Francesco Piccolo – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 17 Aug 2025 20:00:38 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Chiamate telefoniche – 8 https://www.carmillaonline.com/2020/06/03/chiamate-telefoniche-8/ Wed, 03 Jun 2020 21:00:18 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=60612 di Piero Cipriano

In fin dei conti era chiaro che il virus aveva contagiato, ma in un altro modo. Le persone otto su dieci non volevano credere che non esistesse più. Non solo che fosse scomparso, ma neppure che si era indebolito erano disposti a credere. Non bastava che Tarro o Montagnier ormai squalificati dalla scienza avessero sin dal principio profetato la sua scomparsa estiva, ora anche i medici integrati alla scienza, come il medico a cui Berlusconi aveva consegnato la sua longevità lo diceva, che il virus aveva concluso il suo mandato, aveva rassegnato le dimissioni, ma ecco che il [...]]]> di Piero Cipriano

In fin dei conti era chiaro che il virus aveva contagiato, ma in un altro modo. Le persone otto su dieci non volevano credere che non esistesse più. Non solo che fosse scomparso, ma neppure che si era indebolito erano disposti a credere. Non bastava che Tarro o Montagnier ormai squalificati dalla scienza avessero sin dal principio profetato la sua scomparsa estiva, ora anche i medici integrati alla scienza, come il medico a cui Berlusconi aveva consegnato la sua longevità lo diceva, che il virus aveva concluso il suo mandato, aveva rassegnato le dimissioni, ma ecco che il ministro (senza) Speranza in persona, quel nano politico che il virus aveva trasformato in gigante e che giustamente temeva il rapido ritorno alla sua reale statura, repente lo smentisce dice è sbagliato affermare che il mio amato virus non esiste più, il popolo italiano si sa è un bambino quello poi si confonde e si leva la maschera di bocca sei un terrorista, Zangrillo, già eri sospetto perché volevi far vivere a tutti i costi oltremisura il nemico pubblico numero uno, ora invece lo vuoi far morire a tutti i costi il nemico pubblico numero uno ma chi ti capisce.

Insomma, ora vengono allo scoperto, a difesa della longevità del virus, tutti quei politici che sono stati dal virus trasformati da normali amministratori in piccoli despoti, potendo abusare di una inconcepibile sospensione della nostra amata Costituzione, la più bella del mondo, tanti capi di stato, feudatari, governatori, reucci, ducetti, viceré, ogni comune un sindaco che all’improvviso si è sentito plenipotenziario, la massima autorità sanitaria locale capace di minacciare TSO a chi non voleva farsi tamponare la gola, o di bloccare i confini in entrata e in uscita, eravamo ritornati all’epoca dei comuni. Gli esperti. Da Colao a scendere. Quelli, poi, hanno ognuno il suo interesse che l’emergenza duri il più a lungo possibile. I cittadini. I più. E non gli pare vero avere un alibi per non uscire non toccare non sorridere stare sottoterra come le talpe.

La situazione era questa, e io me ne stavo su una panchina nel parco dell’ospedale, avevo lavorato gli ultimi mesi marzo e aprile quelli in cui anche nel centro sud dell’Italia attendevamo la discesa del virus che chissà perché aveva deciso di rimanere solo in Lombardia, avevo lavorato ben diciotto ore in più, non solo, a volte, smontando dal turno, invece di mettermi in macchina a superare i posti di blocco spiegare al poliziotto che davvero ero un medico eroico e epico e abnegato nonostante i capelli sempre più lunghi da hippie perché non li taglio? sono forse aperti i barbieri? Aprano i barbieri invece delle librerie e io mi taglio i capelli, invece così con questi capelli lunghi da indiano al massimo vado a comprarmi un libro che libro?

Adottavo insomma questa tecnica, uscire dal nosocomio ma non uscire, stare un po’ sulle panchine dell’ospedale e poi andare nel vicino (qualche centinaio di metri) parco dell’ex manicomio di Roma Santa Maria della Pietà a telefonare ai morti, l’aria di Monte Mario d’altra parte è la migliore di Roma, è un po’ vicino all’ospedale mi si dirà, potrebbe essere ancora infestata dai vibrioni, ma da qualche anno mi era scomparsa inesorabilmente l’ipocondria, la compagna di una vita, che mi ero custodito per quarant’anni almeno nei miei complura viscera quae sunt in hypocondris ora, senza neppure un saluto un arrivederci o un addio, se n’era andata. Mi faceva comodo, mi avrebbe fatto comodo ora come ora un briciolo di ipocondria, non dico la maior almeno la minor invece niente non dico quella cum materia almeno quella sine materia invece niente, pare che di morire, da un anno a questa parte, non mi freghi quasi più niente, tutti si tappano ancora la bocca con maschere su maschere (c’è chi mette una sopra l’altra quella altruista con quella egoista credendo di fare la maschera intelligente invece fa solo fame d’aria) io niente, tergiversavo intorno al nosocomio, sembravo in servizio ma non ero a servizio, ero dentro ma ero fuori, ero stimbrato ma ragionavo come fossi timbrato.

Avevo una serie di morti che da un po’ volevo chiamare. Quale migliore occasione, se non ora che tutti avevano paura di diventare morti. I vivi d’altra parte dice quel morto di Kafka sono dei morti non ancora entrati in funzione. Infatti i morti che volevo chiamare erano gli scrittori, gli scrittori che avevo sempre considerato esseri superiori, una specie di telepati, provvisti di un cervello capace di scrutare il futuro, in questi mesi gli scrittori vivi li avevo indovinati quasi tutti (non posso dire tutti, ma i più) spaventati, avvolti nelle loro mascherine da scrittore, la mano da scrittore picchiettava stancamente, atterrita, sui tasti del computer, attraverso un guanto blu, lo scrittore in guanto blu era diventato un fumetto, un puffo, dove si erano nascosti gli scrittori vivi che temevano di morire e mettere fine alla propria carriera di scrittore?

Sandro Veronesi forse? Che nonostante tutto continuava a fare la psicanalisi dalla psicanalista lacaniana (se cade il mondo l’ora psicanalitica mica si ferma) e il giorno prima siccome sa che il giorno dopo è giorno di ora psicanalitica sogna e chi sogna? Un cenacolo, in cui non possono essere più di sei se no il settimo muore e la psicanalista esperta polisemica (mica per niente è lacaniana) gli fa notare che sei non è solo numero ma è verbo essere, essere morto, lo scrittore vivo che teme di essere morto, oppure Francesco Piccolo che raccoglie il testimone di Veronesi per questo scritto su Lettura e, fobico intabarrato, fa il giro dell’isolato non un metro di più dei duecento previsti dal decreto. O Emanuele Trevi che pure lui scrive cose davvero notevoli però ora non me ne ricordo nemmeno una forse non me le ricordo perché mi ricordo che pure lui è un adoratore del dio Prozac e una volta disse, correggendo Jung, non è vero che gli dei sono diventati malattie, gli dei sono diventati psicofarmaci, ma questo purtroppo è un vizio degli scrittori dal più grande (DFW) al più minuscolo, quello di affidarsi non più al mistero eleusino ma al doping di Big Pharma, ma da molto tempo ormai eh?

Mi ricordo di Patrizia Cavalli, che ora si becca il Campiello (ancora fanno il Campiello gli industriali del Veneto?) ma che tempo fa campeggiava una sua foto degli anni Ottanta, dove convengo che era proprio figa, dice ha avuto il cancro, è guarita ma si è depressa. Però coi farmaci ha sempre avuto un bon rapporto. Una sua poesia pare fosse Deniban, calmante maggiore. Dice che le medicine che le piacevano erano le anfetamine. Quelle, quando si trovavano, erano una meraviglia. “Quali altre medicine ci sono, se no, per scrivere poesie?” Elsa Morante, che nel 1968 l’accolse, e la fece poeta, evidentemente le passò pure il trucco di poetare meglio con le anfetamine. Ah cazzo, come faccio a togliere le pasticche al mondo se gli scrittori sono la migliore pubblicità per il manicomio chimico? Poi ci sono quelli come la Murgia che sono sempre su di giri di natura e lo capisci da lontano che gli antidepressivi non se li prendono e ciononostante pure straparlano lo stesso come quando, in una crisi di presenza, insulta Battiato lo insulta solo perché Battiato ha previsto anzitempo la fine e si è ritirato dal mondo a viaggiare in spazi cosmici con navi interstellari. Gli scrittori vivi erano diventati tutti, in queste settimane dove la morte era nell’aria, pressoché inutili, inservibili, perché tutti (anche quelli mezzi morti già da prima, come Houellebecq) erano stati ammutoliti dal virus. Balbettavano. Incespicavano. Il virus come gli avesse detto: scrittori vivi, non l’avete capito che voi siete scrittori morti non ancora entrati in funzione?

La prima chiamata, proprio come uno sciamano che sa stare sia nel mondo dei vivi sia nel mondo dei morti ma soprattutto sulla linea di confine, la faccio al cileno. D’altra parte, queste chiamate telepatiche sono una sua invenzione. Me le ha suggerite lui. L’ultima sua cosa che ho ri-letto proprio ieri, la parte finale di 2666, dove l’editore Bubis arruola Benno von Arcimboldi e lo interroga sul suo nome de plume, che è ovvio sia inventato, e gli chiede Benno sta per Benito Mussolini? E lui no, sta per Benito Juarez, e Arcimboldi sta per Giuseppe Arcimboldo ma perché von? Per dimostrare la tua germanicità? Al che Arcimboldi si alza e dice ridammi il manoscritto che me ne vado ma lui fa vai nell’altra stanza da mia moglie, a firmare il contratto. Guardo una foto a caso di Bolaño, prendo il telefono lo chiamo gli domando perché è morto. Morto presto, voglio dire. Avevi il Nobel da riscuotere. Trenta libri ancora, da scrivere dai cinquanta agli ottanta, e arrotondo per difetto, farmi compagnia, ogni tanto guardo la tua foto e penso che non sei morto, sarai di sicuro tornato in Cile a vivere senza fegato, senza fegato non si può più scrivere, non sei morto, magari ti sei semplicemente scordato come si scrive. Ma sento che con lui la chiamata sarebbe molto lunga e potrebbe non finire mai, ci sarebbe bisogno di un libro intero di 2666 pagine solo per una chiamata telefonica con Bolaño allora attacco, tanto lui non se la prende, lo sa come vanno queste cose.

Passo senza indugio a David Foster Wallace, DFW era un depresso. Io sono uno psichiatra. Che coppia saremmo stati, David. Voglio dire. Avrei saputo rimpinzarti ben bene di farmaci sì da non indurti al suicidio. Almeno credo. Tu in cambio mi avresti dato dei consigli di scrittura, consigli che io avrei fatto finta di ascoltare ma poi avrei dimenticato. Sicuramente non messo in pratica. Ci mancherebbe. Che io mi facessi contaminare da uno che si dopava con gli antidepressivi. Non dici niente eh? Ci credo, voglio proprio vedere come mi contraddici.

Ciao Philip (Philip Roth). Dicono che ti scopavi le fan. Magari è per questo che non ti hanno dato il Nobel per la letteratura. Invidia. E’ tutta invidia, senti a me. Sai, pure io ho qualche chance. Di non averlo, voglio dire, il Nobel. Io potrei non averlo per la medicina, intendo. Se pensi, d’altra parte, che l’unico Nobel dato a uno psichiatra l’ha preso Moniz, il lobotomizzatore, ne avrò più merito io, o no?

Giuseppe Berto. Peppino! Era da un po’ che te lo volevo dire. Mi sa che eri il più ganzo dei romanzieri italiani. Volevo solo salutarti. E scusarmi con te che per colpa del pregiudizio che avessi fatto un romanzo psicanalitico (sai io ce l’ho un po’ su con gli psicanalisti, dei montati di testa) non ho letto Il male oscuro, assoluto capolavoro, fino a due anni fa. Assurdo. Devo ringraziare Nicoletta Bidoia, la poetessa trevigiana della scena muta, se ti ho letto.

Devo trattenermi a questo punto dal chiamare Mario Tobino per dirgli in faccia che era senz’altro uno psichiatra che sapeva scrivere ma non sapeva fare lo psichiatra, non come lo intendo io, almeno, stava lì, un parassita del manicomio di Maggiano, a scrivere le povere donne, le povere donne, gne gne, invece di liberarle. Un pessimo esempio di uno psichiatra scrittore. Tutto ciò che uno psichiatra scrittore non deve essere. Infatti, non lo chiamo, non voglio trattarlo male. E’ pure morto, povero Tobino.

Invece, Franco Basaglia non era uno scrittore, ma era uno psichiatra che scriveva, stilisticamente male, perché se ne fregava del Nobel per la letteratura (poi gli piaceva Sartre, figurarsi il modello di scrittura) voleva distruggere il suo incubo, il suo incubo era il manicomio, il manicomio in cui mica lo sapeva dove si andava a cacciare, l’inferno in terra era e lui aveva fatto tredici: aveva vinto il posto di direttore dell’inferno. Non chiamo nemmeno Basaglia. Sarà lui a chiamare me, un giorno di questi. Vuoi vedere, che mi ha chiamato perfino Semmelweis e lui, proprio lui, non si fa vivo. Per così dire.

Chi c’è alla B dopo Berto e Basaglia che varrebbe proprio la pena di chiamare adesso come adesso? Un anarchico, chi c’è di scrittore anarchico? Non se ne trovano di scrittori anarchici manco a pagarli. Ah ma c’è Luciano Bianciardi, come ho fatto a non pensarci prima, la sua vita agra, lascia la provincia grossetana, si ficca in una stanza d’appartamento di Milano con Maria Jatosti che non era la moglie bensì l’amante, lui dettava lei batteva (a macchina, si capisce), poi arriva un giorno la moglie, e si divorziano, poi finisce a Rapallo, al sole, ma il freddo di Milano gli si è accumulato nelle ossa, ormai, e quello il freddo quando si ficca nelle ossa è difficile poi smuoverlo, come un inquilino rognoso che non vuol più lasciare la tua casa, e il vino nel fegato, e le sigarette, a milioni nei polmoni. E muore. Come tutti, d’altra parte. Non ti è riuscito, eh Luciano? di non morire. Eppure, Luciano, scommetto che a vent’anni mica ci pensavi, che saresti morto. Pensavi di mettere una bomba al torracchione, pensavi. Altro che morire. Ah si potesse tornare indietro, nella vita. Ma non è detto, sai Luciano? Secondo i teologi di Borges il tempo è circolare, magari a un certo punto si ricomincia tutti a girare. E tu ti ritroverai lì, col torracchione davanti e prima o poi ce la fai a fare il gran botto.

Borges lo chiamo un’altra volta, ora pure a lui non saprei che dire, troppo impegnativo, con lui come parli sbagli. Dopo la B viene la C, Canetti è troppo impegnativo quasi come Borges, e Calvino non mi pare il caso, passo alla D. Dice che Dante, il nostro poeta nazionale, è il punto più alto della poesia europea, delle due americhe, e di tutto il mondo. Che non c’è n’è per nessun altro, che sarebbe impossibile per chiunque aggiungerci qualcosa, ma non perché non lo sappiamo fare ma perché non c’è né movente né scopo. E fa l’esempio del fabbricatore di sedie, in un mondo pieno di sedie eterne, che fa? Le fabbrica comunque, giacché questo sa fare e gli piace farlo e non sa far altro, però siccome quelle sono indistruttibili e per di più inarrivabili comincia a farle a tre piedi poi senza piedi poi sgabelli senza schienale infine prende un pezzo di legna e lo chiama sedia. E dunque a maggior ragione le genti si servirebbero delle sedie vere, indistruttibili, eterne. Rodolfo Wilcock ha questa capacità di farti passare la voglia di fare sedie. Il problema è che Piccolo o gli scrittori afoni che il virus ha sgamato non leggono Wilcock e si ostinano a continuare a scrivere. Questo è il problema. Che siamo pieni di sedie senza piedi senza schienale senza seduta e senza paglia e senza legno e li chiamiamo i libri degli scrittori italiani che sono (ancora) vivi. Ecco cosa. A chi chiamo adesso a Dante o Wilcock?

Chiamo a Cechov. Si torna alla C. La C è una signora lettera. Cechov Céline e Cipriano, tre medici scrittori. Che differenza c’è tra loro tre? Vediamo chi indovina. Ma che io sono vivo e loro morti, questa l’unica differenza. Cechov disse che magari il nostro universo è la carie di un dente di un gigante. Un gigante che vive su un pianeta gigantesco e sovrappopolato di giganti. Giganti per di più abbastanza evoluti da aver inventato i dentisti. Un dentista gigante tra poco gli caverà il dente marcio, e la carie che c’è dentro, che corrisponde al nostro universo, collasserà. Questo sarà il contrario del big bang. E di Cechov, e pure di Wilcock (secondo cui un narratore non è un narratore vero se non conosce pure la teoria della relatività, oltre alla psicologia delle api, naturalmente, e alla psicopatologia dei virus, aggiungo io, che in questo campo sono un maestro, con modestia), per non dire di me stesso, non resterà nemmeno il ricordo.

Voglio restare un po’ su Wilcock, perché penso che Wilcock sia uno scrittore morto ma che essendo ancora vivo (come Bolaño, naturalmente) anzi più vivo di scrittori vivi biologicamente (ammesso di saperlo cosa significa, di sicuro gli scrittori vivi non lo sanno) ma morti in tutti gli altri sensi, sì, insomma, ne vedremo delle belle, ancora, con Wilcock, basta solo ricordarsi che Wilcock esiste. E stare lì ad ascoltarlo.
Lo stesso non riuscirò mai a dirlo per Gombrowicz. Lo so Bolaño che ci resti male, ma Witold è assurdo, e io non li resuscito mica gli assurdi. Ancora ti maledico, poeta cileno, per avermi istigato a comprare Ferdydurke e, non bastasse, vedi a che punto mi fidavo di te, pure le sette lezioni e mezza di filosofia ho comprato. Anzi no, Corso di filosofia in sei ore e un quarto. Ovviamente mi sono guardato bene dal leggerle. Maledetto Bolaño. Assurdo Gombrowicz.

Ovviamente il quarto d’ora finale (stavo scrivendo d’ira) del suo corso di filosofia fatto apposta alla moglie e a un amico per sopportare l’agonia degli ultimi mesi visto che i due si ostinavano a non volergli procurare né pistola né veleno, era dedicato a Marx. Che ridere. C’è ancora gente al mondo che cita Marx. Non sto dicendo Kropotkin. Ma Marx. Va be’. Probabilmente non ci ho capito niente di Ferdydurke, e del Gingio, questo Peter Pan che saremmo noialtri l’uomo moderno incapace di crescere e di prendersi le sue responsabilità, la responsabilità di stare nel mondo come dei morti non ancora entrati in funzione, e devo rileggere assolutamente Gombrowicz il paladino dell’anti-forma per capire entro che forma intesa come maschera comportamento stile sono come tutti gli altri del mio tempo condannato a recitare. Witold: a noi due!

Primo Levi vince il concorso letterario più idiota dell’anno. Lo indice un giornale la Repubblica che continuavo a comprare quasi tutti i giorni ma a tutto c’è un limite. Il limite è il concorso più idiota dell’anno. Un concorso dove possono accedere (senza avergli chiesto il consenso) solo i morti. Perché Primo Levi è morto. L’11 aprile 1987 Primo Levi si getta dalla tromba delle scale non perché non tollerava la vergogna d’essere sopravvissuto al campo di sterminio, figuriamoci, mi dice qui in questo manicomio al telefono uno dei pochi (gentilissimo) che mi ha risposto, per mia fortuna fui deportato ad Auschwitz solo nel 1944, sottolineo solo, sottolineo fortuna, perché Auschwitz è stato il dono, il lager è stato la cosa da scrivere. La fortuna, si dirà, è cieca. L’11 aprile 1987, dico a Primo Levi che (gentilissimo) mi ascolta dal suo mondo dei suicidi, correvo per la tromba delle scale di casa mia per andare al liceo, ultimo anno, l’anno dopo mi iscriverò a medicina, e dopo a psichiatria, e dopo, cioè ora, lo so che nel 1987 gli antidepressivi in commercio (siccome gli SSRI non sono ancora usciti) sono i triciclici che danno stipsi e disuria e se uno come Levi ha fatto l’intervento alla prostata li deve interrompere se no troppi i fastidi e se interrompi ex abrupto gli antidepressivi poi ti getti dalla tromba delle scale. Stesso motivo di David Foster Wallace. La sospensione dell’antidepressivo. La fortuna si dirà, è cieca.

Pensavo che la telefonata fosse finita ma lui aggiunge: il successo di uno scrittore è stocastico. Se non avessi avuto la fortuna di essere deportato ad Auschwitz solo nel 1944. Se nel 1954 non fosse stato pubblicato il Diario di Anna Franck. La fortuna, si dirà, è cieca.

Invece Basaglia andò non da prigioniero, in quel lager al confine tra est e ovest, attraversato dalla cortina di ferro, ma da direttore dello sterminio. La sua fu giocoforza una scrittura pragmatica, narrazione al servizio della rivoluzione. Niente riletture e riscrittura. Buona la prima, al massimo la seconda. Franca Ongaro ripassava, aggiustava la forma, le idee disordinate, e via. Il successo di uno psichiatra è stocastico. Se non avesse avuto la fortuna di essere deportato a Gorizia solo nel 1961. Ora avremmo un lager per ogni provincia d’Italia, ancora. E io non starei in questo ex manicomio a telefonare ai morti ma a internare i vivi. La fortuna, si dirà, è cieca.

A questo punto non so perché ma ho avuto la tentazione di telefonare a Carrère e chiedergli di Io sono vivo e voi siete morti, poi mi sono ricordato che non è ancora morto, Limonov sì ma lui no e non volevo certo portargli sfiga, lo chiamerò quando sarà trapassato, magari. Potrei chiamare a Philip K. Dick, ma non ora.

Quando aveva sedici anni Bolaño non andava a scuola, puntava delle librerie e rubava libri, questa è stata la sua scuola, maledizione, poter avere ancora sedici anni e non andare in quell’inutile liceo altirpino, e andare in libreria, e rubare libri, e diventare non medico non psichiatra ma subito poeta, ah. Purtroppo, sarebbe stato impossibile. Non c’erano librerie in quel paese. Ancora adesso non c’è una libreria. Ma vedi il vantaggio, che non essendoci una libreria, in queste settimane che le librerie sono state chiuse per lokdown la libreria del mio paese non ha potuto chiudere, perché non può chiudere una libreria che non c’è mai stata. Comunque, il miglior libro, o meglio il libro che lo tirò fuori dall’inferno e poi ce lo gettò di nuovo (a Bolaño intendo) fu La caduta, di Camus. Dopo aver saputo questa cosa ho letto anch’io La caduta, di Camus, però a me non mi ha gettato nell’inferno. Sarà che io dall’inferno non mi sono mai mosso.

Mentre pensavo a Camus credo di essermi appisolato su questa panchina di manicomio. Credo di aver sognato (ma non sono sicuro). Mi sono svegliato dal breve pisolino e ecco che mi sovviene il più grande romanziere di questa città, di questo grandissimo bordello che in queste settimane s’è fatta mettere nel sacco dal virus, Aurelio Picca, una specie di Pasolini e Busi ma non omosessuale, che non scrive male, ma nemmeno bene, è un non scrivere bene, il suo, che diventa molto bene, è autobiografico senza rompere le palle, se leggi Arsenale di Roma distrutta per prima cosa ti viene voglia di andare come Maria per Roma, per seconda cosa ti viene voglia di scrivere di quello che combinavi a vent’anni a Roma, con chi scopavi o meglio con tutte quelle che non scopavi per timore di quel maledettissimo virus Hiv che poi tutti se ne sono dimenticati si sono dimenticati che ha fatto trentacinque milioni di morti e hanno ripreso a scopare senza timori finché è arrivato un virus molto più fesso ma che invece che dal sangue o dallo sperma invece che dai liquidi penetra per mezzo dell’aria, e tutti barricati in casa oddio oddio, nun t’avvicinare mettite la mascherina stamme a tre metri mò chiamo a Aurelio Picca e se pure lui mi dice che va in giro colla mascherina come Piccolo… ma diamine, non lo posso chiamare… perché manco lui è ancora morto.

Allora chiamo a Houellebecq. A lui sì. Houellebecq pare vivo ma è morto quindi si può fare. Adesso l’ha letto pure mia moglie, penso che dopo L’estensione del dominio della lotta non ne voglia più sapere del morto francese che cammina, e che scrive, e che fuma, e che perde i denti, e che perde i capelli, insomma una morte pezzo per pezzo, la sua, come cantava Gaber, è lo scrittore che muore a pezzi. Le ho detto (a mia moglie) leggiti L’avversario, di Carrére, almeno resti in tema di morti. L’ha letto, ha detto ora per un po’ basta co’ ‘sti due.

Kurt Vonnegut. E se fosse lui il prossimo autore morto da leggere? Dio la benedica, Dottor Kevorkian è un libretto dove s’è inventato una specie di interviste a uomini morti che incontra in un corridoio terreno franco prima dell’al di là, intervista Hitler, per dire. Ma non Napoleone. Napoleone è un altro che non ti viene voglia di intervistare. Ero andato alla Feltrinelli proprio il giorno prima che iniziasse il lokdown e è capitato un fatto strano davvero, su una colonna di libri basagliani c’erano ben tre diversi libri miei, e in tutta la libreria nemmeno un Vonnegut, qualcosa non quadrava, perché io sono vivo e lui è morto, dovrebbe essere il contrario, a quel punto, constatato ciò, sono rimasto un dieci minuti lì dentro come fossi un fantasma, avrei voluto dire a qualcuno che io ero l’autore morto di quei tre libri, che mi acquistassero, prima che andassero a ruba, e io poi non ne scrivo mica più.

Dopo però ho comprato Perle ai porci. In libreria vado alla V dello scaffale della Narrativa e al posto dove doveva esserci l’opera omnia di Vonnegut c’erano inopinatamente Volo e Veltroni. Chiedo al libraio come mai tra i Narratori trovo Volo e Veltroni ma non Vonnegut, lui fa una ricerca sul pc e dice perché lo abbiamo messo nello scaffale Fantasy. Ma è fantastico! Vonnegut scrittore di fantascienza e Volo e Veltroni narratori tout court, ma fantastico dico al libraio. E lui: perché i lettori comprano Volo e Veltroni, ecco perché li mettiamo lì. E aggiunge: perciò questo paese va come sta andando. Di lì a poco il virus millantatore, quello che si spacciava per angelo sterminatore, ha chiuso le librerie i premi letterari i festival le presentazioni le uscite di miliardi di libri destinati al macero o a non essere aperti dalle persone a cui vengono regalati o spediti in omaggio.

Ma basta parlare di libri parliamo adesso di morti, anzi di letteratura argentina dove sono tutti morti. Sono ancora nell’ex manicomio d’altronde. Bolaño divide la letteratura argentina, o meglio i morti della letteratura argentina, in tre correnti. La prima capeggiata dal romanziere minore Osvaldo Soriano. Che però vendeva. La seconda ha come frontman Roberto Artl, una specie di autodidatta che si ciba di robaccia mal tradotta scrive conseguente e muore presto intorno ai quaranta. Di lui non avremmo saputo niente se il suo San Paolo (così lo chiama Bolaño), ovvero Ricardo Piglia, non lo avesse resuscitato, in qualche modo. Segnalo che non ho letto mai né Soriano né Arlt e neppure Piglia, anche se ho in libreria un paio di libri di Arlt. Ma Bolaño accidenti mi ha fatto passare la voglia di leggerlo. Il terzo è, udite udite: Lamborghini, che doveva fare il killer o il becchino ma giammai il romanziere. Eppure, i suoi epigoni sono tutti suoi plagiatori, tutti, fuor che Cesar Aira. Di lui ho sul tavolino dello studio (mai aperto) Il pittore fulminato. Anche se bisognerebbe, esorta Bolaño, lasciarli perdere tutti e passare il tempo a rileggere (o a leggere) Borges. Quel reazionario anarchico. Fosse per Bolaño dovremmo leggere solo Borges. E Cortàzar, ovviamente.

Era dai tempi che lessi Jung che non mi scrivevo i sogni. Era il 1999, più o meno. Per scriverli te li devi ricordare. Per ricordarli li devi scrivere subito, appena sveglio. Se possibile mentre ancora dormi. Se riuscissi a mantenerti dormiente, sognante, prendere penna e scrivere, sarebbe l’ideale. Così ho fatto poco fa, dopo il secondo risveglio dal sonnellino sulla panchina del manicomio, ex manicomio di Roma. Ero a La Cruces, Cile, e don Nicanor Parra, ultracentenario, non era ancora morto. Siccome lo sapevo che non rilascia più interviste e a chi va a fargli la posta manda la sua serva (quella che peraltro lo tratta pure male) o esce lui stesso e dice di essere il maggiordomo di don Nicanor (che è occupato o non ha voglia) allora mi invento uno stratagemma. Non serve vino non serve pan de pascua, poi è vecchio, mi figuro che manco se lo può bere o mangiare. Allora mi metto a recitare a voce stentorea una poesia di Neruda, ma non lo chiamo Neruda, che lo sanno tutti essere uno pseudonimo, lo chiamo col suo nome anagrafico, lo chiamo Neftalì Reyes. Insomma sono lì davanti al cancello del più grande poeta di sempre del manicomio latino-americano (Nicanor Parra intendo, non Neruda) e dico: signori, ecco a voi la poesia del grande Reyes, il più grande, il tacchino, il più grande tacchino che mai abbia scritto poesie su questo continente perduto. Perché nel sogno so delle cose la prima è che Neruda lascia una figlia idrocefala morire, muore questa sua figlia di cui non ha voluto più interessarsi mi pare a nove anni basterebbe questo per squalificarlo ma nel sogno non voglio intristirmi e mi interesso di un’altra querelle più futile, perché so che quel furbone di don Nicanor aveva rotto i coglioni in tutti i modi a don Pablo, perfino prendendosi il suo nome anagrafico con cui ci voleva fare il suo pseudonimo, che sagoma, non s’è mai vista una cosa del genere. Come se Peppino Di Capri o Nicola Di Bari che si sono disfatti dei loro nomi si trovassero di fronte casa un matto che sguaiato canta Champagne o Stringi questa mano zingara dicendo di chiamarsi Giuseppe Faiella o Michele Scommegna, che detto tra noi sono molto meglio degli pseudonimi, così come sempre succede, così come Neftalì Reyes era molto ma molto ma molto meglio di Pablo Neruda. E giustamente quando Neruda a Parra gli ruppe i coglioni, perché Parra in America si era andato a prendere un tè con la moglie di Nixon (e bene fece, l’avrei fatto pure io, e quando ti ricapita un’occasione del genere) perché don Pablo era il poeta col mitra in mano e non poteva andare a merenda con il capitale, coi sovietici e i loro gulag sì, coi yenkee no, sia mai, don Nicanor gli disse, al petto di tacchino, sai che fa adesso questa zampa di gallo? Fa che siccome sono l’unico poeta del Cile senza pseudonimo, e siccome sono un antipoeta e non mi posso abbassare come voialtri che siete poeti a trovarmi uno pseudonimo, e siccome c’è un nome che prima era occupato poi è stato lasciato libero, ebbene lo occupo io: da adesso non sono più Nicanor Parra ma chiamatemi Neftalì Reyes. Neftalì Reyes, grido io (nel sogno), ascoltate (gli do del voi, alla maniera meridionale, non lo so perché, cose che succedono nei sogni) la poesia superba, magnifica, comunistissima, del più grande poeta di Las Cruces, e inizio a declamare una poesia di Neruda. Per tanto amore la mia vita si tinse di viola… Ha. Così impara. Infatti, eccolo che esce, testa leonina, quanti caspita di capelli, blancos, che tiene ancora addosso a quel cranio, d’altra parte ha scritto o non ha scritto Poesie contro la calvizie, il furbastro? Esce e dice niente pan de pascua tu? Niente vinello? No, don Nicanor, gli dico, lei non può bere (passo dal voi al lei, nel sogno, non so perché, forse perché prendo confidenza), se no il vino le tinge i capelli. Ascolti queste poesie comuniste fino al basso ventre. Due amanti felici fanno un solo pane, una sola goccia di luna nell’erba… Che mi dice? E’ o non è, il signor Neftalì Reyes il più grande poeta del Cile? E lui: il più grande non lo so. Sicuramente uno dei più grandi. Chi erano i quattro più grandi, don Nicanor, gli faccio io nel sogno, ben sapendo di tirargli un assist di cui mi sarà grato, e lui: erano tre. Fa una pausa: uno è Alonso de Ercilla e l’altro Rubén Darìo. Poi mi guarda, ride, e aggiunge: ora però sono rimasto solo io. E mi recita, mentre entriamo in casa, una poesia del più grande poeta col mitra in mano del sud America: Toglimi il pane se vuoi, toglimi l’aria, ma non togliermi il tuo sorriso. Un tacchino, un tacchino grasso. E giù a ridere. A quel punto sono di casa e passo al tu.

Devo assolutamente trovare il quaderno dove mi appuntai il sogno che feci quando leggevo Jung. Era il 1999, circa, l’anno prima avevo fatto il servizio civile in ricusazione del militare. Un centro diurno psichiatrico di Montevarchi. Jung mi aveva quasi convinto. Era meglio di Freud. Non c’era partita. Dei quattro grandi indagatori dell’inconscio tra Ottocento e Novecento, tutti erano meglio di Freud. Pure Adler, poi saccheggiato da Nietzsche (o era lui ad aver saccheggiato Nietzsche? Devo controllare). Pure Janet, saccheggiato da altri. Ma il più pazzo era Jung. I quattro grandi esploratori dell’inconscio erano tre: Adler e Janet. Jung era il più pazzo, però.
La scrittura, ho detto poco fa a mia moglie, dopo essere tornato dal manicomio (non le ho detto che ho fatto telefonate, alcune anonime, a un sacco di morti) è una forma di esilio. Non c’è bisogno, a noialtri, che ci facciano il lockdown. Io protesto, faccio finta di protestare, rivendico il diritto di correre, passeggiare, bicicletta, ma lo faccio per gli altri, a me in realtà non mi frega niente. Mi fanno solo un favore, a me, se non mi fanno uscire per il resto della vita. E mi sono ficcato nello studio, al buio, senza aria condizionata, mentre lei è in salone ha le luci tutte accese e pure l’aria condizionata (abbiamo appena pulito i filtri). Pure la follia è un esilio. Dovrei smettere di lavorare. Di fare lo psichiatra. E andarmene per sempre in esilio.


P.S.
Con questa si concludono le chiamate telefoniche, ringrazio Valerio Evangelisti e Gioacchino Toni per avermi generosamente ospitato per otto volte su Carmilla.
Aggiungo che tutto quanto è stato scritto in queste otto chiamate, salvo due o tre cose, è fiction, tutto inventato signori, come la pandemia di cui narra, d’altra parte, pure lei è stata fiction, salvo due o tre cose.

Tutte le chiamate telefoniche

 

 

 

]]>
Divine Divane Visioni (Cinema porno) – 76 https://www.carmillaonline.com/2016/12/15/divine-divane-visioni-cinema-porno-76/ Thu, 15 Dec 2016 21:00:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=34800 di Dziga Cacace

Fuck the game if it ain’t sayin’ nuttin’

ddv7601876 – Librianna, Bitch of the Black Sea di anonimo cane, USA 1979 Librianna è un bidone, ma non solo il film, pure la giunonica eponima protagonista, una sorta di santona del sesso che predica a colpi di bacino la controrivoluzione in URSS. Sinceramente non ricordo come ho fatto a imbattermi in questa roba mostruosa ma una volta saputo che esisteva un fake che pretendeva di essere il primo e unico porno dell’era sovietica non ho saputo resistere: [...]]]> di Dziga Cacace

Fuck the game if it ain’t sayin’ nuttin’

ddv7601876 – Librianna, Bitch of the Black Sea di anonimo cane, USA 1979
Librianna è un bidone, ma non solo il film, pure la giunonica eponima protagonista, una sorta di santona del sesso che predica a colpi di bacino la controrivoluzione in URSS. Sinceramente non ricordo come ho fatto a imbattermi in questa roba mostruosa ma una volta saputo che esisteva un fake che pretendeva di essere il primo e unico porno dell’era sovietica non ho saputo resistere: ho sbrigliato la mia fibra ottica e, voilà, eccovi il resoconto di quanto ho visto. Purtroppo.
Che si tratti di un’epocale fetecchia è evidente dopo pochi secondi di visione: si parte con il monumento a Lenin e il picchetto d’onore sulla piazza Rossa. Poi scene della ridente Mosca brezneviana, grigia e piovosa. Stacco e c’è una bella bruna che ansima a gambe larghe e un bel tomo le zompa addosso e con voce off si rivolge a noi malcapitati spettatori: “Vi chiederete come mai mi trovi in un posto come questo… Mosca intendo”. Capisco che si arriverà a vette sublimi. Ma come siamo giunti a questo punto? Dunque: Scott è un giornalista di Seattle minacciato di licenziamento; gli fanno vedere un filmino hard e veniamo a sapere che in URSS sta proliferando la pornografia underground con funzione dissidente e la leader è tale Librianna: Scott deve andare a intervistarla, costi quel che costi. E per entrare in Unione Sovietica basta chiedere, no? Il protagonista arriva come turista sul Mar Nero (che non è chiaramente il Mar Nero) in treno (da Seattle!) e poi da lì a Mosca in aereo, con intrattenimento orale gentilmente offerto in volo da una compagna (“Abbiamo infranto la barriera del suono”). Scott finisce sulla piazza Rossa (e c’è sul serio! E fa quasi più impressione che ci sia del contrario!) e si chiede, da vero segugio: come trovare Librianna? Basta andare ai magazzini GUM, e dove, se no? (C’è solo una milionata di russi, del resto, a guardare i prodotti, pochi). È il momento più godibile dell’immonda pellicola: Scott salta fuori qui e là nelle location moscovite come un Paolini in cerca di notorietà. Però gli va sempre buca: decide allora di provare la fortuna alla parata che celebra la Rivoluzione d’Ottobre. Del resto è logico: più gente c’è, più è probabile che si trovi lì anche Librianna… La logica viene ulteriormente violentata grazie a un tizio che vende al mercato nero la dritta verso tale Maya, una con il tatuaggio di una stella rossa su una chiappa, giuro. Ovvia copula ma il lavoro di intelligence va in malora perché Maya è un’agente KGB. Arrestato e interrogato, Scott riesce a scappare (non è dato sapere come: la mai abbastanza celebrata grandezza dell’ellisse narrativo!) ed è Librianna a contattarlo. La leader controrivoluzionaria è una ninfomane che vuole liberarsi del giogo comunista e si masturba con i libri di storia sovietica: sa tutto di Scott e lo ha seguito insieme al suo servo, un personaggio incappucciato chiamato Igor. Riceve lo straniero nel suo covo segreto, lo invita a farsi un bagnetto e gli concede l’agognata intervista. Lui le chiede come mai sia così ricca e riesca nella sua attività porno-politica e lei gli risponde come se parlasse a un deficiente: in URSS sono tutti così timorosi di fare domande che nessuno le fa e questo le permette di prosperare. Ma pensa! E da qui prosegue l’assortimento di bestialità, con una trama pensata da qualcuno che ha ingestito peyote grossi come birilli, farcita di scene pornografiche eccitanti come in un film di Rocco – ma Buttiglione non Siffredi – con fotografia amatoriale, musiche stonate e montaggio e regia che farebbero augurare un’effettiva permanenza in Siberia degli autori di cotanta vaccata. C’è tutto il repertorio: sopra, sotto, davanti e dietro, ma è sempre tutto di una bruttezza indicibile, assolutamente inibente qualunque desiderio sessuale, anche a causa di attori orrendi, senza distinzione di genere, tutti, maschi e femmine, oltretutto pelosi anche oltre le folte abitudini dell’epoca. Lui sembra un Kevin Costner con la frangetta, finito sotto una pressa e senza un bagliore di intelligenza negli occhi ed è un attore bestiale, asinino ma non dove ti aspetteresti che lo sia un attore porno. Lei è una non irresistibole tettona alla Russ Meyer, dal volto cubista e con parrucca platinata. Il top della comicità involontaria è toccato con la scena di seduzione della bionda nei confronti di Scott: passeggiata sulla spiaggia, bacetti, cena a lume di candela e ballo lento, con lui con un completo enorme che andrebbe forse a Galeazzi e lei vestita come Moira degli elefanti. Tra le altre perle la liberazione di Igor da un gulag entro il circolo polare artico, impresa irrisoria perché “sanno impedire alla gente di uscire dai campi, ma non di entrarci”. Infine la conclusione: Scott torna a casa, pubblica il suo articolo e si riguarda beato i filmini della sua avventura, con il degno finale di lui che possiede Librianna con addosso un costume da orso sovietico, scena degna del peggior film porno mai visto, ma mai brutto come questo. (22/8/11)

ddv7602877 – La bestia nel cuore – e temo anche alla regia – di Francesca Comencini, Italia 2006
Premetto: farò di tutto per non scadere nel querelabile. E aggiungo: non escludo che cattiva digestione, ansie professionali e meteopatia possano avere influenzato il mio giudizio. La prendo larga: per quel che mi riguarda questo film è disastroso ed è l’epitome (ehi, ho usato la parola “epitome”) di tanto cinema italiano, tronfio e insopportabile. La cosa che soffro di più è il testo, mortificante, tutto scritto, legato, finto: la regia insistita e non granché originale contribuisce a questo senso di poca spontaneità, in una generale piattezza talvolta interrotta da qualche lampo d’invenzione, alternanza – rara – che insinua il dubbio della casualità e dell’inconsapevolezza. La drammaturgia è gestita come un macellaio tratta un nodino, con improvvisi apici recitativi scomposti, tra urla e gemiti. Poi arriva il momento leggiadro, sentimentale e, zac!, parte la Gnossiénne numero 5: povero Satie, ridotto a stereotipo musicale. Giovanna Mezzogiorno non recita, ma sussurra ai limiti dell’inudibile e sembra avere qualche problema di dizione e siccome l’argomento è scottante la si premia, anche in memoria del padre Vittorio che in vita, invece, ce l’eravamo filati poco nonostante avesse lavorato con Peter Brook. Luigi Lo Cascio se la cavicchia, ma qui non mi sembra un problema di capacità attoriali, ma proprio di gestione delle stesse, con una regia che anestetizza tutto fino alla prossima accelerazione isterica, passando da personaggi narcotizzati a giulivi e poi tragici. In certi momenti il film sembra Boris, ma per comicità involontaria. Finale con rallenti e fermo immagine: non vado oltre se no finisco nel penale. Audio brutto, luci e scene finte, con interni irreali, case vuote, senza tende o persiane (la metafora? Spero di no ma pure potrebbe). Dialoghi da manuale, ma di quelli per principianti: più che indignato, sono incredulo e Barbara mi è testimone dello scempio cui assistiamo. La trama è tratta da un romanzo della regista e si può sintetizzare il più brevemente così: papà è pedofilo e incestuoso, ma la figlia ha rimosso nonostante l’evidenza dei ricordi. E certo, se no il film non si fa. Lei incinta va in USA dal fratello per rasserenarsi dato che la turba l’immagine ricorrente della patta aperta del padre che la raggiungeva nel suo lettino di bimba. E chissà mai cosa sarà potuto accadere. Ma in USA non ha il coraggio di chiedere esplicitamente al fratello. Poi annuncia che è incinta e quando la cognata dice che la gravidanza le farà dimenticare tutto, che questa nascita la salverà, arriva il picco drammatico: “Salva da cosa!?!”, urlando all’improvviso. E da lì rivelazioni a cascata e ritorno in Italia con ulteriori vicissitudini che culminano nella scena stracult del delirio preparto, con camera zenitale che ondeggia sulla Mezzogiorno in deliquio. Candidato per l’Italia al premio Oscar, il film non è stato però premiato e chissà poi perché. Mentre scrivo, cioè il giorno dopo questo supplizio, la Comencini ha presentato il suo nuovo film a Venezia, tratto da un altro suo romanzo. Ci son state risate a scena aperta durante le scene drammatiche. Lei ha accusato i critici maschi, e te pareva. Mi dispiace, ma dopo questo La bestia nel cuore non ho dubbi su chi possa aver ragione. Critico no, ma maschio sì, sorry, e non significa che devo accettare sullo schermo ogni cosa solo perché la regista si ritiene intoccabile per nascita, eh. Vabbeh, basta: ho una fame nera, comunque, e vorrei capire perché se basta una sera per prendere un chilo, serve un mese per abbatterlo e perché a 20 anni mangiavo 5 etti di patatine fritte e non avevo problemi e adesso non posso più farlo. È un mondo cattivo, con la bestia nel cuore, certamente. (Diretta su RaiMovie; 6/9/11)

ddv7603879 – L’incantevole, giuro, Come d’incanto di Kevin Lima, USA 2007
Galeotto fu il trailer in un dvd Disney visto recentemente. Le bimbe pretendono e il pessimo padre obbedisce. Il concept è imbattibile (personaggio da favola, simil-Principessa, immerso in realtà metropolitana odierna) e il risultato finale è ottimo perché si tiene il ritmo delle trovate e non si sbraca mai. La prima parte funziona benissimo ma è anche la più facile (per modo di dire) da scrivere. È la parte destruens, con tutta l’ironia – anche cattiva – sul mondo disneyano e gira a mille con equivoci, gag e anche battute azzeccate. Il primo Shrek era tutto così ed era amabile. Ma era solo così: parodia, geniale perché inedita, ma solo parodia. Diventa difficile però portare avanti il gioco, la parte construens: come far funzionare la trama, come risolvere tutto ed è qui che io batto le mani perché tutto si incastra alla perfezione, sempre con autoironia e plausibilità narrativa. È un ottimo lavoro, sinceramente, e non l’avrei mai detto, ma mai mai mai. Brava la protagonista principale, Amy Adams, e anche il belloccio contemporaneo, tale Patrick Dempsey, che, mi spiega Barbara, si tratta di gnoccolone riverito dall’universo mondo femminile intiero in quanto protagonista di Grey’s Anatomy, uno di quei telefilm di bassa lega che ha conosciuto immensa popolarità in tempi recenti (ne ho visto una volta una puntata e l’unica cosa curiosa era che protagonista fosse una cinese con la faccia più storta che avessi mai visto, tolti due quadri di Picasso). Film adorato dalle bambine (le mie, intendo) e pure apprezzato da me, com’è evidente. (1/10/11)

ddv7604880 – Boris – Il film di Giacomo Ciarrapico, Mattia Torre e Luca Vendruscolo, Italia 2011, non vale il Boris che conoscevamo
La partenza è buona, con la sentenza definitiva sul fare tivù (“è come la mafia: non se ne esce, se non da morti”, confermo) e con il racconto dolorosamente attendibile del sottobosco cinematografico: la cialtronaggine dei produttori finti e veri, le fisime intellettuali degli sceneggiatori, i salari rubati, le pose acculturate. Finisce che René Ferretti accetta di girare un improbabile La casta, provando il colpaccio con un’operazione in stile Gomorra. Ovviamente finirà tutto in vacca, rassegnati – anche su pellicola – a riprodurre le modalità lavorative della televisione. Perfetta la caratterizzazione della grande attrice italiana, che non parla ma sussurra ed è piena di fobie, ritrattino che mi sembra adattabile a un numero imprecisato di attrici (ma facciamoli ‘sti nomi: la Mezzogiorno, la Morante, la sempre nevrotica Buy). Ci sono alcune trovate azzeccate, ma più che ridere si sorride e in alcuni momenti si subiscono stasi esiziali e la questione è che da un film così vorresti avere una brillantezza insuperabile, come nella serie tivù. Invece si rimane in superficie in troppi momenti. La seconda parte ricalca le dinamiche note nella serie, ma senza la freschezza e la velocità cui eravamo abituati e la morale finale l’abbiamo già vista in tre finali di serie, anche se Barbara parte con le ipotesi: e se fosse stato un sogno? Ma non cambia il risultato: René quello sa e deve fare, la tivù cialtrona, ammesso che ne esistano altre possibili. Gli attori sono tutti bravi e ben diretti. Sermonti è l’unico che mi risulta fastidioso, ma non per limiti suoi, ma perché il suo ruolo non ha più misura, è completamente fuori controllo e non credibile nel pur poco credibile livello di realtà. Cameo grandioso di Nicola Piovani che si riscatta dall’amorazzo con Giovanna Melandri e rende meritevole l’Oscar vinto anni fa con La vita è bella. (1/10/11)

ddv7605886 – Babylon A.D., una babelica stronzata di Mathieu Kassovitz, Francia 2008
Questo film fa cacare, ma dolorosamente, con crampi e nebulizzazioni diarroiche tipo spray. È di sconcertante bruttezza, dalla trama intorcinata e inspiegabile, senza alcun fascino visivo e narrativo. Pure le scene d’azione fanno schifo e Vin Diesel non ha una battuta una che sia decente. Di contorno una Rampling truccata come The Joker (e con qualcosa della Moratti, ecco) e un Depardieu conciato da cattivo in maniera grottesca con un nasone immenso e i denti marci. Brutto tutto, la fotografia buissima, la musica che si dimentica subito. Prevedibili gli sviluppi della trama, sono implausibili anche nel campo dell’implausibilità della fantascienza i motori narrativi della vicenda. Tremendo. Rai4 sta comunque diventando il nostro canale preferito del digitale terrestre: ha un programma denso di vaccate assolutamente godibili. Ti siedi, accendi e subisci, sdivanato e assente. Sembra una Italia1 di 15 anni fa, piena di film d’azione di cui uno non sospetta neanche l’esistenza. Barbara s’è vista due film dedicati alla Banlieue 13, che io invece ho assunto a tratti. Scene d’azione sempre godibili, montate freneticamente ma anche con bei cinematismi, inventivi, cosa che nel film di Kassovitz mancava clamorosamente togliendo anche uno dei pochi motivi di visione. Le trame e i dialoghi invece facevano schifo, ma la colpa magari è della traduzione, chissà. (No, non credo). Ad ogni modo il secondo episodio finisce con gli eroi della banlieue (arabi, dropout, punk, delinquentelli, sballati etc.) che fanno tenerezza al presidente francese improvvisamente illuminato, tutti vanno d’amore e d’accordo, egalité, fraternité, Beyoncé, e si completa il piano del cattivone di turno (il capo della flicaille) che voleva bombardare la banlieue per realizzare una pesante speculazione. La si bombarda sì, ma tutti decidono che la si ricostruirà migliore e con del verde. Ma che buffoni! (Diretta su Rai4, 21/10/11)

hqdefault888 – Fulminati e persi ne La Vallée di Barbet Schroeder, Francia 1972
Moglie di diplomatico annoiata conosce 4 hippie storti che nella verdeggiante Nuova Guinea vogliono trovare l’uccello del paradiso in una valle misteriosa. Ovviamente la ciccetta si diletta di ornitologia in altra maniera, con consumo entusiasta di droghe, tronata e libera da convenzioni piccolo borghesi, e l’allegra combriccola intraprende un trekking: il film diventa quasi un documentario, con facce, usi e costumi degli aborigeni e la consueta uccisione dei maiali (sembra un obbligo narrativo degli anni Settanta) presi a legnate in faccia, in una scena abbastanza cruenta e insistita. Il viaggio prosegue imperterrito sinché la compagnia arriva stremata in cima a una montagna. Sono tutti affamati, sporchi, distrutti da fame, sete e fatica e – con un effettaccio tipo TeleTubbies che simula la rifrazione dei raggi solari – la protagonista si risveglia e dice: la vedo, ecco la valle! (letteralmente, come da titolo: la vallée!) e poi “FIN” e buonanotte ai suonatori. Eeeeh? E nonostante ciò il film ha un suo perché: è lentissimo e ipnotico, drogato e drogante, nel senso che non riesci a metterlo giù nonostante l’azione pressoché nulla e il finale stupefacente nel suo lasciarti a bocca asciutta. La Nuova Guinea, è un’isolaccia immensa, pressoché disabitata se non da tribù che vivono su altipiani a 2000 metri e senza quasi risorse alimentari (ho appena letto Armi, acciaio, malattie di Jared Diamond, bellissimo, sull’evoluzione dell’uomo e ‘sti poveretti sono (stati) cannibali per la drammatica mancanza di proteine nella loro dieta). Per altro gli indigeni seminomadi sono fisicamente stranissimi, come degli aborigeni australiani, ma più scuri, con niente in comune con gli orientali né tanto meno gli occidentali. I paesaggi sono maestosi: sembrano alpini, ma con foreste intricatissime, ed è sempre nuvolo, con una percepibile umidità che solo a guardare il film mi sentivo venire i reumatismi. Sono andato su Google Maps a dare un’occhiata e in effetti è ovunque chiazzato di nuvole. La colonna sonora (per canzoni) è dei Pink Floyd, contenuta nell’album Obscured By Clouds, come la valle paradisiaca, sconosciuta e introvabile in quanto non fotografata nelle ricognizioni aeree perché oscurata dalle nubi. La musica è usata poco e male ed è un peccato perché è una delle opere più originali dei Pink. Realizzata in due settimane, praticamente buona alla prima, ha un piglio rock niente male (dall’hard fino a due pezzi invece inusitatamente pop, con David Gilmour in bella evidenza) e stupisce al confronto del coevo Dark Side of the Moon. O forse mi piace perché c’è quell’inconfondibile sonorità, ma su pezzi non così rifiniti, non cesellati, puliti, quasi asettici come nel capolavoro di cui si celebrano in questi giorni i 40 anni con edizioni clamorosamente costose e ricche (di roba inutile: un capolavoro per pulizia progettuale e interpretativa ti viene rivenduto con gli scarti zozzi? mah!). La protagonista Bulle Ogier è interessante, sembra una bambolina, così compita coi suoi occhioni azzurri e i capelli biondi. Gli hippie invece sono mostruosi, non particolarmente convincenti come attori e ce n’è uno che a un certo punto indossa il chiodo da metallaro… in Nuova Guinea! Alle volte, i corto circuiti temporali e climatici, mah! Il film l’ho cominciato a guardare in treno sul computer e al 15° minuto ‘sti qui trombano, come se fosse la cosa più normale del mondo. E forse lo era. (Quando sarebbe interessato a me, no. Dopo neanche. Oggi neppure). Comunque non potevo vederlo col timore che arrivasse alle spalle un controllore mentre due copulano sullo schermo. Vabbeh, l’ho spento e rivisto con più calma a casina mia. Interessante spaccato di vita quotidiana, nevvero? (29/10/11)

ddv7607889 – La libertà irripetibile di Alpe del Vicerè 1973 e Re Nudo di Luigi Salvaggio e Dario Vergani, Italia 2010
Raccolta di documenti visivi (che si accompagnano a un divertente libro di Matteo Guarnaccia) che rinuncia programmaticamente alla forma filmica e alla nostalgia. Si tratta di diversi reperti storici dei primi raduni pop in Italia, genuinamente underground e realizzati con pochi soldi e tanta energia e idee. Le immagini sono attualizzate con interviste ai testimoni dell’epoca, realizzate tecnicamente un po’ coi piedi e con poca severità nei tagli, ma comunque interessanti e congruenti allo spirito rievocato. E non puoi che voler bene a queste persone che non ostentano alcun reducismo post sessantottino. Nelle immagini vediamo maree di giovani e c’è meno politica “parlata” di quanto si possa credere, piuttosto tanta politica praticata. Le sequenze di Alpe del Vicerè sono straordinarie e c’è un Battiato che se non lo vedi non ci credi. Ha una testa di capelli che al confronto Angela Davis era una dilettante calva: magrissimo e simpaticissimo, era già geniale allora, ma questo lo sa chiunque abbia ascoltato Fetus. Tra i protagonisti dell’epoca anche Finardi che racconta sullo sfondo di San Michele di Pagana, tra Rapallo e Santa Margherita. Quando lo vedo, penso: ma quegli scogli io li conosco! Incredibile: questo va da sempre nella spiaggia in cui andavo io da bambino (ho un evidente legame sotterraneo con Eugenio Finardi: veniva d’estate anche a Champoluc e oggi abita vicino a me: prima o poi devo intervistarlo). Dopo questo tuffo nella memoria, emozionante e per nulla compiaciuto, mi son rifatto la bocca con il finale del grandioso Trappola d’amore, un disastroso thriller sentimentale con un risibile Richard Gere al top della forma, tra pianti e scenate isteriche: prima o poi si impone una visione integrale con doverosa disamina critica. (3/11/11)

ddv7608890 – Il grande freddo di Drive, di Nicolas Winding Refn, USA 2011
Raggelato, stilosissimo, intrigante: il kitsch anni Ottanta che diventa stile. Mi ricorda uno Scorsese, ventenne nei temi e cinquantenne nella forma, ma c’è molto di più, è chiaro. C’è il Vivere e morire a Los Angeles di Friedkin, per esempio, e altre cose ancora che i critici seri sanno e io non ricordo più e neanche ho voglia di farlo. Drive è girato benissimo, con una lentezza ostentata che va di pari passo col mutismo del protagonista: non ricordo se l’ha detto Ryan Gosling o Refn proprio, ma sarebbe un sogno, o potrebbe esserlo, con le sequenze finali come uniche ambientate nella realtà. Ma non mi interessa, il film viaggia bene così. Titoli con lettering e colori fluo a sottolineare la curiosa adesione estetica di cui dicevo: si veda anche la musica di plastica, decisamente azzeccata (anche se a film finito non la sentirei manco sotto tortura). Bravi gli attori, bello il montaggio e intelligenti le piccole deviazioni narrative che ti ingannano per pochi secondi. (12/11/11)

ddv7609893 – Altrimenti ci arrabbiamo!, sempre!, di Marcello Fondato, Italia Spagna 1974
In realtà lo abbiamo visto a rullo per un mesetto circa, ma con continuità io l’ho rivisto solo stasera. E con che stolido piacere, signori miei. Pochissimo dialogo, tutto memorabile però, nella sua semplicità archetipica: quando l’ho visto nell’agosto 1979 ricordo che con Pier Paolo citavamo a memoria – e dopo una sola visione – tutte le frasi del duo Bud and Terence, manco declamassimo versi dell’Ariosto. E oggi lo vedo fare a mia figlia. I due protagonisti erano in stato di grazia e affiatatissimi, ma anche i personaggi di contorno sono perfetti (su tutti Donald Pleasance!), così come le caratterizzazioni (i duri della banda nemica, il killer Paganini). Le musiche dei fratelli De Angelis alias Oliver Onions sono eccezionali (e non solo la frizzante Dune Buggy, anche il Coro dei pompieri, Across the Fields che accompagna il rally iniziale e Il ballo, in tutte le scene danzerecce). Un giorno m’è venuto lo sghiribizzo di fare un controllino e ho verificato che lo stadio era quello dell’Atletico Madrid (Google Map è uno strumento prodigioso: certe volte passo un’ora a passeggiare virtualmente in posti che conosco. Sono un cretino, lo so). Poi ho googlato e trovato un sito con estensione Tokelau di un simpatico matto che ha perlustrato Madrid ritrovando tutti i luoghi del film 40 anni dopo. Vabbeh. Di solito coi film amati nell’infanzia, quando si rivedono dopo tanto tempo, si prova una sensazione agrodolce, scoprendo quanto fossero irrisolti, salvati dalla benevolenza della memoria. E invece no: Altrimenti ci arrabbiamo sta in piedi non solo dignitosamente, ma proprio benissimo e potrebbe correre la maratona. L’incasso fu stratosferico e non ho né voglio cercare le pezze d’appoggio, ma insieme a Fantozzi e a Ultimo tango a Parigi credo sia uno dei film più visti dal popolo italiano. D’accordo che c’erano le seconde visioni, le terze e i parrocchiali (io il film – del 1974 – l’ho visto al cinema sia nel 1979 che nel 1980) e la televisione era quella del monopolio Rai (e non ancora del monopolio Nano), ma Benigni, Aldo Giovanni e Giacomo, Zalone e Giù al sud, gli fanno una pippa ad Altrimenti. E anche non fosse un semplice calcolo sui biglietti staccati o sugli incassi, io parlo proprio di immaginario, perché non c’è persona tra i 40 e i 50 che non sia stato segnato dalla visione di questi film. Comunque che si continui a parlare d’incasso più grosso di tutti i tempi basandosi solo sul valore nominale dell’incasso e non sull’effettivo valore considerando la svalutazione, beh, è una coglionaggine che non ha veramente senso. (5/12/11)

ddv7610895 – Voglio i Gremlins di Joe Dante, USA 1984
Approfittando del sonno pomeridiano della piccola Elena, Sofia e io ci concediamo una peccaminosa visione di un film che mamma Barbara sconsiglia. Ma vinciamo noi e, non avendo visto il film all’epoca, capisco a chi si riferisca il nome della band attualmente à la page dei Mogwai. Noto anche che il mio amore Phoebe Cates era proprio patatissima, nonostante certe camicette emetiche tipicamente anni Ottanta. Invece il protagonista non l’ho mai più visto. Dunque: siamo alla vigilia di Natale e un inventore senza arte né parte regala al figlio un curioso mostricciattolo peloso scovato in un robivecchi cinese. Ma, attenzione: niente luce, niente acqua e guai a dargli da mangiare dopo mezzanotte. Cose che puntualmente accadono e mentre sulla tivù girano prima La vita è meravigliosa e poi L’invasione degli ultracorpi, la cittadina viene invasa da mostruose creature devastatrici. È una fiaba di Natale horror, dove il buonismo spielberghiano viene sbeffeggiato (complice Spielberg stesso che produce). Rimandi cinefili e tanta ironia: altro che E.T.: questi gremlins sconquassano lo status quo, pervertono e perturbano anarchicamente tutto, sfasciano, fumano, sbevazzano, fanno pure giustizia dei tanti personaggi negativi della cittadina, ma ovviamente l’orrore sano non può vincere su quello reale, di un paese ormai finto, che finge di credere a Babbo Natale e che si sente assediato dagli stranieri (tantissime volte, se ne parla e si vedono prodotti esteri). Insomma, ne esce un film più intelligente di quanto vuol dare a vedere – con la sua estetica infantile e smaccatamente falsa (ma i mostri finti in modo pacchiano sono anche un omaggio alla fantascienza maccartista degli anni Cinquanta). Però rimane il solito problema: si ride e si scherza e si dicono pure cose non banali, ma il film non va bene per gli adulti (a meno che non siano un po’ rimbambiti) né per i bambini, perché al di là della vicenda (molto prevedibile) i temi sono fin troppo alti. Sofia ha visto tutto senza fare un plissé né reagendo al clamoroso spoiler: Babbo Natale non esiste! (9/12/11)

ddv7611897 – Fumata nera per Habemus Papam di Nanni Moretti, Italia 2011 Dvd
Naaaa. Non riuscito. Parte con un tema interessante che però non viene granché sviluppato: la solitudine della scelta di un uomo sembra lasciata esattamente al protagonista e la regia e la trama non provano a darci altre indicazioni. Un po’ comodo, quando invece si indugia su stupidaggini autoreferenziali (la partita a pallavolo che non finisce più, il tormentone prevedibilissimo della mancanza di accudimento) o alcune macchiette irritanti (il giornalista del Tg2 che poi, per fortuna, viene perso di vista). Un’occasione persa, insomma. C’è l’intelligenza di Moretti, ci mancherebbe, ma anche tante scorciatoie che lasciano l’amaro in bocca. A me che Nanni faccia Nanni, un po’ incazzoso e monomaniaco, non dispiace. Oh, è ben per questo che lo abbiamo amato, ma non si può cadere nella parodia di sé. Cosceneggiatori Francesco Piccolo (che ha venduto mille milioni di copie di un trascurabile liberculo intitolato Momenti di trascurabile felicità) e la genovese Federica Pontremoli che mai sono riuscito a incrociare tra Lumière e altro. (11/12/11)

ddv7612899 – Le colpe dei padri… Children of the Revolution di Shane O’Sullivan, Irlanda/Germania 2011
Curioso documentario dal repertorio iconografico storico clamoroso che racconta la storia di due madri “rivoluzionarie”, Fusaku Shigenobu e Ulrike Meinhof, e delle loro figlie, figlie della rivoluzione, senza padri e sballottate per il mondo, senza identità. Il film è apologetico e non “critico” o storiografico: sceglie di non dedicarsi alla storia delle madri in maniera approfondita, non entra nelle polemiche sui crimini commessi o meno né si occupa granché della morte della Meinhof. Circoscrive l’indagine privilegiando gli aspetti privati ed essendo un ritratto emotivo fallisce proprio perché rimane asettico, senza far scattare una vera empatia. Mai una scintilla, dell’affetto, una partecipazione, anche tra gli stessi protagonisti. Bettina Meinhof è una derelitta incarognita che ha pagato eccome per le colpe della madre, se la madre ne ha avuto, ancora ossessionata dai fan postumi. Le amiche di Ulrike che la raccontano sono delle anziane borghesi che sembrano non aver capito il travaglio della Meinhof (che a loro si ribellava) e tendono a giustificarla dando la colpa – ‘anvedi – alle cattive compagnie o ai problemi neurologici della giornalista (che si portava una bella piastra di metallo in testa che potrebbe averle cambiato la personalità). Mah. Delle due storie la più riuscita è decisamente quella di May Shigenobu, persona realizzata e dalla vita interessante. La madre Fusaku Shigenobu è stata partecipe in maniera onorevole, proprio secondo l’accezione giapponese – che non conosco, ma ci siamo capiti – della lotta palestinese per la libertà, assieme al FPLP, e non si può che provare simpatia quando la traducono in carcere, indifesa, innocua, dopo 30 anni di latitanza e lotta ideale, giacché dopo la partecipazione ai dirottamenti degli anni Settanta non ha più fatto nulla, se non vivere in fuga. I vecchi compagni della Shigenobu sono invece dei mai domi compagni nipponici, sorridenti, capaci di ironia, ancora irrequieti. Come del resto lei, di cui si vedono le immagini della cattura nell’aprile 2011, salda e sicura. Edizione sottotitolata in inglese quando i protagonisti non lo parlano direttamente (alcuni militanti palestinesi in maniera atroce e incomprensibile). Film interessante, non so quanto riuscito. (16/12/11)

(Continua, forse – 76)

Altre Visioni su Twitter, pensa che gggiovane: @DzigaCacace
Oppure a bizzeffe qui, su Carmilla

]]>