondo: che il collasso climatico sia ormai la cornice entro cui la specie umana deve muoversi è ormai una banalità, che quel collasso sia il terreno su cui avverrà la ristrutturazione del sistema capitalista e delle sue catene di comando, dovrebbe essere altrettanto ovvio, ma spesso così non è, facendo della pratica ecologica una stampella riformista di un pensiero liberale ormai al tramonto.

Ma per andare oltre le enunciazioni di principio, occorre scendere su di un piano più concreto: le forme della sopravvivenza. Le possibilità cioè di poter mangiare e vivere, di attraversare spazi la cui aria impestata non ci condanni a una morte a orologeria, la possibilità di determinare il percorso proprio e della propria collettività senza lo spettro della fame.

Fine del mondo o fine del mese, stessa battaglia!
Una parola d’ordine, quella generata nel movimento dei Gilets Jaunes, che più efficace non potrebbe essere, racchiudendo in sé tutti gli elementi che compongono la lotta tra le forze della vita terrestre e il vampirismo del capitale.
Ed è nel laboratorio francese, forse il più ricco ambito di sperimentazione politica dell’Europa contemporanea, che questo slogan si è riproposto dal 2021 nelle pratiche dei Soulèvements de la Terre, il movimento ecologista sorto da una costellazione di lotte locali e che ha trovato il suo battesimo di fuoco tra le flashball e i lacrimogeni, nei campi attorno a Saint Soline, muovendosi contro il progetto dei megabacini per lo stoccaggio delle acque.

L’ampiezza del movimento, i suoi numeri, il caleidoscopio di pratiche poste all’offensiva ne hanno fatto il nemico assoluto dell’ex ministro dell’interno Gérald Darmanin che mosse ogni strumento repressivo a sua disposizione per soffocare questa creatura, fino a imporne lo scioglimento per via giudiziaria.
Ne seguì una sconfitta su tutti i fronti: non solo il movimento è ancora in piedi, ma la stessa sentenza del tribunale ha finito per essere ritirata.

In un rapido processo di maturazione, i Soulèvements non solo hanno messo radici, ma sono stati in grado di ordinare un piccolo compendio attorno alle parole chiave su cui ruota la loro esperienza.
L’Abbecedario tradotto in italiano per Ortothes, non è quindi solo una raccolta di spunti, riflette in controluce un processo di elaborazione collettivo e plurale: hanno contribuito studiosi, militanti, realtà politiche e singoli; si mostra così l’estrema varietà di soggetti coinvolti in una lotta a tutto tondo.

La composizione è quindi il primo dato d’interesse: quel costante tentativo d’individuare il soggetto rivoluzionario, che nel pensiero politico specialmente italiano diventa quasi la ricerca della pietra filosofale, qui si dà in una frattura quasi antropologica tra quella parte di specie umana che intende abitare la Terra e quella che intende usarla per estrarne valore a costo di comprometterne definitivamente l’esistenza.
Non è una soluzione al quesito, sempre che ne esista una, ma di certo è un processo in grado di sviluppare forme di conflitto radicali e diffuse.

La capacità di far convivere pratiche differenti, di mettere in dialogo soggettività apparentemente estranee dentro il movimento crea un terreno comune dove ciascuno può trovare il proprio posto; una configurazione di contropotere che ricorda la suggestione dell’“Idra dalle molte teste”1 : privo di una direzione univoca, di un centro di comando, la resistenza è impossibile da decapitare e capace di rigenerarsi ad ogni colpo del nemico.
Eppure, se questa è la sua forza, il limite sta nell’incapacità del movimento di far emergere le proprie istituzioni, i centri di accumulazione e tutela del potenziale indispensabili al superamento delle fasi di riflusso fisiologico che seguono ad ogni momento di zenit di una lotta.
Non è un caso che ad ogni stagione di forte conflitto francese, segua una crisi delle strutture che ne determina l’inabissamento fino ad una nuova fase.
In altri termini, la ciclotimia movimentista sfugge ai tentativi di pacificazione ma manca nella costruzione di un’architettura in grado di separare antagonisticamente i corpi del sociale. Forza contro forza.

Ciò nonostante, qualcosa in più rispetto al passato aleggia nei Soulévements, l’intuizione del futuro possibile si lega alla riemersione del mondo antico.
La lotta non è più questione di mesi o di anni, ma di secoli. Le radici si allungano nelle zolle di un passato in cerca di giustizia.
Dietro l’appropriazione e finanziarizzazione delle acque si staglia il fantasma delle enclosures delle terre comuni, l’accumulazione originaria non come mito fondativo ma come processo in continuo rinnovamento. L’esproprio delle risorse vitali con tutta la violenza necessaria al suo stabilirsi, con le sue leggi e cani da guardia, rimette quotidianamente in scena il copione della sottomissione di enormi masse umane: la guerra alle donne e la brutalizzazione delle colonie, lo sterminio delle dissidenze e la messa al lavoro coatta.
Ogni spettro del capitale vive nelle condizioni del presente; allora incidere la plastica di un megabacino con un cutter o sabotare una fabbrica di cemento o armi, occupare un terreno per costruirvi una zona liberata sono tattiche di lotta che trascendono la contingenza per vendicare un passato che si rifiuta di lasciare la sua presa sulla vita.
L’emersione della potenza passa anche di qui, nel farsi movimento tellurico che smuove i rapporti di forza e ristabilisce torti e ragioni di un mondo che muore e potrebbe ancora fiorire.


  1. M. Rediker; Ribelli dell’Altlantico; Ferltrinelli 2018 

]]>
Avanti barbari!/7 – Contro lo Stato razziale integrale https://www.carmillaonline.com/2024/10/09/avanti-barbari-7-contro-lo-stato-razziale-integrale/ Wed, 09 Oct 2024 20:00:10 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84745 di Sandro Moiso

Houria Bouteldja, Maranza di tutto il mondo unitevi! Per un’alleanza dei barbari nelle periferie, DeriveApprodi, Bologna 2024, pp. 168, 17,00 euro

A giudizio dell’autore di questa recensione, e nonostante i dubbi su alcune delle proposte contenute nel testo appena pubblicato da DeriveApprodi nella collana hic sunt leones, Houria Bouteldja, della quale proprio qui su Carmilla era stato recensito anche il precedente testo pubblicato in Italia I bianchi, gli ebrei e noi (qui), rappresenta una delle voci più interessanti tra tutti/e coloro che hanno deciso di fare i conti non soltanto con il fallimento delle proposte [...]]]> di Sandro Moiso

Houria Bouteldja, Maranza di tutto il mondo unitevi! Per un’alleanza dei barbari nelle periferie, DeriveApprodi, Bologna 2024, pp. 168, 17,00 euro

A giudizio dell’autore di questa recensione, e nonostante i dubbi su alcune delle proposte contenute nel testo appena pubblicato da DeriveApprodi nella collana hic sunt leones, Houria Bouteldja, della quale proprio qui su Carmilla era stato recensito anche il precedente testo pubblicato in Italia I bianchi, gli ebrei e noi (qui), rappresenta una delle voci più interessanti tra tutti/e coloro che hanno deciso di fare i conti non soltanto con il fallimento delle proposte politiche ancorate alla critica del capitalismo e alla necessità di superamento dello stesso ad opera della lotta di classe, ma anche con i bagliori di razzismo ancora presenti all’interno dei medesimi percorsi di analisi politica.

Per iniziare occorre ricordare che «razza e razzismo sono le grandi questioni della modernità globale. Hanno forgiato il mondo per come lo conosciamo, con il suo carico di diseguaglianze, oppressione, discriminazioni, orrori.[…] La nuova collana prende di petto il tema, proponendosi di affrontarlo fuori da stereotipi e luoghi comuni, a partire da un presupposto: il razzismo non riguarda l’”altro”, ma ognuno di noi». Mentre il titolo italiano del testo traduce con il termine maranza quel Beaufs et barbares che ne costituisce il titolo originale francese. Come viene spiegato nella nota in apertura, se i barbari sono

i soggetti razzializzati e non addomesticabili delle banlieue, il termine beaufs – come viene argomentato nel libro – ha una forte specificità legata al contesto francese. Cosi vengono definiti, con uno stigma di classe, i proletari bianchi delle periferie, ancor più umiliati, impoveriti e marginalizzati dalla crisi. Se dovessimo trovare un termine italiano che, con altre radici storiche, si approssima a questa definizione, potremmo pensare a bifolchi. Mentre «Nel giro di pochi anni il termine maranza (neologismo nato a Milano dalla combinazione di «marocchino», nel gergo popolare sinonimo di immigrato, e «zanza», ossia «tamarro») è andato oltre l’identificazione «etnica», per definire quei ragazzi e quelle ragazze che, nel modo di vestire e di comportarsi, non si conformano ai codici della normalità sociale. Sono le nuove classi pericolose. Nel ribaltamento degli immaginari dominanti, l’essere maranza è tuttavia diventato una complessa, certo ambigua ma terribilmente concreta rivendicazione di potere da parte di chi, giovani neri e non delle periferie metropolitane, potere non ne ha mai avuto. Una rivendicazione non traducibile nel lessico della politica tradizionale.»(( Nota editoriale. Perché maranza in Houria Bouteldja, Maranza di tutto il mondo unitevi! Per un’alleanza dei barbari nelle periferie, DeriveApprodi, Bologna 2024, pp. 7-8. )).

Ed è proprio in questo vuoto di rappresentanza del linguaggio politico tradizionale, soprattutto a sinistra, che si inserisce il discorso dell’autrice. Che fa della possibile e auspicabile alleanza tra bifolchi bianchi metropolitani e giovani e ribelli barbari immigrati il cuore della sua analisi e del suo programma. Una sfida di cui il titolo, che sostituisce il più tradizionale proletari con maranza, restituisce bene l’idea.

Un’analisi che si sviluppa, orizzontalmente, attraverso i concetti di razza, classe e genere per individuare come questi siano, nel contesto dell’attività di controllo del capitale sulla società e delle resistenze che gli si oppongono dal basso, perfettamente sovrapponibili. In un contesto in cui la razzializzazione è servita anche a definire i limiti di classe e di genere.

In senso verticale si sviluppa invece l’analisi storica di come il capitale sia riuscito, all’interno di una repressione diffusa di ogni tipo di resistenza e di impoverimento progressivo messo in atto nei confronti di interi continenti, popoli, donne e classi sociali deprivate di qualsiasi forma di effficace rappresentanza o di potere reale, per quanto limitato nel tempo e nello spazio, a separare tra di loro i soggetti e in particolare il proletariato bianco da quello proveniente da altri contesti culturali. Insomma di come sia riuscito a contrapporre i bifolchi ai barbari.

Un’analisi che inizia dall’espansione coloniale europea e dal susseguente sterminio di interi popoli oppure della loro riduzione in schiavitù e che vede, con Marx, come questa sia stata la base della modernità dello sviluppo capitalistico e non una permanenza del passato in una società che si voleva moderna. Una rilettura della Storia ormai assodata non solo dagli studi de-coloniali, cui si fa ampio riferimento, ma anche prima dalle interpretazioni più radicali, sia in ambito “bianco” che “nero”, delle trasformazioni avvenute, a vantaggio del capitalismo occidentale e coloniale, nel periodo intercorso tra il 1492, data simbolo della “scoperta” e conquista del continente americano, e la Rivoluzione industriale con tutti i suoi effetti sulle società sia nell’Ovest che nell’Est, nel Sud come al Nord del pianeta.

E’ un punto questo che chi qui scrive tiene particolarmente a sottolineare, poiché praticamente attraverso l’instaurazione dei confini, ma ancor prima dei diritti monarchici e imperiali, sia laici che ecclesiastici, tutto il pianeta e suoi abitanti sono stati progressivamente colonizzati dal capitale prima mercantile, poi industriale e, successivamente, finanziario proprio a partire da quello che, nell’immaginario storico-politico, è stato il principale beneficiario di quella espansione: l’Europa, prima, e l’Occidente Atlantico, poi.

Un processo in cui l’unione tra azione repressiva armata e religiosa di carattere inquisitoriale ha posto le basi di ciò che la Bouteldja definisce, sulla base dell’uso di alcune categorie gramsciane, come “Stato razziale integrale”. Una forma sociale di organizzazione e controllo, soprattutto della forza lavoro, in cui il razzismo non è un errore, ma uno, e forse il principale, degli elementi fondativi.

Elemento che, una volta avviati i processi di formazione, e contemporanea resistenza, della classe operaia o, più genericamente, del proletariato industriale e non, diventerà essenziale al fine di dividere ciò che, una volta unito, potrebbe diventare il definitivo affossatore del modo di produzione capitalistico e dei suoi funzionari in doppio petto e in divisa.

Questa divisione, che si affermerà nel tempo attraverso quello che l’autrice definisce come il “salario della bianchezza”, ovvero forme di vantaggio di carattere economico e politico-giuridico, ha inizio, si potrebbe dire, con la fine del capitalismo mercantile e l’inizio di quello prettamente industriale, di cui la rivoluzione della macchina a vapore e e quella francese segneranno l’inizio. Proprio la seconda, con tutti i suoi roboanti proclami a favore di Liberté, Égalité, Fraternité, affondava però le sue radici in una ricchezza accumulata con lo sfruttamento del lavoro schiavistico nelle colonie che in quell’epoca vide anche la magnifica, e per un periodo vincente, rivoluzione degli schiavi haitiani guidati di Toussaint Louverture.

Era chiaro che l’eventuale alleanza tra proletariato in formazione “bianco”, che già era stato protagonista delle spinte più avanzate della Grande rivoluzione1, e schiavi “neri” o, se si preferisce anche in questo caso, “proletariato in formazione razzializzato” avrebbe potuto rappresentare un pericolo mortale per l’emergente società della borghesia produttiva.

Ma, non a caso, sarà soltanto la Terza repubblica, sorta in Francia dopo la sconfitta di Sedan nel 1870 e l’esperienza della comune di Parigi, a rivelare la sua identità razziale e coloniale per eccellenza, sorta su quello che Sadri Kiari chiama il “patto razziale”.

Una repubblica che dà vita allo Stato-nazione, la sovrastruttura che condensa i nuovi rapporti di forza all’interno dello Stato, ripartiti come segue: predominio della borghesia sulle classi subalterne, predominio delle classi subalterne sulle razze inferiori. Da queste asimmetrie nasceranno poi le due grandi opposizioni al blocco borghese: con l’emergere della classe operaia, certamente integrata nel progetto nazionale ma economicamente antagonista al polo borghese, e con quella dei dannati della terra, esclusi dal progetto nazionale e antagonisti ai poli borghese e proletario in virtù della loro funzione nella divisione internazionale del lavoro2.

Un patto razziale che storicamente ha avuto origine, come già si accennava precedentemente, ancor prima delle Terza repubblica e che si è articolato attraverso una serie di “conquiste”, non solo in Francia, che daranno vita al “patto sociale” necessario per la diffusione dell’idea di “popolo sovrano” sorta dalla Rivoluzione francese.

L’unita nazionale è un imperativo economico, ma anche un imperativo di guerra. E’ proprio in questo periodo che all’interno delle metropoli coloniali si crea il patto sociale, corollario del patto nazionale, sotto forma di diritti sociali e politici. Si considerino dunque:
1789: Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino – Francia
1825: Riconoscimento dei sindacati – Gran Bretagna
1841: Divieto di lavoro per i bambini sotto gli 8 anni – Francia
1853: Limitazione della giornata lavorativa a 8 ore per donne e bambini – Gran Bretagna
1864: Diritto di sciopero – Francia
1875: Diritto di sciopero – Gran Bretagna
1884: Riconoscimento dei sindacati – Francia
1890: Riposo settimanale il sabato e la domenica – Gran Bretagna
1906: Un giorno di riposo settimanale – Francia
1910: Generalizzazione della giornata lavorativa di 10 ore – Francia3.

Ed è intorno a queste conquiste, pur dovute alle lotte dei proletari di fabbrica e non, che si articolerà il progetto di una democrazia razziale che vedrà esclusi i dannati della terra dai “privilegi” conquistati dai lavoratori e le lavoratrici bianchi/e. Sia nelle metropoli che nelle colonie. Una divisione che spingerà i lavoratori presunti nativi e bianchi a prendere sempre più le distanze dai loro fratelli “colorati” e a vederli come nemici e competitori proprio sulla base di salari e trattamenti destinati ad abbassare il costo di un parte della forza lavoro e forzatamente accettati.

Su questa differenziazione si creerà una situazione di presunta superiorità che i partiti dell’opportunismo socialdemocratico, alla fine del XIX secolo, e “comunisti”, nel corso del XX fino ed oltre la guerra d’Algeria, che soltanto la ripresa delle lotte generalizzate della fine degli anni ‘60, si pensi a quelle degli operai della Renault di Flins, avrebbe momentaneamente superato.

Proprio il 1945, data dell’ipotetica “liberazione” dal giogo nazista sulla Francia e sull’Europa e che aveva visto la subalternità d’azione delle forze della sinistra tradizionale agli interessi della borghesia nazionale, avrebbe segnato la data di un’ulteriore svolta nella storia del patto sociale/razziale.

L’8 maggio viene ripristinata la Repubblica, lo Stato di diritto succede a Vichy, ma si commettono ancora massacri coloniali, questa volta a Setif e Guelma in Algeria, che causano decine di migliaia di morti, cosi come in Siria e successivamente in Madagascar e in Camerun. Tutte le contraddizioni dello Stato razziale si cristallizzano in questa data dell’8 maggio 1945. Mentre i lavoratori francesi hanno ottenuto le ferie pagate nel 1936, il «piano completo» di sicurezza sociale volto a garantire a tutti i cittadini i mezzi di sussistenza in tutti i casi in cui non siano in grado di procurarseli mediante il lavoro, proposto dal Consiglio nazionale della Resistenza, viene adottato nell’ottobre 1945. Il preambolo della Quarta Repubblica riconosce a tutti il diritto alla protezione della salute, alla sicurezza materiale, al riposo e al tempo libero. Non c’è dubbio che la lotta di classe abbia pagato di fronte a un padronato indebolito da cinque anni di leale e zelante collaborazione con i nazisti (importanti movimenti di sciopero operaio si verificano soprattutto nel 1947), ma l’oppressione dei popoli colonizzati non viene messa in discussione, cosi come il privilegio della classe operaia bianca. Proprio come la Rivoluzione haitiana prima di esse, le Rivoluzioni vietnamita e algerina scuotono l’architettura dello Stato razziale senza tuttavia abbatterla4.

Privilegi e differenziazioni che, come spiega ancora bene l’autrice saranno progressivamente spazzati via dalla crisi di competitività del capitalismo occidentale e dalle politiche economiche dell’Unione Europea che si rivelerà, per un lato, un vero e proprio super-Stato razzial

L’Unione europea svolgerà un ruolo centrale nel rafforzare l’Europa bianca nel mondo. La modifica, il 10 settembre 2019, della denominazione della carica da “commissario europeo per la migrazione” a “commissario per la protezione del modo di vita europeo“ è stata una sorta di consapevole ammissione. Poiché questo è ciò che rappresenta il progetto di costruzione europea: un mezzo per gli Stati europei di trovare un’altra via per rafforzare e garantire la propria posizione egemonica nel mondo, mentre vedono svanire le loro colonie. Le istituzioni europee sono solo l’espressione cristallizzata delle classi dominanti nazionali, il cui potere e in parte trasferito a livello sovranazionale. […]. Il consolidamento economico e politico degli Stati nazionali europei passa quindi senza dubbio attraverso il consolidamento della Ue. I gruppi identitari mobilitati dietro lo slogan «Difendi l’Europa» non si sbagliano, la difesa della bianchezza non spetta più ai soli Stati nazionali. Pertanto, il rafforzamento del razzismo e dell’estrema destra nella Ue non avviene nonostante le politiche dell’Unione, ma proprio a causa di esse… Inoltre, l’estrema destra si accomoda perfettamente nella Ue, sperando addirittura di diventare maggioritaria (in Svezia, Polonia, Ungheria, Italia, forse in Francia…)[…] Diviene esplicito un aspetto già evidenziato negli anni Ottanta da René Gallissot, che ricordava come, di fronte ai processi di decolonizzazione e alle migrazioni, l’identità nazionale dovesse essere accompagnata da un’identità di “natura culturale”: «la difesa dell’identità francese è allo stesso tempo quella dell’identità europea, quella di una civiltà superiore la cui essenza è attribuita per eredità»5.

Mentre dall’altro, a fronte di un blocco occidentale in declino, per la prima volta:

Se esiste un doppio processo in atto nella costruzione europea, il rafforzamento da un lato di «questa identità intorno alla chiusura europea, bianca e cristiana» […] questo processo avviene a scapito del patto sociale. Se le borghesie nazionali erano finora riuscite a universalizzare i propri interessi associando la classe operaia a un patto sociale/razziale relativamente equilibrato, la Ue non permette più, nell’ambito della competizione serrata con le potenze capitalistiche emergenti, di offrire gli stessi vantaggi alle classi subalterne a livello europeo. La Ue è tecnocratica, antidemocratica e antisociale. In breve, essa mette in discussione il dispositivo generale dello Stato razziale integrale, che tra l’altro traeva legittimità anche dal suo braccio sociale. In tal modo, rompe il consenso che ha fatto la fortuna dello Stato-nazione e crea dissensi sia nell’estrema sinistra che nell’estrema destra dello spettro politico, cosi come all’interno delle classi sacrificate.
Lo Stato non si fonda più soltanto sul patto razziale, di cui i governanti lucidi temono l’usura. La nuova questione è: come mantenere il potere e proseguire la metodica demolizione del compromesso storico tra capitale e lavoro a vantaggio del primo, mentre cresce una rabbia sociale che prende di mira anzitutto la politica liberale del governo e le istituzioni dello Stato? Ecco la risposta: il razzismo6.

E proprio a questo punto può prendere avvio la proposta rivoluzionaria della Bouteldja ovvero quella di cercare di riunire beaufs e barbares, apparenti nemici per la pelle, soprattutto i primi nei confronti dei secondi anche al di fuori dell’Europa, per rivitalizzare un’unità di classe dal basso che sola potrà offrire qualche speranza di superamento dell’attuale esistente. E proprio qui sta l’interesse della proposta analitica dell’autrice e militante.

Purtroppo, a parere di chi scrive, tale proposta è inficiata a livello teorico e programmatico da alcune lacune non di poco conto. Prima di tutto il riferimento, per quanto riguarda l’interpretazione marxista, ad autori come Antonio Gramsci (per il passato) o Domenico Losurdo (per il presente) che dall’ambito del capitalismo nazionale e del socialismo nazionalistico non hanno mai saputo uscire, a differenza di altri come, mi perdonino i lettori la sua ennesima riproposizione, Amadeo Bordiga che già negli ‘50 e ‘60 aveva saputo trattare differentemente la questione dell’internazionalismo, del colonialismo e dei fattori di razza e nazione nell’ambito della Sinistra comunista7. Autore, Bordiga, rimosso dalla storiografia comunista proprio da quelle stesse forze che, in Italia col PCI togliattiano e il PCF in Francia, avevano così tanto aderito, così come i loro tremuli e liberali epigoni, al patto sociale erazziale criticato dalla Bouteldja.

Proprio questo può essere anche il motivo di una lettura sostanzialmente errata sia del ruolo della controrivoluzione nazista e fascista che più che spingere all’indietro la ruota della Storia, come pare di capire dalle righe che l’autrice franco-algerina dedica loro, costituirono invece potenti mezzi di ammodernamento e centralizzazione del capitale, di cui la “nazionalizzazione razziale delle masse” costituì un elemento con cui siamo costretti a fare i conti ancora oggi e non solo per merito delle scelte politiche della UE.

Politiche cui l’autrice guarda con un occhio ancora ispirato a un socialismo nazionale, ovvero affascinato dal mito del “socialismo in un solo paese”, che già ha impedito in passato alle rivoluzioni anti-coloniali di eliminare lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e sulla donna realizzandone soltanto le istanze borghesi e che, oggi, appare non più proponibile, e con l’altro influenzato da istanze elettorali portate avanti da compagini “politiche” improvvisate e prive di una chiara visione del divenire delle attuali contraddizioni interimperialistiche, capitalistiche e di classe, come la France insoumise di Jean-Luc Mélenchon e il fronte popolare ad essa riconducibile hanno dimostrato nelle recenti elezioni francesi che, dopo tanto berciare antifascista, hanno contribuito soltanto a mantenere ancora in sella un Macron già di per sé finito nella pattumiera della Storia.
Un’influenza, quella elettorale, che ha contribuito forse ad appannare lo sguardo, di solito estremamente lucido, della Bouteldja e l’efficacia di un testo comunque interessante e, per molti versi, necessario.


  1. Si vedano il sempre utile A. Mathiez, Carovita e lotte sociali nella rivoluzione francese. Dalla Costituente al Terrore, Edizioni Res Gestae, Milano 2015 (ed. originale francese 1973 con il titolo La vie chère et le mouvement social sous le Terreur) e D. Guérin, Borghesi e proletari nella rivoluzione francese, Vol. I e II,La Salamandra, Milano 1979 (ed. originale francese 1973: Bourgeois et bras nus 1793-1795).  

  2. H. Bouteldja, op. cit., p.50.  

  3. Ivi, p. 52.  

  4. Ibidem, p. 55.  

  5. Ivi, pp. 56-57.  

  6. Ibid, pp. 57-58.  

  7. Si vedano soltanto, ma gli articoli sarebbero innumerevoli, A. Bordiga, I fattori di razza e nazione nella teoria marxista, serie di articoli comparsi sul quindicinale «il programma comunista» dal n. 16 (11-25 settembre) al n. 20 (6-20 novembre) del 1953 e in seguito raccolti in un volume dallo stesso titolo dalle Edizioni Iskra, Milano 1976.  

]]>
Avanti barbari!/5 – Gang, merce, autodifesa. Note sul “fronte interno” e la guerra in permanenza (prima parte) https://www.carmillaonline.com/2024/09/12/avanti-barbari-gang-merce-autodifesa-note-sul-fronte-interno-e-la-guerra-in-permanenza-prima-parte/ Thu, 12 Sep 2024 20:00:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84109 di Emilio Quadrelli

[A un mese di distanza dalla prematura scomparsa di Emilio, si è scelto di pubblicare in due parti un contributo dello stesso per il testo Guerra civile globale. Fratture sociali del Terzo millennio, a cura di Sandro Moiso, Il Galeone Editore, Roma 2021.]

Guerra esterna e guerra interna sono oggi l’elemento costitutivo e costituente della fase imperialista contemporanea tanto che, la guerra in permanenza, può essere considerata e presa come la cifra del presente. Questi due aspetti si intersecano formando un intreccio pressoché indissolubile. Le pratiche di neocolonialismo proprie del comando capitalistico contemporaneo fanno sì che i [...]]]> di Emilio Quadrelli

[A un mese di distanza dalla prematura scomparsa di Emilio, si è scelto di pubblicare in due parti un contributo dello stesso per il testo Guerra civile globale. Fratture sociali del Terzo millennio, a cura di Sandro Moiso, Il Galeone Editore, Roma 2021.]

Guerra esterna e guerra interna sono oggi l’elemento costitutivo e costituente della fase imperialista contemporanea tanto che, la guerra in permanenza, può essere considerata e presa come la cifra del presente. Questi due aspetti si intersecano formando un intreccio pressoché indissolubile. Le pratiche di neocolonialismo proprie del comando capitalistico contemporaneo fanno sì che i “fronti di guerra” attuali si siano emancipati dall’esistenza di confini rigidi e certi, le zone di guerra e le zone di pace, ma che guerra e pace convivano dentro un continuum. Ciò fa sì che le retoriche intorno alla sicurezza siano diventate un aspetto costante della guerra in permanenza1.

Se nelle situazioni di guerra del passato il problema della sicurezza interna riguardava la possibile presenza di una “quinta colonna” entro i perimetri statuali e l’azione di agenti nemici, oggi le cose si pongono in maniera assai diversa. La guerra al nemico interno non è più appannaggio di quegli “uomini nell’ombra” che non poco hanno contribuito a una narrazione storica, romanzesca e cinematografica particolarmente suggestiva e accattivante, ma è una guerra che si combatte pubblicamente e a viso aperto nelle strade contro “etnie”, “asociali”, “operai conflittuali”, “subalterni riottosi”, “devianti”, “marginali”, “banditi”, “criminali” o, più prosaicamente, “poveri”. Una guerra senza eroi. Se nelle epoche precedenti tutti i premi Oscar avrebbero fatto a gara per interpretare i personaggi di una bella spy story di guerra oggi, assai difficilmente, è pensabile che qualcuno scalpiti per interpretare un qualche anonimo funzionario di polizia alle prese con il suo ratissage quotidiano2.
Questa dimensione antieroica della guerra, questo presentarsi come routine burocratica e amministrativa, però, è esattamente la dimensione che la guerra interna incarna. Insomma, dobbiamo fare i conti con una forma–guerra che ben difficilmente potrà ascriversi alla dimensione dell’èpos. Detto questo, tuttavia, una qualche forma “eroica” in tutto ciò è possibile rintracciarla. Questo eroismo, per quanto sui generis ed estraneo ai canoni estetici e morali convenzionali, è riscontrabile nelle pratiche di resistenza che, magari inconsciamente, gli attori sociali mettono in atto. Se, in questo, vogliamo trovare una qualche genealogia nobile forse dobbiamo pensare a un classico del noir francese, I senza nome3.

Senza nome e senza volto, infatti, è la condizione nella quale è ascritto il nemico interno contemporaneo. Non individui ma una massa anonima la quale, con il suo fare apparentemente illogico e scomposto, incrina le sicurezze dell’individuo – cittadino che fa da sfondo al potere legittimo delle nostre società4. Ciò che nella forma guerra attuale si profila, ancora prima che uno scontro di potere, è uno scontro di legittimità. Il richiamo a I senza nome, allora, è qualcosa di più di una semplice suggestione artistico-narrativa ma incarna esattamente la relazione asimmetrica che informa per intero, dentro le metropoli dell’Occidente, la conflittualità contemporanea.
Di un aspetto particolare di questa realtà, la presenza delle gang di giovani albanesi nella città di Genova, prova a rendere conto il breve saggio che segue. Non si tratta di un fenomeno certo nuovo e poco coltivato dalle scienze sociali. Quanto la forma gang abbia rappresentato qualcosa di più di una curiosità al limite dell’esotico è testimoniato sia dalla ricca bibliografia scientifica prodotta soprattutto in ambito anglosassone, sia dall’interesse che il mondo del cinema ha riversato verso questo fenomeno. Gangs of New York, ma anche C’era una volta in America tanto per citare titoli noti ai più, mostrano come le gang abbiano rappresentato momenti centrali nella definizione degli assetti urbani, e quindi anche politici e culturali, delle metropoli Occidentali.
Almeno a partire dalla “Scuola di Chicago” in poi, sociologi della cultura, sociologi della devianza, antropologi culturali sino alla più recente etnografia sociale hanno avuto un occhio di particolare riguardo verso questo fenomeno urbano. La stessa sociologia maggiormente prona al convenzionalismo accademico, il funzionalismo parsoniano, non ha disdegnato di assumere le gang nei perimetri della sua ricerca. In Italia di ciò vi è sicuramente poca traccia. Il provincialismo del mondo accademico italiano è talmente noto da non fare neppure notizia così come è altrettanto noto, corollario di quanto appena asserito, la sua ostilità nei confronti di ciò che proviene al di là dei propri confini nazionali. Se, a conti fatti, si trattasse solo di ciò potremmo risolvere semplicemente il tutto facendoci ragione di un mondo accademico particolarmente conservatore e ampiamente bigotto, tuttavia la questione assume contorni che vanno ben oltre gli angusti perimetri nazionali. Il disinteresse per queste forme di “socialità subalterna” sembra essere diventato moneta corrente a trecentosessanta gradi nell’intero panorama delle scienze sociali occidentali, il che non è casuale. Il fatto che le masse siano uscite dai radar di ciò che, in senso ampio, possiamo definire ricerca sociale racconta qualcosa di non secondario. Ciò che ormai da tempo è accaduto è una delegittimazione dei mondi subalterni i quali, se esistono, lo sono solo in quanto ricettacoli di devianza, degrado, emarginazione e via dicendo. Non è un caso, quindi, che solo lo stigma diventi il contenitore nel quale inserire tutto ciò che non è consono alle retoriche dell’individuo-cittadino. Provare a incrinare questa gabbia di luoghi comuni non è certo tutto, ma è sicuramente qualcosa.

Millennial e “piccoli uomini”
Da qualche tempo a Genova sembra essersi materializzata una nuova ed ennesima “emergenza”: lo spettro delle gang giovanili albanesi. Risse, furti, scippi, spaccio, ancorché di modeste proporzioni, sono ciò che, nelle retoriche di senso comune, fa da sfondo allo “stile di vita” dei giovani albanesi. Non si tratta certo di una invenzione mediatica anche se, per onestà intellettuale, in contemporanea andrebbe ricordato il massiccio utilizzo e sfruttamento di questa giovane forza lavoro in attività particolarmente dure come quelle edili, dei ponteggi o del facchinaggio. Lavori sottopagati e in nero di cui l’attuale ciclo di valorizzazione del capitale appare particolarmente ghiotto. A questi si aggiungono i diversi impieghi, anche se in misura minore rispetto all’immigrazione africana e orientale, nei retrobottega della ristorazione e dei locali della “movida”. Significativamente gli appartenenti alle gang alternano attività legali ed extralegali in un continuum senza alcuna sorta di continuità. Ciò, per molti versi, li porta a essere un elemento paradigmatico di una condizione proletaria, ampiamente diffusa e continuamente in estensione, dell’era cosiddetta globale. Una realtà esistenziale, propria di ampie quote di proletariato soprattutto “extracomunitario”, dove la linea di confine tra attività lecite e illecite è particolarmente sottile. Ma non anticipiamo troppo.

Partiamo, intanto, con il definire la condizione politica ed esistenziale dei giovani albanesi. Anche loro, anagraficamente, fanno parte della generazione Millennial ma le assonanze con gran parte dei loro coetanei europei finiscono esattamente qua, soprattutto perché la così detta fase adolescenziale, che sociologi e psicologi ammalati di un inguaribile etnocentrismo considerano condizione universale, rimane una dimensione e una condizione a questi obiettivamente sconosciuta5. Più realisticamente il loro dato anagrafico corrisponde a quella dimensione di “piccolo uomo” la quale, a conti fatti, è la condizione comune dei minori in gran parte del mondo. Non a caso, e chiunque abbia minimamente a che fare con loro (ma la cosa è assolutamente identica per i giovani provenienti dall’Africa, dal Medio Oriente o dai diversi paesi orientali) può facilmente riscontrarlo, mostrano non poche difficoltà a comprendere il senso dello “essere minori”. Tutto ciò ha ben poco a che vedere con quella dimensione, tanto cara ai “multiculturalisti” di ogni sorta, con l’astrattezza della dimensione culturale, ma detta incomprensione affonda le sue radici in una condizione materiale sostanzialmente tanto estranea quanto distante a quella dei nostri Millennial.
Più che focalizzare lo sguardo sulle culture diverse occorre, allora, tenere a mente la diversa materialità che fa da sfondo alla vita dei “piccoli uomini” albanesi rispetto a una parte degli adolescenti nostrani. Una parte perché anche all’interno dei nostri mondi, tra chi può vantare la condizione propria del Millennial e ampie quote di minori subalterni, si assiste a una cesura non proprio secondaria. Al proposito è sufficiente ricordare la “differenza antropologica” riscontrabile tra gli studenti di un liceo e quelli di un istituto professionale, per non parlare delle quote non propriamente irrisorie di coloro che vanno a riempire le schiere degli “abbandoni scolastici” e coevo inserimento nell’indistinto mondo del lavoro occasionale o delle micro-attività illegali.

Mentre i Millennial approdano in maniera pressoché inerziale nella dimensione del giovane per sempre i “piccoli uomini”, in maniera altrettanto inerziale e sovra determinata, sono obbligati a crescere in fretta6. Le derive alle quali sono obbligati non consentono loro incertezze di sorta. Immersi nella dimensione del più duro e bieco darwinismo sociale non possono far altro che marciare o morire. Per quanto sinteticamente tutto ciò evidenzia come, nelle nostre società, le tradizionali differenze di classe abbiano finito con il cambiare pelle. Tra i Millennial e i loro coetanei non vi sono semplici differenze di status e di reddito ma uno scarto che può essere definito “antropologico”. All’inclusione e legittimità dei primi si contrappone l’esclusione e l’illegittimità dei secondi. A partire da qua, allora, diventa possibile, in maniera “avalutativa”, comprendere tutto ciò che il fenomeno gang si porta appresso.

Genealogia delle gang
Nel descrivere i comportamenti dei giovani albanesi attualmente presenti sul territorio genovese sono almeno tre gli aspetti che vanno tenuti a mente. Il primo ha a che vedere con il fenomeno dell’immigrazione interna consumatosi in patria. Gran parte di loro, infatti, proviene dalle zone rurali dell’Albania dove, prima del salto in Europa, hanno stazionato per periodi più o meno lunghi nei centri urbani del loro paese. Il punto di partenza è una condizione di estrema povertà e privazione dove, in non pochi casi, mettere insieme il pranzo con la cena ha ben poco di scontato il che non è per nulla un modo di dire. Una minima conoscenza delle loro biografie racconta come pane, olio e sale siano stati sovente la loro alimentazione base. Una differenza non proprio inessenziale con i nostri mondi dove una quota non proprio irrisoria di popolazione spende molto di più per dimagrire che per nutrirsi. Questa condizione di carenza alimentare, al limite del famelico, può essere facilmente testimoniata da chiunque abbia avuto a che fare con i minori albanesi inseriti in una qualche struttura deputata all’accoglienza dei “minori stranieri non accompagnati”. Il cibo somministrato a pranzo e cena, tra l’altro non proprio di ottima qualità, si trasforma, almeno inizialmente, in un vero e proprio “assalto alla diligenza”. Con buona pace dei multiculturalisti lo stomaco e non una qualche forma di hybris culturalmente determinata detta i loro ritmi e tempi. Detto ciò torniamo al nostro ragionamento.
Qua, ovvero negli ambiti urbani nei quali sono approdati, sono andati a infoltire quelle schiere di forza lavoro a buon mercato della quale il comando del capitale è famelico. Ma comando del capitale in astratto vuol dire poco se, al contempo, non se ne concretizzano le sembianze. Ed è esattamente qui che i giochi si complicano ma si fanno anche interessanti. Comando capitalistico, in Albania, significa in gran parte “comando italiano”. Ciò che non era riuscito all’impresa imperiale fascista, che proprio in Albania aveva conosciuto l’ennesima sua disfatta, ha trovato una corposa rivincita attraverso il recente colonialismo democratico proprio della cosiddetta era globale. In Albania si sono precipitate frotte di aziende e industrie italiane le quali hanno impiantato siti produttivi dove, in maniera semi-schiavistica, hanno potuto mettere al lavoro, in pieno accordo con i diversi governi che si sono succeduti nel paese, parti non irrilevanti delle masse proletarie e subalterne locali. L’Albania, come ampiamente noto, è il paese con i salari più bassi del Continente europeo e dove le protezioni sociali si materializzano solo dopo la masticazione di qualche fungo allucinogeno.
Per le imprese italiane si è trattato di una opportunità senza precedenti e non si sono certo fatte sfuggire l’occasione. A conti fatti l’Albania è un paese colonizzato con governi del tutto proni alle esigenze del comando capitalistico internazionale e, sotto il profilo militare, sotto tutela NATO. In tutto ciò l’Italia gioca un ruolo di attore protagonista. Le pessime condizioni di vita ed esistenza della popolazione albanese sono, in buona parte, frutto della dominazione economica italiana. Ciò non sfugge, senza dover essere esperti di geopolitica e geo-economia, ai giovani subalterni albanesi i quali, nei confronti del nostro paese, non nutrono sentimenti particolarmente sereni e amichevoli. Succede, con i giovani albanesi, ciò che accade abitualmente con gli immigrati africani dell’area francofona. Chi, in qualche modo ha avuto a che fare con quella immigrazione, sa benissimo quanto astio e odio i giovani africani francofoni nutrano nei confronti della Francia la quale, a tutti gli effetti, continua a esercitare una dominazione di stampo coloniale nei confronti delle ex colonie. Per i giovani albanesi l’Italia rappresenta esattamente ciò che la Francia incarna per i loro coetanei africani.
Non senza ragione, quindi, nei comportamenti “barbari” dei giovani albanesi si potrebbe leggere una sorta di anticolonialismo istintuale il quale, come ben ha rilevato Fanon, finisce con il far sorgere nel colonizzato il desiderio di sostituirsi al colono. Infatti, contrariamente a quanto amano pensare o, più realisticamente, desiderare le anime belle della sinistra perbenista sempre alla ricerca di un mitico selvaggio, la condizione del quale può essere facilmente ascritta al “grado zero, da educare e plasmare al fine di edificare l’uomo nuovo, i giovani albanesi, ma la cosa vale per l’insieme dei soggetti migranti, hanno ben poco di selvaggio, piuttosto è la figura del barbaro quella che meglio gli si addice. In ciò, con grande disappunto degli educazionisti di ogni genere e risma, mostrano una corposa sintonia con i nostri modelli culturali e morali. In un mondo fondato sul dominio i “nuovi barbari” provano a dominare a loro volta. Dentro questa contraddizione e non andando alla ricerca del buon selvaggio, semmai, è necessario lavorare per far sì che questo anticolonialismo istintuale si trasformi in qualcosa di diverso. Dentro questa strettoia occorre saper agire. In ciò non vi è alcuna certezza ma, come la storia del nostro paese racconta a proposito delle gang e delle “batterie” degli anni Settanta, sicuramente una possibilità che occorre saper cogliere e coltivare. Riassumendo, quindi, l’astio nei confronti della nostra dominazione neocoloniale è il primo aspetto che occorre tenere presente quando si affronta la questione delle gang giovanili albanesi. Questa la cornice oggettiva da tenere costantemente a mente.

(Fine prima parte)


  1. Per una buona disamina di queste retoriche si può vedere, Alessandro Dal Lago, Polizia globale: guerra e conflitti dopo l’11 settembre, Ombre Corte, Verona 2003.  

  2. Ho provato a descrivere empiricamente queste procedure poliziesche in relazione alla “rivolta della banlieue”, Emilio Quadrelli, Militanti politici di base. Banlieuesards e politica, in Matilde Callari Galli (a cura di), Mappe urbane. Per un’etnografia della città, Guaraldi, Rimini 2007.  

  3. I senza nome, scritto e diretto da Jean-Pierre Melville, è un film noir italo–francese del 1970.  

  4. Cfr. Alessandro Dal Lago, Emilio Quadrelli, La città e le ombre. Crimini, criminali, cittadini, Feltrinelli, Milano 2003.  

  5. La figura del “minore” ha ben poco di universale e ancor meno di naturalistico, ma è il frutto di determinati “ordini discorsivi” e di “potere”. Al proposito si veda, Egle Becchi, Dominique Julia (a cura di), Storia dell’infanzia dal ‘700 a oggi, Laterza, Roma 1996.  

  6. Si veda al proposito, Cristiana Ceci, Francesco Iarrera (a cura di), Ho viaggiato fin qui. Storie di giovani migranti, Edizioni Centro Studi Erickson, Trento 2017.  

]]>
Le chimere del frontismo e dell’antifascismo elettoralistico: il cadavere ancora cammina https://www.carmillaonline.com/2024/07/10/le-chimere-del-frontismo-e-dellantifascismo-elettoralistico-ovvero-il-cadavere-ancora-cammina/ Wed, 10 Jul 2024 19:15:43 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83389 di Sandro Moiso

“Il risultato peggiore, per le sorti della classe proletaria, è l’entrata nel tronfio affasciamento antifascista della parte proletaria che aveva finalmente imboccata la via originale ed autonoma” (Amadeo Bordiga)

Nel corso degli anni Novanta, quando chi scrive faceva ancora parte di una ristretta compagine militante dal chiaro riferimento bordighista, che in seguito avrebbe dato vita alla rivista «n+1», un circolo politico di estrema destra scrisse al medesimo gruppo chiedendo un contatto per una eventuale collaborazione, una volta considerate le possibili affinità di vedute.

La risposta del militante più anziano, allora alla guida dello stesso, fu ferma [...]]]> di Sandro Moiso

“Il risultato peggiore, per le sorti della classe proletaria, è l’entrata nel tronfio affasciamento antifascista della parte proletaria che aveva finalmente imboccata la via originale ed autonoma” (Amadeo Bordiga)

Nel corso degli anni Novanta, quando chi scrive faceva ancora parte di una ristretta compagine militante dal chiaro riferimento bordighista, che in seguito avrebbe dato vita alla rivista «n+1», un circolo politico di estrema destra scrisse al medesimo gruppo chiedendo un contatto per una eventuale collaborazione, una volta considerate le possibili affinità di vedute.

La risposta del militante più anziano, allora alla guida dello stesso, fu ferma e decisa, perché: «tra comunisti e fascisti non possono esistere punti in comune e soltanto le condizioni storiche ci impediscono di rapportarci con questi nell’unico modo possibile. Ovvero a colpi di fucile.»

Molta acqua è passata sotto i ponti da quel tempo ad oggi ma, nonostante il fatto che le divergenze di vedute su molti aspetti dell’agire politico abbiano poi portato il sottoscritto a lasciare l’esperienza bordighista, quelle poche parole sono rimaste scolpite nella memoria di chi scrive come chiaro insegnamento. Perché ponevano alcuni ordini di problemi che oggi gran parte della sinistra presunta radicale sembra per molti aspetti ancora ignorare.

Il primo, naturalmente è quello costituito dal semplice fatto che tra l’interpretazione comunista e rivoluzionaria della realtà e delle sue contraddizioni economiche, sociali e politiche, e quella fascista e reazionaria delle stesse non può esistere alcunché di comune, al contrario di quanto recentemente sostenuto da formazioni che, pur rivendicando la vicinanza del proprio agire politico all’esperienza della sinistra antagonista, hanno invece fatto proprie le posizioni nazionaliste e populiste tipiche del fascismo.

Il secondo, altrettanto importante, è che la reazione fascista intesa come espressione del dominio di classe in periodi di difficoltà del modo di produzione capitalistico non si può combattere sul piano delle idee o delle convulsioni parlamentari ed elettoralistiche, ma soltanto con una strenua battaglia condotta nelle piazze, strada per strada e in ogni altro spazio politico-sociale che si voglia contendere all’avversario. Quest’ultimo sempre inteso, però, non come erronea deformazione del capitalismo democratico e liberale, ma come sua intima, ultima e definitiva moderna essenza.

Quest’ultima considerazione era già tutta compresa nella relazione sul Fascismo che Amadeo Bordiga aveva presentato, all’epoca dell’affermazione di Mussolini, durante il IV Congresso della Terza Internazionale nel 1922. Una riflessione che si poneva di traverso rispetto qualsiasi teorizzazione di fronte unico dall’alto o interclassista destinato a impedire la vittoria della “reazione fascista”, intesa come nemica non soltanto del proletariato e dei lavoratori ma anche delle stesse classi borghesi al potere e del sempiterno liberalismo.

Una posizione, quella della Sinistra Comunista e di Bordiga, criticata più volte ad opera di chi un Fronte antifascista avrebbe poi perseguito fino alla creazione del CLN e alla susseguente azione politica volta non a superare il fascismo insieme al modo di produzione di cui era stato il prodotto politico e il custode armato, ma soltanto a ristabilire l’ordine liberale e parlamentare precedentemente superato. Senza nulla mutare sul piano dei rapporti sociali di produzione e di proprietà dei mezzi per conseguire l’arricchimento privato a scapito del lavoro socialmente realizzato. Come avrebbe poi ancora affermato l’unico “comunista italiano” degno di questo nome:

Senza dare infatti importanza alcuna al pronostico o al compulsamento delle statistiche dei risultati, cui da oltre trent’anni contestiamo anche questa ultima affermata utilità di indice quantitativo delle forze sociali, e senza quindi tentare il freddo schizzo o ammirare la pallida fotografia in numeri dell’oggi [dimostreremo come] In diverse situazioni e sotto mille tempi, la storia ha convinto che migliore diversivo della rivoluzione che l’elettoralismo non può trovarsi.
[…] Se questo ancora una volta rammentiamo, è per stabilire lo stretto legame tra ogni affermazione di elettoralismo, parlamentarismo, democrazia, libertà, ed una sconfitta, un passo indietro del potenziale proletario di classe. La corsa all’indietro ebbe il suo compimento senza più veli quando […] in situazioni capovolte, il potere del capitale prese l’iniziativa di guerra civile contro gli organismi proletari. La situazione era capovolta in grande parte per il lavoro della borghesia liberale e dei socialisti democratici, della stessa destra annidata nelle file nostre, [che] dettero mano alla preparazione delle aperte forze fasciste, usando all’uopo magistratura, polizia, esercito (Bonomi) per contrattaccare ogni volta che le forze illegali comuniste (sole, e in pieno “patto di pacificazione” da quei partiti firmato) riportavano successi tattici (Empoli, Prato, Sarzana, Foiano, Bari, Ancona, Parma, Trieste, ecc.). Che in questi casi i fascisti, non avendolo potuto da soli, coll’aiuto delle forze dello Stato costituzionale e parlamentare massacrassero i lavoratori e i compagni nostri, bruciassero giornali e sedi rosse, non costituì il massimo scandalo: questo scoppiò quando se la presero col Parlamento ed uccisero, ormai post festum, il deputato Matteotti. Il ciclo era compiuto. Non più il Parlamento per la causa del proletariato, ma il proletariato per la causa del Parlamento. Si invocò e proclamò il fronte generale di tutti i partiti non fascisti al di sopra di diverse ideologie e diverse basi di classe, con l’unico obiettivo di unire tutte le forze per rovesciare il fascismo, far risorgere la democrazia, e riaprire il Parlamento. Più volte abbiamo riportato le tappe storiche: l’Aventino, cui la direzione del 1924 del nostro partito partecipò, ma da cui dovette ritirarsi per la volontà del partito stesso che solo per disciplina aveva subito le direttive prevalse a Mosca, ma ancora serbava intatto il suo prezioso orrore, nato da mille lotte, ad ogni alleanza interclassista; poi la lunga pausa e la ulteriore scivolata nella emigrazione, fino alla politica di liberazione nazionale e guerra partigiana, come più volte abbiamo spiegato che l’uso di mezzi armati ed insurrezionali nulla toglieva al carattere di opportunismo e tradimento di una tale politica. Non seguiremo qui tutta la narrazione. Fin da prima del fascismo italiano e dall’altra guerra ne avevamo abbastanza per sostenere che nell’Occidente di Europa mai il partito proletario doveva accedere a parallele azioni politiche con la borghesia “di sinistra” o popolare, della quale da allora si sono viste le più impensate edizioni: massoni anticlericali una volta, poi cattolici democristiani e frati da convento, repubblicani e monarchici, protezionisti e liberisti, centralisti e federalisti, e via. Di contro al nostro metodo che considera ogni moto “a destra” della borghesia, nel senso di buttare la maschera delle ostentate garanzie e concessioni, come una previsione verificata, una “vittoria teorica” (Marx, Engels) e quindi un’utile occasione rivoluzionaria, che un partito rettamente avviato deve accogliere non con lutto ma con gioia, sta il metodo opposto per cui ad ognuna di quelle svolte si smobilita il fronte di classe e si corre al salvataggio, come pregiudiziale tesoro, di quanto la borghesia ha smantellato e schifato: democrazia, libertà, costituzione, parlamento1.

Lasciando il tempo e lo spazio per riprendere ancora più avanti le osservazioni di Bordiga sulla farsa elettorale e la sue reale funzione controrivoluzionaria, occorre qui sottolineare come in Francia, nonostante l’imbecille esultanza sulla sconfitta elettorale di Marine Le Pen e del suo partito populista (si badi bene alla scelta dell’aggettivo), questo quadro si sia ripetuto per l’ennesima volta e all’ennesima potenza.

Tra l’inizio di giugno e la prima tornata delle elezioni legislative francesi il carrozzone autoritario, bellicista e centralizzatore, spacciato per liberal-democratico, europeista aveva subito, particolarmente in Francia e Germania, uno scossone senza precedenti con uno spostamento di voti che, pur rimanendo valide le osservazioni di Bordiga più sopra riportate, indicava una sorta di ribellione degli elettori, o almeno di ciò che rimane ancora attivo del corpo elettorale, contro le politiche della Banca centrale europea e dei suoi rappresentanti politici a livello istituzionale e nazionale.

In particolare in Francia, dove il traballante presidente della Repubblica, ha scelto la sera stessa della “sconfitta europea” di indire nuove lezioni legislative, creando ad arte la “paura” per un’ascesa del “fascismo” al governo della nazione. Scelta un tantino azzardata che ha visto alla fine della prima tornata elettorale una situazione in cui il partito del presidente ridursi al lumicino, con il Rassemblement National e gli alleati in testa con il 33,14% dei consensi; Nuovo Fronte Popolare con il 27,99%; il partito del presidente Ensemble con il 20,4% e i Repubblicani con 10,7% .

Mentre alle precedenti elezioni legislative i risultati elettorali avevano visto il partito della Le Pen raggiungere il 18,68% con 89 seggi; il partito di Macron il 25,75% al primo turno e il 38,57 al secondo, con 245 seggi; la sinistra della Nouvelle Union Populaire il 25,8% al primo turno e il 31,60 al secondo, con 131 seggi e i gollisti repubblicani (non ancora divisi dalla scelta elettorale dell’ex-leader Eric Ciotti) il 10, 42 con 61 seggi.

E’ stato dopo il risultato del primo turno che la sinistra e il suo (?) leader Jean-Luc Mélenchon hanno gettato del tutto la maschera di strumenti del mantenimento dell’ordine borghese il/liberale, dichiarando aprioristicamente un patto di desistenza per tutti quei collegi in cui il secondo turno avrebbe potuto vedere una possibile triangolazione elettorale tra rappresentati del RN, del Fronte popolare e del partito di Macron. Che, ricordiamolo sempre, è un sostenitore e promotore dello sforzo bellico europeo nel contesto del confronto militare sul fronte ucraino. Questione dirimente che, da sola, avrebbe dovuto essere sufficiente a promuovere il rifiuto di qualsiasi alleanza elettorale con lo stesso.

Cosa che, invece, ha aperto la strada ad un sostanziale salvataggio del partito del presidente che è uscito dal secondo turno con 168 seggi a fronte dei 182 seggi al Nuovo fronte popolare e dei 143 alla Le Pen. Che, comunque, esce tutt’altro che sconfitta dal confronto elettorale, considerato che «nel 2017 il Rassemblement National aveva solo 6 deputati nell’Assemblea nazionale. Nelle elezioni legislative del 2022 è balzato a 89 deputati. Il 7 luglio ne ha ottenuti 143, il che è il contrario di un fallimento […] Inoltre ha raccolto quasi 10 milioni di voti – nel 2022 ne aveva ottenuti solo 4,2 – contro i 7,4 milioni del Nouveau Front Populaire e i 6,5 milioni del centro macroniano»2.

Così la scelta “radicale” del Fronte Popolare invece di contribuire ad affossare definitivamente il guerrafondaio Macron, soddisfacendo la volontà di milioni di francesi che, da un lato o dall’altro della barricata3, si erano illusi di poter eliminare le sue politiche repressive, economiche e militari con il voto, ha finito col salvaguardarne il governo, considerato che al momento attuale, nonostante la prosopopea melenchoniana, il presidente ha per ora respinto le dimissioni del primo ministro Attal chiedendogli di rimanere ancora in carica in attesa degli sviluppi della situazione politica venutasi a creare con il voto. In cui nessuno ha raggiunto la maggioranza assoluta dei seggi e in cui i conteggi per le alleanze possibili per raggiungerla si rivelano difficili e contraddittori.

Almeno in apparenza, considerato che fin dai giorni successivi al primo turno una parte dell’elite macroniana si era dichiarata indisponibile a votare i candidati di sinistra ritenendoli, come ha affermato il ministro delle Finanze francese Bruno Le Maire alla radio France Inter: «un pericolo per la nazione», aggiungendo che, pur incoraggiando gli elettori a scegliere candidati di altri partiti di sinistra nei luoghi in cui un candidato centrista si è ritirato dalla corsa, non avrebbe “mai” invitato a votare Lfi (La France Insoumise).

Rivelando che, alla fin fine, la borghesia “liberale” preferirà sempre la Destra reale alla Sinistra “radicale”, anche se fittizia e niente affatto “Insoumise”. Di modo che al secondo turno lo schieramento rappresentato dal desistente Mélenchon ha perso il 2,44% degli elettori rispetto al primo turno, fermandosi a 7.005.527 di voti. Abbastanza rispetto ai 6.315.555 del blocco macroniano, poco guardando i 10.110.011 raccolti dai lepenisti. In un contesto in cui l’affluenza elettorale è aumentata rispetto alla prima tornata del 30 giugno.

Tutto sommato, come hanno confermato i voti, senza indebolire la destra lepenista che ha quasi raddoppiato i seggi rispetto al 2022 e che, in futuro, a fronte di proteste sociali e difficoltà economiche, potrebbe diventare la “miglior scelta” per la borghesia e l’imprenditoria francese. E che oggi non lo è ancora forse soltanto perché non abbastanza centralizzatrice e fascista, nell’intima essenza del termine che poco ha a che fare con il “semplice” razzismo4 o la negazione dei diritti di alcune categorie sociali (la cui repressione ha sempre funzionato benissimo anche solo per mezzo della Chiesa e dei partiti ad essa affiliati, anche quando si definiscono ”democratici”) e molto con la riorganizzazione e centralizzazione delle decisioni di carattere economico-industriale e finanziario e l’integrazione della classe lavoratrice nelle esigenze dello Stato e dell’imprenditoria.

Ora, per non tradire ulteriormente l’assunto bordighiano sulla scarsa significatività politica del voto e delle elezioni, dal punto di vista di classe, occorre ricordare, come ha fatto recentemente un bell’articolo comparso su Infoaut5, che dal punto di vista elettorale e politico esistono comunque, in Francia, due ben distinti punti di vista che continuano a segnare uno spartiacque, in termini di analisi e di percezione dei fenomeni, «tra chi pratica il terreno della lotta, attraverso forme di organizzazione proprie e specifiche all’interno dei quartieri popolari dove vive la maggior parte delle persone razzializzate e chi invece proviene dalla tradizione dei movimenti di lotta “della metropoli”, che pur avendo visto negli ultimi 10 anni una composizione di classe differenziata, sono per la maggior parte portati avanti da persone bianche». Per continuare, poi, sostenendo che:

Da questi ultimi, infatti, il sostegno al NFP viene interpretato nei termini di una necessità contingente che vede una forma di ricomposizione del politico su un piano di carattere emergenziale, legato a doppio filo ad una narrazione di segno quasi apocalittico che descrive la possibile (e probabile) vittoria dell’RN come l’avvento del fascismo tout court.
[…] La sensazione che emergeva da quel contesto era che, per la prima volta, gran parte dei movimenti di lotta metropolitani sentissero molto concreto il rischio connesso ad uno stato di guerra civile, ovvero di uno scontro sociale in seno alla società dispiegato in maniera quasi-permanente, e nel quale una delle due forze in campo esiste, ma non è sufficientemente organizzata, mentre l’altra, quella fascista, avrà dalla sua parte il governo e vedrà la polizia come suo principale alleato. Diciamo per la prima volta, perché ci sembra che il punto stia tutto qui: nella percezione inedita del rischio di venire “espulsi” dal quadro di un ordine politico di cui si può scegliere di fare parte, sebbene in maniera più o meno critica o totale – in quanto bianchi, in quanto cittadini francesi ed anche, in parte, in quanto militanti politici. Un rischio che si intravede verosimilmente all’orizzonte è dunque quello di non ricadere più sotto la “protezione” e la tutela di risorse ancora esigibili da una forma di diritto repubblicano, quello di non giocare più la partita su un terreno in qualche maniera conosciuto e regolamentato, ma di avere, improvvisamente, a che fare con il dispiegamento di una violenza che fa collassare l’ordinamento sociale sulla legge del più forte, e lo fa avvalendosi di tutte le tecniche di contro insorgenza che le forze armate sperimentano da secoli nelle colonie, nelle periferie – e, parzialmente, anche nei recenti scontri di piazza e sgomberi delle autonomie – e di tutti i principi di esclusione sociale propri di un ordinamento giuridico che si struttura su fondamenta patriarcali, razziste e classiste6.

Sottolineando così quella percezione di una possibile guerra civile dispiegata dallo Stato e dalle forze del dis/ordine di cui chi scrive va parlando su Carmilla e in altre sedi e testi da diverso tempo a questa parte7, ma che deve accompagnarsi anche al punto di vista di chi quella “guerra civile” già la vive da anni sulla propria pelle.

È inevitabile non constatare una differenza tra questa percezione del tutto giustificata che si ritrova nei milieux militanti francesi e quella di chi, invece, questa violenza la sperimenta da sempre sulla propria pelle all’interno dei quartieri popolari, proprio perché essa è la cifra dell’imposizione di un ordine sociale. L’ordine democratico – che al grado zero della biopolitica si fa garante anche solo della mera sopravvivenza di chi ne fa parte – non esiste per la maggior parte degli abitanti dei quartieri se non nella forma del nemico. […] Lo ricorda una madre dei comitati «Verità e Giustizia» (nati in Francia per volontà di chi ha avuto figli o parenti assassinati dalla polizia) che: «i quartieri popolari ed i loro abitanti razzializzati sono sotto attacco da anni».
Nel corso della marcia per Nahel, a Nanterre – organizzata proprio da uno di questi comitati al cui centro sta soprattutto la mamma, Mounia – una compagna dei quartieri afferma che: «Il fascismo, nei quartieri popolari, c’è già: negli omicidi della polizia, nell’ordine sociale razziale imposto con la violenza, nel modo in cui i fascisti marciano pubblicamente per Parigi minacciandoci di morte mentre in mezzo a loro si trovano apertamente dei poliziotti che sostengono e partecipano alle loro spedizioni punitive».
Questa testimonianza evidenzia bene la discrasia tra soggettività non razzializzate, che concepiscono il possibile avvento al governo dell’estrema destra nei termini di uno “choc”, di un cambiamento annunciato, ma che vede un’accelerata nel suo inveramento, e una componente che invece riconosce il fascismo quotidianamente, perché espressione militarizzata e ultraviolenta di un dominio imposto da un ordine repubblicano di cui essi non possono fare parte perché “neri, arabi, abitanti di banlieue”. Il fascismo si presenta nei quartieri popolari sotto forma di una costante invarianza, tesa ad imporre manu militari un ordine che include ed esclude sulla base della linea del colore, che su di essa determina i rapporti di classe e di dominio all’interno dello Stato, e che necessita di un altissimo grado di violenza per assicurare la propria riproduzione.
[…] Questa questione della guerra civile – che da parte popolare e del fronte antifascista viene ripresa comprensibilmente nei termini di una “guerra razziale” – è già qua nel momento in cui la polizia spara impunemente nei quartieri, nel momento in cui è stata organizzata addirittura una raccolta fondi per il poliziotto assassino di Nahel che ha raggiunto oltre un milione e mezzo di euro. In Francia, uccidere un ragazzino dei quartieri non solo è permesso e previsto dalla legge, ma un pezzo di paese è convintamente disposto a sostenere economicamente l’assassino: fare i sicari della repubblica all’interno dei quartieri popolari può diventare, come in ogni conflitto informale parastatale, un’attività lucrativa.
Nel corso della rivolta del 2023, la sollevazione nei quartieri popolari è stata enorme, in termini di numeri di giovani e giovanissimi coinvolti, di obiettivi attaccati, di radicalità. Per l’occasione, le istituzioni avevano dovuto accompagnare la risposta repressiva dispiegata alla rievocazione di discorsi imperniati su cliché etnico-razziali: la violenza “improvvisa e incontrollabile” che può essere ricondotta solo ad un certo tipo di identità, quella nera, araba e soprattutto musulmana – confessionalmente esteriore ai principi fondanti dell’ordine sociale repubblicano d’impronta europea e occidentale8.

Colonialismo interno e internazionale (si pensi soltanto alle diverse valutazioni date dal governo fracese e dagli altri governi europei sui crimini di guerra quando si tratti di fronte russo-ucraino oppure di Gaza e delle operazioni militari là condotte da Israele e dalle sue forze armate) che si sposano nella repressione interna di un proletariato razzializzato e per questo non ancora recepito come tale dalla sinistra istituzionale e parlamentarista che più che di una questione di classe pare farne troppo spesso una questione di diritti individuali o di carità cristiana.

Proletariato ghettizzato che rappresenta il vero pericolo per la borghesia benpensante e “illuminata” francese ed europea, che in questi giorni non ha brindato tanto al fatto che la l’estrema destra non abbia raggiunto “le più alte cariche dello Stato”, come aveva paventato Macron qualche giorno prima della second tornata elettorale, quanto piuttosto all’esser riuscita ancora una volta a racchiudere la rabbia dei quartieri periferici nel recinto elettoralistico, sempre e comunque destinato alla sconfitta e al mantenimento dell’ordine borghese. Mentre già a Sinistra, anche nella stessa France Insoumise, circolano le voci di un possibile appoggio della parte moderata ad un governo non facente capo al Nuovo Fronte Popolare9.

Una sconfitta in cui l’apparente “caos” post-elettorale potrebbe garantire la formazione di un governo tecnico, come già ventilato nei giorni scorsi, magari retto da Christine Lagarde o da altri rappresentanti della Banca Centrale europea, autentico centro del comando capitalistico e finanziario sulla società e l’economia del continente. Da un punto di vista non impregnato di banali e semplificatori ideologismi, l’autentica espressione del “fascismo europeo”.

Il ciclo si è dunque svolto così. Punto di partenza: leale alleanza fra tre schiere di egualmente fervidi amici della Libertà per annientare la Dittatura e la possibilità di ogni Dittatura. Uccisione della Dittatura Nera. Punto di arrivo: scelta fra tre vie ognuna delle quali conduce a una nuova Dittatura più feroce delle altre. L’elettore che vota non fa che scegliere tra Dittatura diverse. Due metodi fanno qui storicamente bancarotta, sotto tutti i punti di vista, ma soprattutto sotto quello della classe proletaria che a noi interessa. Il primo metodo è quello dell’impiego dei mezzi legali, della costituzione e del parlamentarismo con un vasto blocco politico al fine di evitare la Dittatura. Il secondo è quello di condurre la stessa crociata e formare lo stesso blocco sul terreno della lotta con le armi, quando la dittatura è in atto, al solo democratico fine. I problemi storici di oggi li scioglie non la legalità ma la forza. Non si vince la forza che con una maggiore forza. Non si distrugge la dittatura che con una più solida dittatura. È poco dire che questo sporco istituto del Parlamento non serve a noi. Esso non serve più a nessuno. […] L’inviato di un giornale londinese ha descritto una scena alla quale giura di aver assistito con i suoi occhi mortali, ben sano di mente e libero da fumi di droghe, in una valle del misterioso Tibet. Nella notte lunare il rito aduna, forse a migliaia, i monaci vestiti di bianco, che si muovono lenti, impassibili, rigidi, tra lunghe nenie, pause e reiterate preghiere. Quando formano un larghissimo cerchio si vede qualcosa al centro dello spiazzo: è il corpo di un loro confratello steso supino al suolo. Non è incantato o svenuto, è morto, non solo per la assoluta immobilità che la luce lunare rivela, ma perché il lezzo di carne decomposta, ad un volgere della direzione del vento, arriva alle nari dell’esterrefatto europeo. Dopo lungo girare e cantare, e dopo altre preghiere incomprensibili, uno dei sacerdoti lascia la cerchia e si avvicina alla salma. Mentre il canto continua incessante egli si piega sul morto, si stende su di lui aderendo a tutto il suo corpo, e pone la sua viva bocca su quella in disfacimento. La preghiera continua intensa e vibrante e il sacerdote solleva sotto le ascelle il cadavere, lentamente lo rialza e lo tiene davanti a sé in posizione verticale. Non cessa il rito e la nenia: i due corpi cominciano un lungo giro, come un lento passo di danza, e il vivo guarda il morto e lo fa camminare dirimpetto a sé. Lo spettatore straniero guarda con pupille sbarrate: è il grande esperimento di riviviscenza dell’occulta dottrina asiatica che si attua. I due camminano sempre nel cerchio degli oranti. Ad un tratto non vi è alcun dubbio: in una delle curve che la coppia descrive, il raggio della luna è passato tra i due corpi che deambulano: quello del vivo ha rilasciato le braccia e l’altro, da solo, si regge, si muove. Sotto la forza del magnetismo collettivo la forza vitale della bocca sana è penetrata nel corpo disfatto e il rito è al culmine: per attimi o per ore il cadavere, ritto in piedi, per la sua forza cammina. Così sinistramente, una volta ancora, la giovane generosa bocca del proletariato possente e vitale si è applicata contro quella putrescente e fetente del capitalismo, e gli ha ridato nello stretto inumano abbraccio un altro lasso di vita10.


  1. A. Bordiga, Il cadavere ancora cammina, Sul filo del tempo, 1953.  

  2. Luigi Mascheroni, intervista a Alain de Benoist, “Élite contro il popolo. All’Eliseo è riuscito un golpe istituzionale. Le Pen? Non è morta”, il Giornale 9 luglio 2024.  

  3. Una parte consistente dell’elettorato lepenista è arroccato in quella Francia del Nord e del Nord est un tempo baluardo dei PCF che, con la chiusura di fabbriche e miniere, ha visto la diffusione di una vasta e motivata disillusione nei confronti delle promesse della Sinistra che ha fatto sì che l’aumento dell’affluenza sia andato tutto a favore della destra (fonte: Askanews, 1 luglio 2024). Si veda a tale proposito anche Aurélie Filippetti, Gli ultimi giorni della classe operaia, il Saggiatore, Milano 2004.  

  4. Che si sviluppò ben prima dell’avvento del Fascismo e che, come hanno rivelato i recenti movimenti di rivolta contro i monumenti dedicati a schiavisti ed esponenti del colonialismo “bianco” occidentale, proprio nelle concezioni e nelle pratiche del liberalismo imperiale ottocentesca affonda le sue reali radici. Si veda, a tal proposito, il recentissimo: C. Elkins, Un’eredità di violenza. Una storia dell’Impero britannico, Giulio Einaudi editore, Torino 2024 (edizione in lingua originale inglese 2022).  

  5. Tempo delle elezioni e tempo della rivolta, InfoAut – giovedì 4 luglio 2024.  

  6. Tempo delle elezioni e tempo della rivolta, InfoAut – giovedì 4 luglio 2024.  

  7. Si veda: S. Moiso (a cura di), Guerra civile globale. Fratture sociali del Terzo millennio, il Galeone Editore, Roma, 2021.  

  8. Tempo delle elezioni e tempo della rivolta, cit.  

  9. Si veda, a solo titolo di esempio, la seguente notizia riportata dall’agenzia ANSA in data 9 luglio: PARIGI, 09 LUG – Dissidenti de La France Insoumise di Jean-Luc Mélenchon hanno proposto agli ecologisti e ai comunisti – altre due componenti del Fronte Popolare insieme ai socialisti – di creare un nuovo gruppo parlamentare. Fra i dissidenti ci sono dirigenti di primo piano di Lfi, come Clémentine Autain, François Ruffin e Alexis Corbière. In una lettera ai vertici dei Verdi e del Pcf – di cui ha dato notizia la tv Bfm -, annunciano di non voler più far parte del gruppo degli Insoumis. La presa di distanza da Lfi e dall’ipotesi di Mélenchon premier potrebbe essere il primo passo verso una trattativa per creare una coalizione con i moderati.  

  10. A. Bordiga, Il cadavere ancora cammina, cit.  

]]>